Da quattro anni l’Egitto non collabora

Nella storia dell’indagine sulla morte di Giulio Regeni c’è un solo momento in cui la collaborazione con gli investigatori egiziani risulta proficua. Dal 3 febbraio 2016 – giorno in cui viene ritrovato al Cairo il corpo torturato del ricercatore – dura meno di 12 mesi e si conclude a dicembre di quello stesso anno. Da quel momento, nonostante incontri e svariate comunicazioni, nulla si è mosso. Nei fatti non sono serviti gli annunci della politica che oggi si affanna sulla vendita delle due fregate Fremm all’Egitto. Un nuovo incontro, stavolta in videoconferenza, tra la Procura di Roma e quella del Cairo è fissato per il primo luglio. La speranza è che in questa sede vengano fornite risposte a domande che si trascinano da anni, contenute in una rogatoria che risale ormai al 28 aprile 2019. Con la difficoltà tipica delle indagini su soggetti di altri Paesi, il pm romano Sergio Colaiocco è riuscito a ricostruire alcuni dei pezzi del puzzle della morte di Giulio Regeni, iscrivendo nel registro degli indagati cinque 007 egiziani per sequestro di persona.

La risposta del Cairo negli anni ha fornito più devianti piste investigative che altro. L’unica collaborazione reale con Roma riguarda la conferma del collegamento tra il sindacalista Abdallah e la National Security. Sul tabulato del maggiore Sharif (uno degli indagati) “risulta una chiamata del sindacalista un quarto d’ora dopo che è finito il colloquio” tra Abdallah e Regeni, ha detto Colaiocco in Commissione d’inchiesta il 17 dicembre scorso. “Questo è il momento più intenso di collaborazione – ha aggiunto – e anche il più utile. Si conclude nel dicembre 2016 con l’incontro tra il procuratore Sadek e i genitori di Regeni”. Sadek poi va in pensione e vengono nominati i nuovi vertici. Il 14 e il 15 gennaio scorso il team di investigatori italiani si reca al Cairo per incontrare la nuova squadra che segue il caso.

Durante quell’incontro, ha spiegato il procuratore capo di Roma Michele Prestipino in Commissione il 6 gennaio scorso, “c’è stato uno scambio di informazioni (…). È stato fatto il punto della situazione, ma c’è stato anche un intervento del procuratore generale che ha sostanzialmente preso un impegno a rispondere, nei limiti consentiti dalla legislazione egiziana, alla rogatoria”. Da oltre un anno gli investigatori capitolini chiedono agli omologhi egiziani di chiarire alcuni punti. Ad esempio cercano conferme sulla presenza a Nairobi, nell’agosto del 2017, del maggiore Sharif, che secondo un testimone avrebbe raccontato delle “modalità del sequestro di Giulio” nel corso di un pranzo. Altro punto della rogatoria riguarda poi l’elezione di domicilio da parte degli indagati, passaggio fondamentale per poter notificare gli atti.

Due giorni fa, il premier Conte in commissione d’inchiesta ha spiegato di aver chiesto, in un colloquio telefonico del 7 giugno con il presidente Abdel Fattah Al Sisi, una “manifestazione tangibile di volontà” sul caso. Un segnale che il governo auspica nel prossimo incontro del primo luglio. Conte ha difeso la scelta di “intensificare” le relazioni con l’Egitto, non interromperle, come strumento per ottenere risultati. In questi quattro anni di indagini il silenzio del Cairo è rimasto una costante. E finora nessun governo è riuscito a far crollare quel muro di gomma.

Armi al Cairo e poi Regeni. E la Marina militare protesta

Ieri egiziani, oggi turchi. In una settimana l’Italia riesce a vendere fregate agli egiziani, preludio a una sinergia ben più vasta nell’industria bellica e poi a ergersi mediatore dei turchi, nemici giurati del regime del Cairo, per dipanare la contesa sui confini marittimi davanti alle coste di Cipro. Questa è la politica estera italiana, per alcuni ambigua, per altri scaltra, per la Farnesina multilaterale, che da sempre viene perpetuata e che Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri, ha rinnovato con il viaggio di Ankara e il colloquio con l’omologo Mevlut Cavusoglu.

Quando in ottobre il generale Al Sisi si è rivolto agli italiani per ammodernare la flotta navale e i mezzi aeronautici con una decina di miliardi di euro, il governo di Roma, assieme all’azienda statale Fincantieri, ha riflettuto sulle conseguenze geopolitiche, più che sulla collaborazione giudiziaria per stanare gli assassini del ricercatore universitario Giulio Regeni. È la politica, spesso tra i comodi scranni di opposizione, che ha sempre confuso i piani e che oggi, imbarazzata, cerca di confondere la pubblica opinione e dissociarsi da se stessa. Come ha ricostruito il Fatto consultando fonti governative, diplomatiche e aziendali, in ottobre Fincantieri viene sollecitata da Palazzo Chigi a cedere agli egiziani la coppia di Fremm, in origine prodotte per la Marina.

Le prime valutazioni riguardano la Nato e la Libia. La Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi sono navi studiate per una forza armata che fa parte dell’alleanza atlantica e senza prendere precauzioni, cioè senza una profonda conversione, non si possono dirottare al Cairo. Per tale ragione Fincantieri deve coinvolgere lo Stato maggiore della Difesa e il ministero guidato da Lorenzo Guerini. Lo Stato maggiore indica a Fincantieri quali segreti tecnologici occultare e dove ripulire le fregate. Il dem Guerini, un ministro che ha cordiali e costanti rapporti con gli americani, completa l’operazione preliminare e sospende il ritiro dal servizio di due navi e ne ordina altre due.

Capitolo libico. I turchi sono tornati a Tripoli, carichi di munizioni e di mercenari siriani, per rianimare il sofferente governo di Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale e appoggiato dall’Europa con le ambivalenze francesi, ma di fatto tenuto in vita da Ankara e dai qatarini. Il Cairo è sul fronte opposto, è il corridoio terrestre per rifornire le truppe di Haftar che da un anno, calate da Bengasi in Cirenaica, bombardano la capitale per rovesciare Serraj. E l’avanzata africana della Turchia di Erdogan, dal corno d’Africa al castello di Tripoli, col suo corollario di fratellanza musulmana e di cosiddetto islam politico, per l’Egitto è una minaccia capitale, come per gli emiratini che non hanno smesso mai di armare il maresciallo della Cirenaica. In questo scenario di tensioni multiple, economiche e pure religiose, l’Italia fa la scelta che fa più spesso: non sceglie. Per esempio non si aggrega a Egitto, Grecia, Francia, Israele contro le trivellazioni nel mare cipriota di Ankara, agevolate dal patto con Serraj.

Risolta la questione Nato, Roma tenta di lasciare la commessa bellica a un livello commerciale e industriale (Fincantieri si prepara a costruire i pattugliatori d’altura richiesti negli stabilimenti egiziani), anche se il Cairo affila le armi per fronteggiare i turchi non la sabbia del Sahara. Organizzata la cornice geopolitica, in febbraio Fincantieri domanda a Uama, l’Unità del ministero degli Esteri che autorizza le esportazioni di materiale militare, se può aprire le trattative con l’Egitto. Soltanto durante il negoziato viene informata la Marina italiana, che non viene soddisfatta dalle rassicurazioni del ministero della Difesa. Con i suoi più alti in grado e con lettere piccate al gabinetto del ministro, la Marina protesta con la Difesa perché chiamata ad adempiere a missioni internazionali con navi vecchie. La procedura, però, va avanti. Uama autorizza la chiusura dell’accordo dopo il consiglio dei ministri dell’11 giugno. E mentre Fincantieri si prepara a firmare il contratto con i militari egiziani e Di Maio va a visitare e rabbonire Ankara (il primo ministro europeo accolto in Turchia dopo il blocco per la pandemia), i partiti litigano per onorare la memoria di Regeni. Era il punto finito in fondo al copione.

Ci mancava ”la Repubblica” alle Scuderie del Quirinale

Ieri la redazione di Repubblica si è riunita sul colle più alto della Repubblica.

No, per il momento non nello Studio alla Vetrata di Mattarella, ma alle Scuderie del Quirinale: che ospitano la riaperta mostra di Raffaello, di cui il giornale è sponsor tecnico. Ad accogliere direttore e redazione è stato Mario De Simoni, l’amministratore delegato di Ales spa: la società inhouse del Mibact che controlla le Scuderie, quella che fornisce ai nostri musei la manovalanza degli “schiavi del patrimonio”.

In effetti era proprio ora che il giornalismo italiano andasse a mettere il naso in Ales: un intero mondo di precari e sfruttati sarà felice di leggere le inchieste che immancabilmente scaturiranno da questa incursione della libera stampa in quella insondabile centrale di potere parapubblico.

Nell’attesa ci si può domandare se Repubblica abbia pagato un canone per l’affitto di questo straordinario bene pubblico, e per l’ancora più straordinaria photo opportunity accanto a Raffaello.

E poi, ancora: è giusto sfondare quest’altra porta nell’infinita privatizzazione del patrimonio culturale di tutti noi? Dopo cene aziendali, addii al celibato e manifestazioni politiche (da ultimo la presentazione del libro di Renzi a Villa Borghese) siamo arrivati alle redazioni nei musei? Domani vedremo il Corriere della Sera riunito a Brera, La Stampa al Museo Egizio, il Mattino a Capodimonte e la Nazione agli Uffizi? Nulla rispetto a quando il Secolo d’Italia chiederà di riunirsi sotto l’obelisco di Mussolini al Foro Italico.

Propongo fin da ora a Marco Travaglio di prenotare il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, e di riunire la redazione sotto i Bronzi di Riace. Vista la tenacia con cui il Fatto Quotidiano tallona le facce di bronzo, direi che è proprio il posto giusto.

La storia? La scrive Giovanardi: “A Ustica nessun missile, in Rai si fa del depistaggio”

È bastato l’annuncio che la Rai sta per trasmettere un servizio con nuove rivelazioni a riaccendere una miccia lunga quarant’anni sul disastro aereo di Ustica del 27 giugno 1980 (81 morti). Un reportage, curato dal giornalista di RaiNews24 Pino Finocchiaro, che avvalorerebbe l’ipotesi che il Dc9 dell’Itavia si sia trovato nel bel mezzo di una battaglia aerea e che ad abbatterlo possa essere stato un missile, ha dato fuoco alle polveri. Scatenando l’ira dell’Associazione per la verità su Ustica, legata all’ex senatore Carlo Giovanardi, convinto, da anni, che a causare la tragedia sia stata, al contrario, una bomba piazzata a bordo dell’aereo. E che ha inviato ai vertici Rai e al direttore della testata, Antonio Di Bella, una lettera dai toni a dir poco intimidatori. Avvertendo che la messa in onda del servizio potrebbe configurare addirittura il reato di depistaggio.

Ma cosa racconta di così dirompente l’inchiesta di RaiNews24? Tutto parte dal materiale in possesso del sito stragi80.it e in particolare l’audio estratto dal Cockpit Voice Recorder, la scatola nera del Dc9 precipitato con le registrazioni delle comunicazioni via radio e tra i piloti. In un passaggio è incisa una parola monca, “Gua…”, pronunciata da uno dei due membri dell’equipaggio in cabina di pilotaggio. Poi il silenzio. La Rai, grazie alle ultime tecnologie disponibili, ha ripulito la registrazione, escludendo i rumori: ne sarebbe venuta fuori una frase di senso compiuto: “Gua…” diventerebbe “Guarda cos’è”. Una prova che dalla cabina, qualche istante prima che l’aereo precipitasse, i piloti (o almeno uno dei due) videro qualcosa di strano. Un elemento inedito che potrebbe dare un nuovo corso alle indagini. Ma che ha scatenato la dura reazione dell’Associazione per la verità su Ustica. Che nella missiva di fuoco inviata ai vertici di Viale Mazzini non solo sostiene che è “lecito dubitare fortemente che tale audio originale, agli atti del processo penale, sia oggi in possesso del sito stragi80.it”, che “non è chiaro come sia stato possibile, sotto il profilo tecnico, ‘ripulire’ un nastro”, ma arriva ad avvertire che “la trasmissione rischia… di incorrere nelle ipotesi di depistaggio”.

Una presa di posizione cui è seguita la replica del curatore del sito. “Ci limitiamo a dire che gli audio originali del Cvr sono a disposizione di tutti dal ’90 – ha precisato il giornalista Fabrizio Colarieti –. Sentirci additati come potenziali depistatori ci lascia perplessi. La Digos lo ha acquisito, c’è un’inchiesta e auspichiamo che la Procura di Roma ordini una nuova perizia sulla scatola nera”. Intanto al giallo di Ustica potrebbe aggiungersene un altro: se il reportage di Finocchiaro andrà in onda è al momento un mistero.

Il viaggiatore Sgarbi, al di sopra di ogni Covid

Che fuoriclasse Vittorio Sgarbi. Gli va riconosciuta l’onestà intellettuale: per lui il Covid non esiste. Il critico d’arte – a tempo perso parlamentare di Forza Italia – non solo rivendica di non portare la mascherina, ma gli è concesso di sorvolare pure le norme sulla quarantena.

Di recente Sgarbi è stato in Albania: al ritorno sarebbe dovuto rimanere in isolamento per 14 giorni. Per legge chiunque rientri in Italia da uno Stato extra Ue e fuori dalla zona Schengen – come appunto l’Albania – deve sottoporsi a “isolamento fiduciario” per due settimane. Sgarbi invece è tornato a Roma fischiettando e dividendosi subito tra salotti televisivi e scranni parlamentari. Deve avere una particolare condizione giuridica, a prova di pandemia. Lui dice di non saperne niente: “Sono rientrato su un volo privato, nessuno mi ha detto che avrei dovuto fare una quarantena, lo apprendo da lei”. Secondo Sgarbi lo status di deputato lo renderebbe estraneo alla norma che vale per i cittadini comuni: “Abbiamo ricevuto un sms da Fico e Casellati, i parlamentari hanno piena libertà di circolazione”. In Italia, però. E solo “per la rappresentanza dei territori e le funzioni istituzionali”. Gli onorevoli non figurano tra le eccezioni all’obbligo di quarantena, che comprende invece “funzionari e agenti dell’Unione europea, di organizzazioni internazionali, personale delle missioni diplomatiche e dei consolati, personale militare nell’esercizio delle loro funzioni”.

Insomma Sgarbi doveva restare a casa. Invece insiste: “Ero in Albania per una missione istituzionale”. Le cronache però ce lo mostrano in spiaggia, in costume da bagno. E vittima di uno spiacevole incidente, che Vittorione al rientro in Patria ha subito raccontato a Barbara D’Urso: “Ho rischiato di annegare, sono vivo per caso”. È stata la figlia Alba ad aiutarlo a non soccombere alle onde: anche lei, evidentemente, partita per l’Albania in rappresentanza del popolo italiano.

L’extraterrestre imperdonabile per il successo

“Di sceneggiatore, molto; di pubblicitario, molto meno. Quello della pubblicità è stato il mio primo lavoro, avevo 19 o 20 anni e sì, ho iniziato da editor e sono diventato direttore creativo; ho imparato molto e mi guadagnavo molto bene la vita… Molti scrittori – come Don Delillo – hanno lavorato nel mondo della pubblicità perché si tocca la letteratura. È così che ho imparato a vedere il linguaggio, le parole in immagini. Ma ciò che più colpisce la mia opera e non si dice mai è il mio lavoro nel cinema”. E nel mondo del grande schermo, dalla sua villa di Los Angeles, ha scritto i suoi ultimi giorni il romanziere spagnolo Carlos Ruiz Zafón: best-seller da 25 milioni di copie in 40 Paesi, scomparso ieri a 55 anni per un cancro. Diventato famoso con la tetralogia L’Ombra del vento, non amava ascrivere la sua opera a nessuna scuola letteraria. Zafón “l’extraterrestre” prende da tutto, dal suo primo amore, i libri per ragazzi, fino a Orson Welles. Un universo creativo mai chiuso. Lui che amava la letteratura fino a farne ragione e protagonista della sua scrittura: lì, nel “mondo dei libri dimenticati” mette coloro che li amano, coloro che li odiano e i mercanti di letteratura. Eppure di quel mondo diceva: “Di letterario ha un 1%, il 99% è salotto”. Il suo “amico”, l’altro cantore di Barcellona, nato catalano come lui, Eduardo Mendoza l’ha definito “una cometa con un’orbita singolare”, che di punto in bianco si “è infiltrato nel mondo del romanzo spagnolo senza che nessuno potesse spiegarsi quel successo, diventando dalla sera alla mattina un fenomeno universale”. Tutto sulla base “di un mondo personale carico di artifici eppure pieno dell’innocenza e della nostalgia per la sua infanzia a Barcellona e delle estati felici sulla spiaggia di Sant Pol”. Tra lui e la Spagna aveva messo chilometri, lì, in patria, destino dei best-seller, pochi colleghi ne avevano compreso il successo, e “nessuno gliel’aveva mai davvero perdonato”. Almeno finché non è morto.

Zanardi investito da un Tir: trauma cranico. Operato d’urgenza, condizioni gravissime

Forse una manovra azzardata, poi l’invasione nella corsia opposta e lo scontro con un camion. Così è avvenuto, intorno alle 17 di ieri, l’incidente che ha coinvolto l’ex pilota di Formula 1 Alex Zanardi, la cui vita era cambiata nel 2001 dopo un incidente sulla pista tedesca di Lausitzring in cui aveva perso le gambe. Campione paralimpico e simbolo dello sport italiano, Zanardi stava partecipando con la sua handbike alla staffetta “Obiettivo tricolore”, in cui 50 atleti paralimpici si stavano passando il testimone da Como fino a Santa Maria di Leuca. Zanardi chiudeva il gruppo di corridori in handbike nella tappa della Val d’Orcia, con partenza a Sinalunga e direzione a Montalcino, in provincia di Siena. L’impatto è avvenuto in discesa: Zanardi sarebbe scivolato nella corsia opposta e poi investito da un autocarro, provocandosi un forte trauma cranico. Il campione è stato portato in gravissime condizioni all’ospedale le Scotte di Siena dove è stato sottoposto a un intervento neurochirurgico che è durato poco più di un’ora: è ricoverato in terapia intensiva.

Il confronto tra i medici

 

Ottimisti

“Un caso positivo non è un malato, stop distanziamento”

“È ora di ribadire una cosa: un paziente positivo non è malato. E il numero giornaliero dei contagi non ingrossa le file dei malati. Punto”. Alberto Zangrillo, direttore delle Unità di anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare dell’ospedale San Raffaele di Milano, nonché storico medico di fiducia di Silvio Berlusconi, è il capofila degli “ottimisti”. Ieri in un’intervista a Qn ha ribadito la sua posizione: il riscontro clinico è “l’unica sentinella che fa testo” e “l’ultimo paziente entrato nella terapia intensiva del San Raffaele risale al 18 aprile”. E ancora: “L’ultimo positivo al virus ricoverato in reparto ordinario, con una sintomatologia semplice, è di 10 giorni fa. I miei dati sono questi. E se li confronto con quelli dei colleghi di altri ospedali, il risultato è identico. Basandomi sull’osservazione, già due mesi fa ho avuto la consapevolezza che stesse succedendo qualcosa. Il Covid c’è ancora, non è mutato, ma l’interazione virus-ospite non dà più la malattia. I tamponi più recenti hanno mostrato una carica virale di gran lunga attenuata rispetto ai prelievi di 1-2 mesi fa”. Quanto alla temuta seconda ondata dell’epidemia, “non è affatto detto che arriverà”, osserva. Ma nel caso arrivasse, “ora abbiamo le cure giuste da mettere in campo e i fattori ambientali giocano inoltre a nostro favore: raggi ultravioletti e temperature alte lo indeboliscono”.

Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, invece, ha parlato al Corriere della Sera: “Stiamo per pubblicare uno studio che contiene alcune informazioni utili per capire”, da cui emerge che ci sono nuovi casi di positività “con una carica virale molto bassa, non contagiosa: li chiamiamo contagi, ma sono persone positive al tampone. L’Istituto superiore di Sanità e il governo devono rendersi conto di quanto e come è cambiata la situazione da quel 20 febbraio ormai lontano. Non ha senso stare a casa, isolare, così come non è più troppo utile fare dei tracciamenti che andavano bene all’inizio dell’epidemia” e “non bisogna confondere il numero di tamponi con l’andamento dell’epidemia”.

 

Pessimisti
“Di nuovo in crescita, rischiamo un’estate chiusi in zone rosse”

“La discesa dei casi si è fermata, mentre dovevamo approfittare, nei giorni in cui il virus fatica maggiormente a circolare, per avvicinare allo zero la sua presenza”. Questo è invece l’allarme lanciato ieri sul Messaggero da Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Medicina molecolare dell’Università di Padova: “I nuovi casi sono costanti, non diminuiscono da settimane”. E “qualcosa non sta funzionando: non si sta facendo il tracciamento dei casi, non li si sta cercando e isolando, perché altrimenti il calo sarebbe proseguito. Questo virus è sensibile al fattore climatico, ma questo fa aumentare i timori per l’autunno-inverno. Avremmo dovuto sfruttare queste settimane per portare vicino a zero i positivi, in modo da ridurre al massimo la base di infetti per quando tornerà il freddo e la situazione climatica sarà favorevole al virus. Non ci stiamo riuscendo. Se ababiamo 300 casi, gli infetti da trovare sono 700 e non vengono trovati. In Lombardia come mai non riescono a individuare tutti i casi? Non stiamo facendo la cosa giusta: il tracciamento”.
Fabrizio Pregliasco, virologo della Statale di Milano, invece, ha condannato su La Stampa i festeggiamenti a Napoli per la Coppa Italia e attacca: “Sono comportamenti sciagurati, che potrebbero finire per rovinarci l’estate”. E “gli assembramenti in piccole località di mare”, in particolare, “prima o poi finiscono per accendere focolai che potrebbero farci passare le vacanze reclusi in una zona rossa”. E sull’immunità di gregge Pregliasco appare certo: “È una chimera, in attesa del vaccino bisogna rispettare le regole per non trovarci al punto di partenza”. Ma il nuovo coronavirus è mutato? Per Pregliasco “a oggi sembra di no, anche se attendiamo di capire quanto sia diffusa la variante individuata a Brescia, che in vitro mostra una minore capacità di replicazione; ma se il virus genera meno casi gravi è perché oggi riusciamo a far emergere anche asintomatici. Mascherine e distanziamento hanno fatto la loro parte. Ma attenzione: anche se inalato in piccole quantità il virus attecchisce. E può causare danni”.

Fase tre, liberi tutti? Ma così è un po’ troppo

Liberi tutti? L’impressione, specie dopo i festeggiamenti in piazza a Napoli per la vittoria in Coppa Italia, è che gli italiani – ligi durante il lockdown – abbiano preso poco sul serio le fasi successive. Ma davvero abbiamo abbandonato ogni precauzione contro il Covid? Abbastanza, ma non del tutto.

Milano L’autodisciplina a Milano è la prima regola. Certo, con qualche eccezione, come il liberi tutti serale per lo spritz: calano le cautele e anche le mascherine. Ma il capoluogo lombardo ha saputo adattare rapidamente le sue abitudini: “Ormai non ci faccio più caso – racconta Gianna Barbini, pensionata – quando vado al supermercato mi fanno l’autovelox”, che poi sarebbe la misurazione della temperatura senza neanche fermarsi. E pare normale, salvo nelle ore di massima congestione, sedersi distanti sul bus e sulla metropolitana. È normale entrare a turno in banca e nei negozi. Spalmarsi il gel all’entrata e all’uscita. “Finisco la giornata che ho due centimetri di disinfettante sulle mani”, scherza Gianna, 77 anni. Speriamo che basti: il virus è ancora qui (ieri su 6.228 test altri 157 positivi con una percentuale record del 2,52%).

Torino Movida a maglie più larghe rispetto alle scorse settimane, ma con centinaia di vigili e poliziotti pronti a controllare le piazze di Torino in vista non solo dei weekend, ma della festa di San Giovanni, patrono della città (24 giugno), evento che potrebbe attirare in strada migliaia di persone. La sindaca Chiara Appendino ha firmato un’ordinanza che da un lato lascia un po’ di respiro ai locali – chiusura alle due – dall’altro cerca di arginare il fenomeno dei minimarket che spesso vendono alcol ai minorenni proseguendo il divieto di vendita per asporto di alcolici e superalcolici dalle 21. Stop anche ai distributori automatici con divieto di vendita dalle 21 alle 6. Per chi viola le ordinanze la sanzione minima è di 400 euro, fino a un massimo di mille euro. Per agevolare il distanziamento sociale la sindaca ha pedonalizzato la zona di lungopo Cadorna, cuore della vita notturna del centro. Stop alle auto quindi per almeno due weekend.

Genova Gli immigrati ce l’hanno quasi tutti, la mascherina. Forse per sentirsi uguali e parte della comunità; per mostrare che rispettano le regole. Ma a Genova la maggioranza delle persone circola ancora con la protezione: vero, c’è chi la indossa a mezz’asta, magari sotto il mento. Osservando per strada – un dato senza pretese di precisione statistica – si contano 67 persone su cento con la mascherina indossata, 23 che la portano in modo scorretto o la tengono in mano, e dieci invece del tutto prive di cautele. Nonostante la riapertura pressoché totale, in città si nota ancora molta attenzione: entrate scaglionate nei negozi, clienti a distanza di sicurezza, e ovunque gel disinfettante a portata di mano. Cura e attenzione (seppure in calo) anche in ristoranti e bar, alle Poste o nelle stazioni: a Porta Principe, principale scalo ferroviario genovese, chi entra deve farsi misurare la temperatura. Sui treni a lunga percorrenza vengono distribuiti kit. Certo, poi a volte la situazione scappa di mano: su alcuni convogli regionali per pendolari è dovuta intervenire la polizia ferroviaria per evitare situazioni pericolose. Stessa scena sui bus all’ora di punta. E poi ci sono le spiagge. Ma anche qui non mancano i vigili urbani che controllano e in alcuni casi multano chi esagera.

Bologna Privata degli studenti e dei turisti da weekend, Bologna si risveglia vuota e silenziosa. Serrande abbassate per molti ristoranti, bar con pochi avventori, ancora chiuse le storiche discoteche Peter Pan e Matis. Poco popolate anche le piazze in centro per effetto dell’ordinanza del sindaco Merola, che ha vietato la vendita d’asporto d’alcool dalle nove di sera: resiste solo il Pratello, la via bohemienne piena di locali dove nacque Radio Alice. Gli unici assembramenti che si possono temere sono quelli degli “umarells” – gli uomini in età pensionabile che passano il tempo a guardare i cantieri – abituati a ritrovarsi nei tanti circoli del territorio. Niente carte o partite a bocce però, per adesso rimane tutto fermo. Troppo fresco il ricordo del focolaio a Medicina con più di 50 casi nato proprio dentro una bocciofila. La movida è lontana, sui treni per Rimini: giovedì mattina il capotreno di un regionale Bologna-Ancona ha dovuto far scendere una trentina di passeggeri perché le carrozze erano troppo piene.

Toscana Da ieri sera in Versilia i giovani sono tornati a ballare. Hanno riaperto il “Maki Maki” di Viareggio e il “Beach Club” di Forte dei Marmi. Il tutto con obbligo di mascherina, prenotazione del tavolo e distanziamento sociale. Fuori, invece, la movida della costa toscana non conosce regole e – rispetto al caso di Napoli – non c’è nemmeno una coppa da festeggiare. Lo scorso fine settimana bastava girare per i locali del lungomare di Marina di Carrara per accorgersi che il distanziamento sembra un lontano ricordo e che le mascherine ormai vengono usate per lo più come foulard. Stesso discorso per la Versilia – da Forte dei Marmi a Pietrasanta passando per Viareggio – fino a Livorno dove, durante il giorno, gli stabilimenti e gli scogli di Calafuria sono presi d’assalto da persone senza alcuna protezione. A Firenze invece è tutto tornato come l’èra pre-covid: dal venerdì alla domenica piazza Santo Spirito, Sant’Ambrogio, Santa Croce e l’Oltrarno sono prese d’assalto con la riapertura dei locali. Poche mascherine e di distanziamento nemmeno a parlarne.

Roma La movida è già ripartita. E a breve seguirà anche la “Nuova Estate Romana”. I locali di Trastevere, Ponte Milvio, San Lorenzo e Rione Monti già da giovedì sera si sono popolati di giovani, sfruttando anche il “liberi tutti” che il Campidoglio ha voluto sui tavoli all’aperto. Una movida abbastanza ordinata, anche se non sono mancati gli “assembramenti”. Ieri la sindaca Virginia Raggi e il suo vice Luca Bergamo, hanno presentato “Romarama”, la nuova versione della tradizionale Estate Romana, con il ritorno – a ingressi contingentati – dell’Auditorium Parco della Musica e tanti eventi anche in periferia. Rimangono alcune limitazioni. Le corse taxi restano ridotte del 50%, mentre continuano i controlli della Polizia Locale a tutte le attività commerciali e turistiche. Annunciato l’azzeramento dei canoni per i centri sportivi comunali.

Calabria I numeri dell’emergenza coronavirus stanno consentendo alla Calabria una fase 3 tutto sommato tranquilla. Nei locali si entra sempre con la mascherina, ma da ieri si potrà riprendere a frequentare le sale da ballo e le discoteche. Dal 15 giugno, inoltre, la Regione ha riaperto i mercati, le palestre ed è ufficialmente iniziata la stagione per gli stabilimenti balneari. Anche se inferiori a quelle di altre regioni italiane, però le restrizioni ancora ci sono: chi viene in Calabria non dovrà più fare la quarantena, ma ha comunque l’obbligo di registrare il suo arrivo. I divieti di assembramento sono sempre validi. Lo hanno “scoperto”, a loro spese, i sei tifosi della Reggina identificati dalla questura per aver festeggiato, il 12 giugno, la promozione in serie B. Sul lungomare di Reggio Calabria hanno partecipato in centinaia e si erano creati assembramenti. Pochi giorni dopo, sei tifosi sono stati convocati in questura dove gli è stata notificata una sanzione amministrativa di 400 euro.

Sicilia Il lockdown e i posti di blocco a tappeto? Solo un lontano ricordo. Le mascherine? Abbassate al mento per il caldo. La ripartenza in Sicilia ormai da qualche settimana offre lo spartito del liberi tutti. Una rilassatezza generale a cui si aggiunge l’annuncio del governatore Nello Musumeci dell’imminente dichiarazione di isola Covid-free. Il drastico calo degli attuali positivi – rimasti per diversi giorni a quota 800 e poi scesi improvvisamente a 157 – ha fatto emergere pure un clamoroso errore di calcolo, dovuto alla trasmissione dei dati dalle aziende sanitarie alla Regione. La stagione balneare ha riaperto i battenti con alcune prescrizioni, spesso ignorate, che prevedono il distanziamento di un metro tra gli utenti e una superfice di almeno dieci metri quadrati per ogni ombrellone. Il fine settimana tuttavia resta il momento cruciale in cui si registrano i maggiori assembramenti. A Catania nelle ultime settimane sono già dieci i locali chiusi per violazioni delle direttive anti-contagio.

Ritardi, personale e tamponi: i medici lombardi bocciano Fontana e Gallera

Ritardi nell’inviare alle Ats le istruzioni per l’utilizzo dei tamponi, il tracciamento e l’isolamento dei positivi e dei loro contatti. In pratica l’abc dell’attività di contenimento in caso di pandemia. Ma anche le difficoltà organizzative create dalla legge 23/2015, la riforma varata dalla giunta Maroni che ha creato il cosiddetto “modello Lombardia”. I dirigenti medici delle 8 “Agenzie di tutela della salute” interpellati dalla Anaao Assomed puntano il dito contro il Pirellone per come ha gestito l’emergenza Covid-19.

Il 66,4% dei 113 coordinatori che hanno risposto ai 17 quesiti posti nella ricerca intitolata Le Ats al tempo della pandemia: l’opinione dei dirigenti sanitari accusano la Regione di non essere stata abbastanza veloce nell’impartire istruzioni sia sullo svolgimento dei test che sulle modalità di tracciamento e isolamento dei casi, con la messa in quarantena dei contatti dei positivi. Operazione fin dall’inizio indicata come vitale per evitare la diffusione del virus.

Fondamentale almeno quanto l’utilizzo dei tamponi. Anche su questo punto la gestione del Pirellone ha lasciato a desiderare: alla domanda sulla “inadeguata azione nell’effettuare i test” rilevata da virologie ed epidemiologi il 62,2% ha risposto che la causa è stata “l’assenza di indicazioni chiare”, per il 47,7% la “mancanza di tamponi” e per il 46,8% la “mancanza di personale”. Solo l’8% dice che “l’isolamento è iniziato subito”.

Quasi 6 dirigenti su 10 (il 57,6%) sostengono, poi, che “l’enorme pressione sugli ospedali”, investiti dalla fine di febbraio dall’ondata di ricoveri dovuti alle polmoniti interstiziali da Covid-19, ha influito “rendendolo maggiormente difficoltoso sul compito delle Ats”, i nuovissimi otto “cervelli” sanitari della Regione (Città Metropolitana di Milano, Insubria, Brianza, Bergamo, Brescia, Pavia, Val Padana e Montagna) nati al posto delle vecchie Asl con la legge 23, la riforma varata da Maroni.

È il punto in cui l’analisi dell’Anaao si allarga al “modello Lombardia”, creato nella sua ultima versione proprio dalla legge approvata l’11 agosto del 2015, che prometteva una medicina territoriale capillare e un percorso personalizzato per ognuno del 3,5 milioni di pazienti cronici della Regione. Al posto delle 15 Asl (cui era affidata l’assistenza territoriale) sono nate le 8 Ats e l’attività di erogazione delle prestazioni delle prime, comprese le vaccinazioni e le certificazioni, è passata alle 27 Asst (Aziende Socio-Sanitarie Territoriali). Nel pieno della bufera Covid i problemi sono arrivati proprio dalla “suddivisione dei compiti di prevenzione fra Ats e Asst”: il 54% degli intervistati ritiene la suddivisione “non chiara”, il 28% pensa che lo sia solo in parte mentre solo l’8% non ha problemi a interpretare la legge. Giudizio negativo anche sulla “enorme estensione territoriale delle Ats”, che per il 67% ha influito “sulle difficoltà di rispondere all’emergenza”.

Stesso discorso per la gestione del personale: alla luce della bufera Covid, la divisione dei dipendenti del Dipartimento di Prevenzione delle ex Asl fra Ats e Asst è “errata” per il 71%, e corretta per meno del 3%. Ma per il 72% è una scelta sbagliata anche “in tempi di normalità”. Il 76,9%, infine, è convinto che le Asl avrebbero gestito meglio la pandemia.

Ieri la Lombardia, dove è caduto l’obbligo di indossare i guanti sui mezzi pubblici, ha registrato 157 dei 251 nuovi contagi comunicati dalla Protezione civile e il suo indice di contagio Rt è in discesa a 0,82, superato da quello del Lazio, a quota 1,12. Un valore, per l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato, “legato ai focolai già chiusi (Garbatella e San Raffaele Pisana, ndr)”.

Ora le preoccupazioni riguardano l’aspettativa di vita: nel Nord-ovest e lungo la dorsale appenninica, “si passerebbe da una speranza di quasi 84 anni a una di circa 82”, rileva l’Istat. E tutto ciò nell’ipotesi “moderata”, intermedia tra lo scenario “ottimista” e quello “pessimista”.