Mercato a picco in Europa: è il momento delle decisioni

Per l’Europa dell’auto è sempre profondo rosso. Dopo il trimestre peggiore della storia nel vecchio continente, chi si aspettava una seppur timida ripresa deve ricredersi. Anche a maggio il mercato continentale risulta più che dimezzato (-52,3%), con le piazze principali tutte in estrema sofferenza, dalla Spagna (-72,7%) alla Francia (-50,3%), dall’Italia (-49,6%) alla Germania (-49,5%). Per un cumulato dei primi cinque mesi dell’anno che fa segnare uno sconfortante -41,5%.

Colpa del Covid-19, ma non solo. In realtà le quattro ruote stavano vivendo un periodo di quasi stagnazione anche prima dell’emergenza sanitaria, dovuta alla congiuntura economica non favorevole e alle incertezze sulla transizione “energetica” verso i modelli elettrificati. Gli unici in grado di mettere, anche se non totalmente, al riparo le case costruttrici dalle multe dell’Ue. Ebbene, quella transizione fatica ad avviarsi. E nel contempo i numeri dimostrano che c’è da affrontare l’emergenza occupazionale del post lockdown.

Francia, Germania e Spagna hanno varato consistenti piani di sostegno all’automotive, stanziando rispettivamente 8, 4,5 e 3,75 miliardi. E pure l’Inghilterra sta studiando qualcosa di simile.

In Italia si parla poco di cifre, mentre continua la diatriba tra chi vorrebbe estendere gli incentivi alle Euro 6 più virtuose e chi mantenere solo quelli per ibride ed elettriche nel prossimo decreto Rilancio. Prendere decisioni, possibilmente con saggezza, sta diventando una questione non più procrastinabile.

C4, rivoluzione estetica e zero emissioni

La Citroën C4 cambia i connotati. La nuova generazione della berlina compatta francese raccoglie, attualizzandola, l’eredità di modelli come la prima C4 del 1928, la GS del 1971, all’epoca eletta “Auto dell’anno”, ma anche le Ami 6 e 8, BX e ZX.

Le forme strizzano l’occhio al mondo degli sport utility col piglio da coupé: lo dimostrano, in primis, l’assetto rialzato e l’andamento sfuggente del padiglione. Il modello, inoltre, dovrebbe rimpiazzare la C4 Cactus, di cui riprende in parte impostazione e silhouette. Ma non è solo questione di design: la nuova C4, infatti, verrà proposta pure con una motorizzazione 100% elettrica denominata ë-C4, che affiancherà le varianti con propulsore benzina e diesel, i cui dettagli tecnici saranno divulgati successivamente. Osservando il resto dell’offerta PSA, comunque, è lecito supporre che la meccanica elettrica possa essere la stessa impiegata su Peugeot e-208 e Opel Corsa-e: il che significa propulsore da 136 CV di potenza e 260 Nm di coppia motrice, alimentato da una batteria da 50 kWh, con autonomia nell’ordine dei 320/340 km omologati.

Tre le modalità di ricarica: da una presa domestica classica o, per una ricarica completa in 16 ore, da una presa potenziata con il cavo di ricarica fornito in dotazione; mediante una Wall box, che consente di fare rifornimento in 5 ore e 15 minuti nella versione trifase (11 kW) o in 8 ore in monofase (7,4 kW); o da una colonnina di ricarica pubblica a 100 kW: così l’80% della ricarica avviene in 30 minuti. L’offerta endotermica, invece, dovrebbe includere il 3 cilindri benzina da 1.2 litri di cilindrata con potenze di 75, 100 e 130 Cv, e il diesel 4 cilindri da 1.5 litri da 100 cavalli

L’interno, dall’impostazione razionale, conta su sedili studiati per ottimizzare il comfort; da notare la strumentazione digitale e il generoso schermo del sistema infotelematico.

Fra i pochi dettagli tecnici confermati dalla casa, vale la pena citare le sospensioni idrauliche progressive, che dovrebbero garantire elevate doti di assorbimento delle asperità stradali. Maggiori dettagli, tra cui probabilmente il prezzo, saranno divulgati il prossimo 30 giugno, nel corso della presentazione ufficiale in diretta streaming.

Honda Jazz. La musica cambia, più elettrica che ibrida

Adesso anche nell’ibrido c’è del Jazz. Meno assoli ma più concorrenza, un movimento davvero utile e corale nel diffondere la soluzione della doppia motorizzazione tra le auto più accessibili ma con contenuti ecologici. C’era comunque già una Jazz nella gamma Honda, ma è chiaro che quella che debutta ora sul mercato italiano suona altra musica. Dimensioni pressoché identiche al passato, ma ambizioni diversissime nei 404 cm in lunghezza di una carrozzeria che ora è disponibile sia nella variante monovolume compatta che in quella Crosstar: stile urban suv nel frontale e nelle fiancate più grintose, con una maggiore altezza da terra.

Dettagli da Segmento B che cambia. Lì dove una volta erano le seconde auto da famiglia, e oggi si scatena invece la sfida tecnologica con Toyota Yaris 2020 e Renault Clio e-tech. Spalla a spalla, esibiscono una rara democrazia dell’ingegneria, perché da tre vetture full hybrid arrivano tre schemi meccanici assai diversi.

Jazz ha prezzi a partire da 22.500 euro, certo, ma l’alternativa Honda prevede che dietro alla sigla e:HEV si nasconda la scelta di invertire i ruoli, dando netta prevalenza in un sistema ibrido al motore elettrico. Che qui ha 109 Cv di potenza, non a caso quella massima dichiarata. Nella guida in città viene alimentato dalla batteria agli ioni di litio, a sua volta ricaricata dal propulsore a benzina da 98 Cv, che però svolge solo il ruolo di generatore di corrente. Viene collegato direttamente alle ruote solo in autostrada, e comunque nella marcia a velocità costante, ed è per questo che Honda Jazz dichiara consumi di benzina per 4,5 l/100 km, 4,8 l/100 km sulla versione Crosstar, con emissioni di CO2 che scendono rispettivamente a 102 e 110 g/km. Nell’uso quotidiano questa ibrida si avvicina molto all’idea di una vettura elettrica equipaggiata con un sistema Range Extender, il gruppo elettrogeno di bordo che allunga l’autonomia degli accumulatori utilizzando carburante. Jazz è ripensata, e altrettanto ispirata proprio all’elettrica di lusso Honda e: c’è la stessa essenzialità tecnologica degli interni, giocata eliminando i pulsanti e sostituendo la classica idea di cruscotto con quella di una interfaccia d’uso paragonabile a quella di un tablet. Qui Tesla insegna, con un quadro strumenti con schermo da 7’’ dietro il volante di gusto retrò, e poi un touchscreen centrale da 9’’ che riprende proprio i menù e la connettività offerti da Honda e. Da lei arriva anche l’assistente vocale con intelligenza artificiale che può attivare tutte le app accessibili dalla plancia, e comprende le frasi pronunciate e il loro contesto per ricreare conversazioni in modo naturale. Cioè a più voci, come la musica che cambia.

Editoria, nulla di nuovo sotto il sole (in arrivo)

Archiviata la primavera editoriale più esangue del nostro passato recente, ecco che l’estate promette di risarcire i lettori con un diluvio di titoli pronti a sfidare il colpo di coda del Coronavirus. Non ci sono alibi per chi, soprattutto sotto il solleone, ama riscoprire o consolidare il piacere di leggere: la mascherina lascia scoperti gli occhi e i guanti consentono di sfogliare in sicurezza le pagine.

Gialli. Tra le innumerevoli novità in arrivo, le trame con delitti si contenderanno gli scaffali delle librerie. L’evento più atteso è a metà luglio Riccardino, l’ultimo capitolo della serie del Commissario Montalbano. Andrea Camilleri riesce nel miracolo di essere un protagonista indiscusso anche dopo la sua scomparsa. La casa editrice Sellerio non si ferma qui e affianca al compianto autore siciliano due nomi noti del suo catalogo: Marco Malvaldi che in Il borghese pellegrino serve al celebre gastronomo Pellegrino Artusi una cena con il morto e Fabio Stassi che questa volta costringe il suo biblioterapeuta Vince Corso a essere testimone di atroci omicidi in Uccido chi voglio. Sempre sul fronte degli italiani in giallo risponde Einaudi con Tre passi per un delitto – tre versioni dei fatti fornite da tre personaggi scritti da Cassar Scalia, De Cataldo, De Giovanni – e con l’ex poliziotto Contrera in 24 ore di investigazione nella Torino multietnica in L’assassino ci vede benissimo di Christian Frascella. Fuori dai patri confini ecco per La nave di Teseo un caso irrisolto nel mondo della finanza raccontato dallo svizzero Joel Dicker in L’enigma della camera 622 e per Fazi un maestro del polar francese come Franck Thilliez che ne Il sogno narra l’incubo di bambini scomparsi. Minimum fax rispolvera un classico del crime americano: omicidi seriali a New York in Caccia alle ombre di Herbert Lieberman. Segnaliamo anche il grande spagnolo Javier Cercas che Guanda riporta in libreria con Terra alta : intrigo poliziesco in Catalogna tra rispetto della legge e vendetta.

Classici. Nutrita la pattuglia dei recuperi dei romanzi cult a stelle e strisce. Torna per Minimum fax, dopo 60 anni, Il cielo è dei violenti di Flannery O’Connor, che esplora il contrasto tra fede e ragione. La nave di Teseo traduce per la prima volta in Italia il romanzo forse più ardito del Pulitzer Richard Powers. Il suo Canone del desiderio è stato paragonato alla prosa di Pynchon. Imperdibili i carteggi privati tra i due protagonisti della beat generation William Burroughs e Allen Ginsberg che Il Saggiatore riunisce in Non nascondermi la tua pazzia.

Stranieri. Tra i contemporanei in lingua inglese segnaliamo almeno Il decoro di David Leavitt, che Sem pubblica in anteprima mondiale: un americano compra casa a Venezia per scappare dall’America di Trump; L’estate dei fantasmi di Lawrence Osborne per Adelphi: due ventenni aiutano un giovane naufrago siriano e sfidano la fatuità del loro mondo; La linea del sangue della pluripremiata autrice Usa Jesmyn Ward per NN: un’estate dopo l’uragano Katrina che cambia per sempre la vita di due fratelli; Il grand tour di Nancy Moon di Sarah Steele per Feltrinelli: viaggio per l’Europa tra moda vintage e misteri del passato.

Italiani. Tornando alle novità tricolori, Bompiani punta su narratore di razza come Aurelio Picca che torna con Il più grande criminale di Roma è stato amico mio: storia di Laudovino De Sanctis, criminale delle rapine con il clan dei Marsigliesi nella Roma degli anni 60 e su Alessandro Raveggi che in Grande Karma ripercorre la biografia di Carlo Coccioli, tra gli autori più irregolari del nostro Novecento. Altro ritorno è quello di Franco Faggiani che per Fazi pubblica Non esistono posti lontani: due fuggiaschi in giro per l’Italia del 1944 con un carico di opere d’arte. Federico Moccia rinnova i tormenti sentimentali in Semplicemente amami edito da Nord.

Esordienti. Plauso agli editori che scommettono su voci nuove. Debuttano la perita forense Sarah Savioli con Gli insospettabili, un giallo con toni da commedia edito da Feltrinelli; il 25enne catanese Mattia Insolia che firma per Ponte alle Grazie Gli affamati: storia di due fratelli con un passato familiare difficile; Caterina Mazzucato con Io sono il mare proposto da Il Saggiatore: un sommozzatore in crisi tenta di scoprire la verità su una quindicenne scomparsa.

Così Madrid negò il ricovero agli anziani delle residenze

Né troppo giovani e in buono stato di salute, né troppo anziani con poca aspettativa di vita. Dopo settimane di rimpallo di responsabilità per la morte di 6.000 ospiti della terza età nelle residenze della Comunità di Madrid, un video-bomba pubblicato ieri da El País svela come gli ospedali della regione della capitale spagnola si stessero preparando all’ordine politico “di negare i posti letto nelle terapie intensive agli anziani delle residenze”. Il video è destinato a far luce sulle responsabilità della giunta di Isabel Dias Ayuso (Pp) circa il focolaio di Covid-19 più grande di Spagna.

“Se vogliamo salvare i nostri anziani dobbiamo rischiare che un paziente giovane, a cui se peggiora nessuno negherà un letto, resti a casa. È possibile che nelle prossime settimane a un paziente di età x venga negato il ricovero perché abbiamo bisogno di letti per pazienti che possano beneficiarne di più. È un trauma, lo so”.

È metà marzo, nella regione madrilena le terapie intensive sono già al collasso: sono occupati 400 posti letto su 1.000 disponibili e arrivavano 133 malati gravi al giorno. A parlare è il primario dell’ospedale di Parla, municipio a sud della Capitale; tiene un mini-corso di formazione al personale e viene filmato perché – data l’importanza del tema – anche i colleghi impegnati nei turni possano ricevere le direttive. Il medico dà anche alcune informazioni, tra cui quella che “agli anziani provenienti dalle residenze già si stanno somministrando terapie per le infezioni batteriche e – se poi è Covid – è sfiga”. La governatrice di Madrid h rigettato le accuse, sostenendo che il primario non starebbe fornendo direttive, bensì stia tenendo un corso per interni. Da parte sua l’ospedale di Parla nega di “aver applicato ai pazienti alcun trattamento diverso da quello adeguato”. Peccato che proprio da quel municipio siano partite 400 denunce da parenti di pazienti morti di Covid per mancanza di assistenza ospedaliera tra la metà di marzo e l’inizio di aprile, che si sommano alle altre centinaia dai familiari degli anziani deceduti nelle residenze della Comunità di Madrid a cui sarebbe stato negato il ricovero. Tra questi, il padre di Julia Miron, morto il 5 aprile di Covid in una residenza di Parla. “In nessun momento la direzione del centro né la sanità di Madrid hanno pensato di portarlo in ospedale, dove forse avrebbe avuto una possibilità di salvarsi, nonostante i suoi 87 anni”, ha raccontato la figlia al País. Era il tempo in cui Diaz Ayuso tacciava di fake news le testimonianze sulle condizioni terribili degli ospedali madrileni con malati addossati nei corridoi, sanitari avvolti in buste della spazzatura e pazienti con le maschere modificate di Decathlon.

Il medico-istruttore è chiaro: bisogna prendere decisioni drastiche perché dalla politica stanno per arrivare istruzioni ancora più orribili. “Teoria della parentesi” la chiama: chi nelle diapositive che lancia dietro le sue spalle compare nelle parentesi è da salvare, chi sta fuori, non ha accesso all’ospedale. Sulla vicenda residenze sono aperte inchieste nella regione madrilena e una, interna, è guidata dalla governatrice. Intanto altri casi simili stanno esplodendo nel resto del Paese.

Crisi fra Libano e Siria, due declini incrociati in nome di Hezbollah

Idestini del Libano e della Siria continuano a rimanere intrecciati. Anche nell’avvitamento verso il baratro delle rispettive monete che dallo scorso ottobre hanno perso il 70 per cento del proprio valore causando a Beirut e a Damasco una inflazione che ha raddoppiato il costo dei beni primari. Il Libano è ormai in bancarotta conclamata e la Siria potrebbe seguirlo nei giorni a venire. Nelle ultime due settimane in Siria, per la prima volta dall’inizio 9 anni fa della sanguinosa guerra civile, nelle regioni da sempre fedeli al regime del clan Assad ci sono state manifestazioni di protesta contro il governo e, indirettamente, contro lo stesso presidente Bashar al Assad che si è visto costretto a licenziare il primo ministro per tentare di placare la rabbia dei propri cittadini-supporter.

Persino a Latakia – la regione d’origine, nonchè roccaforte del clan halawita degli Assad – l’esecutivo è stato accusato dai manifestanti di non saper gestire la crisi economica che sta spingendo nel baratro tutto il paese, non solo la regione “ribelle” di Idlib. Lì, dove si sta consumando l’ultimo estenuante atto del conflitto siriano, diventato da anni una guerra per procura tra Turchia da una parte e Russia- Iran dall’altra, Ankara ne ha subito approfittato per imporre l’uso della lira turca al posto della moneta siriana diventata carta straccia. Ciò potrebbe aiutare la lira turca, anch’essa iper svalutata. L’ordine del presidente turco Erdogan di farla girare tra la popolazione di Idlib e Afrin, è stato eseguito dalla compagine islamica ribelle o terroristica, a seconda dei punti di vista, Hayat Tahrir al-Sham. Del resto che il conflitto siriano sia diventato una guerra per procura anche economica tra l’organizzazione sunnita dei Fratelli Musulmani rappresentati dalla confinante Turchia (ma finanziati soprattutto dal ricco ‘fratello’ Qatar) e l’Iran sciita che foraggia con armi e soldi il partito religioso armato libanese Hezbollah, alleato di al-Assad, è un fatto acclarato e accettato nonostante la Turchia abbia invaso la Siria, un paese sovrano, erodendogli di fatto una vasta parte di territorio di confine. La Russia ha accettato l’ingresso di Hezbollah, pur longa manus dell’Iran sul cruciale mar Mediterraneo, per mantenere al potere l’alleato comune Assad.

Ma Hezbollah, che governa di fatto il Libano, con questa crisi valutaria e inflattiva è ora sempre più debole. Da quando il paese è entrato in rivolta permanente, a partire dallo scorso ottobre, contro tutta la casta politica accusata di corruzione, inefficienza e di essere succuba dell’Iran, sente scricchiolare il proprio potere politico-armato. Inoltre l’Iran, stretto dalle sanzioni americane e dai danni economici del Covid-19, non è più in grado di fornirgli il denaro necessario per stipendiare i paramilitari e le loro famiglie. La furbizia ad ampio spettro di Erdogan, aiutata dal fatto che è il leader di un paese storico membro della Nato, ha subito colto anche questa occasione per tentare di dare il colpo di grazia al partito armato sciita sostenendo le manifestazioni di protesta con suoi infiltrati nel paese. In questo sforzo degli ascari del Sultano in terra libanese sono tornati a dargli manforte gli Stati Uniti attraverso sanzioni economiche contro Assad in persona, esponenti del suo entourage e aziende legate al regime. Il pacchetto di sanzioni, scattato due giorni fa, è stato intitolato all’anonimo fotografo militare siriano, ribattezzato Caesar, che in un file ha schedato segretamente, a rischio della vita, le torture a morte inferte sui prigionieri politici nelle prigioni del regime di Assad e che fuggì portandosi dietro l’orrore da mostrare agli occidentali. Il Caesar Act sancito dagli americani potrebbe davvero essere un colpo durissimo per Hezbollah, Damasco e Teheran. Lo sa anche Hassan Nasrallah, il leader del partito sciita armato. Ma la vera minaccia per molti osservatori internazionali è un’altra: Nashrallah ha detto che la Cina “è già pronta a sostenere l’economia libanese.” a costruire un sistema ferroviario dalla seconda città più grande del Libano, Tripoli, fino alla città di confine meridionale di Naqqoura.

Il nodo è la Benetton-exit: Atlantia vuole l’aiutino Ue

La partita della revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia (Aspi) entra, come si suol dire, nella sua fase decisiva. Sembra incredibile, ma a quasi due anni dal disastro del Ponte Morandi di Genova con i suoi 43 morti il governo non ha ancora intavolato una vera trattativa con la controllata di Atlantia (a sua volta controllata dai Benetton), né preso una decisione definitiva

Entro il 30 giugno, Atlantia può fare ricorso contro il decreto Milleproroghe che ha eliminato la clausola contenuta nella concessione di Autostrade che le assicura un mega indennizzo (nell’ordine di 20 miliardi) anche in caso di revoca per colpa grave (come è il caso del Morandi). A quella data la concessione sarà risolta di diritto e Atlantia esigerà la mega penale. Per questo ieri ha tentato un gesto disperato appellandosi a Bruxelles. Il presidente Fabio Cerchiai e l’ad Carlo Bertazzo hanno scritto una lettera al vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis per chiedere che l’Ue “contribuisca a garantire la legittimità su un problema che, se non risolto con urgenza, potrebbe minare i piani di investimento attuali e futuri di Aspi e, soprattutto, la sopravvivenza della società”.

Il colosso accusa il governo di aver causato il declassamento a “spazzatura” del debito di Aspi (9 miliardi, per metà garantiti dalla controllante Atlantia) e precluso la possibilità di ottenere nuovi prestiti. L’accusa più forte, però, riguarda gli atteggiamenti degli ultimi mesi: la holding sostiene che l’esecutivo stia strangolando finanziariamente la società per “ridurne il valore a fini politici”, costringendola – ma questo lo si apprende “da fonti di stampa” – a cedere la maggioranza di Aspi a Cassa depositi e prestiti, insieme a un “coinvestitore”, probabilmente il fondo F2i di cui Cdp è quotista.

Non è la prima volta che Atlantia si rivolge alla Commissione, era già successo a gennaio (e poi a marzo e infine anche a maggio scorso) senza ottenere risultati: “Risponderemo a tempo debito”, ha fatto sapere Dombrovkis, ma da Bruxelles filtra che la Commissione non vuole intervenire nella partita.

Gli uomini di Atlantia lo sanno: la mossa ha lo scopo di spingere Palazzo Chigi al dialogo. Finora la trattativa è andata avanti solo su tavoli tecnici al ministero delle Infrastrutture e al Tesoro (ieri l’ennesimo) sul rinnovo del piano economico finanziario di Aspi, scaduto da anni. Autostrade ha proposto di ridursi del 5% annuo le tariffe per 5 anni senza però accettare il nuovo sistema tariffario dell’Autorità dei trasporti – contestato pure nella lettera a Bruxelles – che riducendo i pedaggi farebbe calare, e di molto, anche i giganteschi profitti di Atlantia.

La vera trattativa non è però sui dettagli tecnici, ma riguarda l’assetto futuro di Aspi. Il governo vuole che Atlantia venda l’intera quota di Aspi (l’88%) o la maggioranza. Cerchiai e Bertazzo pretendono però che gli venga pagata a prezzo pieno (7 o 4 miliardi), temendo che vendendo a sconto i fondi azionisti gli facciano causa. Palazzo Chigi è contrario, anche perché sarebbe Cdp a dover ereditare poi una concessione rivista e meno remunerativa. L’alternativa è che siano i Benetton a mollare la presa direttamente da Atlantia, di cui hanno il 30%. Oggi la quota vale 4 miliardi (dimezzata rispetto all’era pre-Morandi) e la famiglia veneta si è stancata dello scontro col governo. Cdp è alla porta ma l’operazione è difficile da chiudere entro il 30 giugno: entro quella data o l’esecutivo elimina il Milleproroghe o vede il bluff di Atlantia.

L’infinita Web Tax: Trump frena e salva i profitti di Google&C

Tutti la vogliono, ma nessuno se la piglia, da almeno sette anni. Breve storia della digital o web tax, mitologica tassa sui ricavi delle grandi aziende tecnologiche (in primis le cosiddette Gafa – Google, Alphabet, Facebook e Amazon) nei Paesi in cui le multinazionali non hanno sedi fisiche. È un eterno ritorno: si aspetta che la si faccia insieme, poi che se ne discuta con gli Usa, poi gli ultimatum, poi l’accordo, poi la discussione all’Ocse, poi non se ne discute più, poi la si mette a bilancio, poi si ricevono minacce, poi la si riprogramma e poi la si dimentica di nuovo. Non sorprende quindi che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, detti l’agenda (dopo che nel 2018 ha emanato una legge per far rimpatriare gli utili d’impresa che alle Web&Software è costata 17 miliardi): mercoledì si è sfilato dalle trattative Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, dove si dovrebbe immaginare una tassazione uguale per tutti, e ha minacciato con i dazi i paesi che dovessero decidere di introdurla autonomamente.

L’ultimatum era in una lettera inviata dal segretario al Tesoro americano, Steven Mnuchin, a Italia, Gran Bretagna, Francia e Spagna: “In questo momento i governi dovrebbero concentrare l’attenzione sui problemi economici legati al Covid-19 – si legge –. Gli Usa restano contrari a tasse sui servizi digitali o misure simili unilaterali. Se i Paesi decideranno di adottare questo tipo di tasse, gli Stati Uniti risponderanno con misure commisurate”. I destinatari sono gli stessi che nel 2018 hanno spinto la proposta all’Ocse, e che già prima avevano avviato un pressing su Bruxelles stroncato dall’opposizione degli stati in cui i big della tecnologia hanno le loro sedi. Il sistema è noto: i colossi del web, che hanno utenti in molti Stati, continuano a pagare le tasse in uno soltanto, quello con la tassazione più favorevole come Apple e Facebook in Irlanda, Booking.com o Uber in Olanda forti della narrazione secondo cui Internet sia apolide, dunque senza confini.

Secondo la Commissione Ue, l’aliquota media pagata dalle grandi multinazionali è al 23 per cento mentre quella delle WebSoft è al 9,5 per cento e può scendere sottozero.

Tutte insieme comunque, secondo il Fondo monetario internazionale, eludono il fisco dei Paesi dell’Ocse per circa 400 miliardi di dollari l’anno. Secondo l’ultimo rapporto di Mediobanca, “nel 2017 circa due terzi dell’utile ante imposte delle WebSoft è stato tassato in Paesi a fiscalità agevolata con un risparmio pari a 12,1 miliardi di euro”. 50 miliardi dal 2013. In Italia, invece, nel 2018, 21 multinazionali tech hanno dichiarato un fatturato di 1,8 miliardi di euro e pagato tasse per 60 milioni, il 3,3 per cento.

Ancora una volta, l’Ue a parole adesso sembra voler fare sul serio: “Esprimo profondo rammarico per la decisione degli Usa di frenare le discussioni internazionali. Spero che questo sarà un contrattempo temporaneo e non uno stop definitivo – ha detto il commissario Ue all’economia, Paolo Gentiloni –. Ma se non si troverà un’intesa globale andremo avanti con una nuova proposta a livello Ue”. Assicura comunque che la Commissione europea voglia una soluzione globale per portare la tassazione e crede che l’approccio Ocse dei due pilastri (tassa unica per tutti e l’aliquota minima per le imprese) sia la soluzione migliore. Sia Italia che Francia hanno infatti previsto la tassazione sul 2020, Parigi addirittura sul 2019 (salvo poi arrivare a un accordo con Trump che minacciava di tassarne i vini, promettendo la restituzione sotto forma di credito di imposta, della differenza con quanto deciderà l’Ocse): entrambe, adesso, assicurano – via Gualtieri e Le Maire, rispettivi ministri dell’Economia – che hanno intenzione di applicarla. E sarebbe pure ora, visto che vantiamo una lunga storia di tentativi non riusciti: già nel 2014 era stata proposta e inserita in legge di Bilancio dall’allora presidente della Commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia (Pd) – oggi ministro per gli Affari Regionali –, poi fu mandata in soffitta da Matteo Renzi l’anno successivo. Introduceva l’obbligo di partita Iva italiana per tutte le società che acquistavano e vendevano pubblicità e servizi, pagamenti tracciabili e sistemi per valutare il reddito delle società controllate italiane legato alla pubblicità online e i loro rapporti con le “aziende madri” straniere. Oggi, abbiamo ottenuto un’aliquota del 3% del fatturato alle aziende con oltre 750 milioni di ricavi (di cui almeno 5,5 milioni da servizi in Italia), che dovrebbe portare all’erario un gettito di 700 milioni secondo le stime più ottimistiche, 150 per i pessimisti. Coperture che fanno comunque comodo, sempre, ancor più nello scenario economico post Covid-19.

Durante il lockdown saliti i licenziamenti dei precari

Più sei precario, più è facile che il tuo datore di lavoro ti licenzi infischiandosene del divieto imposto dai decreti. Nel pieno di un dibattito che vede il Partito democratico e Italia Viva spingere per allungare la deroga al decreto Dignità, quindi lasciare libere le imprese di avviare rapporti a termine senza causale, ieri l’Inps ha mostrato un dato poco incoraggiante: nel primo trimestre 2020, i licenziamenti per motivi economici sono diminuiti solo per i dipendenti a tempo indeterminato; sono invece cresciuti per quelli a tempo determinato e soprattutto per gli stagionali. Particolare da tenere a mente: dal 23 febbraio è in vigore il blocco dei licenziamenti per l’emergenza covid.

Numeri che arrivano, come detto, mentre la maggioranza discute dei contratti a termine. In principio fu il decreto Poletti (governo Renzi), che li liberalizzò del tutto facendone esplodere il numero. L’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio nel luglio 2018 (ri)mise qualche paletto: regole che il decreto Rilancio ha però sospeso fino al 30 agosto. Ora un emendamento del Pd vuole estendere ancora il termine e dare alle imprese la possibilità di assumere personale a termine senza causale fino a fine anno. È circolata l’ipotesi di un accordo sul 31 ottobre, ma la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo ha frenato: “C’è la norma del decreto Rilancio e non si va oltre”.

L’argomento di chi vuole la liberalizzazione è il solito: “In questa fase – ha detto il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri – se non si eliminano temporaneamente i disincentivi dei contratti a termine si rischia un impatto negativo sull’occupazione”. Meglio più precari che più disoccupati, insomma, posizione che naturalmente trova sponde a destra e che il ministro declina come incentivi alle assunzioni (anche a termine) dietro l’impegno delle aziende a non licenziare. Il M5S e parte di LeU, invece, vogliono tornare quanto prima alle norme del 2018 che, alla prova dei fatti, hanno arrestato la corsa del precariato e accelerato le stabilizzazioni.

Ora Istat e Inps certificano che durante il lockdown le aziende si sono disfatte soprattutto di precari, non rinnovandoli alla scadenza. Questo, per quanto paradossale, sta rafforzando il fronte trasversale (da Confindustria alla politica) che ha sempre attaccato il decreto Dignità e ora vuole estendere la deroga per poi mandare definitivamente in soffitta l’obbligo di “causale” (la ratio è che la forma normale di contratto è quella a tempo indeterminato e quindi il ricorso ad altre formule deve avere una sua ragione esplicita). In questi mesi – a dimostrare la fallacia di chi vuole maggiore flessibilità per aumentare l’occupazione – i precari sembrano essere stati anche più esposti ai licenziamenti. E dire che tra gennaio e marzo gli allontanamenti per motivi economici sono stati possibili solo fino al 23 febbraio: quelli avvenuti dopo quel giorno vanno considerati nulli. Ciò non toglie, e lo dimostrano i casi di cronaca, che molte aziende hanno scelto di non rispettare la norma e, nel farlo, hanno colpito i più deboli, cioè chi avrebbe comunque perso il lavoro a fine contratto.

I licenziamenti di lavoratori a tempo indeterminato erano stati 120 mila nel primo trimestre 2019, mentre nello stesso periodo del 2020 si sono fermati a 97.565 (il numero più basso degli ultimi anni). I licenziamenti di lavoratori a termine, invece, sono passati dai 29.695 del 2019 a 30.010 del 2020: in crescita nonostante il blocco intercorso negli ultimi 40 giorni del trimestre. Ancora più evidente è l’effetto sugli stagionali: nel primo trimestre 2019 si contavano 2.732 licenziamenti economici, quest’anno sono stati 5.553.

Diverse imprese del turismo – dovendo chiudere in anticipo la stagione invernale – devono aver messo alla porta in anticipo gli addetti. Una mossa illegittima, ma è pur vero che difficilmente un lavoratore che viene chiamato tutti gli anni dalla stessa azienda fa causa, rischiando di restare a casa l’anno dopo.

Tra gli stagionali è curioso pure il dato dei licenziamenti disciplinari, passati da 279 nel primo trimestre 2019 a 804 nel 2020: quest’anno, oltre al Covid-19, tra i lavoratori stagionali dev’essersi diffuso anche il virus dell’indisciplina. A meno che qualcuno non se ne sia approfittato.

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Il mio “Fatto”, un vangelo per laici

Siete il Vangelo dei laici. Un abbraccio a tutti voi.

Edicola Ferrarotti

 

Caro direttore, su Indro non sono d’accordo

Caro Direttore, non convince del tutto la sua replica a Paolo Ziliani che, “deluso e amareggiato” dal giudizio sostanzialmente assolutorio, suo e di Lerner, del mito di Montanelli. A influenzare la sua appassionata difesa sembrano contribuire non solo una devozione giovanile verso il brillante giornalista, ma anche il ricordo di un uomo di grande talento, innata eleganza, infinita supponenza, padrone assoluto di se stesso. Un maestro da emulare, cosa che è riuscito in gran parte poi a fare. Un giudizio più obiettivo richiede però di prendere atto del connaturato “maschilismo” di Montanelli, che solo i maschi “maschilisti a loro insaputa” non riescono a vedere (come mi ha fatto notare mia moglie) e che può includere venature di un razzismo inconsapevole.

Alessandro Monti

 

Caro Alessandro, era l’Italia (il mondo?) di cent’anni fa a essere “maschile” e spesso “maschilista”. Giudicarla con gli occhi di oggi ci serve ad apprezzare le conquiste raggiunte, non a scomunicare chi ha vissuto allora.

M. Trav.

 

Vado a donare il sangue in vostra compagnia

Vado a fare periodicamente e puntualmente la donazione di plasma e qualche volta di sangue: compro subito la mattina la mia copia de Il Fatto Quotidiano e sono fiero e orgoglioso di esibirlo (qui in foto, ndr). Tanti lo guardano distrattamente, altri annuiscono compiaciuti. Voi, con la vostra professionalità, indipendenza e le vostre inchieste scomode ai potenti, siete una delle poche speranze che la nostra stupenda Italia possa migliorare. E che le mie figlie e la nipotina possano crescere in una Italia giusta, felice ed equa. Grazie mille e buon lavoro.

Salvatore Vinciguerra

 

C’è troppa invidia nei vostri confronti

Caro direttore, più scrivono menzogne per screditare Il Fatto, più aumentano le vendite; perciò ti dico: “Non ti curar di lor ma guarda e passa”. L’invidia è una brutta bestia e fa perdere il lume della ragione, ma dal momento che il popolo non è più “bue” sa distinguere il vero dal falso.

Rosanna Fiorelli

 

Il giornalista servo non è un giornalista

Gentile Direttore, i “giornaloni” che accusano il Fatto di ricevere soldi dallo Stato meritano di essere querelati. Costoro, essendo servi, hanno rimosso le parole di Montanelli: “Chi di voi vorrà fare il giornalista, si ricordi di scegliere il proprio padrone: il lettore”. Per tale motivo l’insigne giornalista può essere considerato tra il “padre fondatore” del Fatto: un giornale senza padroni e padrini politici, al servizio dei cittadini-lettori, unici proprietari, una linea del Piave a difesa della democrazia contro ogni forma di autoritarismo. Ecco perché l’invidia dei servi si accanisce contro il Fatto e alimenta le fake news.

Maurizio Burattini

 

Per il mistero di Ustica ci vuole un romanziere

Corrias ha fatto molto bene a farci ricordare Ustica. Un’altra verità che non riusciamo a conoscere. Gheddafi, caccia libici e francesi e portaerei americane sono sicuramente i protagonisti, come anche l’ostinazione degli alti gradi dell’Aeronautica a depistare (minacciati di morte, come gli addetti ai controlli, tutti suicidi, se avessero parlato?). La domanda è sempre la stessa: chi poteva trarre un vantaggio dall’accaduto? O è stato un incidente idiota, dovuto a euforia e incompetenza? Forse ci vorrebbe uno specialista di romanzi di spionaggio a darci maggiori verità, scandagliando i comportamenti dei comprimari con una analisi psicologica. Corrias, sono sicuro, potrebbe provarci con molta pazienza.

S. Di Giuseppe

 

Sono pronto a ospitare in casa le statue scomode

Se potessi, vorrei candidarmi per un esperimento sociale: raccogliere nel mio giardino di casa tutte le statue scomode che nel mondo sono state divelte e abbattute. Poi, seguito da una equipe, fornirei tutti i dati sulla mia vita privata per monitorare eventuali comportamenti intolleranti e razzisti. Sono sicuro di non correre alcun rischio di ammalarmi, custodendo per le generazioni future autentiche testimonianze storiche, indispensabili cure contro il misticismo per la ricerca della verità.

Giovanni Negri