Strategia dem, una vice di colore alla Casa Bianca

“La vice sia nera”, dice Amy Klobuchar. E sfronda d’un colpo la lista corposa delle aspiranti a fare ticket con il candidato democratico Joe Biden alle elezioni presidenziali di Usa 2020. Prendono nuovo vigore le speranze di Kamara Harris e Susan Rice. Il passo indietro della senatrice del Minnesota, fino a marzo in lizza per la nomination alla Casa Bianca, è il fatto saliente di una giornata ricca di sviluppi e polemiche, verso il voto del 3 novembre. Un nuovo sondaggio conferma il vantaggio di Biden su Donald Trump: secondo un rilevamento Quinnipac, l’ex vice di Barack Obama è otto punti avanti al presidente repubblicano, 49% a 41%. Biden è forte fra le donne, gli afro-americani (82% contro 9%) e gli ispanici, mentre i bianchi sono con Trump.

La sortita della Klobuchar, una politica apprezzata per il suo equilibrio, rispecchia l’attuale fase di tensioni razziali negli Stati Uniti. Se essa riflette anche l’orientamento di Biden, suona campana a morto per le aspirazioni di Elizabeth Warren, senatrice del Massachusettes, una candidata vice forte perché poteva portare in dote la sinistra orfana di Bernie Sanders. Fuori corsa sarebbero pure le governatrici del Michigan Gretchen Whitmer e del New Mexico Michelle Lujan Grisham e l’altra senatrice Tammy Baldwin, del Wisconsin. Fra le afro-americane più quotate, e caratterialmente più vicine a Biden, vi sono la Harris, 55 anni, senatrice della California, uscita a febbraio dalla corsa alla nomination democratica, e la Rice, 55 anni, ex consigliere per la sicurezza nazionale e rappresentante degli Usa all’Onu durante la presidenza Obama. Ma le proteste antirazziste che percorrono da settimane gli Stati Uniti offrono una ribalta a Stacey Abrams, 46 anni, attivista della Georgia, molto impegnata nella self-promotion, e portano in primo piano quasi ogni giorno nuove ‘eroine’, subito promosse a favorite per completare il ticket democratico: ad esempio la sindaca di Washington Muriel Bowser o quella di Atlanta, Keisha Lance Bottoms; citata anche la deputata della Florida, Val Demings.

La novità di questa campagna è che molte ‘papabili’ fanno propaganda per se stesse, si propongono e/o si promuovono, mentre tradizionalmente la scelta del vice avveniva nella massima discrezione: uscire allo scoperto significava bruciarsi. Biden, molto silenzioso negli ultimi giorni, almeno fino allo scoppio delle polemiche sul libro anti-Trump di John Bolton, si è impegnato a scegliere una donna come sua vice. Alla prassi del basso profilo si sono fin qui attenute Harris e Rice, due che non alzano la voce per educazione politica e diplomatica. Harris, padre di origine giamaicana, madre indo-americana, giurista di formazione, ha fatto in California la gavetta politica: senatrice di primo mandato, avendo conquistato nel 2016 il seggio che fu di Barbara Boxer, è stata battagliera protagonista di diversi dibattiti fra aspiranti alla nomination democratica, ma, dopo una partenza promettente, non è riuscita a sfondare né fra gli elettori né fra i finanziatori e s’è ritirata con le casse vuote.

Rice era la favorita a fine 2012 per divenire segretario di Stato quando Hillary Clinton lasciò l’Amministrazione Obama. Coinvolta nelle polemiche per la strage al consolato degli Usa a Bengasi in Libia, si fece da parte perché – spiegò – la sua conferma in Senato sarebbe stata contestata. Obama, che ne aveva molta stima, la destinò allora all’Onu. Dai genitori, due accademici, la Rice ha imparato – dice – “a non usare mai la razza come scusa o vantaggio”: sogna di essere la prima senatrice del Distretto di Columbia, un auspicio che può ancora concretizzarsi.

Brexit, Londra fa la perfida Albione

Il mostro Covid ha, per mesi, distratto governi e istituzioni europee dall’elefante Brexit. Che però è ancora nella stanza, resa più ingombrante dall’impatto politico, sociale ed economico della pandemia, con il Regno Unito fra i Paesi più in difficoltà per numero di vittime, calo di Pil e crisi di consensi per il governo e la sua molto discutibile gestione della crisi. C’è solo una certezza: sordo alle richieste del grosso del business, compresa la locale Confindustria, Boris Johnson, come confermato ufficialmente la scorsa settimana, non chiederà all’Ue un’estensione dei negoziati per l’accordo commerciale. Che quindi dovrà essere costruito, quasi dal nulla, nei sei mesi rimasti prima della scadenza del periodo di transizione, il 31 dicembre 2020.

Rifiutata l’estensione, Londra vuole un’accelerazione dei negoziati con l’ambizione di chiuderli fra luglio e agosto, per dare alle proprie imprese, duramente colpite dal lockdown, un po’ di tempo per prepararsi al nuovo choc. È un obiettivo che Bruxelles considera irrealistico: i negoziatori sarebbero già rassegnati a un tour de force dell’ultimo minuto in autunno.

Per il resto, le distanze sembrano incolmabili su tutti i fronti, perfino quelli già concordati: all’inizio di giugno un esasperato Michel Barnier, capo dei negoziatori europei, ha accusato i Brits di rimangiarsi anche gli impegni sottoscritti nella dichiarazione politica congiunta, il documento di intenti su cui si dovrebbe basare il trattato commerciale. Il disaccordo si estende a quasi tutti i settori condivisi in 40 anni di convivenza, dalla politica energetica alla condivisione dell’intelligence, dai diritti dei rispettivi cittadini alla sicurezza area. Fra i dossier principali pesca, concorrenza, servizi finanziari. Come ha potuto il settore ittico, solo lo 0,1 dell’economia britannica, diventare un ostacolo centrale? Per un intreccio significativo di interesse economico e retorica nazionalista: le acque britanniche sono pescosissime, ambite da società soprattutto olandesi, spagnole e francesi. Che ora hanno accesso in base e a un meccanismo di quote europeo su cui Johnson vuole piantare l’Union Jack decidendo chi entra. Quanto ai servizi finanziari, sono uno dei cuori pulsanti dell’economia britannica ma devono molto al regime europeo di passporting, cioè la possibilità per società di base a Londra di operare in tutti gli stati europei senza permessi nazionali. Non più, dopo Brexit, dice Bruxelles, con implicazioni pesantissime per lo status di Londra come hub finanziario mondiale. E ancora il level playing field, le regole condivise sulla concorrenza. L’Ue pretende dal Regno Unito l’impegno a mantenere standard europei nella qualità dei prodotti, dei cibi, dei diritti dei lavoratori, della privacy, delle tutele ambientali. Il Regno Unito vuole mano libera, perché il suo futuro economico dipende anche dalla conclusione di accordi commerciali con paesi dagli standard inferiori, come gli Stati Uniti o la Cina, pronti alla conquista dei mercati britannici con prodotti a basso prezzo e più bassa sicurezza.

Il Regno Unito sembra convinto che l’Ue cederà per prima perché anch’essa indebolita, economicamente e politicamente, dal Covid. Lo ha ammesso anche Angela Merkel in un recente discorso al Bundestag: “La pandemia ha rivelato quanto sia ancora fragile il progetto dell’Ue. Il riflesso istintivo è stato nazionale e non europeo”. Vero, ma come ha dichiarato ieri la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, “siamo determinati a raggiungere un accordo ma non a ogni costo”.

L’alternativa, il temuto no deal, non conviene a nessuno: per il Regno Unito, oltre a un ulteriore calo del Pil, potrebbe significare l’accelerazione delle spinte indipendentiste in Scozia e Irlanda del Nord. Il compromesso possibile? Un accordo rapido che preveda il libero scambio, lasciando quindi tutto come è ora, ma con la possibilità per il Regno Unito di infrangere il level playing field. In questo caso, però, l’Ue potrebbe imporre tariffe sui prodotti britannici in entrata nel mercato europeo.

La Parmalat della Baviera: Wirecard e i miliardi spariti

Anche in Germania i conti non tornano. E così a Francoforte può accadere che un astro nascente della finanza digitale, Wirecard, sia in realtà un pozzo senza fondo in cui sarebbero scomparsi quasi 2 miliardi. Una storia imbarazzante che ricorda in tutto e per tutto i fasti della famiglia Tanzi e della loro Parmalat: la maggiore bancarotta europea (14 miliardi) in cui vennero coinvolti 175mila risparmiatori.

Proiettata in tempi record fra i maggiori titoli del listino tedesco, Wirecard era fino a un paio di giorni fa una storia di successo in stile Silicon Valley. Fondata da Markus Braun nel 1999, l’azienda è arrivata a impiegare 5.800 persone in 26 Paesi. Da Aschheim, in prossimità di Monaco, amministrava pagamenti online in tutto il mondo vantando fra i suoi clienti il re dei discount Aldi. Nel 2018 il grande passo: con lo sbarco in Borsa, il gruppo è diventato “una delle 30 maggiori società quotate sul listino di Francoforte”. Gli investitori, accorsi in massa, hanno fatto lievitare il valore del gruppo fino a 24 miliardi nel settembre 2018. Fino a un paio di giorni fa, i risultati giustificavano la fiducia del mercato: nel 2018 Wirecard ha chiuso l’esercizio con un utile da 347 milioni su un fatturato superiore a 2 miliardi. Cifre che gli investitori speravano venissero replicate nel 2019. Ma, dopo tre rinvii, i dati non sono arrivati. Al loro posto l’amara sorpresa del bilancio col trucco “con lo scopo di truffa”, come hanno rilevato i revisori di EY. La società di revisione non è riuscita ad ottenere chiarimenti sufficienti sui saldi di cassa di due conti fiduciari asiatici per un totale di 1,9 miliardi di euro, pari a circa un quarto del totale dello stato patrimoniale consolidato 2019. Proprio come è accaduto con i conti di Parmalat in Bank of America: il denaro semplicemente è svanito nel nulla. La Bdo Unibank, la principale banca delle Filippine, e Bank of the Philippine Islands, dove i soldi dovevano essere depositati, hanno negato che Wirecard sia un loro cliente. “Un impiegato disonesto ha falsificato i documenti e le firme dei nostri uffici”, ha detto all’agenzia Bloomberg l’ad di Bdo Unibank, Nestor Tan. Intanto il management del gruppo tedesco ha tentato invano di confortare gli investitori: l’azione è precipitata del 70% in due giorni, nel più pesante capitombolo mai registrato nella storia dell’indice Dax. Così l’ad Braum si è dimesso nel grande imbarazzo generale. Finanziario ed istituzionale. Anche perché in circolazione ci sono anche bond per 1,5 miliardi.

“Deutsche Börse ora dovrebbe agire. Il caso Wirecard ha causato un enorme danno al sistema finanziario tedesco”, ha commentato Kathrin Jones, specializzata in rendicontazione finanziaria. Un po’ meno credibile. Un po’ più espugnabile. Forse anche per questo il rigidissimo governo tedesco ha pensato bene di non commentare l’accaduto, finito al centro di feroci polemiche politiche sul sistema dei controlli.

Carlo Conti in balia dello stesso format

Il ragionier Carlo Conti è il contrario del commissario Montalbano. Le fiction di Montalbano sembrano prime visioni anche in replica; i programmi di Conti sembrano repliche anche al debutto. Tali e quali, anche nel caso di una novità come Top 10. Così, durante la prima puntata, abbiamo tentato di penetrare il mistero della replica perpetua. Per cominciare, il sondaggio sulle preferenze degli italiani che i concorrenti devono indovinare risale alla notte dei tempi; lo importò Mike Bongiorno (Tutti per uno, 1992) quando si accorse che nei quiz culturali i concorrenti cominciavano a saperne quanto lui. Poi, invece di riproporre i Migliori anni, Conti ripropone i 10 maggiori successi dell’ospite d’onore della serata (che rimandano ai migliori anni dell’ospite). Il Top 10 in sé sa di Walter Veltroni e del suo 10 cose, uno dei Top 10 flop del varietà tv. Infine, le due squadre di vip rispondono a casaccio, stupendosi se non vantandosi di non azzeccarne una, a riprova che la tv è diventata il loro parco giochi. Dunque, il mistero della replica perpetua è risolto; nulla di paranormale, Top 10 è costruito con il Top 10 dei vecchi show di Conti.

Mail Box

 

Armare l’Egitto è stupido e pericoloso

Non mi sembra una buona idea quella di armare ulteriormente la dittatura di Al Sisi. Con il 28 per cento della popolazione sotto la soglia di povertà, l’Egitto dovrebbe avere altre priorità (Zaki è in galera anche per aver scritto che in Egitto “la povertà aumenta e non c’è spazio per il dissenso”). Invito i ministri Guerini e Di Maio a visitare la zona di Mokattam dove la gente vive nella spazzatura della discarica del Cairo… Inoltre non so se Israele, Etiopia e Libia siano molto contenti che l’Italia stia aiutando Al Sisi a rafforzare le sue forze militari. Ma chi se ne frega, diranno i “super capaci” imprenditori dell’industria bellica italiana, tanto se non lo facciamo noi lo faranno i francesi o i russi…

Claudio Trevisan

 

Caro Claudio, è una questione controversa: per “fare male” ad Al Sisi e costringerlo alla verità su Regeni (e su migliaia di altri crimini e violazioni dei diritti umani), ci vorrebbero sanzioni ed embargo internazionali. Se un solo Paese (Italia) blocca le forniture, fa del male a se stesso anziché al regime egiziano, che si rifornirà dai nostri partner Ue e Nato (cioè concorrenti).

M. Trav.

 

Si rammentano solo le “colpe” di Indro

Caro Travaglio, sono un 74enne ammalato di edicola dal 1970. Dal 1976 con Repubblica, quindi col Fatto Quotidiano: quello che apprezzo del giornale è la schiena sempre dritta. Non ho nessun consiglio da darvi, semmai evidenziare le “colpe giovanili” di tanti personaggi famosi in ogni campo, dei quali pare che solo Montanelli sia messo al bando, specialmente dalla destra. Grande stima a tutta la redazione.

Giorgio Musu

 

“Tiramolla” era meglio di certi quotidiani oggi

Gentile Direttore, lei afferma che “certi quotidiani sono un po’ meno attendibili di Tiramolla”. Sono in disaccordo con lei: Tiramolla era un giornale affidabilissimo, bello ed educato e a tratti educativo. Certo, anche Tiramolla ha avuto i suoi guai con l’ultimo editore, ma mi creda che tra quel (ormai estinto) settimanale e i quotidiani da lei citati, non è possibile far paragoni: il livello di Tiramolla era molto più alto!

Daniele “tarlo” Tarlazzi

 

Molti hanno scordato le buffonate di Salvini

Non riesco a comprendere come molti italiani fedeli a Salvini abbiano dimenticato che quando andava in giro a fare comizi per le Regionali (da titolare del ministero dell’Interno) faceva rimuovere dalla polizia le lenzuola di protesta dei cittadini. Addirittura, una volta, poiché i proprietari dell’appartamento in cui era esposto uno striscione a lui sgradito non rispondevano alla polizia, hanno fatto intervenire i vigili del fuoco! Ero un assiduo lettore di Repubblica , ma adesso apprezzo molto il vostro giornale

Giuseppe Roccaro

 

Le fake news vanno smentite correttamente

Se una fake news è pubblicata con un titolo a cinque colonne, la smentita disposta dalla magistratura dovrebbe essere data con la stessa evidenza: quindi a cinque colonne, non con un piccolo comunicato in una pagina interna. Analogamente per i talk show: dedicare i minuti di smentita in tv con la stessa evidenza della fake news. Sarebbe meno oneroso delle penali milionarie e più efficace. Sogno?

Lettera firmata

 

Vaticano, che vergogna il tesoretto di immobili

Dal Fatto di martedì apprendiamo che il Papa per la prima volta ha nominato un laico alla guida dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica): la notizia, per un cattolico non genuflesso, non è quella di un laico a capo dell’Apsa, ma quella del possesso dei “nuovi apostoli” di una cassaforte-patrimonio che – a differenza della semplice borsa del gruppo di Gesù di Nazareth (Giovanni 12,6) – consiste in tutti gli immobili del Vaticano. Immobili per i quali il Vaticano si rifiuta di pagare ben 4 miliardi di Ici arretrata allo Stato italiano, quell’Italia che i vescovi amano tanto da averla affidata alla protezione della Madonna. Chissà che ne direbbe la Maria dei Vangeli. Ma Papa Francesco non è lo stesso che il 27 marzo, in una piazza San Pietro deserta e Vangelo alla mano, affermava che siamo tutti sulla stessa barca? Forse, quando si tratta di certi patrimoni, anche lui tira i remi in barca. O forse, remando a destra e a manca, si barcamena.

Francesco Natarelli

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, nel sommario del commento di Philip Laroma Jezzi “Il mercimonio di cariche universitarie è corruzione”, abbiamo scritto che il giurista Fiandaca si è costituito parte civile contro i “baroni”, quando invece è l’autore del pezzo ad averlo fatto. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

FQ

Fede “Dov’è Dio di fronte al virus?” “Sono i dubbi a renderci umani”

Al signor Gian Carlo Caselli: se c’è un cittadino italiano e una persona degna di rispetto io la identifico in Lei. Apprezzo e non da ora il suo equilibrio e la sua obiettività. Perciò mi colpisce la sua affermazione in un articolo sul Fatto di domenica: “In sostanza, una sola certezza: il virus (o vairus dei dotti) è sconosciuto o indecifrabile”. Io ho individuato un’altra certezza, mai toccata da alcuno e basata su due considerazioni: 1) in questi tre mesi gli italiani hanno seviziato e storpiato la loro lingua madre compiendo il più grave dei delitti possibili, per cittadini che si dicono cattolici, un incesto. 2) Nonostante tutte le preghiere, le giaculatorie, le manifestazioni di fede (parolaia, anche del Santo padre), l’invocazione dell’infinita schiera di madonne, madonnuzze, santi, santini, santuzze, padri pii, esposizioni di rosari, gesù cristi, venerati, beati e beoti, non mi risulta che ci sia arrivato il minimo segno della loro esistenza. Eppure guai a ricordarlo. Eppure manteniamo un apparato chiesastico che ci costa ogni anno diversi miliardi sia direttamente che sottobanco. A cosa serve? Non voglio continuare. Ma gradirei una risposta di qualunque segno. Grazie.

Ignazio

 

Caro Ignazio, grazie per la lettera. Le sue opinioni sulle pratiche religiose (esposte in modo anche simpatico) sono certamente personali, cioè in lei ben radicate e motivate. Ma non possiamo farle diventare una “certezza”. Altrimenti chi non la pensa come lei non avrebbe spazi per replicare.

Non è detto che chi pratica un qualsiasi culto lo faccia in attesa che gli “arrivi qualche segno dell’esistenza” divina o qualche miracolo capace di eliminare virus, cataclismi, guerre o miserie. Per molti (quasi tutti?) le preghiere sono modi per prendere coscienza dei propri limiti, per uscire da rancori o violenza, per costruire buone pratiche di vita comunitaria. Tutte realtà fluide, che non reggono il metro rigido della “certezza”. Ecco, caro Ignazio: meno certezze e più opinioni, è la formula che ci fa liberi e ci riconcilia con le nostre diversità (la vera ricchezza che ci rende umani!).

Lei parla di un “apparato chiesastico” (ma attenzione a non ignorare le fedi diverse da quella cattolica) che ha certamente dei costi. Ma esso rappresenta anche – con attività sociali, educative, ricreative e culturali – una straordinaria risorsa capace di generare solidarietà per costruire contesti più giusti e meno diseguali.

Quanto al “Santo padre” Francesco, confesso di essere un suo appassionato fan. Soprattutto dopo la preghiera solitaria prima di Pasqua in piazza San Pietro: capace di dimostrare come persino il silenzio (i lunghissimi minuti senza parole, immobile davanti all’Ostensorio) abbia la virtù di costringere a pensare e sperare. Anche se non ha eliminato il Coronavirus.

Gian Carlo Caselli

La sfida digitale per battere la crisi economica

“Come una forza della natura, l’era digitale non può essere rifiutata o fermata”

(da Essere digitali di Nicholas Negroponte – Sperling & Kupfer, 1995 – pag. 239)

 

Provate a pensare per un attimo che cosa sarebbe l’Italia contemporanea senza autostrade. E provate a immaginare che cosa sarebbe accaduto, durante l’emergenza sanitaria, senza Internet: dall’e-commerce all’home banking, dal telelavoro alla didattica a distanza, la nostra vita si sarebbe bloccata completamente. Non a caso si chiamano “autostrade informatiche”, intendendo le reti delle telecomunicazioni veloci per il trasferimento della voce e dei dati nel “Villaggio globale”.

In questa fila virtuale dei 28 partner europei, oggi ci ritroviamo addirittura quartultimi, precedendo soltanto la Romania, la Grecia e la Bulgaria. Secondo l’indice Desi 2020 (Digital Economy and Society Index), siamo scivolati in classifica perdendo una posizione e arretrando fino alla 25esima. Un’autentica ignominia per un Paese che può rivendicare con Antonio Meucci l’invenzione del telefono.

Ma il peggio è che, perdendo due posizioni rispetto alla precedente rilevazione, siamo ultimi nella graduatoria Ue con il 42% della popolazione dotata di competenze digitali (contro il 58% europeo), il 22% con competenze superiori (contro il 33%) e appena il 2,8% con competenze totali. Un Paese di analfabeti digitali, insomma, con la scuola e anche il servizio pubblico radiotelevisivo che fanno poco o niente per educarli. Non a caso abbiamo soltanto l’1% di laureati in discipline Ict (Information and Communication Technology), il dato in assoluto più basso d’Europa.

In compenso, abbiamo migliorato di quattro posizioni l’accesso alla banda larga, dal 9% del 2018 al 13% del 2019, collocandoci al 17° posto in seguito al lavoro di preparazione al 5G, la nuova tecnologia per la rete ultraveloce. Sta di fatto, però, che solo il 74% degli italiani usa abitualmente Internet, mentre il 17% non l’ha mai usato. E questo si ripercuote negativamente sul rapporto con la Pubblica amministrazione per l’erogazione dei suoi servizi.

C’è dunque una grande opera di alfabetizzazione da svolgere, insieme alla realizzazione di un’infrastruttura – come la rete a banda larga – che rappresenta la madre di tutte le infrastrutture. La priorità delle priorità. Per il lavoro, per la produzione, per il commercio. Ma anche per la scuola e per l’università. Per la vita quotidiana di tutti noi e soprattutto dei nostri figli e nipoti.

È ora, quindi, di passare dai progetti ai fatti. Nel 2019, come si legge nella relazione Desi, l’Italia ha completato la prima fase del piano per la banda ultra larga nelle aree bianche, quelle “a fallimento di mercato” dove non esistono infrastrutture, assegnando l’ultima delle tre gare d’appalto a Open Fiber, la società controllata al 50% da Enel e al 50% dalla Cassa Depositi e Prestiti. “L’attuazione pratica del piano è ora in pieno svolgimento, ma risente ancora di gravi ritardi”, accusa lo studio della Commissione europea che monitora il progresso digitale degli Stati membri. Ma Internet è diventato ormai il motore dell’economia. E l’Italia è in pratica il solo Paese al mondo a non avere un’unica rete fisica in fibra: “Una rete di telecomunicazioni – sostiene il presidente di Tim, Salvatore Rossi – è un monopolio naturale e va tenuta integra”. A tutela della concorrenza, occorre definire le regole per distinguere l’infrastruttura (pubblica) dalla gestione ed erogazione dei servizi (privati).

 

Woodcock dopo l’assoluzione: il Csm fa sentenze o dà segnali?

Può un giudizio disciplinare rappresentare un “segnale” per questo o quel magistrato? No, poiché siamo di fronte a un vero e proprio giudice e una sentenza a tutti gli effetti. Sarebbe come domandare: può un imputato per omicidio essere assolto o condannato per dargli un “segnale”? È tutto fin troppo ovvio. Eppure tocca discuterne, alla luce dell’assoluzione che il Csm, dopo il rimpallo con la Corte di Cassazione, ha dovuto sancire due giorni fa per il pm Henry John Woodcock. La domanda è inevitabile se, a parlare di “segnale”, è proprio Luca Palamara, componente della sezione disciplinare – ma non del collegio che lo condanna – che il 4 marzo 2019 infligge a Woodcock la sanzione della censura.
Il pm viene condannato per i suoi “virgolettati” sull’inchiesta Consip apparsi nell’intervista pubblicata su Repubblica da Liana Milella nel 2017. Milella sostiene dinanzi al Csm di aver tradito la fiducia di Woodcock pubblicando senza autorizzazione lo scambio di battute con il pm. Però il Csm la considera comunque una “grave scorrettezza” nei confronti del procuratore di Napoli Nunzio Fragliasso e dei pm romani che hanno ereditato l’inchiesta.
C’è però un’altra accusa: Woodcock e la pm Celeste Carrano avrebbero violato i doveri di “imparzialità, correttezza e diligenza” per aver interrogato l’ex consigliere economico di Palazzo Chigi, Filippo Vannoni, in qualità di testimone e quindi senza l’assistenza di un avvocato. Sulla base degli stessi atti, a Roma, Vannoni è stato invece considerato un indagato. Sul punto Woodcock e Carrano vengono assolti.
Su queste premesse s’incentra una conversazione via chat tra Luca Palamara e Nicola Clivio, che non fa parte del collegio giudicante ma conosce la questione poiché, come Palamara, ne è stato relatore nella consiliatura precedente.
Il 4 marzo 2019, quando Woodcock viene condannato, Clivio sostiene che si sia trattato di una “scelta politicamente corretta” e – accogliendo favorevolmente il verdetto – sottolinea: “Indagine salva”. Sostiene che, con l’assoluzione di Woodcock e Carrano sull’interrogatorio di Vannoni, si è evitata la sovrapposizione del procedimento disciplinare con l’inchiesta penale Consip ancora in corso. E Palamara sottolinea: “Però segnale per lui (Woodcock, ndr)”. Clivio sostiene che sia stato condannato per il “fatto meno grave” e Palamara conferma: “Sì, questo è vero”.
Ma c’è di più. Clivio sa già perfettamente come andrà a finire. Sulla base della sua conoscenza degli atti profetizza che la condanna non reggerà in Cassazione. E neanche l’assoluzione, che ritiene altrettanto debole. E così dà per certo che “il fascicolo tornerà al Csm dopo l’annullamento” precisando che però, in quel momento, probabilmente non ci sarà più “il problema della sovrapposizione all’indagine”. Clivio la imbrocca a metà. La Cassazione non annulla l’assoluzione, ma soltanto la condanna, cioè proprio la parte che Palamara definisce il “segnale” per Woodcock ed è “meno grave”.
E allora: può una sentenza disciplinare essere definita – degradandone la funzione – un “segnale”? Se così fosse, saremmo di fronte a un’ipotesi devastante: espropriare un organo giurisdizionale, previsto dalla Costituzione a difesa dell’intero assetto democratico, di una sua funzione essenziale. L’esproprio starebbe nel travestire da sentenza un “segnale”. Non siamo noi a ritenere che sia accaduto questo. Anzi. Vogliamo tenacemente credere il contrario. E la Cassazione avrebbe comunque ristabilito l’ordine delle cose. Ma è Palamara a dirlo. E Clivio non obietta. Quindi siamo costretti a porre la domanda: fu un “segnale”? E che cosa s’intendeva segnalare?

Il revival del jobs act da Bonomi a Gualtieri

Via il dente, via il dolore… c’è chi vorrebbe inaugurare presto la stagione dei licenziamenti di massa, rispettando la scadenza del decreto che li blocca solo fino al 17 agosto prossimo; o programmandoli a settembre, dopo le ferie. Secondo questa corrente di pensiero, mantenere fino alla fine dell’anno il blocco dei licenziamenti, come richiesto dalla Cgil, ostacolerebbe la riconversione delle aziende e prolungherebbe un’agonia che non giova nemmeno alle vittime predestinate. Tanto sono inevitabili. È un argomento drammatico, se ne parla sottovoce, c’è di mezzo la vita di tanta gente. Va ricordato che la politica era partita già col piede sbagliato, in materia di lavoro, nel marzo scorso. Quante volte ce l’han ripetuto in tv i leader degli opposti schieramenti: “Nessuno deve perdere il lavoro a causa del coronavirus”. Dubito che qualcuno ci abbia creduto. Personalmente, trovai autolesionistica l’insistita ripetizione di quella promessa impossibile da mantenere, degna semmai della cattiva propaganda dell’opposizione, e che invece fu solennemente rilanciata in conferenza stampa l’11 marzo a Palazzo Chigi da Giuseppe Conte, Roberto Gualtieri e Nunzia Catalfo: “Nessuno perderà il lavoro per il coronavirus”. Testuale. Fu Gualtieri a incaricarsi di ripeterlo nei tg. So bene che il politico italiano non paga pegno neanche quando contraddice impegni assunti tre mesi prima. Ma è preoccupante la leggerezza con cui gli uomini di governo – e in particolare quelli della sinistra – sottovalutano i guasti provocati da certe disinvolte rassicurazioni, palesemente insincere. È anche per via di questo vizio di dissimulazione che il legame storico fra sinistra e mondo del lavoro si è spezzato, sicché nessuno più crede che il Pd rappresenti gli interessi delle classi subalterne. Minimizzare i sacrifici necessari, negare le sconfitte subìte nella tutela e nella remunerazione del lavoro, è una pessima abitudine di scuola comunista, ereditata dal tempo dei “patti fra produttori”. Non mi ha stupito, perciò, leggere le dichiarazioni di segno opposto rilasciate da Gualtieri al Festival dell’Economia di Trento: “Nulla sarà come prima del Covid, non possiamo limitarci indefinitamente a prorogare cassa integrazione e blocco dei licenziamenti, i processi di cambiamento non possono essere congelati per troppo tempo perché poi esplodono tutti insieme”. Un bel salto, da marzo a giugno.
Si ripropone per l’ennesima volta, ma oggi in circostanze assai più drammatiche, una dichiarazione d’impotenza mascherata di buon senso: siccome la politica non è in grado di invertire le tendenze di mercato che penalizzano i lavoratori, allora meglio assecondare che mettersi di traverso. Già un anno prima del varo del Jobs act (cioè dell’invenzione del contratto a tutele crescenti e dell’abolizione dell’articolo 18 che imponeva la giusta causa per i licenziamenti), fu non a caso un ministro che proveniva dall’esperienza della Lega Coop, Giuliano Poletti, a firmare il provvedimento che anticipava la linea del governo Renzi: liberalizzazione dei contratti a termine senza causale e senza pausa obbligatoria, rinnovabili fino a otto volte (poi ridotte a cinque per le proteste sindacali). Oggi come allora la giustificazione resta la medesima: per attirare il lavoro nero fuori dalle paludi del sommerso, facilitiamo le assunzioni a termine e a chiamata, tolleriamo gli spin off aziendali, chiudiamo un occhio di fronte alla proliferazione delle false cooperative. Non basta. Per attenuare l’ingiusta disparità di trattamento fra questi proletari di serie B e i “garantiti” tutelati dallo Statuto dei lavoratori, autorizziamo orari elastici e ribassi salariali anche per i troppo fortunati. Sei anni dopo, conosciamo gli esiti della scelta di assecondare i processi spontanei nel mercato del lavoro: il lavoro povero ha conosciuto incrementi record e ha goduto di legittimazione istituzionale. Senza neanche che il sistema ne traesse vantaggi di crescita del Pil. È né più né meno quel che si richiede adesso, nel pieno della recessione Covid: sblocco dei licenziamenti e briglia sciolta nei contratti a termine. In altre parole, ripristino del Jobs act. Qui non ci troviamo di fronte solo all’estremismo padronale impersonato da Carlo Bonomi. È l’intera scuola economica bocconiana, nelle sue declinazioni liberiste e keynesiane, a sostenere che non ci sarebbero alternative. Vista la tegola che ci è caduta in testa, aiutiamo gli imprenditori a ricominciare. E se tratteranno peggio i loro dipendenti, e se ne manderanno a casa parecchi, pazienza, ci sta, sempre meglio della chiusura. Gualtieri pare adeguarsi a tale visione dogmatica che si pretende ineluttabile. Intervenire con mano pubblica su tassazione dei patrimoni, destinazione dei dividendi, condivisione dei profitti, passata la paura del Covid, torna a essere un’eresia.

Dal faraone a Netanyahu, le analogie sono sempre quelle (non smentite)

Moked, il portale dell’ebraismo italiano, continua a ciurlare nel manico. Una settimana fa scrissi: “Sono il solo a vedere la contraddizione tragica fra la Pesach, che celebra la liberazione degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto, e la schiavitù in cui l’Israele di Netanyahu tiene il popolo palestinese? E per evitare la solita manfrina: sei un antisemita se quei sei milioni ti hanno fatto piacere, non se critichi la politica di apartheid del governo Netanyahu”.

La mia analogia è fra le antiche vessazioni egiziane e le odierne vessazioni israeliane: fra il faraone e Netanyahu. Invece di replicare nel merito, Moked usò l’argomento del fantoccio, la fallacia argomentativa che consiste nel colpire un bersaglio inventato: “L’analogia proposta dallo stesso Luttazzi tra gli ebrei schiavi in Egitto e i palestinesi di oggi”. Inventato il bersaglio, Moked poté ricavarne l’apologo capzioso secondo cui “gli ebrei non chiesero al Faraone di vivere liberi in Egitto, ma di andarsene in Israele. Quindi basterebbe essere più precisi, facendo dire ad Abu Maazen, come Mosè ma, soprattutto, come Charlton Heston: ‘Let my people go’ (‘Fai partire il mio popolo’), il che implica che si sentano estranei al territorio che li ospita. “Risposi al loro pilpul (analisi, ma in questo caso sofisma) che “Considerare i palestinesi come ‘ospiti’ in Palestina è, come minimo, un lapsus freudiano. Haaretz, il più antico quotidiano israeliano, di orientamento liberal, definisce da anni la politica di Netanyahu ‘apartheid’, e la situazione palestinese ‘bantustan’, con ovvio riferimento al Sudafrica razzista pre-Mandela.”

Citavo inoltre il New York Times: “Israele è tuttora considerata una forza di occupazione, anche se ha tolto le sue truppe e i suoi coloni dalla Striscia nel 2005. Israele controlla ancora l’accesso all’area, l’import e l’export, e i movimenti di persone in ingresso e in uscita. Israele controlla lo spazio aereo e le coste di Gaza, e i suoi militari entrano nell’area a piacere. Come forza di occupazione, Israele ha la responsabilità di garantire il benessere della popolazione civile della striscia di Gaza (Quarta Convenzione di Ginevra).” Nella nuova rassegna stampa, Moked scrive: “Luttazzi rincara la dose e, citando come riferimento Haaretz, accusa apertamente la politica di Netanyahu di ‘apartheid’.” Lascio dunque la parola alla Corte Suprema di Israele (la notizia Ansa è di qualche giorno fa):

TEL AVIV – La Corte Suprema di Israele ha annullato come “incostituzionale” la legge del 2017 che avrebbe legalizzato insediamenti ebraici in Cisgiordania costruiti su terra privata palestinese. La legge “viola i diritti di proprietà e di eguaglianza dei palestinesi, mentre privilegia gli interessi dei coloni israeliani sui residenti palestinesi”. Riguarda circa 4.000 case costruite dai coloni. I giudici – la decisione è stata presa con 8 voti a favore e 1 contro – hanno anche stabilito che la legge non “fornisce sufficiente rilievo” allo status dei “Palestinesi come residenti protetti in un’area sotto occupazione militare”. La discussa legge era stata congelata nei suoi effetti dai molti ricorsi presentati da ong palestinesi e israeliane alla Corte. L’Avvocato generale dello Stato, Avichai Mandelblit, si era rifiutato di difenderla davanti alla Corte.