Tre anni e mezzo sulla graticola. Sullo sfondo, le accuse a mezzo stampa di condurre indagini politiche contro Matteo Renzi, “colpendo” il babbo Tiziano e petali del Giglio magico come Luca Lotti, vedi Consip, l’inchiesta finita da Napoli a Roma. Ma per Henry John Woodcock, difeso da Marcello Maddalena, ieri è arrivata l’assoluzione dalla sezione disciplinare del Csm, chiesta anche dall’accusa, dal neo avvocato generale della Cassazione, Luigi Salvato. Il pm ha così riavuto il suo “onore” invocato nelle dichiarazioni spontanee. Il filone trattato ieri è quello di un’intervista, mai autorizzata, a Repubblica nei giorni roventi del caso Consip. Ieri, il collegio Csm composto da Stefano Cavanna, presidente, Paola Braggion, relatrice, Sebastiano Ardita, Loredana Micciché e Ciccio Zaccaro ha assolto Woodcock per “essere risultato il fatto di scarsa rilevanza”, cioè non è stato commesso alcun illecito. Si è trattato di un riesame dopo il rinvio delle sezioni unite della Cassazione, il 27 novembre scorso, che avevano annullato la severa condanna alla censura, il 4 marzo per mancato dovere di riserbo e comportamento “gravemente scorretto” verso l’ex procuratore reggente di Napoli, Nunzio Fragliasso: non gli aveva detto di aver parlato con Liana Milella di Repubblica che, tradendo la fiducia del pm, suo vecchio amico, come lei stessa ha testimoniato, pubblicò un articolo sul caso Consip malgrado avesse dato la sua parola al pm che non avrebbe scritto. Sempre il 4 marzo, Woodcock e la collega Celeste Carrano furono assolti, invece, dall’accusa più grave, la violazione dei diritti di difesa nei confronti dell’ex consigliere di Palazzo Chigi, Filippo Vannoni, interrogato a dicembre 2016 come teste, quindi senza un avvocato. “La lealtà, la correttezza, la sincerità – ha detto Woodcock ai giudici – è una caratteristica e una qualità che mi riconosco. È un debito che riconosco a chi questi valori mi ha impartito, i miei genitori”. Poiché era stato accusato di scorrettezza verso Fragliasso, ricorda che l’ex reggente, “collega e amico”, quando la Procura di Roma, tra giugno e luglio 2017, lo ha indagato e poi archiviato, “mi confermò la fiducia” e non gli tolse le indagini. Ma Woodcook non serba rancore neppure verso i pm romani: “Lavoriamo gomito a gomito”. Quando fu avviato il procedimento disciplinare e fu aperta pure una pratica per possibile trasferimento dalla Prima commissione presieduta da Luca Palamara, un unico consigliere chiese l’apertura di una pratica a tutela di Woodcock e Carrano, sotto attacco politico: Piergiorgio Morosini. Invece, l’allora vicepresidente del Csm Giovanni Legnini andava persino in tv a parlar male dei pm partenopei senza alcun imbarazzo per il suo ruolo anche di presidente della disciplinare.
Rc auto, il lockdown fa risparmiare 1,5 mld alle assicurazioni. Nessun rimborso ai clienti
Le compagnie assicurative godranno di buoni risultati economici, anche grazie al Covid. Ma difficilmente gli effetti positivi si estenderanno agli automobilisti, costretti anche a pagare 90 euro in più della media europea. È la solita storia all’italiana dell’Rc auto. Nella relazione annuale dell’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni (Ivass), è emerso che durante il lockdown i sinistri sono crollati del 50% portando alle assicurazioni un risparmio medio tra 36 e 41 euro per polizza che, moltiplicato per 39,5 milioni di veicoli, ammonta a 1,5 miliardi di euro. Un ristoro che le compagnie non hanno ancora attivato, mentre in Francia i clienti hanno ricevuto già il bonifico. Così, a sollecitare la stampa affinché “faccia pressione per spingere le compagnie a una via spontanea e coordinata di ristoro” è lo stesso presidente dell’Ivass, Daniele Franco. Che, per spiegare perché l’Rc auto in Italia resta tra le più care d’Europa, ha detto che è tutta colpa dei neo patentati. Basta accontentarsi delle briciole: nel 2019 i prezzi sono scesi del 2,7%.
Appalti per il 70%: “Banijay” domina il servizio pubblico
Nel consiglio di amministrazione di Viale Mazzini, mercoledì scorso, l’ad Fabrizio Salini ha annunciato un taglio alle produzioni esterne della Rai nonché un limite allo strapotere degli agenti. Società di produzione e agenti delle star, infatti, nell’ultimo decennio l’hanno fatta da padrone nel servizio pubblico. Nei palinsesti del 2019, per esempio, la Rai ha affidato fuori il 29% delle produzioni, per un totale di 2.786 ore sui tre principali canali generalisti.
Di solito case di produzione e agenti che lavorano di più sono sempre gli stessi, ma da qualche mese siamo di fronte a una vera e propria anomalia. Da quando Banijay (che in Italia è nata dalla fusione di Magnolia e Dry Media e in Europa è controllata per il 33% da Vivendi) ha acquisito Endemol Shine nell’ottobre del 2019, il gruppo franco-italiano guidato da Marco Bassetti, con 1923 ore di trasmissione, detiene il 69,7% degli appalti totali della Rai, con un ricavo superiore a 120 milioni di euro l’anno. Freemantle di Lorenzo Mieli, per esempio, ha il 4,7%, Stand by me di Simona Ercolani il 4,1% e Lux Vide di Matilde Bernabei il 2,7%. Un dominio, quello di Banijay, che si manifesta soprattutto sulla rete più importante, Raiuno, dove, sempre nel 2019, ha prodotto l’83% delle ore totali appaltate all’esterno. Lavorando molto anche per Mediaset, La7, Sky e Discovery, il gruppo franco-italiano si trova spesso ad avere nello stesso orario due trasmissioni in diretta concorrenza. Per esempio, contemporaneamente vanno in onda I soliti ignoti su Raiuno e Guess my age su Tv8, L’eredità sul primo canale e Avanti un altro o Conto alla rovescia su Canale 5, e durante il giorno Vieni da me su Raiuno e Detto Fatto su Raidue.
Raiuno, naturalmente, è il canale che fa più gola alle società esterne, perché l’audience è superiore. Naturale, quindi, che qui si scatenino gli appetiti maggiori. Sulla rete ammiraglia, nel 2019, per quanto riguarda l’intrattenimento la parte del leone l’ha fatta sempre Banijay con 70 ore di trasmissione (44%), seguita da Officina, la casa di produzione di Fabio Fazio che produce Che tempo che fa, con 34 ore di messa in onda (22%), cui segue Ballandi (la società fondata da Bibi Ballandi), che ha la sua punta di diamante in Ballando con le stelle, con 32 ore (20%) e da Endemol – prima della fusione – con 22 ore (14%). “Se lavorano sempre gli stessi, si crea un’anomalia che non fa bene al sistema televisivo e alla Rai, che come servizio pubblico avrebbe il dovere di distribuire le produzioni a 360 gradi”, osserva una fonte della tv di Stato.
Tra l’altro, non si comprende perché Viale Mazzini continui ad acquistare così tanto fuori quando l’ad Salini ha creato una Direzione Nuovi Format che avrebbe proprio il compito di ideare nuovi programmi da realizzare internamente. Struttura che finora è rimasta una scatola vuota: non c’è un direttore e nemmeno il personale dedicato.
Altro settore che fa molta gola alle case di produzione sono le fiction, anche perché vengono realizzate tutte esternamente, con un budget importante: 200 milioni circa la spesa nel 2019 di Rai Fiction, guidata dal 2012 da Eleonora “Tinny” Andreatta. Guardando sempre a Raiuno, la rete che ne trasmette di più, la parte del leone, nel 2019, l’ha fatta la Lux Vide con 76 ore (27%), seguita da Endemol con 24 ore (9%), Palomar (Carlo Degli Esposti) con 22 ore (8%), Leone con 27 ore (7%), Picomedia con 18 ore (6%). E poi Casanova, Clemart, Idea Film, Indiana e Indigo tutte con circa 12 ore, il 4% del totale.
Poi c’è la questione agenti. Qui a fare il bello e il cattivo tempo sono i soliti Lucio Presta, con la sua Arcobaleno Tre, e Beppe Caschetto, con Itc2000. “A seconda dei direttori di rete, a volte ha più potere il primo, a volte il secondo. Si fanno la guerra da anni a colpi di predominio sui palinsesti, dandosele di santa ragione”, continua la nostra fonte. Ma non sono i soli. Tra quelli in crescita ci sono Fernando Capecchi con la Vegastar e Luisa Pistoia con Sosia&Pistoia. Secondo quanto annunciato da Salini, che ha recepito le delibere di Agcom e Vigilanza, d’ora in poi un agente non potrà avere più del 30% di artisti in un singolo programma e vanno tenuti ben distinti i ruoli di conduttore, agente e produttore, senza potersi sovrapporre. I tagli annunciati (tra il 10-15% quelli ai cachet di star e conduttori) dovranno servire a limitare le perdite della tv di Stato, visto che per il 2020 è previsto un rosso di 45 milioni.
“Basta farmi la guerra. Non mi vuole? La Rai lo dica”
C’è nuvolo che chiama tempesta dalle stanze di Che tempo che fa. “Adesso basta: parlo poco, ogni due anni, ma la norma ‘anti-Fazio’ approvata dal Cda mi obbliga a dire la mia”. Dallo studio di casa, circondato dai Vhs dei tempi de l’Unità, come Aristogatti, Il vigile di Sordi e Palombella Rossa di Moretti, oltre ai Telegatti vinti (“sono otto”), Fabio Fazio torna sulle accuse di tutti questi anni.
Insomma, la norma…
Trovo ogni limite superato. Qui entriamo nel campo dell’inaccettabile: da tempo mi viene riservato un trattamento che non ha eguali né precedenti.
Quindi?
Adesso basta.
Quando partì la guerra?
Tre anni fa, quand’ero già serenamente avviato altrove e la Rai mi chiese di restare. Mi scappò detto che la politica non doveva più entrare nella tv. Da allora iniziò la guerra, perché quella mia frase fu letta come una questione personale. Uno stillicidio continuo, un linciaggio senza eguali né giustificazioni.
Aveva un accordo con Discovery.
Non voglio specificare, per policy con la controparte.
Lo diciamo noi.
(Sorride) Quando sono rimasto, l’intento dell’azienda era di portarmi su Rai1, un po’ quello che aveva anticipato Freccero, definendo Che tempo che fa “il più bel programma di Rai1” quand’ero ancora a Rai3.
E…
Su Rai1 abbiamo coperto dalle 20.30 a mezzanotte per un costo a puntata di 300mila euro per la mia società, più 100mila di costi generali Rai.
400mila complessivi…
Sì, ma di solito in quella fascia va una fiction di due ore, a una media di 750mila euro l’ora.
Su Rai1 è stato due anni.
Prima del mio arrivo Rai1 faceva in media il 15,19%: con me il 16,3 il primo anno e il 15,49 il secondo. Ma solo nel 2018-’19 ho subìto 120 attacchi dall’ex ministro dell’Interno.
Li ha contati tutti.
Per l’esattezza sono 123; se vieni attaccato dal capo del Viminale, hai una vita normale e due figli da portare a scuola, non sai mai chi sono i seguaci del ministro…
In Rai l’hanno difesa?
123 attacchi, 123 silenzi. E dopo due anni il trasloco su Rai2.
Coincidenza?
No: mai avuto il numero di telefono del direttore di Rai1 (Teresa De Santis, ndr); forse non è chiaro, ma sono uscite notizie false, han ribaltato i costi di produzione attribuendomeli come guadagni: i 400mila euro diventavano uno stipendio da 12 milioni l’anno per 4 anni.
Complimenti.
S’è mossa persino l’Anac. Poi la Corte dei Conti ha dimostrato che il programma costa meno della metà di qualunque altro varietà della stessa fascia oraria.
Qui c’è un “però”…
Sono scelte editoriali, per me legittime, ma la “norma anti-Fazio” no. E non basta: hanno chiesto a tutti di ridursi il compenso, e ho accettato. Solo io, però. Sono stufo di dovermi difendere per il mio lavoro. Anche perché mi dicono che il mio programma è interamente coperto dalla pubblicità: ho chiesto i dati, invano. Ma il listino Sipra dà gli spot durante Che tempo che fa a 50mila euro ogni 15 secondi, e io ne ho 18 minuti.
Pure il renziano Michele Anzaldi è uno dei suoi nemici più costanti.
Mai conosciuto, non saprei neanche riconoscerlo per strada; trovo strano, per essere gentili, che visto il suo mestiere (è in Vigilanza Rai. ndr) dovrebbe conoscere bene la situazione, eppure è un continuo.
Ora i vertici Rai pongono un nuovo tema: chi conduce non può produrre.
Sono entrato in Rai nel 1983 con Raffaella Carrà, non avevo ancora compiuto 19 anni; quindi mi sento più Rai della Rai…
Ha superato Mike.
No, lui no. (Si alza e torna) Ecco la sedia che mi regalò lui. Chiesi: ‘Come mai?’. E Mike: ‘Perché, stai in piedi a casa?’.
Dicevamo…
Ho lavorato internamente fino al 1999, poi ho iniziato con le coproduzioni, che sono la vita stessa dell’azienda, da Fiorello ai pacchi a Ballando.
Perché auto-prodursi? Non può farlo la Rai?
Per controllare il prodotto, accade pure per Bonolis, De Filippi, Floris. La Scala ingaggia artisti da fuori. E poi potevano dirmelo prima della firma del contratto, che non si poteva. Mi sarei regolato diversamente. La Rai ha ottime professionalità, ma da azienda pubblica ha troppe regole, anche le più impensabili, che rendono impossibile la produzione interna.
Esempio?
Vai in onda di domenica, ma l’ufficio scritture chiude il venerdì. Non puoi comprare nemmeno i fiori: c’è l’Ufficio acquisti. Così è impossibile fare dall’interno programmi complicati come il nostro.
Perché fanno la guerra proprio a lei?
Risposta presuntuosa: forse non sono vissuto come un professionista della tv, ma come un avversario politico.
Frequenta politici?
Li vedo solo in trasmissione. Eppure mi riservano un trattamento che ho visto solo su Sanremo, ogni tanto su Benigni.
Un tempo pure Santoro.
Sì, ma con un programma diverso. Il problema è lo stile che porto in tv, definito “perbenismo culturale”, “buonismo”…
Torniamo agli attacchi.
Ha iniziato Anzaldi e poi il ministro dell’Interno; Carlo Verdelli, nel suo ultimo libro, ha definito la Rai “la torta nuziale della politica”. Definizione così perfetta da non lasciare spazio a soluzioni: la salvezza non può arrivare da chi la gestisce; (cambia tono) Adesso basta.
Come si traduce?
Che non accetto più certe situazioni; quando ho intervistato Macron non hanno mandato in onda gli spot, né mi hanno rimborsato il viaggio, e ho avuto un servizio del Tg2 contro.
Quindi…
Voglio essere trattato da professionista che lavora in Rai.
La piantate o mi cacciate.
Ho un contratto ancora per un anno e sto lavorando a un nuovo progetto per Rai3: una storia agiografica della tv per il 2021-’22. Ma non è scontato il prolungamento del contratto oltre la scadenza del ’21.
I politici la chiamano?
Salvini l’ho invitato decine di volte, mai venuto; la Meloni l’ho ospitata quest’anno. Ma non sento alcun decisore per gli auguri di Natale.
Con chi si confronta sul prodotto?
Con me stesso, gli autori, mia moglie…
Niente Rai.
Lì non si parla più di prodotto. Non sai con chi parlarne. Peccato, ci sarebbero tante cose divertenti da progettare.
Il suo rapporto con Salini? È lui il promotore della norma “anti-Fazio”.
Incontrato una volta quando mi ha chiesto la cortesia di passare a Rai2 e di ridurmi il compenso. E un’altra volta tre minuti a Milano.
Lei guadagna troppo.
Vengo da una famiglia di impiegati e conosco il valore del denaro: prendo 2 milioni l’anno, uno lo do orgogliosamente in tasse. So di essere fortunato, ma nessuno regala nulla; a inizio carriera prendevo 25mila lire a settimana e non mi permettevo neanche il taxi dalla stazione Termini alla Rai.
Ormai gli agenti sono i padroni dei palinsesti.
Anche qui mi tocca fare il presuntuoso: se voglio un ospite, ho la forza di non cadere nel mercatino del ‘ti do Tizio se prendi pure Caio’; in Serie A non si fanno favori, devi sempre essere all’altezza. Se un agente ha i migliori, che senso ha fargli la guerra o mettergli limiti? Se arriva quello degli U2, gli dici di farne cantare solo uno e mezzo per non sforare il tetto?
Il suo futuro?
Se lo ritengono utile, posso continuare, l’importante è non diventare un campo di battaglia né un palo di esibizione.
Ma la norma è passata.
Voglio sperare che non valga per i contratti in essere, a fine anno vedremo.
Intanto resta su Rai2?
Torno a Rai3 se c’è un accordo e un progetto, se no resto a Rai2.
Quando si decide? Fra poco annunciano i palinsesti.
(Cambia espressione) Avevo letto il 10 maggio e io credo sempre a quel che dice la Rai…
Il Pd insiste sul Mes a luglio in aula
“A luglio ci sarà un voto su una risoluzione che riguardi tutti gli strumenti messi in campo dall’Europa. Mes compreso”. È il capogruppo del Pd, Graziano Delrio a chiarire la linea del partito. Anche per questo, il fatto che il Consiglio europeo di oggi sarà interlocutorio e si potrebbe non riuscire a chiudere neanche a luglio è un elemento di tensione.
Conte vorrebbe andare in Parlamento sul Mes solo a negoziato concluso. E non è detto che il Pd glielo consenta: perché comunque vada i soldi non arriveranno subito. Ieri, al consueto incontro pre-vertice al Quirinale (presenti con il premier e Mattarella i ministri Gualtieri, Amendola e Di Maio e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Fraccaro), Conte ha sottolineato la necessità del buon utilizzo dei fondi europei. Un messaggio anche alla sua maggioranza, che il Colle ha apprezzato: lo aveva detto all’inizio degli Stati generali che servono “risultati concreti”. Presidente e premier condividono la preoccupazione che l’Italia possa sprecare le risorse.
In Europa, intanto, i “frugali” mettono in discussione l’intero impianto della proposta della Commissione sul Next Generation Eu. I Paesi dell’est trattano per difendere i loro fondi di coesione europei. Il negoziato, dunque, entrerà nel vivo dopo il 23, quando verrà presentata la Negotiating box, relativa al bilancio pluriennale 2021 – 2027: si tratterà in una logica di pacchetto tra questo e il Next Generation Eu. Così, il sì al Recovery Fund potrebbe non arrivare prima di settembre. Oggi, a chiedere con l’Italia che la proposta von der Leyen non si tocca; che i soldi devono arrivare “presto e subito”; che la parola “compromesso” legata al Covid non può funzionare; che le procedure per ottenere i fondi dovranno essere il più possibile semplificate, saranno Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Polonia, Cipro, Belgio. E forse anche altri.
“Ai 5S un capo è necessario. Conte? Spero ci aiuti di più”
Il congresso, la segreteria, il ruolo di Alessandro Di Battista. Il M5S ne discute per immaginare il futuro e tenere ora, nel presente. Ma per il viceministro allo Sviluppo economico, Stefano Buffagni, va fatta una premessa: “Anche quando ci confrontiamo, noi 5Stelle non dobbiamo mai dimenticarci che lì fuori c’è un Paese con grandi necessità e che la priorità, oggi più che mai, è quella”.
Per il M5S sembra essere già tempo di congresso: molto agitato.
Siamo una forza che ha la responsabilità di governare, e Crimi da reggente sta facendo bene. Ma dobbiamo chiederci se sia giusto o no avere un capo politico, perché anche questo può incidere sulla nostra capacità di gestire il Paese.
Martedì lei e altri big avete chiesto a Di Battista di entrare in un Direttorio o in una segreteria, giusto?
Non è questo il punto. Il vero tema è che c’è da condividere un’idea di Italia, un programma per il futuro.
Di Battista ha detto sì o no?
Tutte le scelte si faranno nelle sedi opportune.
Al Fatto Paola Taverna ha detto che “non serve più un capo”. Lei aveva proposto un Politburo, organo collegiale che prevede anche un capo.
Ritengo che ci sia bisogno di una struttura collegiale per gestire meglio il M5S e confrontarci. Ma in un’assemblea di condominio come in un qualsiasi organo di governo, serve una figura che ne coordini il funzionamento, che si chiami capo politico o primus inter pares poco importa.
Non è che alla fine Beppe Grillo tornerà da capo politico per mettere ordine?
Beppe è Beppe, nessuno può prevedere cosa farà. Quando ci sentiamo con lui parliamo di energia, di futuro e di come si possa andare verso uno sviluppo sostenibile.
Il dem Graziano Delrio ha dichiarato che se il premier Giuseppe Conte si iscrivesse al Movimento per il Pd non sarebbe un problema. Gli crede?
Conte è espressione del M5S e quando lo abbiamo portato al governo il Pd lo ha considerato come tale. Non credo che i dem vogliano entrare nelle vicende interne del Movimento.
Conte può essere un leader o un candidato premier per voi?
Io spero che sia molto più attivo nell’aiutarci politicamente, nel bene e nel male. E per “nel male” intendo che potrebbe gestire con noi un Movimento complesso per le tante sensibilità di cui è composto.
Tanti di voi hanno fretta di togliere la gestione della piattaforma web Rousseau a Davide Casaleggio.
Io no. Rousseau è una risorsa, ma tutti gli strumenti vanno aggiornati in base ai cambiamenti che il Movimento sta affrontando. Se sei una forza di governo come il M5S devi avere le leve di comando.
Il Pd vorrebbe sospendere i limiti ai contratti a termine fino a fine anno, mentre voi al massimo fino al 30 agosto, perché temete che così si superi il decreto Dignità.
Sono sicuro che si troverà una soluzione. Se sospendere momentaneamente una parte del dl Dignità vuol dire aiutare tanti giovani a non perdere il lavoro, per me si può fare: non ho pregiudizi ideologici. Dobbiamo preoccuparci di ciò che accade fuori dai Palazzi, della vita delle persone.
Atlantia ha scritto al commissario europeo Valdis Dombrovskis accusando il governo italiano di violare le norme europee. E nel testo cita proprio lei: “Ha dichiarato che non è possibile per noi accedere alla garanzia dello Stato prevista dal dl Liquidità, sebbene Aspi soddisfi tutti i criteri per accedervi”. Che ne pensa?
È una lettera che si qualifica da sola. Chiunque, compresi i vertici Aspi, si sarebbe potuto trovare sul Ponte Morandi quando è crollato.
A che punto è la revoca della concessione? Si può ancora evitare trattando sulle tariffe?
Ritengo necessario che Atlantia si adegui alle delibere sulle tariffe delle autorità indipendenti, e trovo spiacevole che si preoccupino sempre dei profitti, tenendo conto che in questi anni non si sono preoccupati abbastanza della sicurezza di tutti noi.
“Situazione disgustosa. Ora misure coercitive”
“Queste situazioni sono disgustose”. All’altro capo del telefono, Giuseppe Ippolito guarda sul pc le immagini dei tifosi che festeggiano in piazza Garibaldi. “È vero che Napoli è un’area in cui il virus circola poco, ciò non toglie che continui a circolare”, dice pensieroso il direttore scientifico dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”, membro del Cts per l’emergenza Covid-19.
Era la terza partita ufficiale dopo il lockdown. E ad agosto qualcuno festeggerà lo scudetto.
Leggo che ieri in questa piazza c’erano 5 mila persone. Sono tutte attaccate, senza mascherine. Questo non deve accadere. Quello che sta succedendo in altri Paesi (Cina e Germania con i loro nuovi focolai, ndr) deve essere un monito. Se riaprire lo sport significa creare assembramenti, bisogna riflettere perché non risponde al senso di responsabilità.
Le partite a porte chiuse, quindi, non evitano il problema. La provoco: a questo punto non sarebbe logico aprire gli stadi?
Guardi io non amo il calcio, chi lo ama le dirà il contrario. Io ritengo che il calcio sia in ogni caso una fonte di pericolo, come lo sono stati i funerali e le manifestazioni politiche. Se non usiamo coerenza e consapevolezza dobbiamo pensare che non siamo sufficientemente maturi per goderci la libertà.
Pensi che Salvini stamattina ha detto: “Ci sono stadi da 50-70 mila posti, che problema ci sarebbe a fare entrare 20 mila persone?”.
Non mi pare il caso. In piazza Garibaldi erano 5 mila e sono già un problema. Se vogliono riaprire, almeno tengano chiuse le porte degli stadi. Bisogna restare vigili. Il virus circola, come i dati della Lombardia stanno lì a dimostrare.
A proposito, ogni volta che aumenta il numero dei tamponi si trovano più contagi. Ma la capacità di fare i test non è cresciuta come previsto dal monitoraggio del ministero.
La capacità diagnostica non aumenta dalla sera alla mattina. Servono investimenti e organizzazione. L’Italia sta facendo un gran lavoro, ma finché non avremo sistemi completamente automatizzati sarà difficile aumentare questa capacità.
Il problema è che, come previsto, sono scoppiati nuovi focolai. Dal palazzo alla Garbatella al San Raffaele Pisana.
Per fortuna sono comunità “chiuse”. Però dobbiamo pensare che situazioni come quelle viste a Napoli necessitano di ulteriori tamponi e monitoraggio. Tutte quelle persone andrebbero identificate e tracciate. Questa è una delle occasioni in cui la app (Immuni, ndr) sarebbe estremamente utile. Se non bastano consapevolezza e senso di responsabilità è evidente che ci vogliono sistemi più rigidi, volendo anche coercitivi.
Servono nuove misure?
Serve consapevolezza. Se le persone non sono in grado di autodeterminarsi è necessario che qualcuno lo faccia. Gli assembramenti vanno vietati, con qualsiasi sistema.
Pensa a una legge?
Non lo deve chiedere a me, ma al ministero degli Interni. Non è il mio mestiere.
Regione Lombardia “butta” altri 7 milioni nel Fiera Hospital
Lievita ancora il conto dell’ospedale in Fiera. L’Astronave voluta da Attilio Fontana e concepita da Guido Bertolaso riceverà dalla Regione Lombardia ulteriori 7 milioni (più 1,5 di Iva) di soldi pubblici, per l’acquisto di attrezzature sanitarie necessarie per rendere operativi tutti i potenziali 221 posti di terapia intensiva della struttura. Nonostante non ospiti più alcun paziente da giorni, l’hub è destinato a rimanere alla Fiera Portello almeno per i prossimi 24 mesi, bloccando peraltro ogni progetto di riconversione dell’area. L’ulteriore rifinanziamento del Fiera Hospital – 7 milioni di euro che vanno quindi ad aggiungersi ai 17,2 milioni di donazioni, ricevute da privati cittadini e imprese, e già spesi – è scritto nero su bianco nel “Piano di riordino della rete ospedaliera”, inviato martedì scorso da Regione Lombardia al ministero della Salute.
È il documento col quale ogni regione spiega come intende ristrutturare i propri ospedali alla luce dell’emergenza Covid, e per far fronte a un’eventuale seconda ondata. Alla Lombardia era richiesto di assicurare 0,14 posti letti di terapia intensiva (Ti) ogni mille abitanti, come previsto dal decreto 34 del 19 maggio 2020. Tradotto, significa trovare 1.446 letti di intensiva e 704 di semi intensiva. Il Pirellone ha quindi elaborato un piano di investimenti da 222.492.252 milioni (a fronte dei 225 ottenuti col decreto Rilancio): fondi destinati alla costruzione di nuovi reparti, alla riconversione di quelli esistenti e, infine, all’acquisto delle attrezzature mediche necessarie. Ed è proprio su questa ultima voce che la giunta Fontana “ricarica” l’ennesima spesa destinata alla Fiera. Per l’acquisto delle attrezzature per le Ti di tutti i 34 ospedali lombardi, Regione Lombardia prevede nel piano 27,9 milioni di euro: un quarto dell’intera voce di spesa sono quelli per il Fiera Hospital. Per avere un’idea, il secondo finanziamento per importo sarà destinato al San Gerardo di Monza: 1,9 milioni, a fronte dei 7 per il Portello (a Monza però i posti di Ti, venti previsti, dovranno essere creati da zero).
L’intenzione del Pirellone, in caso di seconda ondata, è quella di concentrare al Portello tutti i pazienti Covid intensivi e sub intensivi “per assicurare una gestione più efficiente, funzionale” e non “polverizzata” dei malati nei vari nosocomi della regione, interessati secondo il piano per almeno due anni da lavori di riorganizzazione e ristrutturazioni varie. Nessuna parola, nelle 58 pagine del documento pubblico, sulle sempre più evidenti carenze del Fiera Hospital: la mancanza di sale operatorie, di un pronto soccorso, dei bagni per i degenti e, soprattutto, la distanza fisica da un ospedale vero e proprio (e quindi da tutti i reparti necessari per il funzionamento di una terapia intensiva). Sono oltre sette infatti i chilometri per arrivare dalla Fiera al Policlinico di Milano, suo ospedale di riferimento. Un “inconveniente” al quale il Pirellone ovvierebbe acquistando – con fondi giunti da Roma – nuovi mezzi per “il trasporto sanitario inter-ospedaliero dei pazienti con necessità di assistenza qualificata”. Si legge nel piano: 10 nuovi mezzi MSA2 (mezzo di soccorso avanzato); 2 nuovi MSA1 e 2,5 veicoli MSB (mezzo di soccorso di base).
Tra costi diretti e indiretti, il Fiera Hospital si sta rivelando un buco senza fondo. A oggi il conto recita: 17,2 milioni di donazioni private già spesi per opere civili destinate a rimanere alla Fiera e a essere smontate una volta conclusa l’emergenza; una cifra ancora non quantificata per le attrezzature mediche già presenti (che, sebbene date in comodato d’uso o regalate dai privati, sono state comunque pagate da qualcuno) e ora questi ulteriori 7 milioni di euro. Tanto servirebbe all’Astronave per essere pienamente operativo come ospedale. E sempre che la Protezione civile non decida di richiedere indietro, per destinarli altrove, i lettini e i ventilatori dati in comodato gratuito nei mesi scorsi, e che oggi giacciono inutilizzati al Portello. Il rischio altrimenti è che diventi ancora più salato il conto per un non-ospedale che fino a oggi ha curato una trentina di pazienti, e che da giorni è completamente chiuso, perché vuoto.
“Sciagurati!”, Oms contro Napoli. De Luca e DeMa: “Qui zero casi”
La festa per la Coppa Italia a Napoli è la fotografia di uno sfasamento. Quello tra le leggi ancora in vigore e la percezione pubblica di ciò che resta della pandemia. Tra l’atteggiamento degli scienziati e quello di molti amministratori e cittadini. I fatti sono noti: mercoledì sera la squadra di Gattuso vince il primo trofeo del calcio post-quarantena e in città si riversa una folla spontanea di migliaia di persone. Canti, fumogeni, bagni nelle fontane e ovviamente nessun distanziamento sociale. Il giorno dopo, la notizia è il distacco siderale tra le denunce dei virologi (che si rifanno alle leggi vigenti) e la serenità delle istituzioni: i primi sono in fase 3, gli altri in fase 4, o 5, o 6.
L’allarme pubblico lo pronuncia in televisione (Agorà su Rai3) Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Organizzazione mondiale della sanità: “Sciagurati! – si riferisce ai napoletani scesi in piazza – Non ce lo possiamo permettere. Per fortuna a Napoli l’incidenza del virus è più bassa che altrove. Fa male vedere queste immagini. Ricordo quanto ha contato la partita dell’Atalanta all’inizio dell’epidemia in Lombardia. Non vorrei che si ripetesse”.
Giuseppe Ippolito, direttore dello Spallanzani e membro del Comitato tecnico scientifico, definisce i festeggiamenti dei tifosi “situazioni disgustose” (lo leggete in questa pagina nell’intervista di Marco Pasciuti). “Tutte quelle persone – aggiunge – andrebbero identificate e tracciate. Se non bastano consapevolezza e senso di responsabilità è evidente che ci vogliono sistemi più rigidi, volendo anche coercitivi”.
Per le istituzioni che avevano la responsabilità dell’ordine pubblico a Napoli, invece, quelle di Guerra e Ippolito sembrano preoccupazioni aliene. Ripetono tutti, con formule diverse: sarebbe stato semplicemente impossibile impedire alle persone di scendere in piazza. Nessuna ordinanza o pianificazione preventiva dell’ordine pubblico sarebbe stata legittima o efficace.
Di prima mattina il sindaco di Napoli Luigi De Magistris (ospite di Coffee Break su La7) definisce invece la festa dei napoletani “il contagio della felicità”. Preferisce non rispondere alle domande dei giornalisti, ma diffonde un lungo comunicato: “Ormai dai primi di giugno a Napoli c’è contagio zero e ieri sera in piazza c’erano solo napoletani. Inoltre non capisco chi sarebbe dovuto intervenire: dovremmo fare appello al lanciafiamme rimasto senza fuoco del presidente della Regione? Né tantomeno ritengo che si potesse ipotizzare che le forze dell’ordine intervenissero a separare le persone con il battipanni”.
Al di là dei toni folkloristici, la linea De Magistris per una volta è la stessa di De Luca. Il governatore-sceriffo ieri si è rifiutato di parlare degli assembramenti, ma lo farà oggi, anche per rispondere alle provocazioni sul tema del “somaro Salvini”. Ma la versione informale della Regione Campania è questa: il “lanciafiamme” è rimasto nel cassetto perché non ce n’è più bisogno. In Regione i nuovi casi sono praticamente azzerati, dalla prossima settimana cadrà anche l’obbligo di portare la mascherina all’aperto. E la linea di De Luca coincide a sua volta con quella di Prefettura e Viminale. Nessun caso – sostengono fonti della polizia locale –: sarebbe stato impossibile predisporre forze dell’ordine in tutta la città per impedire raggruppamenti spontanei, non annunciati. Gli agenti impiegati, oltre un centinaio, si sono concentrati sul mantenimento dell’ordine pubblico (messo a dura prova) invece che su impossibili sanzioni per evitare gli assembramenti. Anche dagli uffici del ministero dell’Interno declinano ogni responsabilità: non si può interferire sul diritto delle persone di manifestare. Vale per le piazze della politica come per quelle dei tifosi.
Il risultato finale è che la foto di Napoli dice questo: se non è “liberi tutti”, poco ci manca. Al di là delle norme e dei moniti degli scienziati. Intanto l’ultimo bollettino della Protezione civile ribadisce che il virus – pure se non in Campania – circola sempre: 333 nuovi positivi (64,8% in Lombardia), 66 morti, 1.089 guariti. Per la prima volta da oltre un mese aumenta (di 5 unità) il numero dei ricoverati in terapia intensiva.
Gli Incompiuti
L’altro giorno, dopo le ultime performance del presidente di Confindustria Carlo Bonomi, un amico mi ha girato il video (disponibile sul web) di una conferenza di Mino Martinazzoli, che descriveva la nostra classe imprenditorial-manageriale con un apologo: quello del capo-azienda che regala al suo direttore del personale, un nerd efficientista bocconiano con master a Londra, un biglietto per il concerto dell’Incompiuta di Schubert. L’indomani il giovanotto gli consegna una relazione della serata in 5 punti “1. Durante considerevoli periodi di tempo i 4 oboe non fanno nulla. Si dovrebbe ridurne il numero e distribuirne il lavoro tra il resto dell’orchestra, eliminando i picchi d’impiego. 2. I 12 violini suonano le medesime note. Quindi l’organico dei violinisti dovrebbe essere drasticamente ridotto. 3. Non serve a nulla che gli ottoni ripetano suoni già eseguiti dagli archi. 4. Se tali passaggi ridondanti fossero eliminati, il concerto potrebbe essere ridotto di almeno un quarto. 5. Se Schubert avesse tenuto conto di queste mie osservazioni, avrebbe terminato la sinfonia…”. Conclusione di Martinazzoli: “Io vorrei vivere in un mondo nel quale si possa continuare a sentire l’Incompiuta di Schubert così com’è”.
Ora, chi legge il Fatto e Millennium sa bene che Bonomi sta alla vera impresa come il sottoscritto all’astrofisica: questo ragioniere di Crema con un corso di economia a San Diego, in 51 anni di vita è riuscito a investire in attività produttive la miseria di 31mila euro. Ma è interessante che gl’imprenditori veri si facciano rappresentare da lui. Peggio per loro, si dirà. Sì, se non fosse che il rag. Bonomi, specializzato nell’italica arte del prendi i soldi e piangi, se la tira come un Pirelli o un Del Vecchio, insegna ciò che si dovrebbe fare, scuote il capino implume perché Conte aiuta anche chi ha bisogno, e auspica la caduta del governo per metterne su uno di larghe imprese, manco fosse Tejero. Ieri Salvatore Cannavò ha ricordato le precedenti lezioni dei numeri 1 confindustriali e la loro miseranda fine. Avevano tutte, come quelle di Bonomi, la consistenza di un oroscopo di Branko e l’attendibilità di una profezia del divino Otelma, tant’è che si pensò di ribattezzare Viale dell’Astronomia in Viale dell’Astrologia. La Marcegaglia, che se la rideva quando B. la chiamava “velina”, annunciò il Regno di Saturno se si fossero tagliate le pensioni. Monti & Fornero provvidero, coi risultati a tutti noti. Poi Squinzi ripartì con la tarantella: sgravi fiscali, soldi a pioggia, licenziamenti più facili e mai una sillaba sull’evasione, in cambio di mirabolanti “investimenti”. Che, certificò l’Ue nel 2018, erano addirittura diminuiti.
Sempre e comunque “nettamente sotto la media europea”. Invece i licenziamenti facili e i soldi pubblici arrivarono, grazie al Jobs Act e altre boiate dell’Innominabile, spalmato su Confindustria come la Nutella sul pane e ricambiato da Boccia con un tifo da stadio al Sì nel referendum del 2016. L’Ufficio studi di Confindustria pareva la direzione strategica delle Br, per il livello di terrorismo contro chi avesse osato votare No: giù il Pil del 4%, crollo degli investimenti del 20%, meno 600 mila posti di lavoro (non uno di più né di meno); mancava solo l’invasione delle cavallette. Poi vinse il No e tutti i parametri migliorarono. Boccia riprese a profetare sventure col nuovo governo giallo-verde in caso di blocco del Tav Torino-Lione: inventò “rivolte del Nord”, sbandierò un fantomatico “partito del Pil”, vaneggiò di “40mila nuovi posti di lavoro” (quando persino le carte dei Sì Tav non vanno oltre i 400), mandò avanti improbabili madamine fra gli applausi dei giornaloni e ovviamente di Salvini. Ora persino la Corte dei Conti dell’Ue ha certificato che quell’opera è inutile, costosa, inquinante ed eterna (non sarà pronta neppure nel 2030, cioè non si farà mai).
Quando il povero Boccia aveva consumato anche l’ultimo centimetro quadrato di lingua e di faccia, è arrivato Bonomi. Che s’è subito distinto come la parodia di Cetto La Qualunque (“questa politica fa più danni del Covid”), poi ha tuonato contro gli aiuti ai ceti più deboli (lui li chiama “sussidi a pioggia”, a meno che non vadano ai ricchi), infine ha annunciato che il grande piano per la ricostruzione dell’Italia l’avrebbe scritto con le sue manine e donato al governo. L’altroieri, accolto con rulli di tamburi, trombette e tromboni come il salvatore della Patria agli Stati generali, ha cagato la perla: “Rivogliamo i soldi delle accise sull’energia”. Ammazza che ideona. Il SuperPiano di SuperBonomi ha avuto grande audience su tutti i giornaloni, tranne uno: il suo, cioè il Sole 24 Ore, purtroppo in sciopero per il taglio degli stipendi del 25% e l’annuncio della cassa integrazione con la scusa del Covid (in realtà per una lunga malagestione: 340 milioni di perdite in dieci anni, taroccando pure le copie vendute e gli abbonamenti). Il che ci ha ricordato, ove mai non fossero bastate le performance dei nostri prenditor&magnager su Telecom, Parmalat, Cirio, Merloni-Indesit, case di moda, Sai-Ligresti, Ilva, Mps e altre banche decotte, che ne sarebbe dell’Italia se fosse gestita come Confindustria gestisce la roba sua. Eppure queste Cassandre con le tasche degli altri continuano a predicare la “cultura della crescita”, come se ne sapessero qualcosa. E, quel che è più comico, nessuno li ha ancora presi a pesci in faccia.