L’eterno ritorno dell’antisemitismo, dagli “Ebrei di Colonia” alle pandemie di oggi

“Solo che a farmi indignare oggi non è il passato, ma il presente. Allora quasi nessuno pensava che la natura ferina del XIV secolo, nutrita da preti e frati, potesse risvegliarsi di nuovo nel seno del popolo tedesco”. Era il 1897 quando il narratore e giornalista tedesco Wilhelm Jensen (1837-1911) scrisse la prefazione alla ristampa del suo romanzo storico Gli ebrei di Colonia (Die Juden von Cölln), un’opera giovanile, pubblicata nel 1869, che era nobilmente votata a narrare e a denunciare gli orrori dell’antisemitismo germanico nel Medioevo. Tanto che il libro fu apprezzato da Theodor Herzl, il fondatore del sionismo.

Sembravano vicende dei secoli più bui, storie della peste nera, la stessa di Giovanni Boccaccio. Invece, a distanza di tanto tempo, avvertì Jensen nel 1897, quel “feroce ruggito” dell’antisemitismo, l’odio dell’antigiudaismo cattolico, divamparono e risuonarono nuovamente. In Francia era scoppiato il caso di Alfred Dreyfus. In Germania si era svolto a Dresda, nel 1882, il primo congresso mondiale antiebraico, e nel 1885 erano stati espulsi 10 mila ebrei russi che si erano rifugiati in terra tedesca dopo i pogrom zaristi degli anni precedenti. Così la storia che aveva scritto, quasi trent’anni prima, si inverò ancora una volta, diventando bestialmente il presente. Alla vigilia del 1900, insomma, quanto era stato descritto da Jensen per il Medioevo si ripeteva; e la menzogna, le stupidità e le follie di massa facevano a pezzi come allora la ragione e la verità.

Amico di Sigmund Freud, che si ispirò a una sua novella, Gradiva, per l’indagine psicoanalitica sull’arte, Jensen aveva raccontato l’assalto al ghetto della città di Colonia, a metà del 1300, mentre infuriava la peste nera, e la distruzione di quella che era la più grande comunità israelitica della Germania. La pestilenza aveva alimentato in molti cattolici l’ossessione della “Fine dei Tempi”, scatenando l’individuazione di un untore, ossia di un colpevole, identificato nell’ebreo, “uccisore di Nostro Signore Gesù Cristo” e “avvelenatore dei pozzi”.

Gli ebrei di Colonia non era mai stato tradotto in italiano. Esce dunque ora, per la prima volta, grazie alla Biblioteca del Vascello-Robin, in una elegante edizione curata da Claudio Salone. È un romanzo, quello di Jensen, che anticipa, con una notevole preveggenza e una straordinaria lucidità di visione storica, ciò che sarebbe avvenuto in Germania negli anni Trenta-Quaranta con Hitler e il nazismo. Nello stesso tempo è una narrazione che ci è vicina proprio adesso, in questi mesi di novelle pandemie, di fronte al mai tramontato razzismo, al cospetto dell’eterno ritorno dell’antisemitismo. La lezione di Jensen, tuttavia, il suo messaggio imperituro, come avverte Salone nell’introduzione al romanzo, richiamano l’amore e la solidarietà dei perseguitati, “che talvolta riescono a valicare gli steccati che la Storia ha innalzato tra di loro, nel riconoscimento di un destino comune, illuminato dalla Luce della Ragione”.

Le mejo battute di Albertone nei ricordi dei nostri lettori

Grazie ai lettori per essersi uniti calorosamente al nostro omaggio ad Alberto Sordi nel centenario della nascita. Qui pubblichiamo alcune delle battute che ci avete segnalato.

“Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un cazzo”.
(Il marchese  del Grillo)
Carlo Stevan, Antonella Gaggioli, Elena Calogero

“Chi va co’ la corente è ’n’ baccalà/ Io so’ salmone e nun me mporta gnente/ A me me piace anna’ contro corente…”.
(Te c’hanno mai mannato)
Cosimo Pagliara

Sordi ubriaco: “Elena, perché fuggire? Non sono mica un lebbroso”.
(Una vita difficile)
Alessandro Bressanello

“- Come andiamo signora Paoloni?
– Male!
– Vede che migliora, ieri aveva detto malissimo!”.
(Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue)
Roberto Picelli

“Lavoratori!!!”.
(I vitelloni)
Aldo Bombardi

“Colonnello, i tedeschi si sono alleati con gli americani!”.
(Tutti a casa)
Vittorio Barbieri

Sordi annaffia, con la pompa dal terrazzo, i tifosi della Lazio che passano sotto casa sua: “Ah profughi! ’anvedi ’sti sfollati, ah zozzi laziali, tiè beccateve questa!”.
(Il marito)
Pierstefano Durantini

“Senz’altro bocciato!”.
(Totò e i re di Roma)
Mauro Chiostri

“- Caro Aronne Piperno, bello l’armadio… bella ’a buaseri’… ma io nun te pago.
– In che senso, Eccellenza?
– Ner senso che io nun caccio li sordi e tu nun li piji!”.
(Il marchese del Grillo)
Sergio Landi

Intervistatore: “Ma lei perché non si è mai sposato?”.
Sordi: “Ma che sei matto? Te metti una estranea in casa…?!”.
(Da un’intervista)
Aldo Petillo

Alberto Sordi e Mike Bongiorno, ultrasettantenni, ospiti in tv. Bonolis a Sordi: “Maestro, ma lo sa che quest’anno Mike farà un’escursione al Polo nord? Non è lodevole? Lei cosa farà?”.
Sordi: “No, io niente, è che c’ho la sciatica. Del resto che vuoi fare, a st’età o te pija alla testa o te pija alle gambe”.
(Chi ha incastrato Peter Pan, in tv)
Yuri Mozetic

“Te c’hanno mai mannato a quel paese/ Sapessi quanta gente che ce sta/ Er primo cittadino è amico mio/ Tu dije che te c’ho mannato io/ … Magari qualche amico te consola/ Così tu fai la scarpa e lui te sola/ Io te ce manno sola…”.
(Te c’hanno mai mannato)
Maddalena Siporso, Bruno Maniga

“Ormai hai ventun’anni, è tempo che tu sappia di chi sei figlio”.
(Un americano a Roma)
Mario Fantasia

“Cocorì, this is for you!”.
(Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata)
Antonio Pellegrini

“Remember, fata bionda…”.
(Il segno di Venere)
Adriana de Angelis

“Ma cusa fa chi a Milan cun stu cald?”.
(Il vedovo)
Marco Bosco

“Che aria balsamica! Siamo nello Stretto! Andiamo sul ponte, vedete, guardate l’Isola del sole e dei Ciclopi, cantata da tutti i poeti del mondo. Guardate lì il più grande elettrodotto del mondo che unisce il continente, e domani anche il Ponte! Guardate, quella è la città di Messina, si può sentire il profumo delle arance, dei limoni… Uora Uora arrivò u ferry boat!!!”.
(Il mafioso)
Sergio D. G.

Il soldato Sordi piangendo, sorpreso dalla ronda con un prosciutto sotto il mantello: “Cosa c’ho? A gobba c’ho”.
(L’allegro squadrone)
Enzo Polverigiani

“A Montaldí… e nun t’avventà come ’n drogato!”.
(Una botta di vita)
Massimo Melotti

Mai tramonta il viale del tramonto. Da noi arrivò solo nel 1951

“Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo”: forse non valeva per Norma Desmond, ma vale per Viale del tramonto. Un tramonto lungo settant’anni: l’anteprima al Radio City Music Hall di New York il 10 agosto del 1950, nel marzo del ’51 l’approdo nelle nostre sale.

Molti sono i film sul cinema, pochi gli eletti, pochissimi i capolavori: Sunset Blvd. lo è e, traguardo ben più impegnativo, è pure il capolavoro tra i capolavori di Billy Wilder. Per Carlo Verdone, che l’ha riproposto da guest director dell’ultimo Festival di Torino, “è un film che ha un sapore di morte”. Lo zombie-movie del metacinema, ancor più se Wilder non si fosse curato delle risate allo screen test di Evanston, Illinois, alla fine del ’49 e avesse mantenuto il prologo originario: la camera scendeva dal Sunset Boulevard – l’arteria hollywoodiana che si tuffa nel Pacifico – all’obitorio, dove il cadavere di Joe Gillis (William Holden) e altre salme iniziavano a parlare.

Non importa, l’incipit definitivo ce lo consegna esanime, riverso e ripreso da una posizione impossibile nella piscina di una villa, la sua voce over apre al flashback e ritrova altri morti viventi, Norma Desmond (Gloria Swanson), l’attempata diva del muto di cui sarà mantenuto, amante e vittima; il di lei maggiordomo Max (Erich von Stroheim); il crudele – e decisamente il più arzillo – Cecil D. DeMille che sta girando – davvero – Sansone e Dalila e nulla vuole sapere della Salomè di Norma; Buster Keaton, che gioca a carte con vecchie glorie e per due volte pronuncia un laconico e simbolico “passo”.

Wilder, sceneggiatore con Charles Brackett, con cui litigò, e D.M. Marshman Jr., non voleva fossero di Hollywood i primi spettatori perché di Hollywood si parlava, non bene: l’apogeo della decadenza, il narcisismo terminale, il profitto e l’approfitto – Gordon Cole, identità poi mutuata da Twin Peaks, che punta l’Isotta Fraschini – per esperanto, le dinamiche servo-padrone per acquisite. Poi, grandezza che sdilinquisce nell’ossessione fantasmatica, totem che si coprono di ridicolo, piscine che accolgono topi e – Joe legge The Young Lions di Irwin Shaw – leoni, e i film nel film dispensati con sadica generosità da Wilder: Max proietta La regina Kelly, in cui egli stesso, ovvero von Stroheim, diresse la Swanson nel 1928; Norma consegna alla Storia del Cinema l’“Eccomi, DeMille, sono pronta per il mio primo piano”, e con Cecil Gloria lavorò, e non solo, in sei lungometraggi, da Perché cambiate marito? del 1919 a Fragilità, sei femmina! del ’21.

I simulacri abbondano, il redde rationem ha la toccata e fuga di Bach suonato da Max al piano, assoluta è la mancanza di prospettiva e di proporzioni: “I am big. It’s the pictures that got small”, pretende appunto Norma. Ma per le star dei silent film la pena del contrappasso è la parola. Lungi dal rivendicare lo status: “Le grandi stelle non hanno età”, certifica l’estinzione: un grande mondo antico che se ne va, rivolgendosi contro una nemmeno troppo latente pulsione di morte. Che è la materia di cui sono fatti i sogni di Hollywood: “Ci fu un maragià che venne dall’India per avere una delle sue calze di seta. Quando la ottenne ci si strangolò”.

Non esiste tramonto senza alba, eppure Gloria Swanson si fermò alla notte, la più importante del cinema mondiale: perse l’Oscar a favore della Judy Hallyday di Nata ieri. Nella cinquina dell’attrice protagonista più folgorante di sempre, non l’ottenne nemmeno la coppia di Eva contro Eva Anne Baxter e Bette Davis, ma la Swanson perse due volte: come Gloria, e come Norma. Solo il tempo le ha reso giustizia: è morta il 4 aprile del 1983, però ne vediamo ancora la luce. Non succede forse alle stelle del cielo?

 

Bobbio, Calamandrei la giusta morale

Era profonda l’amicizia che legava Norberto Bobbio (1909-2004) e Piero Calamandrei (1889-1956). Bobbio, più giovane di vent’anni, riconosceva in Calamandrei un maestro negli studi giuridici per la perizia tecnica, per la vastità della dottrina, per il rigore del ragionamento.

Maestro soprattutto perché non intese il diritto come pura tecnica, dottrina o ragionamento logico, ma quale mezzo per servire l’ideale della giustizia. Qui è d’obbligo citare direttamente Bobbio: “Il significato profondo della vita di Calamandrei, ciò che rese la sua figura umana così affascinante, si può riassumere brevemente in queste parole: passione e lotta per la giustizia. […] L’ideale di giustizia, costantemente perseguito, lo fece esser presente con cuore appassionato e mente lucidissima dovunque vi fosse un sopruso da denunciare, un torto da riparare, un debole da proteggere. […] Purché non si dimentichi che la giustizia cui egli mirava non era accigliata ma sorridente, volta più verso l’indulgente comprensione che verso la severità: era una giustizia in cui la bilancia contava più del gladio e sui due piatti della bilancia una rosa pesava più di un grosso volume di dottrina” .

Bobbio definì Calamandrei un “giurista moralista”. Voleva dire che per Calamandrei l’opera del giudice e dello studioso di diritto doveva sempre essere rischiarata dalla devozione al fine di portare pace e giustizia fra gli esseri umani. Con una delle sue indimenticabili immagini, Calamandrei paragonò il giudice che ha dimenticato il contenuto morale della sua missione al sacerdote che ha perso la fede e officia per stanca abitudine: “Il giudice che si abitua a render giustizia è come il sacerdote che si abitua a dir messa. Felice quel vecchio parroco di campagna che fino all’ultimo giorno prova, nell’appressarsi all’altare col vacillante passo senile, quel sacro turbamento che ve lo accompagnò prete novello alla sua prima messa; felice quel magistrato che, fino al giorno che precede i limiti di età, prova, nel giudicare, quel senso quasi religioso di costernazione, che lo fece tremare cinquant’anni prima, quando, pretore di prima nomina, dové pronunciare la sua prima sentenza”.

Moralista anche perché Calamandrei era severo critico dei giudici insensibili al fatto che le loro decisioni condizionano la vita di esseri umani: “I giudici, che tengono con indifferenza [gli] incartamenti in attesa sul loro tavolino, sembra che non si ricordino che tra quelle pagine si trovano, schiacciati e inariditi, i resti di tanti poveri insettucci umani, rimasti presi dentro il pesante libro della giustizia”. Bobbio ammirava Calamandrei anche per il suo antifascismo intransigente. Al maestro fiorentino dedica parole simili a quelle che in altra occasione scrisse per il suo compagno di liceo, Leone Ginzburg, implacabile oppositore al fascismo, torturato a morte dalle SS nel febbraio 1944. Quando afferma che fin dall’inizio “Calamandrei fu antifascista fermissimo, intransigente, sprezzante”, che “fin dal 1942, fu fra i fondatori del Partito d’Azione, e con l’autorità, l’esempio, la parola, gli atti, uno degli animatori della Resistenza italiana”, Bobbio muove anche, implicitamente, un rimprovero a se stesso per non essere riuscito a seguire fino in fondo e sempre gli esempi di Ginzburg e di Calamandrei. Entrambi militanti del Partito d’Azione, vissero il loro impegno come dedizione all’idea di una democrazia fondata sui valori della libertà e della giustizia, nella convinzione che la libertà civile e politica senza giustizia sociale degenera in privilegio, mentre la giustizia sociale senza libertà civile e politica diventa totalitarismo. Negli anni 50 furono critici severi del sistema di potere instaurato dalla Democrazia Cristiana, e critici altrettanto severi dell’ideologia e della politica del Partito comunista. Non furono mai anticomunisti.

“Avendo scelto la sua parte a fianco degli umili contro i prepotenti – scrive Bobbio – Calamandrei non abbandonò mai il campo, non tollerando faziose discriminazioni tra partiti che rappresentavano in diversa guisa e con diversi intenti la massa dei diseredati, la moltitudine di coloro che avevano diritti, a lungo calpestati, da rivendicare”. Criticò senza sottintesi lo Stato comunista, la dottrina e i metodi del Partito comunista in Italia, ma non accettò la cruda alternativa o di qua o di là: “Non confuse l’intransigenza con l’intolleranza, la fedeltà alle proprie idee con la faziosità, la sincerità verso di sé con la falsa purezza di chi non vuole farsi contaminare, il non essere comunisti con l’anticomunismo”. Bobbio rimase fedele per tutta la vita a questi princìpi.

 

Il carteggio Gramsci e una questione di giustizia sulla quale lavorare

Mio caro Bobbio, sto raccogliendo per il Ponte alcuni articoli di avvocati penalisti, magistrati e criminalisti sulle relazioni tra la polizia e la magistratura nella ricerca dei colpevoli. Ora mi capita sott’occhio un’osservazione contenuta nell’ultimo volume delle opere di Gramsci, pubblicate da Einaudi (Passato e presente, 1951, pag. 185), nel quale si fa un riavvicinamento che per me riesce nuovo “tra il metodo istruttorio per ricostruire la responsabilità penale dei singoli individui e il metodo critico, proprio della filosofia della prassi, di ricostruire la ‘personalità’ oggettiva degli accadimenti storici e del loro svolgimento”. Secondo questa osservazione, nella procedura penale attuale la confessione dell’imputato avrebbe perduto la importanza decisiva che aveva un tempo, perché, com’è detto nella introduzione al Capitale di Marx, “non si può giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di se stessa, così come non si giudica ciò che un individuo è da ciò che egli sembra a se stesso”. Io non so se sia proprio esatto questo parallelismo, e se sia vero che la concezione del processo penale sia stata modificata per effetto del metodo critico (a giudicar dalle botte che danno i poliziotti per estorcer le confessioni, direi che il metodo critico ha lasciato le cose come erano due secoli fa).[…] In ogni modo, poiché gli spunti giuridici che si trovano in Gramsci sono assai suggestivi, mi permetto chiederti se non crederesti di scriver qualcosa per il Ponte…
Piero Calamandrei, 3 febbraio 1952, Firenze

Caro Calamandrei, non avevo ancora visto il passo di Gramsci che mi citi nella lettera. L’ho esaminato attentamente. Mi pare che l’avvicinamento tra i nuovi metodi processuali e la filosofia della prassi sia arbitrario o perlomeno sia tanto generico che non se ne può cavare nulla. Anzitutto ci sarebbe da contestare l’equiparazione tra metodo critico e filosofia della prassi. Se metodo critico nella storiografia è, mi pare, qualcosa di assai più vasto che non la filosofia della prassi, e comunque non è stato scoperto dalla filosofia della prassi, questa, se mai, può avervi aggiunto qualche espediente metodologico minore, o meglio una maggiore consapevolezza. La frase di Marx che non si deve giudicare di un’epoca storica di quel che essa dice di se stessa, non mi pare caratteristica della filosofia della prassi; mi pare una cautela di cui ogni bravo storico si vale. Siamo quindi in un campo fluido (…). Non escludo che si possa fare una ricerca più ampia sugli spunti di teoria giuridica in Gramsci. Ma occorre un lavoro lungo e paziente. Sto seguendo una tesi di laurea sopra la teoria del diritto e dello Stato in Gramsci. Vedo che c’è molto da dire. Ma appunto per qualcosa di serio ci vuole del tempo
Norberto Bobbio, 10 febbraio 1952

Cuccia, Gardini e gli Altri. Bernabè e i volti del potere

A 30 anni Franco Bernabè inizia alla Fiat la carriera di manager, a 44 gli affidano la guida dell’Eni, a 50 Telecom Italia. Oggi, a 71 anni, ripercorre con A conti fatti i suoi 40 anni nel potere economico, in un racconto punteggiato da rapidi e sapidi (e senza sconti per i defunti) ritratti di alcuni personaggi chiave di una stagione drammatica di declino del capitalismo italiano. Ve ne anticipiamo qualche assaggio.

Gianni Agnelli Come tutti, Gianni Agnelli aveva molti difetti, ma non si sarebbe mai permesso di fare una battuta critica contro il suo Paese. Penso per esempio al danno arrecato all’Italia da un libro come The Italians, di Luigi Barzini. Molti italiani in posizioni di responsabilità, quando cominciano ad avere visibilità internazionale, tendono a prendere le distanze dal proprio Paese, quasi a scusarsi di essere italiani. La loro preoccupazione è di non confondere la propria immagine con quella del loro Paese. L’Avvocato non aveva di questi complessi, anzi avvertiva su di sé il peso di una responsabilità e lo faceva con grande classe.

 

Enrico Cuccia All’epoca [anni 90] Cuccia [presidente di Mediobanca] aveva già superato gli ottantacinque anni e non ho mai potuto apprezzarne la lucidità e l’intelligenza che chi lo aveva conosciuto da giovane gli accreditava. Ma ciò che più mi colpiva era il cinismo con cui Maranghi [Vincenzo, amministratore delegato di Mediobanca] lo trattava per le sue operazioni di marketing finanziario. Dopo avermi ricevuto nella sala del consiglio, faceva entrare Cuccia dalla porta laterale, accompagnandolo con sussiego al tavolo delle riunioni, per poi potersi intrattenere con me. Trovavo irriguardoso quel suo atteggiamento verso una persona anziana, ma evidentemente Cuccia si prestava al gioco.

 

Raul Gardini Poco dopo la firma [dell’accordo Enimont], Gardini, inaspettatamente, invitò a cena Reviglio [Franco, presidente dell’Eni] e i suoi più stretti collaboratori, tra i quali anch’io, nella sua casa di Ravenna. Non avevo mai visto Gardini prima di allora, mentre conoscevo gli uomini del gruppo Ferruzzi-Montedison che avevano partecipato al negoziato. Avevo incontrato Carlo Sama e non ne avevo avuto una grande impressione. Per l’occasione Sama si offrì di accompagnarmi con la sua auto dall’aeroporto di Forlì a casa di Gardini, guidando a velocità folle. Quel breve viaggio mi confermò l’opinione che mi ero già fatto di lui. Mi disse che il suo obiettivo era battere Gardini percorrendo il tragitto in meno di venti minuti ed evitando di finire fuori strada a una curva a gomito a metà percorso. A casa di Gardini capii che a tenerli uniti era il carattere: due personaggi simili nell’arroganza, con l’atteggiamento guascone tipico della provincia. Il disprezzo per la cultura era ostentato da entrambi. Durante la cena, scherzando ma non troppo, Gardini disse che Sama aveva una profonda conoscenza della cultura americana perché guardava ogni domenica film di cowboy. Palazzo Prandi, la residenza ravennate di Gardini, era un bell’edificio del Settecento con un portale sovradimensionato rispetto alla facciata. All’interno tutto era eccessivo, come il suo proprietario: dai velluti alle posate d’oro a tavola. Erano eccessivi anche i toni della conversazione. Gardini era evidentemente abituato a strafare.

 

Lorenzo Necci Garbato nel tratto, colto, suadente, Necci aveva una straordinaria abilità nel coltivare i rapporti. Organizzava sovente cene a casa sua con personaggi della più diversa estrazione e dei più vari orientamenti politici. Non so fino a che punto il lato oscuro dei suoi rapporti con la politica abbia pesato sulle sue scelte manageriali. [Il 15 dicembre 1988] alla firma [del contratto Enimont] presenziarono tutti quelli che avevano partecipato ai lavori, dagli avvocati ai direttori di Eni. Ma i veri protagonisti furono Necci e Cragnotti, i quali avrebbero assunto le più alte responsabilità direttive di Enimont. Necci portava a termine un disegno accarezzato da lungo tempo. Alla fine della breve cerimonia, preso dall’entusiasmo, omaggiò sia Gardini sia Reviglio di una cazzuola d’argento con simboli massonici. A molti dei convenuti e soprattutto a Reviglio l’imbarazzo si leggeva in faccia.

 

Gabriele Cagliari Dopo l’arresto [9 marzo 1993] [il presidente dell’Eni] non si era sottratto alle sue responsabilità. Nel corso degli interrogatori aveva ammesso gli episodi di corruzione che stavano emergendo e aveva svelato un sistema di malaffare devastante per l’immagine di Eni: un sistema che forse aveva subito, ma da cui aveva tratto importanti benefici personali. Non a caso nel 1997 la vedova, Bruna Di Lucca, restituirà a Eni 13 miliardi di lire che le erano stati intestati dal marito su un conto svizzero. Difficile capire le ragioni della sua complessa vicenda umana. L’ambizione lo aveva spinto ad accettare un sistema che aveva finito per travolgerlo, e l’orgoglio gli aveva impedito di dissociarsi da quel sistema anche quando non c’era più alcuna ragione per sostenerlo. Per questo non aveva potuto beneficiare del trattamento che era stato invece riservato ad altri inquisiti di Mani Pulite e aveva pagato un prezzo personale enorme.

 

Giuseppe Tatarella Accanto agli ex piduisti [nei tentativi di far fuori Bernabé] era sceso in campo anche Tatarella. Figura di primo piano di An, il deputato pugliese amava definirsi il “ministro dell’armonia” pur essendo il più vorace interprete delle aspirazioni della nuova destra a occupare posizioni di potere. Pochi giorni dopo l’insediamento del primo governo Berlusconi [1994] mi aveva chiamato per dirmi che avrei dovuto concordare con lui le nomine in Eni. Ribattei che non avevo intenzione di concordare alcunché, né con lui né con altri. Mi rispose senza giri di parole che me l’avrebbe fatta pagare. Il giorno dopo annunciò alla stampa di avere incaricato quattro esperti di svolgere un’indagine sui misteri del pianeta Eni.

La Cassazione sulla strada di Malagò. A rischio il terzo regno al vertice Coni

Il ventennio di Malagò cadrà l’anno prossimo, a due decenni dal suo primo ingresso in giunta Coni. E proseguirà fino al 2025, se sarà rieletto per la terza volta, su gentile concessione del Pd. Quando fu approvata la Legge Lotti (tre mandati per le cariche sportive, compreso il Coni che era fermo a due), tutti diedero per scontato che il limite fosse sulla presidenza, non su altri ruoli. Il testo però non lo specificava, vatti a fidare degli amici. A sciogliere il dubbio potrebbe averci pensato la Cassazione, che a maggio 2018 per una situazione diversa ma simile ha stabilito: “L’uso della congiunzione ‘e’ tra le parole ‘i consiglieri’ e ‘il presidente’, accomunando le due cariche in un’unica proposizione, manifesta chiaramente l’intenzione del legislatore”. Tradotto: chi ha fatto due mandati da presidente, ma prima è stato consigliere, è ineleggibile. È proprio la situazione di Malagò, presidente Coni dal 2013 al 2017 e dal 2017 ad oggi, già membro di giunta dal 2001 al 2003 e dal 2009 al 2013. Certo, i giudici deliberavano sull’Ordine dei commercialisti di Roma e non sul Comitato Olimpico, il cui presidente è nominato con decreto del Quirinale. Tutt’altra storia, assicurano al Coni, che però è un ente pubblico come l’ordine.

Non è un caso che un anno fa l’ex sottosegretario Giorgetti inserì nella sua riforma dello sport un articolo per il riordino dei mandati. C’è un dettaglio da considerare: il presidente Coni è membro pure della giunta, dove Malagò tornerebbe per la quarta volta consecutiva. E ciò è contro la legge (come, tra l’altro, il padre padrone degli arbitri Marcello Nicchi in Figc, messo nel mirino proprio dal Coni). Per questo a Palazzo Chigi tenevano in un cassetto la sentenza della Cassazion per l’interpretazione definitiva alla legge, il cui spirito era restrittivo: tre mandati, punto. Magari differenziando tra Federazioni grandi e piccole, per evitare di decapitare organismi dove il ricambio è più difficile.

Ora il ministro Spadafora ha ereditato la delega, entro luglio vanno approvati i decreti. Le bozze sono interlocutorie, si parla di confermare il tetto dei tre mandati, o addirittura ridurlo a due. In ballo c’è la poltrona di 40 presidenti federali che governano lo sport, sempre gli stessi: a loro Lotti ha concesso un’ultima elezione “extra”, che qualcuno vorrebbe eliminare per rimuovere le “incrostazioni di potere”. Ma nemmeno Malagò è del tutto al riparo, anche se il Coni si appella all’autonomia dello sport e alla carta del Cio (già una volta sceso in suo soccorso). Con la Cassazione una ricandidatura potrebbe essere oggetto di ricorso. Serve comunque un intervento. Per mettere fine a un’epoca, o semplicemente prolungarla, consentendo il quarto mandato in giunta. Un’altra legge Malagò, l’ennesima.

A Roma M5S e Pd si fanno i dispetti sulla Resistenza

Breve apologo sull’amicizia impossibile tra i gialli e i rossi (o come rendere complicate le cose semplici). La notizia la scrive su Repubblica Lorenzo d’Albergo, a Roma è arrivata una modesta proposta dai consiglieri grillini: perché non usare l’immobile del Comune in via dei Giubbonari – dove fino al 2016 c’era il circolo del Pd – per un “punto informativo” sulla Resistenza e sull’antifascismo?

L’idea in teoria potrebbe mettere d’accordo tutti e diventare persino un buon pretesto per la contaminazione e lo scambio tra i due partiti che a Roma si combattono, ma l’Italia la governano insieme. La mozione porta le firme del capogruppo M5S Giuliano Pacetti e di Roberto Allegretti (grillino con la tessera dell’Anpi). Propone – oltre al recupero dei locali del centro storico – di aprire un museo della Resistenza anche in periferia, nella zona dell’ex carcere di Forte Boccea. Tutti d’accordo? Macché. Il Pd, sfrattato dai Giubbonari dopo una lunga morosità, quella sede la sente ancora sua. L’idea grillina la vive come una provocazione. Per i dem “è solo uno spot” (o come si dice da queste parti, “una paraculata”). Spiega il segretario capitolino Andrea Casu: “Fin dall’inizio del mio mandato mi sono battuto per fare rivivere la sede, rimettendo al suo posto la targa dedicata alla memoria del partigiano Guido Rattoppatore. Solo chi non conosce la storia della città può pensare di decidere il futuro di uno spazio così importante senza confrontarsi anche con noi”. E quindi niente: non trovano un accordo nemmeno sull’antifascismo. Che sia un’occasione persa lo pensa anche Giulia Urso, che per tanti anni è stata segretaria della sezione Pd dei Giubbonari (prima di fare i bagagli verso Articolo Uno): “La città cambia, la politica cambia, i partiti cambiano. Dedicare la sede alla Resistenza potrebbe essere una bella idea. Perché, per una volta, non ragionare sul merito, invece di cercare sempre la contrapposizione?”.

Contagi, Pechino trema: mobilitati in 100 mila

Sigillati in casa. È la sorte che sta toccando a un numero sempre maggiore di pechinesi da quando, l’11 giugno, nella capitale cinese è stato segnalato il primo contagio da Coronavirus da due mesi a questa parte. L’allarme questa volta è risuonato immediatamente nelle orecchie del presidente a vita Xi Jinping, spaventato da eventuali ulteriori danni economici e, di conseguenza, di immagine per la propria leadership. Se scoppiasse una nuova ondata vera e propria a Pechino, megalopoli di 22 milioni di abitanti (Wuhan, la città dove si è generato il nuovo coronavirus, ne ha 11 milioni, ndr) sarebbe molto difficile contenerla e darebbe la stura a una probabile catastrofe. Le autorità hanno segnalato 137 nuovi casi da quando il cluster è stato identificato. Le province limitrofe di Hebei, Liaoning, Sichuan e Zhejiang hanno inoltre riferito di nuovi casi legati ai viaggiatori che sono arrivati da Pechino.

Il vice premier cinese Sun Chunlan ha chiesto un’azione decisa, avvertendo che il rischio di diffusione del virus è “molto elevato”. Xu Ying, alto funzionario del governo della città, ha quindi messo Pechino in “modalità bellica” per contenere il virus, aumentando il timore di un confinamento generale di tutta la capitale con le relative restrizioni ai movimenti. In alcuni distretti della metropoli, i residenti sono stati obbligati a rimanere in casa fino a quando non si conosceranno gli esiti dei tamponi e test sierologici. Il nuovo cluster è emerso nel più vasto mercato all’ingrosso della capitale, Xinfadi, per espandersi ad altri mercati più piccoli. Milioni di cinesi a questo punto iniziano a sospettare che le autorità non siano in grado di controllare realmente una seconda ondata epidemica e così il Dragone che li governa prova ad addossare la colpa al salmone “europeo”. La Cina, scrive il South China Morning Post, ha sospeso le importazioni di salmone dai fornitori europei. Prima del salmone, era stato accusato il tagliere su cui veniva fatto a fette sui banchi del mercato che serve anche la maggior parte dei ristoranti e super ercati. Così, scrive il giornale di Hong Kong, i principali supermercati di Pechino hanno fatto sparire il salmone dagli scaffali. Gli esperti sostengono che tuttavia è molto difficile che il pesce di per sé possa aver veicolato il virus. Shi Guoqing, vicedirettore del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, ha dichiarato che le autorità non credono a questa ipotesi: “Nessuna prova è stata trovata che il salmone è l’origine o il corriere del coronavirus”, ha detto in conferenza stampa il funzionario. Ma il salmone – “importato” – è stato comunque messo sotto accusa. Tutto mentre i media ufficiali cinesi rilanciavano notizie secondo cui il nuovo ceppo di Pechino sembrerebbe avere somiglianze con quello europeo ed essere diverso – come ha detto Wu Zunyou, capo degli epidemiologi cinesi del Centro di controllo e prevenzione delle malattie – da quello dell’epidemia dei mesi scorsi. Le comunità di Pechino

Quello che il governo sta facendo è essenzialmente un processo di individuazione rapida, su vasta scala, di aree di potenziale rischio e tracciamento verso il basso. Secondo fonti vicine al governo, sarebbero stati cooptati 100.000 “lavoratori per il controllo dell’epidemia”. Anche per gli studenti, la situazione torna al punto di partenza: le scuole della città sono state nuovamente chiuse. Bar, palestre, luoghi di intrattenimento al chiuso sono sbarrati. Oltre il 60 percento dei voli commerciali in entrata e in uscita dalla città sono stati infine cancellati. Anche l’amato-odiato jiankangbao – il codice scannerizzato QR che conferma che una persona non è stata contrassegnata come ad alto rischio – è stato rimesso in funzione. Sebbene Pechino non avesse mai richiesto ufficialmente alle persone di rimanere sigillate, anche al culmine della prima ondata di pandemia, la maggior parte delle persone aveva optato per l’auto-quarantena. Per i proprietari di ristoranti e piccole imprese la notizia del nuovo focolaio è stata un vero pugno nello stomaco.

117 mila vittime: più morti che nella Prima guerra mondiale

Più morti che nella Prima guerra mondiale. Gli Stati Uniti pagano il negazionismo del presidente Trump. Oltre 117 mila vittime per il Covid-19, nella Prima guerra furono 116.516. In aprile gli Usa avevano già superato i caduti in Vietnam e la prossima settimana si preparano a sorpassare anche il totale delle vittime dei 16 Paesi dell’Europa occidentale, attestato a circa 121 mila. Tragedia anche in Brasile, dove il presidente Jair Bolsonaro, imitando Trump, ha sottovalutato o ignorato i consigli degli esperti: ora il Paese ha quasi un milione di contagi e oltre 45 mila decessi. In 24 ore ci sono stati 35 mila ammalati. Tornando agli Stati Uniti, la Casa Bianca dice una cosa, il virologo numero uno, Anthony Fauci (nella foto) , l’opposto. Il vicepresidente Mike Pence ha assicurato in un intervento sul Wall Street Journal che il Paese “sta vincendo la sua battaglia contro il nemico invisibile”, negando che ci sia “una seconda ondata” e affermando che i timori alimentati dai media sono “esagerati”. Ma i numeri lo smentiscono. Nelle ultime 24 ore gli Stati Uniti hanno registrato oltre 24.000 nuovi casi di coronavirus e 840 nuovi decessi. Inoltre il numero dei contagi sale in 21 dei 50 Stati, soprattutto al sud e all’ovest. Gli Stati colpiti sono Florida, Arizona e Texas, ma non si parla di lockdown. “La gente parla di una seconda ondata, ma siamo ancora nella prima” dice Fauci ancora al Wall street Journal. Riferendosi in particolare alla situazione interna, il direttore dell’Istituto delle malattie infettive, ha osservato: “Quando guardo la televisione e vedo immagini di gente che si trova in gruppo, ad esempio nei bar, penso che sia un comportamento molto rischioso”. Di tutto questo il presidente Trump non tiene conto: il presidente ha confermato che sabato ci sarà comunque il suo primo comizio a Tulsa, in un’arena da quasi 20 mila posti. Un giudice dell’Oklahoma ha respinto la richiesta di bloccarlo. A presentare l’istanza erano state due organizzazioni assieme ad alcuni residenti immunodepressi, timorosi che senza misure di distanziamento sociale e l’uso della mascherina, il raduno diventerà causa di un focolaio.

“No pasarán”: la pandemia blocca il rientro in Marocco

Otto milioni di mascherine, 900 mila visiere, 600 mila retine per capelli, 60 mila tute e 30 mila litri di disinfettante, più 75 mila confezioni di clorochina e 15 mila di azitromicina. Mohammed VI, sovrano del Marocco, è la nuova star dell’Africa dopo aver inviato forniture mediche a 15 Stati per contrastare il Covid-19 e aver disposto a Rabat il centro di coordinamento per la gestione della pandemia di mezzo continente africano.

Mohammed VI è un re pragmatico, ma soprattutto asmatico. Operato qualche giorno fa al cuore con successo per la seconda volta in due anni a causa di un’aritmia, il sovrano è terrorizzato dalla pandemia che con un soffio potrebbe ucciderlo. Non è un caso che il Marocco sia rimasto praticamente l’unico Paese a non aver riaperto i confini né ad aver indicato un calendario. A Rabat non atterrano voli, né commerciali, né turistici. E non solo. Finché il Covid non sarà debellato, Mohammed VI non darà il via libera neanche al rientro dei sudditi sparsi per l’Europa.

Si tratta di 3,2 milioni di cittadini marocchini che ogni anno tra il 15 giugno e il 15 settembre rientrano a casa per le vacanze attraversando la Spagna per passare dallo Stretto di Gibilterra. È la cosiddetta “operacion del Estrecho” (Ope) per gli spagnoli, dal lato arabo “operazione Marhaba”, con cui Madrid dal 1986 – pur di mettere fine alle lunghe giornate di traffico chilometrico che portavano al collasso i porti dell’Andalusia – regola il rientro dei sudditi di Rabat. Dell’Ope 2020 non si parla. Il sultano da sempre è molto preoccupato a mantenere salde le relazioni con la Spagna proprio per non mettere in discussione il rientro dei suoi, cosa che ha rischiato di accadere nel 2001, quando fallirono i negoziati per il rinnovo dell’accordo di pesca tra Marocco e l’Unione europea, lasciando 4 mila pescatori spagnoli senza lavoro. L’allora governo del Popolare José Maria Aznar fece temere al re che avrebbe potuto cancellare l’Ope e di tutta risposta Mohammed VI inviò i suoi ministri dell’Interno e degli Esteri a pregarlo. “I figli del Marocco” non avrebbero dovuto “essere puniti vendendo privati del contatto annuale con la propria terra”, dissero gli emissari. Contatto di cui, al contrario, possono fare a meno quest’anno, visto che il monarca non ha sollecitato l’avvio dell’operazione per lui “non prioritaria” in questo momento. Da parte sua, il governo di Madrid – che aveva già chiarito all’inizio del lockdown che, vista la pandemia, avrebbe concesso il passaggio dello Stretto solo in caso Rabat l’avesse richiesto esplicitamente – sostiene di avere tutto in pronto in caso di doverla attuare, ma si è guardata da attivarne le procedure, pur avendo annunciato la riapertura delle frontiere dal 21 giugno. L’“operazione Estrecho” costa a Madrid non solo in termini economici, ma anche di dispiegamento di forze: ad attraversare la penisola iberica, infatti, secondo i dati del ministero degli Interni di Madrid, sono ogni estate 760 mila automobili provenienti da Francia, Belgio, Paesi Bassi e Italia. Il che vuol dire lo schieramento di forze di sicurezza, interpreti e tecnici dei porti, per non parlare – causa pandemia – del personale sanitario. Tema delicato per Sánchez, il quale – benché ribadisca di voler rafforzare il personale sanitario addetto ai confini che oggi consta di 600 unità – in realtà si è trovato davanti a una triste realtà: dopo anni di tagli, secondo il sindacato Ccoo, fatti salvi i veterinari e altri sanitari, avrebbe a disposizione per tutti i confini solo 150 funzionari. A questo punto, escluso l’Ope tradizionale, Mohammed VI starebbe pensando di proporre di una “mini operazione Marhaba” a luglio, o, in alternativa, in luogo della traversata della penisola iberica per raggiungere lo Stretto, undici vie alternative, oltreché l’obbligatorietà dei biglietti chiusi con data di ritorno già stabilita. Il che significherebbe di fatto il ritorno al collasso dei porti andalusi.

Da questo piano sarebbero escluse le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, e dunque i lavoratori transfrontalieri delle due città che pure approfittano dell’Ope per rientrare a casa. Come le 7 mila “temporeras”, le raccoglitrici stagionali di fragole di Huelva. I loro contratti stanno per scadere, ma Rabat non vuole riaccoglierle, nonostante l’Andalusia si sia offerta di fare loro il test del Covid-19. Destino simile è stato riservato da Mohammed VI ai cittadini marocchini rimasti in giro per il mondo con il lockdown.

Si calcola che siano almeno 6.000 coloro che non riescono a rientrare in Marocco.

Tuttavia pare che la formula del re stia dando i suoi frutti, visto che i casi di Covid nel Paese di 35 milioni di abitanti sono 8.985 e i morti 212.