E Longhi scoprì Caravaggio, il “cineasta”

Poco più di cento anni fa, Caravaggio – senza alcun dubbio l’artista seicentesco iconograficamente immortale – era uno “dei meno conosciuti dell’arte italiana”. Ci si domanda cosa sarebbe accaduto se nel 1911 il piemontese Roberto Longhi non si fosse laureato, con il coraggio di una scelta pionieristica, con una tesi su Michelangelo Merisi detto Caravaggio. E ancor di più se lo stesso Longhi, grande storico dell’arte e collezionista, non avesse ideato e curato, presso Palazzo Reale, a Milano, nell’aprile del 1951, la Mostra del Caravaggio e dei Caravaggeschi, che metteva in fila per la prima volta la più straordinaria selezione di capolavori di quella rivoluzione seicentesca ai tempi davvero sconosciuta.

A cinquant’anni dalla sua scomparsa, l’eccezionalità della mostra Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi, curata da Maria Cristina Bandera, mette in evidenza due aspetti paralleli: il suo indubbio e ponderato intuito e l’importanza di essere collezionista delle sue stesse scelte critiche. La sua arguzia e la passione si dipanano sorprendenti nel percorso, a partire dall’unico Caravaggio che riuscì ad acquistare nel 1928: il Ragazzo morso da un ramarro del 1597, sorprendente per i tratti popolani del ragazzo e l’inquietudine del gesto nervoso dinanzi a un’innocua natura morta. Per spiegare la contemporaneità di Caravaggio, Longhi si avvalse anche del cinema per evidenziare come egli sia stato “l’inventore dei più meditati fotogrammi: da quello più lucido e aperto, a quello lacerato e drammatico” e che “portate in un film le sue immagini sembrano girate dinnanzi a noi su corpi veri, e non dipinti”. La chiave consiste nel leggere un pittore che ha cercato di essere naturale e comprensibile: “Umano più che umanistico; in una parola, popolare”.

Nella mostra, molto ben allestita, l’occasione unica di poter ammirare tutti gli altri capolavori collezionati di Longhi, solitamente raccolti nella dimora fiorentina, oggi sede della sua Fondazione. Oltre a Caravaggio, i suoi amati “caravaggeschi”: da tre meravigliosi Carlo Saraceni ai ben cinque De Ribera, da Battistello a Valentin a Battista Del Moro e a Morazzone. E ancora artisti fiamminghi e olandesi, che hanno assimilato Caravaggio, come Gerrit van Honthorst, Dirck van Baburen e Matthias Stom. Nonostante la predilezione di Longhi per i tanti discepoli egli non li sovrapporrà mai del tutto al Merisi: “Meglio dire ‘cerchia’ che scuola; dato che il Caravaggio suggerì un atteggiamento, provocò un consenso in altri spiriti liberi, non definì una poetica di regola fissa, e insomma, come non aveva avuto maestri, non ebbe scolari”.

 

Il tempo di Caravaggio Musei Capitolini Roma, fino al 13.09

Nina la detective: madre di Miss Marple e “gallina” gramsciana del giallo popolare

Ben prima dell’imperitura benedizione arbasiniana, fu Carolina Invernizio (1851-1916) la prima, vera casalinga originaria di Voghera. E non solo perché era nata lì, ma soprattutto perché fu una delle più note e vendute scrittrici rosa del Regno d’Italia di fine Ottocento. Fino a otto romanzi all’anno. Un’autrice molto pop, ma bocciata dalla critica sia liberale sia marxista. Don Benedetto Croce la inserì senza pietà nell’anonimato di “un infinito pulviscolo di instancabili romanzatrici”, mentre Antonio Gramsci fece il sessista e la liquidò come “un’onesta gallina della nostra letteratura popolare” (e ora tutti a imbrattare busti e quadri del filosofo comunista). Lei però vendeva parecchio e nel 1909 si cimentò finanche nel poliziesco, con un giallo per certi versi moderno e anche anticipatore visto che la Miss Marple christiana arriverà vent’anni dopo, nel 1930.

La protagonista si chiama Nina, fa l’operaia e s’improvvisa poliziotta dilettante per scoprire l’assassino dell’amatissimo fidanzato, il conte Carlo Sveglia. La loro storia d’amore è avvolgente ma contrastata. Lei plebea, giovane e bellissima. Lui nobile, giovane e bellissimo. Proprio però alla vigilia del rendez-vous risolutivo e pacificatore con la Contessa zia Eugenia – che fa da mamma e papà all’orfano nipote – il fascinoso Carlo viene ammazzato. Siamo a Torino e Nina è appunto un personaggio moderno per quei tempi, come annota Alessia Gazzola nella prefazione: vive e si mantiene da sola e riceve il fidanzato a casa sua, pur mantenendo la sua fama di onestà e di beltà. La trama è costruita senza sbavature e il libro va preso e letto come un feuilleton giallorosa, consapevoli che lo stile è semplice e talvolta enfatico e che pure Umberto Eco buonanima stroncò la povera Invernizio: “Scriveva malissimo” .

 

Nina la poliziotta dilettante Carolina Invernizio – Pagine: 393 – Prezzo: 14 – Editore: Rina edizioni

“Il mago di Lublino”: l’incantesimo di Singer

L’ultimo dialogo tra il mago Yasha Mazur e l’amante-assistente Magda Sbarski è di questo tenore. Dichiarazione di Yasha: “Magda, ti amo”. Risposta: “Canaglia! Puttaniere! Assassino!” Magda Sbarski si è sempre accontentata del ruolo di amante-assistente senza trascendere nella gelosia per le conquiste del Kuntsenmakher (mago in yiddish). Reagisce in questo modo perché ha paura di perderlo. Yasha progetta infatti di mollare la moglie Esther, Magda, il pappagallo, la scimmia e gli altri animali della sua corte itinerante, per stabilirsi in una villa dalle parti di Napoli insieme a Emilia, una vedova di Varsavia, e alla di lei figlia Halina. Halina adora il mago e lui non solo ricambia, ma spera di poterla sedurre quando sarà più grande, in un futuro non lontano. Per lasciare la Polonia russificata di fine Ottocento e stabilirsi in una villa sul mare ci vogliono soldi e Yasha non è spiantato ma non ha i mezzi necessari. Le trame dei romanzi di Isaac B. Singer, compreso Il mago di Lublino, possono ricordare a un primo impatto quelle delle commedie dove corna, inganni e illusioni di felicità si intrecciano in un garbuglio esplosivo perfetto per tenere alta l’attenzione dei lettori, a maggior ragione se pubblicati a puntate sui giornali con continui colpi di scena. Nella declinazione autobiografica singeriana un uomo sta al centro dell’intreccio amoroso con diverse donne legate a lui da una rete di menzogne indissolubile che a un certo punto si semplifica in un cappio.

A dare lo spessore del genio a questa superficie scintillante, venata di humour implacabile, ci sono diversi elementi tipici dell’universo singeriano. I principali sono la rievocazione del mondo ebraico polacco, distrutto dalla micidiale sequenza nazismo-stalinismo, e la sensibilità metafisica che parte dalla vita quotidiana per proiettarsi in una dimensione trascendente, all’ombra del grande ebreo-eretico Spinoza e della corrente chassidica, per cui anche lo scarafaggio è un “fratello” (si veda il racconto Fratello scarafaggio). Come ha osservato Claudio Magris, pochi scrittori, in tutta la letteratura universale, riescono a esprimere “con altrettanta indelebile forza, l’assoluto di ogni momento significativo della vita”. E anche di momenti insignificanti. Un altro elemento ricorrente, a rischio commedia ottocentesca nelle mani di un autore meno magico, è la ricerca di segni soprannaturali, il dialogo con i morti, finanche la seduta spiritica. L’ambientazione storica va dal XVII secolo dei falso Messia Sabbatai Zevi (Satana a Goraj, Adelphi) all’America del secondo 900 (Nemici. Una storia d’amore, su tutti). Molti celebri racconti brillano nella cornice di uno shtetl senza tempo, come Gimpel l’idiota, la short-story tradotta da Bellow che ha dato a Singer la popolarità. Qui il meccanismo è rovesciato. Singer trasfonde elementi da commedia sexy in un contesto ebraico. Tema: l’idiota del villaggio sposa la sgualdrina del villaggio. Il risultato, nelle mani del mago di Leoncin (Singer), è un capolavoro. Il mago di Lublino ricorda questo racconto nel finale che riporta l’orologio della storia nella dimensione dello shetl senza tempo e nella ricerca di un mondo ultraterreno che metta fine a inganno, confusione e dolore.

 

Il mago di Lublino Isaac Bashevis Singer – Pagine: 230 – Prezzo: 18 – Editore: Adelphi

“The Politician 2”: ancora manovre, sabotaggi, scandali e compromessi

Payton Hobart ha un unico sogno sin da quando è nato: diventare presidente degli Stati Uniti. Ma siccome da qualche parte bisogna pur cominciare, nella prima stagione di The Politician (Netflix) l’abbiamo visto candidarsi alla presidenza del consiglio studentesco della Saint Sebastian High School di Santa Barbara. Nella seconda stagione l’asticella si alza parecchio. Dopo aver tentato di entrare ad Harvard, Payton si è iscritto alla NYU e ha deciso di provare a soffiare alla veterana Dede Standish il seggio al senato dello Stato di New York. Cambia l’ambientazione, dalla California alla Grande Mela, ma gli ingredienti rimangono gli stessi: manovre e sabotaggi, scandali e compromessi, insomma tutto il peggio della “vecchia” politica incarnato da un personaggio che, se non altro per l’età, dovrebbe rappresentare la “nuova” politica. In The Politician 2 torna anche Gwyneth Paltrow, la mamma adottiva di Payton, a sua volta impegnata nella campagna elettorale per la carica di governatore della California.

Le ultime serie di Ryan Murphy, The Politician e Hollywood, hanno diviso pubblico e critica. Non è l’unica cosa che hanno in comune: entrambe affrontano un tema (la politica studentesca e il cinema di ieri) per parlare, in realtà, di un altro tema (la politica degli adulti e il cinema di oggi). Con la seconda stagione, però, The Politician fa un salto in avanti, annunciato nell’ultimo episodio della stagione precedente. A soli 22 anni Payton ha già fatto il suo ingresso nella politica dei grandi, a maggior ragione perché la rivale Dede Standish progetta in segreto di correre per la vicepresidenza. Nell’anno in cui gli Stati Uniti eleggeranno il loro nuovo presidente, The Politician affronta insomma un tema caldo. Ma al di là dell’estetica sempre curatissima e di alcune scelte un po’ banali (Payton concentra la sua campagna sul clima), l’impressione è che la serie non sia ancora riuscita a trovare quell’equilibrio fra drama e soap e caratterizza i lavori migliori di Ryan Murphy.

 

Credersi “Dio” fa male. Agli altri

A cinque anni da Fargo 2, Kirsten Dunst torna in tv con un ruolo speculare: se nella seconda stagione di Fargo era una moglie che metteva nei casini il marito, in Becoming a God (due episodi a settimana su Timvision Plus) è il marito a mettere nei casini lei.

La serie prodotta da Showtime è uscita negli Stati Uniti lo scorso settembre ed è già stata rinnovata. Per il ruolo di Krystal, la protagonista, Dunst ha ricevuto una nomination ai Golden Globe come miglior attrice in una comedy. Non si tratta però di una commedia in senso stretto, piuttosto di una serie molto ibrida che alterna momenti grotteschi e surreali ad altri drammatici, con l’aggiunta di un pizzico di thriller.

Come suggerisce il titolo originale, On Becoming a God in Central Florida, la storia si svolge nel Sunshine State. Ma non vi aspettate ville sull’oceano e spiagge da sogno. Siamo nell’area metropolitana di Orlando, provincia profonda, umidità alle stelle e stagni popolati da alligatori. Krystal lavora in un parco acquatico e fatica ad arrivare alla fine del mese, soprattutto da quando è nata la piccola Destinee e da quando Travis, il marito, si è messo in testa di lasciare il lavoro per inseguire il suo sogno: diventare ricco. Come? Attraverso la Fam, Founders American Merchandise, un’azienda di multi-level marketing. Tutta la serie ruota attorno alla Fam, che costituisce il suo principale motivo di interesse (insieme all’interpretazione della protagonista, bravissima a calarsi nella parte di una provinciale ingrassata e imbruttita). Per capire di cosa si tratti bisogna tornare agli anni Novanta, quando il multi-level marketing era molto diffuso negli Stati Uniti. Si tratta, in sostanza, di uno schema piramidale: chi sta in cima si arricchisce vendendo prodotti di bassa qualità a chi sta sotto, e nello stesso tempo incoraggiando la base a trovare nuovi venditori. Una strategia che si accompagna spesso al culto della personalità del fondatore.

Travis, un assicuratore con problemi di alcolismo, finisce dentro questa spirale. Il suo diretto superiore, il giovane Cody, lo convince a buttarsi anima e corpo nella Fam per diventare imprenditore di se stesso; e Travis, pur di scalare l’assurda gerarchia (livello Franklin, Lincoln, Washington, eccetera eccetera), ipoteca la casa e dedica le serate a reclutare nuovi adepti. Il suo sogno è diventare ricchissimo come il fondatore, Obie Garbeau II, che va in giro in elicottero e ai suoi seguaci vende audiocassette motivazionali a peso d’oro. Quando Krystal capisce in che pasticcio si è cacciata, è troppo tardi per uscirne. Ma forse è ancora in tempo per ribaltare la situazione a suo favore diventando più spietata e scorretta di chi le sta sopra. Si tratta, del resto, di una questione di sopravvivenza: ed è proprio quando le persone si trovano con l’acqua alla gola che danno il meglio e il peggio di sé (ricordate Walter White?).

Becoming a God può contare su un ottimo cast che comprende Alexander Skarsgård (Big Little Lies) e Ted Levine (American Ganster). Tra i produttori compaiono George Clooney e la stessa Dunst, che ha girato la prima stagione quando il figlio Ennis aveva solo cinque mesi: “Fisicamente ero esausta, ma è stata proprio la stanchezza che ha permesso al personaggio di Krystal di tirar fuori tutta la sua frustrazione”, ha spiegato l’attrice.

 

“Becoming a God” Due episodi a settimana su Timvision Plus

Riecco i Moschettieri e Giallini ritrova Schiavone

Louis Garrel e Isabelle Huppert affiancheranno da settembre il protagonista Riccardo Scamarcio sul set di L’ombra di Caravaggio di Michele Placido, incentrato sulla vita del pittore e interpretato anche da Micaela Ramazzotti, Vinicio Marchioni e Lolita Chammah.

Il progetto a cui Michele Placido ha lavorato per quattro anni con gli sceneggiatori Sandro Petraglia e Fidel Signorile sarà realizzato da Federica Vincenti per Goldenart Production con Rai Cinema e la francese Mact Production tra Roma, Viterbo, Napoli e Malta.

Si chiamerà L’ultima missione la nuova commedia che Giovanni Veronesi inizierà a dirigere a luglio sulla scia del suo I Moschettieri del Re – La penultima missione: realizzata come la precedente da Indiana Production e Vision Distribution rivedrà in scena gli stessi interpreti Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea, Rocco Papaleo, Sergio Rubini e Margherita Buy.

Cominceranno a fine giugno le riprese di Una famiglia mostruosa, una commedia horror diretta da Volfango De Biasi, prodotta da IIF e Rai Cinema e interpretata da Massimo Ghini, Lucia Ocone, Lillo Petrolo e Ilaria Spada. Sullo schermo l’incontro/scontro di due coppie di genitori agli antipodi tra loro alla vigilia delle nozze dei rispettivi figli (Francesco Caccamo e Emanuela Rei) in cui si scoprirà che il padre e la madre dello sposo sono vampiri. Ma anche i consuoceri si riveleranno dei veri e propri “mostri”.

Riprenderà a luglio ad Aosta la lavorazione della quarta edizione della serie tv Rocco Schiavone tratta dai best seller di Antonio Manzini e diretta da Simone Spada per Cross Productions e Rai 2 con Marco Giallini.

“Onward”, Pixar sogna in grande (schermo)

Onward. Letteralmente andiamo avanti, cioè guardiamo “in” avanti. Nessun titolo calza a pennello alla lungimiranza in salute quanto questo film della Pixar Animation Studios, che la consociata Disney ha deciso di lanciare sul grande schermo, e non sulla propria piattaforma web Disney+, divenuta la baby sitter da quarantena più gettonata. E questo perché è finalmente ora di (ri)pensare in big screen, e un blockbuster di qualità come è solito per i geni della lampada se lo merita tutto, prendendosi persino il rischio di una data caldissima: il proibitivo 22 luglio italiano dopo il duplice slittamento causa lockdown che faceva seguito alla première mondiale avvenuta all’ultima Berlinale.

Dunque anticipare di un mese una recensione non è poi un azzardo così surreale: nome omen, serve diventare onward a tutti i livelli. I cinema che hanno scelto di aprire godono già dell’attesa di accogliere famiglie trepidanti all’assalto di sale chirurgicamente sanificate. D’altra parte Onward – Oltre la magia (che non è neppure l’ultimo prodotto Pixar essendo in arrivo a fine anno il nuovissimo Soul, forgiato del “bollino Festival di Cannes 2020”) estremizza il classico tema della moderna animazione hollywoodiana: l’importanza dei legami familiari nel tradizionale percorso di un romanzo di formazione. Ma per farlo, il film diretto da Dan Scanlon (Monsters University) si appella alla magia, quella vera, fatta di incantesimi, maghi e creature di ogni fantasmagorica fattezza. Il tutto nella sapiente mescolanza di generi, registri e mille citazioni (proprie e non) come nel Dna della Factory fondata da John Lasseter. Se infatti il genre principale è il fantasy, a intrecciarsi sono il family, il Bildungsroman, il road quest e il cop movie a sfondo di una metropoli dai grattacieli a forma di torrioni medievali popolati da gnomi tecnologici.

Al centro è una simpatica famiglia di elfi (non dissimile dagli Incredibili ma dai caratteri assai diversi), i cui figli Ian e Barley sono orfani di un padre morto troppo giovane per lasciare tracce di memoria nei ragazzi, specie nel minore Ian. Così avviene che al suo 16° compleanno, la mamma gli consegni in dono un “oggetto magico” lasciato dal genitore scomparso per i figli una volta che entrambi avessero superato la soglia dei sedici anni.

Abbandonando trame e tentazioni da spoiler, ciò che avviene per i due fratelli oltrepassa chiaramente la loro stessa immaginazione, almeno quanto il depistaggio a cui sarà sottoposto un pubblico auspicabilmente spalmato su più generazioni. Mirabolante e acutamente “riciclante” (il senso della “memoria delle cose” è sempre topico per la Pixar), Onward – Oltre la magia sa dunque come guardare avanti ma anche indietro, alludendo con ironia ai classici (vedi Il Signore degli Anelli e Harry Potter in questi casi) per assurgere a classico di per sé. E la distanza fra opposti – come tra i due fratelli che più diversi non potrebbero essere – si riduce a un incantesimo senza tempo.

Quelle sere a casa Bertolucci. E poi al Piper con Ungaretti

A casa Bertolucci, nel quartiere Monteverde di Roma, ci sono stato due volte: la prima nel 1964, quasi solo per incontrare Bernardo e appartarci per parlare a bassa voce del suo primo film doc (La via del petrolio) e della mia prima produzione (Rai). Parlavamo sottovoce perché, dall’altra parte del tavolo del soggiorno, c’era Attilio Bertolucci, il poeta, il padre. Era sulla sua poltrona, vestito come se dovesse uscire benché si vedessero i preparativi per la cena in casa.

Il poeta muoveva le labbra leggendo da un libro che aveva sulle ginocchia e su cui annotava (poche volte, a matita) frasi o parole o un segno. Bertolucci padre non si occupava di noi, benché fossimo tutti nella stessa stanza. Bernardo mi aveva presentato e lui mi ha guardato benevolo, come un compagno di scuola del figlio, ha fatto un sì con la testa ed è tornato a leggere. Gli odori del cibo in preparazione erano degni del film Novecento che sarebbe venuto dopo. Mi piaceva avere incontrato e salutato Attilio Bertolucci. Mi piaceva quel suo silenzio padronale e paterno, con un senso della dislocazione che non prevedeva distanza, ma un altrove in cui lui intanto si era sistemato, come nel posto giusto.

I due poeti della mia vita in quel momento erano Ungaretti, che, insieme a Schifano, accompagnavo, certe sere, al Piper o a Venezia a una riunione del Gruppo 63. E Montale, che in un colonnino sul Corriere della Sera mi aveva rimproverato di scrivere troppo. “Furio, è necessario scrivere così tanto per esistere?”. Bertolucci mi portava vicino a un’altra figura, quella del borghese intelligente e colto che travalica i limiti del borghese intelligente e colto, ma non dà nessun segno di rivendicarlo o forse neppure di volerlo sapere, imbarazzatissimo delle lodi, anche perché si sentiva ancora, e in modo rigoroso, persona privata. Le sue righe di poesia arrivavano come una conversazione con un che di esclusivo fra te e il poeta, anzi fra te e il testo, dietro il quale il poeta volentieri non si faceva trovare. Il padre è poi venuto a vedere il documentario del figlio ventenne in una sala della Rai, ma con l’impegno di entrare senza accoglienze e di fuggire subito. Lo hanno trattenuto da Alberto Ronchey e Fabiano Fabiani. Bernardo, che aveva esordito proprio come poeta, suscitando attenzione prima di “scappare con la pellicola”, mi portava volentieri quando c’era suo padre, sia perché lo incuriosiva questo contatto con il Gruppo 63, sia perché sapeva che leggevo e traducevo poesia americana. E poi mi aveva detto di aver sentito un giudizio lusinghiero di Attilio a proposito di un mio articolo su Il Mondo. Forse era solo amicizia, ma era bello esserci. Era bello anche perché, nella vita quieta e privata del grande poeta, a un certo punto era avvenuta un’accelerazione: pubblicare di più, essere più visibile e personaggio della vita editoriale (Garzanti, Guanda), e dibattiti e interviste, ma solo di poesia. In quel periodo c’è qualcosa di cinematografico nelle opere di Attilio (Viaggio d’inverno, La camera da letto), come c’è qualcosa di poetico in molti film di Bernardo (Ultimo Tango, The Dreamers…).

Sono stato una seconda volta a casa di Attilio, una mattina del 2000, molto presto: Bernardo ha chiamato. Io avevo appena sentito alla radio la notizia. Mi ha detto: “Sono solo, vieni a farmi compagnia?”. La stessa casa, la stessa scena, niente di mutato nell’arredamento. Solo che erano aperte, come in una poesia, le porte di una grande camera da letto, in cui su un letto stretto e alto c’era il corpo, vestito come per uscire, di Attilio Bertolucci, composto, sereno e un po’ estraneo, come sempre. Bernardo conversava: letteratura, cinema, America e forse politica. Non voleva che pesasse la morte di suo padre su un suo amico. E attento come è sempre stato ai dettagli, mi è apparso che stesse pensando al Viaggio d’inverno, il capolavoro di suo padre. È poesia infinitamente ansiosa e gravata dal pensiero della morte, compensata da leggerezza impossibile ma consolante. Come allora, Attilio sembrava ascoltare con distratta benevolenza il figlio così bravo e il suo amico.

Leosini non si tocca (le botte uccidono ogni tipo di amore)

Va di moda buttar giù le statue e le prime picconate sono arrivate anche a Franca Leosini che, per fortuna, è brillante e vivente ma già simulacro indiscusso e idolatrato. Non serve una sua opera in bronzo nei giardini comunali per ritenere “la Franca”, come la chiamano i Leosiners, un feticcio televisivo destinato all’immortalità.

Eppure, in questi tempi bui in cui basta una mezza frase decontestualizzata e buttata in pasto ai social per abbattere statue, carriere e reputazione, anche la Franca, per una bizzarra legge del contrappasso, è sotto processo a intermittenza. Le era toccato dopo l’intervista ad Antonio Ciontoli perché improvvisamente, dopo che da 25 anni intervista i peggiori assassini, da Angelo Izzo al collezionista di anoressiche, il web aveva deciso che “non si intervista uno che ha ucciso un ragazzo”. Le è toccato di nuovo dopo l’ultima puntata di Storie maledette perché avrebbe pronunciato una frase intollerabile, a sfavore delle donne che subiscono violenza. Quindi nel 2020, dopo 91 interviste (anche) a uomini assassini e talvolta maltrattanti scopriamo che Franca Leosini è misogina, sessista e chissà, magari pure una che ogni tanto tira due schiaffi alla donna delle pulizie. Ma quale sarebbe la frase che la inchioda alle sue responsabilità di fallocrate e anti-femminista? Sonia Bracciale, protagonista dell’ultima puntata e mandante dell’omicidio del suo ex marito Dino, racconta che lui la picchiava selvaggiamente: ricoveri in ospedale, mano e naso rotti, schiaffi, spinte contro pergolati e così via. Rimane con lui per 15 anni, poi conosce un altro e si separa, ma decide che il marito va punito: il suo nuovo fidanzato e un suo amico – entrambi decisamente in balia della sua non proprio delicata, docile influenza – lo uccidono a sprangate. Insomma, non proprio il ritratto di una donna angelica, tanto più che si è sempre proclamata innocente nonostante sia più facile credere all’efficacia dei gargarismi con lo Spritz contro il Coronavirus che alla sua estraneità ai fatti. Insomma, dopo che la Leosini descrive la violenza del marito come “brutale e animalesca”, osserva: “Un quoziente di responsabilità ce l’ha anche lei come tutte le donne che non mollano l’uomo al primo schiaffone”. E poi: “Lei si è ritrovata con mano e naso rotti, ha denunciato, perché non l’ha mollato?”. Apriti cielo. Il rubinetto dello sdegno social s’è aperto in due nano-secondi ed è stato tutto un twittare: “Ecco, la colpa adesso è delle donne!”. “Si chiama vittimizzazione secondaria, succede ancora nelle aule dei tribunali, dove le donne che denunciano la violenza non sono credute”, dichiara Antonella Veltri, presidente di D.i.Re – Donne in rete contro la violenza. E giù critiche, accuse, anatemi. Cosa abbia detto di osceno la Leosini è mistero fitto. È chiaro che per “responsabilità” non intendeva “se hai preso botte è colpa tua”. Neanche se la vedessi farsi un fungo amazzonico prima della trasmissione potrei credere che la Leosini sia fan del partito “te la sei cercata”. Per responsabilità intendeva quella che si intende quando si discute del dovere di denunciare gli uomini violenti. La responsabilità della Bracciale e quella di reagire, di opporsi alle sopraffazioni fisiche e psicologiche. Non tutte ci riescono per ragioni che non staremo qui a elencare (economiche, di dipendenza emotiva, di disistima), ma il tema della responsabilità resta. La Leosini l’ha detto col piglio che le è proprio, senza concedere sconti a una donna che evidentemente non pareva (e sottolineo “pareva”) così debole da sottrarsi a quei soprusi, tanto più che poi, quella donna, è stata capace di far ammazzare di botte il marito. E in fondo – questo nessuno l’ha sottolineato con indignazione – la frase più grave l’ha detta proprio la Bracciale quando alla sacrosanta domanda “Perché non l’ha mollato?”, ha risposto: “Perché lo amavo, avrei dato la vita per lui”. Questo, la Bracciale, l’avrebbe potuto dire 10, 15 anni fa. Che lo dica ancora oggi, dopo aver avuto il tempo di elaborare, è un segnale preoccupante. Non amava un uomo che le spaccava la faccia. Non si ama chi ci odia. La Bracciale era vittima di una tossica dipendenza affettiva. L’amore risiede altrove, ha connotati diversi e se il messaggio da far passare in tv non deve essere che una donna ha colpe se un uomo la picchia, deve passare anche quello che una donna che subisce violenza per anni e scambia il suo rimaner lì per amore e devozione, non è una donna innamorata: è una donna malata. E se proprio la vogliamo dire tutta, la stessa operazione che il femminismo ottuso ha fatto nei confronti della Leosini (estrapolare, decontestualizzare, semplificare) la si potrebbe applicare pure al seguente commento della presidente di D.i.Re: “Credo che questa donna abbia subito molto. Questo non legittima un omicidio. Andava fermato prima questo percorso malsano, le cui radici si trovano in fenomeni di sopraffazione dell’uomo sulla donna”. Insomma, lui se l’è cercata. Potrei twittarlo con l’hashtag indignato, ma so comprendere e contestualizzare. E, soprattutto, credo che la presidente di D.i.Re sia dalla parte delle donne. Come la Leosini.

Il ministro dell’Unificazione si dimette: “Missione fallita”

Si è dimesso ieri, dopo un anno e mezzo di sofferto e infruttuoso mandato, il ministro sudcoreano dell’Unificazione, e al presidente Moon Jae-in non è rimasto che accettare le dimissioni del suo uomo di punta. La decisione di Kim Yeon-chul è maturata dopo che Pyongyang ha demolito l’ufficio di collegamento a Kaesong per aumentare le pressioni su Seul durante l’interruzione dei negoziati nucleari con l’Amministrazione Trump. Eppure Yeon-chul non aveva certamente preso l’incarico con leggerezza, dato che nell’aprile scorso la sua nomina era seguita all’inizio del crollo dei colloqui tra gli Stati Uniti e Pyongyang. Tuttavia il fallimento è stato totale: il ministro, infatti, lascia senza aver avuto un solo incontro con i nordcoreani, fallimento di cui a questo punto ha voluto assumersi ogni responsabilità. Al centro la frustrazione della Corea del Nord di Kim Jong-un per la riluttanza di Seul a staccarsi dall’alleata Washington e riavviare i progetti economici intercoreani, frenati dalle sanzioni volute dagli Stati Uniti contro il proseguimento del programma nucleare di Pyongyang.

Come se non bastasse, il Nord ha dichiarato che taglierà anche tutti i canali di comunicazione governativi e militari e abbandonerà persino uno degli accordi militari chiave raggiunto nel 2018 per ridurre le minacce convenzionali. Questo, secondo gli esperti, aumenterà i rischi di scontri nelle aree di confine, sia terrestri che marittime. Il tutto avviene in un momento non certo felice per la Corea del Sud, il cui presidente Moon è al minimo del consenso. Un sondaggio Gallup, infatti, lo vede al 55% dell’approvazione, il punto più basso degli ultimi tre mesi. Certamente le dimissioni di Kim Yeon-chul così come la rabbia dell’omologo nordcoreano non aiuteranno a far ritrovare consenso al presidente. Quanto alla Corea del Nord, nel bel mezzo del caos, sembra che a guadagnare protagonismo sia sempre di più la sorella del dittatore, Kim Yo Jong, che negli ultimi tempi, soprattutto nel periodo in cui il fratello era sparito delle scene facendo pensare che fosse morto, si è dimostrata un’emissaria perfetta per il suo paese. Park Ji-won, ex legislatore sudcoreano e capo di Stato maggiore presidenziale, dopo quattro incontri con lei, se ne è andato con l’impressione di una donna “intelligente e veloce”.