“Resto con Silvio, ma porto voti a De Luca e Mastella”

Lei è il perfetto politico omnibus.

La sua definizione mi trova consenziente. Mi sta a pennello.

Chi non conosce Aldo Patriciello, re delle cliniche molisane e soprattutto mangiavoti come più nessuno ormai in Italia, non sa cos’è la politica e non conosce gli italiani.

Effettivamente i miei novantamila voti dimostrano la particolarità dell’azione politica. Diciamolo sinceramente: come me non c’è nessuno.

Lei è l’umanista della pratica, il sillabatore delle necessità quotidiane, il disciplinatore della clientela.

Organizzo la mia attività non precludendo l’altrui ideologia o passione o anche opzione.

Io sono comunista.

Tu resta comunista però quando c’è Patriciello candidato lo voti.

Io sono fascista.

Assolutamente niente contro la destra, l’unico piacere è poterti annoverare tra i miei elettori.

Io sono ateo.

Madonna mia, anche qui porte aperte.

Infatti Patriciello è una forza della natura.

Posso ritenermi d’accordo anche su questo termine. Essere dialogante è la mia natura e così la mia natura diviene anche la mia forza.

Per gli sfortunati che ancora non lo sanno: è europarlamentare di Forza Italia da moltissime legislature.

Copro il Sud e mi tengo lontano dalle polemiche, dai nervosismi, dalle televisioni. Io sto a Bruxelles e a Venafro. Chi vuole mi trova.

Essendo l’onorevole Patriciello proprietario di Neuromed, un istituto di alta specializzazione, è anche imprenditore della sanità che in politica non guasta.

Ma qui parliamo dell’uomo.

All’uomo, all’umanista, in tanti fanno voti perché interceda. Asseconderà anche la campagna elettorale per De Luca in Campania, benchè lo sceriffo ari il campo avverso al suo.

Qui c’è da puntualizzare. Flora Beneduce, mia cara amica e consigliere regionale di Forza Italia, ha lasciato il partito e si è fatta una sua lista con la quale sostiene De Luca.

Beneduce, vedova di Armando De Rosa, ras delle clientele democristiane.

Conosco Flora e certo ricambierò il favore nello spirito di amicizia. Perché, come lei ricorda, io sono e resto eurodeputato di Forza Italia.

Si parlava di un suo passaggio con Matteo Renzi.

Ma assolutamente no. Io ho un solo simbolo, sono come dire un uomo-partito.

Secondo i miei calcoli almeno dodici sono i candidati che cercheranno il suo aiuto in Campania per le prossime Regionali.

Non dice il falso. La metà di centrodestra e l’altra di centrosinistra.

Mastella promuove una lista per De Luca.

E Clemente è un amico.

Ma Sandra, sua moglie, è di Forza Italia.

Però resta l’antica amicizia con Clemente.

Lei non guarda ai simboli.

Bravissimo.

Arraffa i voti come Salvini fa con le ciliegie.

La mia traiettoria è nel segno della interpersonalità.

E dell’interclassismo.

Esatto. Destra, sinistra, centro per me pari sono.

Apprezzerà Giuseppe Conte allora. Anch’egli è un po’ democristiano, un po’ super partes.

Dovrebbe parlare un pochino di meno e fare un pochino di più. Però è il leader del futuro.

Espongo il seguente timore: Forza Italia non ha la stessa resistenza di Aldo Patriciello.

È un pizzico su nei sondaggi.

Ma è lì lì per afflosciarsi.

Mi dispiacerebbe molto, è stata una casa ospitale e piena di riguardo.

Le ha fatto fare quello che voleva.

Stare con tutti. Omnibus, come dice lei.

Vuol dire come si è fatto votare alle ultime Europee?

C’era da fare l’accoppiata con una donna in lista per via delle quote rosa. Ma mi sembrava più una confusione che altro. Allora ho detto: voi votate me, solo me. La gente s’imbroglia (si confonde, ndr) in cabina, con troppi nomi.

Lei è spettacolare.

Sono fatto così. Amico con tutti. Vuole chiamarmi? A qualunque ora rispondo. Sempre.

La clientela come sostituto funzionale dell’amicizia.

Se faccio votare un po’ di qua e un po’ di là è solo per non scontentare nessuno. Si ricordi però che sono di Forza Italia.

Ma non passa con Renzi.

E che ci vado a fare? Non per dire, ma i voti li tengo per me.

Mi sembra inattaccabile il suo punto di vista.

Credo nell’umanesimo, nell’umanità.

Deputato omnibus.

Definizione che rende l’idea.

“Sono innocente perché ormai Forza Italia non conta nulla”

A sentire lui un’epoca è finita pure se è lecito dubitare che lo creda per davvero. Il senatore di Forza Italia, Luigi Cesaro, giura di contare ormai poco o niente in Campania. E che il suo peso specifico è ridotto a un pizzico anche perché ormai il partito di Silvio Berlusconi, a cui appartiene, è “una forza minoritaria”. Certo, il fatto che Giggin ’a Purpetta sostenga di essere parte di un mondo in declino, sa tanto di parere interessato. Lo ha sostenuto nella memoria che ha presentato alla Giunta del Senato che avrebbe dovuto decidere se dare semaforo verde agli arresti domiciliari chiesti nei suoi confronti dai magistrati di Torre Annunziata, se non fosse che nel frattempo il Riesame ha annullato la misura cautelare. Ma tant’è.

Lui aveva già scritto a Palazzo Madama per difendersi dall’accusa di aver favorito un imprenditore che poi gli avrebbe allungato 10mila euro oltre a favorire l’elezione di suo figlio Armando. Catapultato a Palazzo Santa Lucia nel 2015 con una valanga di voti che sono valsi a Cesaro senior più di un’accusa per aver brigato illegalmente a questo scopo: promesse di ogni genere, posti di lavoro, commesse e appalti mobilitando persino i suoi fratelli imprenditori, come gli hanno contestato altri magistrati, quelli del tribunale di Napoli nord. Ma questa è un’altra storia o forse la stessa perché nella memoria alla Giunta ha adombrato il sospetto che gli inquirenti campani abbiano tutti il dente avvelenato con lui, forse per il “deludente esito di altre indagini a suo carico”. Ma non è tutto: nella difesa di 85 pagine si proclama non solo innocentissimo di fronte a tanto accanimento da parte dei magistrati campani che si ostinano a dargli la caccia. Ma soprattutto sostiene l’inconfessabile per un ras del suo calibro. Ossia “l’assoluto ridimensionamento della sua capacità di incidenza a livello locale”. Che fa il paio con l’inversione del peso istituzionale di Forza Italia con “inevitabili ricadute in termini di capacità di determinare le scelte amministrative, nazionali e locali”.

Bestemmie & cazziatoni. È Casellati show al Senato

Il fatto resta tutto politico. Anche se l’errore tecnico c’è stato eccome e ha mandato in tilt Palazzo Madama: la defaillance informatica sul voto di fiducia al decreto “Elezioni” ha subito fatto scattare la caccia al colpevole, ma ha innescato pure un poco onorevole scaricabarile.

Alla fine il provvedimento è stato licenziato nella tarda mattinata di ieri, ma dopo ore di concitazione seguite all’annullamento dello scrutinio di giovedì sera, quando ormai i senatori erano già tutti partiti per fare ritorno a casa.

Costretti a rimettersi in autostrada o in treno, chi in aereo nella notte o alle prime ore dell’alba con la paura di non arrivare in tempo per l’aula convocata alle 9.30 della mattina. Dove c’è stata la resa dei conti, un tutti contro tutti: “Mi assumo la responsabilità, ma c’era la senatrice Taverna al mio posto”, ha cercato di smarcarsi subito la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, replicando alla accusa di Primo Di Nicola del Movimento 5 Stelle. Che le ha chiesto conto dell’accaduto e soprattutto di non scoraggiare sufficientemente i trabocchetti dell’opposizione. Quelli di cui Roberto Calderoli, che il regolamento del Senato lo conosce come le sue tasche, è maestro incontrastato.

La presidente ha accusato il colpo, ma poi ha perso decisamente le staffe: la moviola impietosa dell’aula l’ha ripresa mentre maltrattava chiunque le capitasse a tiro.

A farne le spese sono soprattutto gli assistenti assiepati attorno a lei, accusati in malo modo di non fare il loro dovere: vigilare e intervenire per censurare, per esempio, chi scatta foto in aula. A un certo punto le è sfuggita pure una bestemmia: “Per Dio. Siete qua come pupazzi o volete parlare?”. Proprio lei, che la scorsa settimana aveva scortato in elicottero la statua di Sant’Antonio in quel di Padova, sua città natale. L’imprecazione, curiosamente, viene “censurata” dal resoconto stenografico del Senato e ignorata dalle agenzie di stampa (ma non dai siti dei giornali, gli unici a dare la notizia).

Ma riavvolgiamo il nastro. Cosa è davvero successo giovedì sera a Palazzo? Il fattaccio è accaduto per una serie di circostanze, determinate anche dalle procedure più complicate per via del distanziamento imposto dal coronavirus: alla fine i senatori che hanno votato in aula non sono stati sommati correttamente a quelli che avevano votato con i tablet dalle tribune. O meglio: in un primo momento non erano stati scomputati due leghisti che avevano partecipato a un precedente scrutinio elettronico e che hanno inciso sul conteggio del numero legale. Per questo motivo Palazzo Madama ha già mandato una diffida alla società esterna che gestisce l’appalto, la Eurel, a cui ora è contestato il grave inadempimento contrattuale. Ma ovviamente un episodio di questo genere non può essere liquidato a un fatto tecnico. Perché Calderoli si è accorto della falla e ci ha messo lo zampino. E per il futuro già annuncia di volerci riprovare con altri tiri mancini.

“Calderoli è una vecchia volpe che ha saputo trovare un varco nel regolamento del Senato e poi sul numero legale, cercando di metterci in difficoltà. Lo voglio ringraziare perché ogni volta che vorrà alzare l’asticella della sfida parlamentare, ci troverà pronti a superare il nostro limite”, cerca di sdrammatizzare il ministro Federico D’Incà dimostrando una certa dose di fairplay. Che però fa a cazzotti con lo sconquasso dovuto alla paura della maggioranza di non raggiungere i numeri richiesti al momento della resa dei conti di ieri.

Paola Taverna del resto non ha certo gradito che la presidente Casellati abbia ricordato che fosse lei a guidare l’aula al momento del fattaccio, né le richieste di dimissioni che le sono piovute addosso da Maurizio Gasparri di Forza Italia, secondo cui la grillina avrebbe “mistificato il voto”. E che dire di Ignazio Larussa? “Presiedevo, in sostituzione del collega La Russa, che coscientemente sapeva quello che sarebbe successo in quest’aula, ossia la volontà di far mancare il numero legale”, ha sottolineato l’esponente pentastellata poi costretta a scusarsi dopo la replica al vetriolo di La Russa, che la sostituzione in verità l’aveva chiesta due giorni prima. Dopo le scuse, il voto e il sospiro di sollievo della maggioranza che resta sugli scudi per l’atteggiamento della Casellati, sospettata di giocare per la sua parte politica. Che fa dire a un papavero del Pd: “Anche lei era fuori dall’aula come il resto del centrodestra”.

Il nodo dei tempi: il 75% dei soldi dal 2023

C’è la questione politica più generale – quanti soldi e quale rapporto tra sussidi e prestiti –, ma il dibattito sul Recovery Fund ne nasconde un’altra non meno importante: quando potranno essere spesi? “Non credo che si possano versare i fondi già quest’anno”, ha detto ieri Angela Merkel dopo il Consiglio Ue, sottolineando come l’accordo da raggiungere tra i governi andrà ratificato poi da tutti i Parlamenti nazionali: andrebbe già bene, ha detto, se potessimo partire da gennaio.

Una brutta notizia per l’Italia, che ha puntato forte su un cosiddetto “strumento ponte” che le consentisse di avere i fondi europei fin dall’autunno. Ancor più brutta, però, è l’analisi della proposta avanzata dalla Commissione fatta dall’economista Zsolt Darvas, senior fellow del pensatoio Bruegel, basato a Bruxelles e che ha tra i suoi finanziatori la stessa Commissione: il 75% dei soldi arriveranno effettivamente agli Stati dal 2023 in poi, tra due anni e mezzo.

Andiamo con ordine. La proposta di Ursula von der Leyen lega il programma “Next Generation EU” da 750 miliardi (per aiutare la crescita dal 2021 al 2024) al prossimo budget comunitario da circa 1.100 miliardi (2021-2027) su cui gli Stati membri stanno ancora trattando: si tratta, com’è noto, di 433 miliardi di sussidi, 67 di garanzie e 250 di prestiti.

La Commissione, peraltro, ha proposto anche di creare quel “meccanismo ponte” chiesto dall’Italia: si tratta, però, di soli 11,5 miliardi per tutti gli Stati membri (5 in sussidi e 6,5 in garanzie) da spendere già quest’anno, una cifra – come si vede – irrilevante per un bilancio come il nostro, visto che la quota italiana potrebbe oscillare tra 2 e 4 miliardi al massimo.

Nel 2020 e almeno per la prima metà del 2021, comunque, le emissioni di titoli saranno più che coperte dai vari programmi di acquisto della Bce, le difficoltà potrebbero iniziare dopo. La Commissione, si legge sul sito del Bruegel, ha sottolineato che bisognerà fare in fretta, ma “il Budget europeo è una macchina lenta” e “gli importi dei pagamenti previsti” sono “nascosti negli allegati” della proposta di Von der Leyen e soci. Funzionerebbe così: tra il 2020 e il 2022, dicono i documenti della Commissione, saranno concordati il 78% degli impegni (cioè su quali progetti spendere i soldi), “tuttavia la Commissione prevede che a malapena il 24,9% dei nuovi sussidi sarà speso nel 2020-2022, quando le esigenze di recupero saranno maggiori”. In misura minore, ma questa discrasia rispetto ai bisogni dell’economia europea riguarda anche i prestiti: assumendo che venga chiesta l’intera cifra a disposizione, solo il 43% dei 250 miliardi potrà essere pagato nei due anni 2021 e 2022.

In sostanza, il meccanismo messo in piedi per aggirare i 27 veti incrociati degli Stati Ue (a prescindere di quale sarà la sua dimensione e la sua composizione finale), rischia seriamente di non essere all’altezza della sfida che gli stessi leader europei ci raccontano. “Più tempo perdiamo, più profonda sarà la recessione”, ha detto lo spagnolo Pedro Sanchez giusto dopo aver ascoltato in videoconferenza la presidente della Bce, Christine Lagarde, spiegare a tutti che “il peggio deve ancora venire”. Stanziare soldi da spendere al 75,1% tra due anni e mezzo è una cosa di cui molti avranno modo di pentirsi.

Recovery Fund, l’Ue resta divisa: se ne riparla a luglio

L’ottimismo è di prammatica in questi casi, ma ieri di passi in avanti sostanziali nel Consiglio europeo – l’ultimo in videoconferenza – non se ne sono visti granché: il prossimo appuntamento per discutere dell’ormai famoso Recovery Fund è convocato – ha detto il presidente di turno, il belga Charles Michel – attorno a metà luglio, stavolta di persona. La discussione “resta molto difficile”, ma “cercheremo di accelerare i negoziati per avere una discussione utile a luglio: oggi ho sentito che c’è una volontà politica comune di agire”, testimoniata dal fatto che nessun Paese ha messo in discussione la legittimità del nuovo Fondo.

Com’è noto, la riunione dei capi di Stato e di governo dell’Ue era convocata per discutere della proposta della Commissione di Ursula von der Leyen detta “Next generation EU”, in sostanza quella che dovrebbe essere la risposta comunitaria alla devastante recessione innescata dal Covid-19: 750 miliardi in tutto – 433 in sussidi, 67 in garanzie e 250 in prestiti – da aggiungere al normale budget dell’Ue (su cui ancora si tratta) e da spendere dal 2021 al 2024.

Una cifra che dovrebbe essere finanziata da emissioni di debito comuni, la vera novità, ripartita secondo i danni causati dal coronavirus: gli Stati ripagheranno poi pro quota quei debiti in un periodo lungo (fino al 2058). Il beneficio netto per l’Italia, lunghezza del rientro a parte, sarebbe attorno ai 18 miliardi di euro. Problema: molti Paesi non condividono affatto quella proposta. Di fatti, i 27 Paesi non sono d’accordo quasi su nulla: 1) dimensione dell’intervento, 2) quanti sussidi e quanti prestiti, 3) criteri di ripartizione delle risorse, 4) normale budget Ue, quello che va dal 2021 al 2027 e non è ancora stato approvato; 5) eventuali nuove tasse comunitarie (web tax e simili).

I quattro Paesi “frugali” (Austria, Olanda, Danimarca e Svezia) ad esempio contestano la Commissione su tutti e cinque i punti: per di più godono dei cosiddetti rebates, una sorta di sconto sui contributi al bilancio comunitario e non vogliono rinunciarci (neanche la Germania, che però sul punto è più flessibile). L’Italia e la Spagna, invece, supportano Ursula von der Leyen in pieno: “Una proposta ben equilibrata”, ha detto ieri ai colleghi Giuseppe Conte. Sulla stessa linea è anche la Francia, mentre a Berlino – anche se non esplicitamente – non sono insensibili alle preoccupazione dei “frugali” (troppi sussidi, pochi controlli). E ancora: Irlanda e Belgio chiedono che tra i criteri di ripartizione del futuro Fondo entrino gli effetti della Brexit (e contestano le tasse comuni). Il blocco dell’Est, infine, fermerà ogni accordo se non sarà chiaro che resta benefiario netto del bilancio dell’Unione.

Eppure, “il peggio deve ancora venire”, ha avvertito tutti la presidente della Bce Christine Lagarde, spiegando che il tasso di disoccupazione nell’Unione potrebbe passare dal 6,6 a oltre il 10% nei prossimi mesi. Insomma, un invito a darsi una mossa che è stato raccolto anche da Angela Merkel, schierata insieme a Emmanuel Macron per un accordo a luglio: l’intesa, poi, andrà sottoposta ai Parlamenti nazionali.

Una fretta non condivisa dagli altri Paesi del Nord: “Non prevedo molte vacanze questa estate”, ha buttato lì la premier danese Mette Frederiksen (socialdemocratica); “non so dire se chiuderemo entro la pausa estiva”, ha sostenuto il collega olandese Mark Rutte (liberale), tanto più che “a quanto mi risulta le risorse del pacchetto da 540 miliardi già approvato sono ancora intatte”. Tradotto: se vi servono soldi, ci sono i prestiti del Mes (l’ex salva-Stati) e gli altri. Un invito rivolto in particolar modo all’Italia, il vero nodo del contendere di questa trattativa: “Non c’è alcun collegamento tra il Recovery Fund e gli altri strumenti europei”, ha replicato Conte, che spinge per un accordo il prima possibile.

Ricciardi (5Stelle): “Ci serve un organo collegiale, non capi. E Conte è blindato”

Riccardo Ricciardi è vice capogruppo M5S alla Camera.

Ricciardi, Di Battista vuole un congresso, Di Maio e Grillo una segreteria condivisa. E lei?

Credo che tutti i protagonisti di questo dibattito vogliano bene al Movimento, ma ognuno lo declina secondo la propria prospettiva. Io immagino una revisione del M5S che porti a un organo collegiale; mi sembra un naturale approdo per un Movimento che ha nei diversi punti di vista la sua ricchezza.

Di Battista è ancora una risorsa?

Certamente. Però ogni sua dichiarazione ha un peso mediatico, quindi bisogna confrontarci internamente e agire in modo coordinato e collegiale. Gli avversari del Movimento sono al di fuori, non all’interno. Siccome combattiamo le stesse battaglie, dobbiamo utilizzare tutte le voci per vincerle. Soprattutto in un momento di crisi senza precedenti.

Crede abbiate rinunciato ad alcune battaglie.

Su questo lo vorrei rassicurare. Sul conflitto di interessi, per esempio, stiamo lavorando da un anno in commissione. Nessuno ha rinunciato alla battaglia sulla riforma della Rai o sull’acqua pubblica. Ma stare al governo è complicato: ci sono le macchine ministeriali, i rapporti interni e quelli con gli alleati. Un progetto ambizioso come quello del M5S non si realizza in un giorno.

Sminare Di Battista significa blindare Conte?

Conte è già blindato, ma lo è per merito del suo straordinario lavoro. Al di là di come ci riorganizzeremo, gli attivisti diedero l’ok a un governo col Pd per cui ponemmo subito la condizione che Conte fosse premier. Nessuno del M5S lo mette in discussione e il riconoscimento che ha nel Paese parla da solo.

In molti chiedono chiarezza su Rousseau.

La politica appartiene al M5S, Rousseau è uno strumento. Io non ho mai incontrato Davide Casaleggio e mi è già chiaro il confine tra il contenitore politico e il mezzo per parlare agli attivisti. Ma si fanno molte dietrologie ed è bene chiarire ogni dubbio agli Stati generali: il M5S fa politica, Rousseau è uno strumento di supporto.

Gli Stati generali coinvolgeranno gli iscritti?

Non sarebbero Stati generali se non ci fossero gli attivisti.

FI, Lega e Iv all’attacco. Silenzi da Viale Mazzini

Le parole di Fabio Fazio sono riecheggiate ben forti ieri dentro la Rai. Da Viale Mazzini a Saxa Rubra, quasi non si parlava d’altro. Non se n’è parlato, invece, durante il Consiglio d’amministrazione andato in scena ieri mattina come seguito di quello di mercoledì. Non l’ha fatto Fabrizio Salini, tirato in ballo da Fazio nell’intervista al Fatto, e nemmeno i consiglieri.

Dalla rai. “Da parte della Rai nei suoi confronti c’è stato spesso un atteggiamento ambiguo”, ha però detto la consigliera Rita Borioni al termine del Cda. “La Rai deve sempre e comunque difendere le sue risorse, anche dagli attacchi della politica. La norma che divide il ruolo di produttori e conduttori è però sacrosanta, perché fa chiarezza”, ha aggiunto Borioni. La trattativa per portare Fazio su Rai3, intanto, continua, anche se, come ammesso dallo stesso conduttore, non c’è nulla di definitivo. I palinsesti, insomma, sono ancora un work in progress.

Critiche dai partiti. Le parole di Fazio, però, scatenano la politica. A partire dalla Lega, tirata in ballo dal conduttore. “Le critiche di Matteo Salvini al programma non le abbiamo contate, ma erano tutte motivate dall’atteggiamento scorretto dal punto di vista deontologico dello stesso Fazio. Se fai una trasmissione impostata sempre in un certo modo, diciamo orientata a sinistra, devi accettare anche le critiche”, afferma Massimiliano Capitanio, deputato leghista in Vigilanza. “E comunque noi sulla cosiddetta norma anti-Fazio non siamo stati consultati. Il conduttore farebbe bene a chiedere a Salini e ai partiti che lo sostengono, cioè Pd e M5S”, aggiunge Capitanio.

Ancora più duro, dal centrodestra, Maurizio Gasparri (FI). “Che tempo che fa è una trasmissione faziosa, con una forte impronta politica, che oltretutto ha ucciso gli ascolti della domenica sera di Rai1. Se Fazio se ne vuole andare dalla Rai, gli do volentieri un passaggio”, dice l’esponente forzista. Secondo cui “l’errore va imputato alla dirigenza Rai dell’epoca, ovvero il Pd renziano, che gli fece un mega-contratto e lo portò su Raiuno”.

Sulla vicenda interviene anche il renziano Michele Anzaldi, ma per accendere i riflettori sulle produzioni esterne. “Se quello che dice Fazio è vero, cioè che è impossibile produrre internamente in Rai, allora il canone cosa lo paghiamo a fare? Peraltro non si capisce come possano andare in onda le (poche) produzioni interne…”, si chiede il deputato di Italia Viva.

Le produzioni. Tra l’altro, proprio sui numeri delle produzioni esterne, dove a farla da padrone, dopo l’acquisizione di Endemol, ora è Banijay con circa il 70% degli appalti, Viale Mazzini ieri ha fatto sapere che “Rai1 nel prossimo autunno avrà un incremento di 150 ore prodotte internamente, pari al 14% in più rispetto alla scorsa stagione, mentre sull’intero 2020 le produzioni interne della rete ammiraglia saliranno di 380 ore sul 2019”.

La produzione interna di Rai2 “passerà invece dal 54% del 2019 al 64% del 2020, con 409 ore, mentre Rai3 produrrà internamente il 92% dei suoi programmi”.

Nel Consiglio di amministrazione di ieri, inoltre, sono stati nominati Fabrizio Ferragni a capo del canale in inglese e Luca Mazzà alla direzione del canale istituzionale.

“Il vincolo dei due mandati serve” (non per i sindaci)

Non cede, casomai schiva: “Se è meglio il capo politico o la segreteria? Non è questo il primo problema del M5S, prima viene la costruzione dell’agenda politica e poi i nomi”. E visto che c’è, Alessandro Di Battista rilancia: innanzitutto sul vincolo dei due mandati, che andrebbe rimosso per garantire a un’intera classe politica a 5Stelle di sopravvivere. Ma l’ex deputato di mandati ne ha fatti solo uno e non ha urgenza di cambiare, anzi: “Il vincolo è nato per contrastare la politica professionistica, e nessun ministro del M5S mi ha mai parlato di questo problema”. Però per gli amministratori, cioè per le sindache come Virginia Raggi, “si può aprire una riflessione”.

Così ad Accordi&Disaccordi , il programma di Loft trasmesso ieri sera sul Nove, Di Battista riprende a tessere la sua tela. Nonostante Beppe Grillo, che domenica lo aveva morso via tweet per aver chiesto un congresso del Movimento. E nonostante il vertice di martedì sera in cui otto big del M5S, tra cui l’ex capo Luigi Di Maio, gli hanno chiesto di non parlare più di assemblea costituente dove votare un capo, ma di accettare una segreteria fatta di maggiorenti. “Ma potresti entrare nel comitato organizzatore degli Stati generali del prossimo autunno” gli hanno buttato lì. Un’offerta di tregua o un’esca, a seconda dei punti di vista. Però Di Battista non ha detto di sì. “Sono disposto a non accelerare sul congresso ma non sono qui per incarichi, prima viene la costruzione del programma” ha in sostanza risposto. Ed è da qui che ripartono Luca Sommi e Andrea Scanzi nell’intervista all’ex deputato. Con Di Battista che insiste “su un’agenda politica con cui rilanciare il M5S”. E che non rinnega mai la sua voglia di un congresso con una vera votazione. Anche perché “sente” il consenso della base. E punta a migliorare il rapporto con un corpaccione parlamentare che in maggioranza non lo ama. “La proposta di 100 parlamentari per la legalizzazione della cannabis è giustissima, stanno facendo così in tutto il mondo”, dice ad Accordi&Disaccordi.

Gran parte degli eletti che l’hanno sottoscritta sono del M5S, e l’ex parlamentare lancia loro un segnale. Non l’unico. “Sarebbe una follia andare al voto, ora serve che il Movimento resti al governo per gestire la ricostruzione dopo il Covid” ripete. Non vuole terremotare Giuseppe Conte, il premier “che io stimo”. Stiano tranquilli parlamentari e ministri: “Penso che mi ricandiderò, ma mancano tre anni”. Invece sui due mandati, tema che finora aveva sempre eluso, semina sillabe incisive: “Il vincolo è nato per contrastare la politica professionistica”. Tradotto, non è urgente garantire un altro giro di giostra ai veterani (tra cui ci sono anche tanti eletti che lo sostengono).

Ma sugli amministratori Di Battista la pensa diversamente, “per loro si può fare una riflessione”. Si può riflettere se ricandidare o no la sindaca di Roma Raggi, per cui l’ex deputato semina elogi: “È fantastica, ha detto no alle Olimpiadi del cemento e combatte la mafia”. Certo, “su questo deciderà il M5S”, ricorda. E la decisione potrebbe arrivare negli Stati generali, previsti tra ottobre e novembre. Solo dopo arriverà la segreteria o il Politburo proposto da Stefano Buffagni, una struttura collegiale con dentro un primus inter pares. E Grillo? “Quello che mi ha detto mi è dispiaciuto, ma riesco a mettere da parte un dissidio con un uomo così importante per me”, riassume Di Battista. Che va dritto, finché potrà.

“Giusto sfogo di Fazio: la Rai non lo difende e gli manovra contro”

“Capisco lo sfogo di Fabio Fazio. Per la Rai lui è una risorsa, uno dei suoi campioni. Con me ha fatto due Sanremo di grande successo. Di fronte ai numerosi attacchi nei suoi confronti l’azienda dovrebbe difenderlo”. Nel passato di Pier Luigi Celli, dirigente d’azienda, manager e saggista, c’è stata anche la Rai, di cui è stato direttore generale dal 1998 al 2001, in epoca prodian-dalemiana. Quindi, quando parla di tv pubblica, Celli lo fa a ragion veduta.

Dottor Celli, Fazio dice di esser vissuto “non come un professionista della tv, ma come un avversario politico…”.

La politica, purtroppo, c’entra. E lui ha ragione a dire di non sentirsi tutelato. Di essere quasi un peso. Oltretutto continuano a spostarlo di rete per motivi che non hanno nulla di televisivo. E sugli ascolti si è sempre difeso bene. La Rai deve decidere: o Fazio è una risorsa, quindi deve difenderlo. Oppure non lo è, e in questo caso capisco la sua amarezza e la voglia di andarsene.

Le parole di Fazio (“basta farmi la guerra, se la Rai non mi vuole lo dica”) arrivano proprio nel momento in cui Viale Mazzini vieta il doppio ruolo di conduttore e produttore, come avviene con Che tempo che fa, prodotto dall’Officina, società per metà di Fazio.

Mi sembra una decisione sana che evita ambiguità e sovrapposizioni. Però c’è un però: è sempre sgradevole cambiare le regole in corsa. Se Fazio e la Rai avevano preso precisi accordi su Officina, allora vanno rispettati. Altrimenti c’è il sospetto della legge contra personam. La novità non riguarderà il contratto in essere, ma il prossimo. Però anche Fazio, inventandosi Officina al momento del suo passaggio da Rai3 a Rai1, ha cambiato il gioco in corsa.

Questo è vero, però il vertice Rai di allora (Orfeo e Maggioni, ndr) gli ha permesso di farlo.

In un caso o nell’altro, comunque, non c’è nulla d’irregolare. Se però i ruoli sono distinti, è meglio. Si evitano ambiguità.

Il programma di Fazio costa molto, circa 70 milioni in 4 anni, con una decurtazione del 20% dallo scorso anno.

La cifra è alta, ma va commisurata al costo della fascia oraria e al monte ore che Fazio produce nell’arco di una stagione. E poi bisogna vedere quanto fruttano gli spot pubblicitari. La cifra in sé è importante, ma non significativa.

Politica e Rai son un cocktail micidiale…

Il problema della Rai è la sempre maggior ingerenza dei partiti. E più la dirigenza Rai è debole, più la politica è forte. Non vorrei essere al posto di Salini – come ho avuto modo di dirgli –, ma nel caso Fazio avrebbe dovuto dimostrare più coraggio, difendendo il suo campione.

La Rai è un circo: o fai il domatore o vieni sbranato.

I partiti sono come bestie feroci: se sentono che sei debole, è la fine. L’ad oggi ha molti più poteri di quanti ne avevo io: bisogna giocare la partita all’attacco, non di rimessa.

Ora i nuovi palinsesti, ma il piano industriale è fermo.

In tutte le aziende il piano industriale o si presenta e si attua nei primi sei mesi o non lo si fa più. E non averlo fatto è un altro segno di debolezza.

Perché la Rai appalta così tanto fuori, alle case di produzione esterne (nel 2019 il 30% dei programmi)?

Per il forte inaridimento delle competenze interne e l’eccessiva burocratizzazione dell’azienda. Realizzare un nuovo programma internamente è un processo lento e macchinoso che si fa prima ad appaltarlo fuori e magari costa pure di meno. Anch’io cercai di stimolare nuovi format interni, creai una sorta di serra creativa: andò malissimo. E ora è peggio di prima, perché i competitor della Rai sono piccoli, agili, ma soprattutto più liberi. Non hanno sulle spalle il carrozzone della politica.

E si torna sempre lì.

Ai miei tempi c’era l’Iri, che un po’ di distanza dai partiti la metteva. Ora non c’è più nulla. Il servizio pubblico è diventato un servizio ai partiti. L’ultimo deputato o senatore che si sveglia la mattina pretende di dire la sua, grazie anche alla Vigilanza, che è funzionale solo ai partiti. Così, per sentirsi garantiti, l’unica preoccupazione di molti interni Rai è quella di “agganciarsi” al politico di turno. E di prodotto, chi parla più?

Panna smontata

Anni fa non so più quale pubblicità degli assorbenti mostrava il prodotto bello gonfio prima della cura e poi pressato a sottiletta dopo la cura. Lo stesso trattamento “tara” andrebbe praticato all’informazione politica, che produce ogni giorno enormi quantità di panna montata destinate regolarmente a finire nel nulla. L’altra sera, a Otto e mezzo, mentre un’ex allieva di Pio Pompa giocava a Risiko con l’ennesima scissione dei 5 Stelle, seguita dalla crisi di governo e dall’ingresso di B. nella maggioranza (col M5S!), quel vecchio volpone di Paolo Mieli liquidava il tutto come “il solito chiacchiericcio che fanno i giornali per divertirsi”. Cioè dava per scontato che i giornali debbano inventarsi storie inverosimili per ammazzare il tempo e la noia. E in effetti questo è il passatempo preferito di molte testate, il che spiega la reputazione sottozero della categoria. Basta collezionare un giornale a caso per un mese e verificare che cosa rimane fra le pagine chiare e le pagine scure di presunte “notizie” sparate con grande rilievo 30 giorni prima: nulla. Per non parlare dei “retroscena”: gustosi anche quand’erano inventati ai tempi della grande politica, ma non ora che è già abbastanza triste e pallosa la scena, figurarsi il retro. L’informazione a somma zero si è vieppiù aggravata da quando Conte, per la gestione della pandemia, si è consolidato come il politico più popolare d’Italia. E il Giornale Unico dell’Ammucchiata, scambiando i desiderata dell’Editore Unico per la realtà, ha deciso che deve sloggiare. Dunque ha preso ad annunciare ogni giorno la caduta del governo. Poi, siccome una balla tira l’altra, ha iniziato a inventare, nell’ordine: i registi della crisi (Renzi, Mattarella, Zingaretti, Franceschini, Di Maio, Di Battista); i nomi del nuovo premier (Draghi, Colao, Cottarelli, Bertolaso, Gualtieri, Franceschini, giù giù fino a Guerini e prossimamente a un girino); e le destinazioni del deposto Giuseppi (sindaco di Roma, senatore a Sassari, presidente della Repubblica, ministro degli Esteri, giudice costituzionale, leader del centrosinistra, capo del M5S, anzi del suo nuovo partito “Cont-te”, forse presentatore del prossimo Saremo). Uno spasso.

Da mesi leggiamo tutto e il contrario di tutto, con la garanzia che nulla mai si avvererà. Conte dittatore con pieni poteri che fa tutto da solo ed esautora il Parlamento a suon di decreti e Dpcm. Anzi no, Conte re travicello, immobilista democristiano e indeciso a tutto, che non sa che pesci pigliare e si affida a centinaia di esperti e decine di task force per rinviare sempre. Anzi no, Conte nomina Colao a capo della task force soltanto perché gliel’hanno imposto Mattarella e il Pd.

Ma poi si diverte a fargli la guerra. Anzi no, Conte è schiavo di Colao. Anzi no, Conte scarica Colao. Conte appiattito sul Pd e scaricato dal M5S. Anzi no, Conte è appiattito sul M5S e scaricato dal Pd. Conte non si fa aiutare da nessuno e non ascolta i veri esperti. Anzi no, Conte si fa aiutare dai veri esperti negli Stati generali, ma è un’inutile passerella che non si farà mai perché il Pd non vuole e Di Maio è geloso. Anzi, forse si fa, ma a settembre. Anzi, si fa subito e non sembra poi tanto inutile, tant’è che lo copia pure Sánchez. Conte finge di dialogare con le opposizioni, ma non vuole neppure vederle. Allora le invita a Villa Pamphilj, ma quelle non ci vanno perché “lo attendiamo in Parlamento”. Allora Conte va in Parlamento, ma Lega e FdI escono dall’aula per non incontrarlo (ora citofonerà a Salvini, poi proverà con un mojito alle ciliegie). E vedrete che Conte cade sulla prescrizione, invece non cade. Conte cade sul Russiagate e il rapporto Barr, anzi non cade. Conte cade sulla sfiducia a Bonafede per il caso Di Matteo-Giletti, anzi non cade. Conte cade sul concorso degli insegnanti, anzi non cade. Conte cade sulla sanatoria dei migranti, anzi non cade. Conte chiede all’Ue gli Eurobond e il Recovery Fund, ma non li avrà mai e cadrà: invece li ottiene e non cade. Ma ora vedrete che cade sul Mes e, se non è il Mes, saranno i decreti Sicurezza.
E, se non saranno i decreti Sicurezza, sarà la scissione dei 5Stelle perché la base grillina è stufa del governo (l’ha detto Paragone: infatti il M5S sale nei sondaggi). E, se non sarà la scissione dei 5Stelle, saranno le sommosse, le rivolte e i forconi d’autunno (precisamente a settembre: l’han detto gli autorevoli Folli, Casini e Dagospia). Ma intanto è sicuro: passata la paura del Covid, Conte crolla nei sondaggi perché non ne azzecca più una. Anzi no, ieri il sondaggio di Diamanti su Repubblica lo dà al 65% di gradimento, un punto sopra aprile in piena Fase1. Però le Fasi 2 e 3 sono un disastro: non andremo in vacanza, la scuola non riapre più, le elezioni regionali non si fanno più, la maturità non si farà per via del plexiglass (anzi, una s sola), gli studenti sono abbandonati a se stessi dalla grillina Azzolina (notoriamente incapace: l’ha detto Sala il capace), le mascherine non si trovano, l’idea di quella pippa di Arcuri di metterle a 50 centesimi è folle, la app Immuni non parte per colpa della grillina Pisano (incapace pure lei: l’ha detto la zia di uno che conosco), insomma l’apocalisse è vicina. Poi la maturità si fa, le vacanze e le elezioni regionali pure, la scuola riapre a metà settembre, le mascherine a 50 cent arrivano, la app Immuni c’è, insomma l’apocalisse è rinviata causa bel tempo. Altre cazzate?