Tav e grandi opere. La Corte dei conti Ue dice che il re è nudo, nascondiamolo

Un quadro devastante, ma non sorprendente per chi abbia approfondito il tema e conosca anche solo a grandi linee la letteratura scientifica di settore: è quello che emerge dalla relazione speciale della Corte dei conti europea sulle infrastrutture di trasporto.

Risale ormai a quasi vent’anni fa il volume di un ricercatore danese, B. Flyvbjerg (Megaprojects and Risks: an Anatomy of Ambition) che conteneva un’impietosa diagnosi delle “grandi opere” nel mondo. Tutte fanno registrare a consuntivo costi di gran lunga superiori a quelli preventivati e traffici reali inferiori a quelli ipotizzati. Pochissime eccezioni, per lo più autostrade finanziate da privati in media più attenti a investire le risorse. L’analisi condotta dalla Corte dei conti è l’ennesima conferma empirica di quanto illustrato in quello studio che costò all’autore l’interruzione di ogni rapporto col governo del suo Paese.

Citiamo solo pochi passaggi della relazione: “Per la Torino-Lione e la Senna-Schelda, le previsioni di traffico sono molto più alte rispetto agli attuali livelli”. “Per la galleria di base del Brennero, i tre Stati membri non hanno condotto uno studio e hanno messo in dubbio ognuno le cifre e i metodi dell’altro”. “Le modifiche concernenti la progettazione e la portata intervenute nel tempo hanno sinora comportato incrementi di costo pari a 17,3 miliardi (ossia del 47 %) rispetto alle iniziali stime”. “I futuri dati sul traffico potrebbero essere notevolmente inferiori a dette previsioni di traffico, le quali potrebbero dunque rivelarsi oltremodo ottimistiche”, precisamente come evidenziato nell’analisi costi-benefici del Tav. Si potrebbe proseguire a lungo, ma limitiamoci all’essenziale: “I vantaggi ambientali [ma non solo quelli, nda] dipendono dal volume di traffico effettivamente trasferito da altri modi di trasporto. Visto che il trasferimento modale è stato molto limitato negli ultimi 20 anni, vi è un forte rischio che gli effetti positivi di molte opere siano sovrastimati”. Ad esempio, per la Torino-Lione potrebbero occorrere ben 50 anni dall’entrata in servizio dell’opera prima che le emissioni di CO2 prodotte dalla sua costruzione siano compensate; nell’analisi del Mit dello scorso anno il danno delle emissioni di cantiere, che avrebbe ulteriormente peggiorato il risultato della valutazione, non venne neppure considerato.

La logica conseguenza di questa sonora bocciatura sarebbe abbandonare i progetti che costano più di quanto rendono. E invece no, avanti tutta. Con un colpo di genio, il rapporto viene titolato: “È necessaria una maggiore velocità di attuazione dei mega progetti”. Il re è nudo, nascondiamolo.

La mia (ultima) risposta a Vittorio Feltri su Montanelli

Mi dicono che su Libero Vittorio Feltri mi attacca perché mi sarei definito “erede di Montanelli”. Lasciamo pur perdere che il Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura l’ho preso io e non Feltri (“alla scrittura” mi parrebbe proprio difficile: lui stesso, quando eravamo in rapporti migliori, ammise, con un’umiltà che gli fa onore, che scrivo meglio di lui; del resto io, a differenza sua, non saprei dirigere un giornale, ma nemmeno me stesso). Lasciamo anche perdere che Feltri andò al Giornale, al servizio di Berlusconi, cosa che ha alcuni vantaggi ‘collaterali’ proprio per i motivi per cui Montanelli lo lasciava. Letizia Moizzi, la nipote di Indro e la persona più vicina a lui e quindi ai suoi umori negli ultimi anni della sua vita, mi disse che allo “zio Indro” non sarebbe dispiaciuto che fossi io a sostituirlo nella rubrica di risposte alle lettere che teneva sul Corriere. Quando Montanelli morì, Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere, telefonò a Letizia per avere un consiglio. “Noi – disse De Bortoli – avremmo pensato a Biagi”. Letizia: “Volete far rivoltare lo zio Indro nella tomba?”. “E allora chi?” chiese De Bortoli. Letizia: “A Montanelli piaceva molto Massimo Fini”. Ferruccio svenne. Quando riprese i sensi disse: “Ma Fini è pieno di querele” (non era vero, le querele, soprattutto da parte dei berluscones, le prendo oggi che scrivo sul Fatto). Letizia: “Dai, Ferruccio, non mi dirai che il Corriere si fa spaventare da queste cose”. Ci fu un momento di silenzio, De Bortoli riprese: “E poi Fini è un anarchico”. Letizia: “Ma, in fondo, anche lo zio Indro era un anarchico”.

Fin qui le cose verificabili perché, grazie a dio, sia De Bortoli che Moizzi sono vivi. Aggiungo una cosa che verificabile non è più. Una volta chiacchieravo al telefono con Montanelli su Berlusconi, dicendone naturalmente peste e corna. D’improvviso Montanelli aggiunse: “Ma Feltri è molto peggio”. Me ne stupii, perché di Feltri, almeno del Feltri di allora, avevo una percezione diversa. Oggi comincio a pensare che Indro avesse ragione.

Comunque questa è l’ultima volta che replico a Feltri o agli sgherri e sgherre che manda in avanscoperta. Seguirò il consiglio della mia ex fidanzata, Beba Marsano, una storica dell’arte che scrive sul Corriere e bene: “Non devi più polemizzare con Feltri, ti abbassa troppo”.

Mail box

 

La tecnica di Banksy per oscurare Montanelli

Visto che Montanelli stesso sarebbe stato contrario a una statua dedicata a lui propongo una soluzione ispirata da Banksy: invece di eliminare la statua si potrebbe aggiungerle un cavo, collegato a una nuova statua di Montanelli nell’atto di tirare giù la vecchia statua. La soluzione di Banksy è citata in un articolo della Bbc.

Claudio Trevisan

 

Per leggere certi giornali serve la mascherina

Dopo anni di Repubblica da oggi avete un lettore in più: non potevo portare la mascherina anche per leggere il giornale.

Romolo Anderlini

 

“Porta a Porta” censura “Via col vento”?

Via col vento è stato il film più famoso della storia cinematografica americana, e forse mondiale, avendo ottenuto ben 8 Oscar. Purtroppo questo film sarà rimosso dalla Tv, o quantomeno avrà un minore spazio in virtù del giudizio di un noto sceneggiatore che ha convinto la piattaforma Hbo. Speriamo che a questa strana proposta non aderisca anche Bruno Vespa, il quale, nel suo Porta a porta, ha come sottofondo un piccolo ma profondo profilo musicale di questo eccezionale film.

Nicodemo Settembrini

 

Gad e Marco: grazie per il confronto su Indro

Buongiorno Gad e Marco, è solo un ringraziamento, il mio. Avete affrontato il dibattito su Montanelli da punti di vista diversi, citando fonti e avvenimenti, esprimendo giudizi anche opposti e lasciandoci liberi di riflettere e farci un nostro parere. Senza nulla da dover difendere se non la ricerca della verità, consci che mai la raggiungeremo appieno, ma non per questo meno determinati a perseguirla. Un affettuoso benvenuto a Gad, un caro saluto a entrambi.

Enrico Bandiera

Caro direttore Travaglio, caro Lerner, ho letto i vostri due pezzi su Montanelli, che, ne sono certo, li avrebbe apprezzati entrambi. Sono più vicino a quello scritto da Gad, ma trovo logico e condivisibile anche quello di Marco. Ma la cosa che più mi ha entusiasmato (sono un abbonato della prima ora) è leggere due pezzi piacevoli, lisci, da gustare leggendoli. Beh, “l’acquisto” di Lerner dà sicuramente lustro al Fatto (c’è sempre bisogno di giornalisti così): devo rendere merito a Travaglio e come sempre al grande Padellaro.

Glauco Patuccelli

Gentilissimo Direttore, ho appena terminato di leggere il suo confronto con Lerner su Montanelli e non ho resistito all’urgenza di complimentarmi con entrambi. Non so se era voluto sin dall’inizio, ma che quello che si annunciava in prima come un confronto è divenuto una delle migliori fotografie di Montanelli che abbia avuto modo di leggere. Non antitesi, ma sintesi … Cavolo! come mi piace questo quotidiano!!! Complimenti, e Gad, non ci lasciare!!!

Massimo Cicognani

Gentilissimo Direttore, il suo articolo e quello di Gad Lerner su Montanelli sono uno dei motivi per cui, con grande piacere, sono abbonata a Il Fatto. Poter accedere a una stampa libera e a opinioni differenti, che mi consentono di formulare poi un’idea personale, è una grande risorsa. Se Montanelli, come lei dice, ne ha in parte il merito, sento di ringraziarlo anche io. Ps: non posso più fare a meno delle vignette di Natangelo!

Tiziana Gandolfo

Complimenti al Fatto per avere assunto un grandissimo giornalista come Gad Lerner. Gli articoli di Travaglio e Lerner su Montanelli sono l’ennesima prova che siete (siamo) un giornale libero, fatto da grandissimi giornalisti.

Giuseppe Criaco

Carissimi Travaglio e Lerner, vi mando un “Grazie!” grande come una casa per il vostro confronto su Montanelli: bellissimo, nel merito e nel metodo. Una bella discussione su temi alti ma non elitari, con ragioni non strumentali: come ne sentivo la mancanza. Anch’io, nel mio microscopico, “cercherò di non cadere nella trappola” di parteggiare, per il semplice motivo che (secondo me) hanno ambedue delle ragioni che possono convivere. E convincere. Che bello se (a sinistra?) si potesse tornare a discutere in questo modo.

Roberto Balili

Veder scrivere due penne libere, come Lerner e Travaglio, su Il Fatto Quotidiano, mi inorgoglisce per la decisione presa nell’agosto del 2009 di abbonarmi “sulla fiducia” a quello che è diventato il nostro giornale. Da allora vi ringrazio ancora.

Vincenzo Tondolo

Ho molto apprezzato i due articoli incrociati di “due cavalli di razza” del giornalismo italiano: Gad Lerner e Marco Travaglio. Articoli interessanti ed esaustivi su questo nuovo modo di “fare politica” distruggendo… Assurdo! Come se si decidesse, seguendo lo stesso principio, di bruciare le opere di Hitler, distruggere i monumenti eretti durante il fascismo, oppure bombardare il Colosseo perché lì hanno trucidato migliaia di cristiani! Tale idea mi ricorda molto l’atteggiamento dei talebani nei confronti dei monumenti non in linea con le loro ideologie estremiste! Barbarie culturale e negazione, nel bene e nel male, della propria identità storica. Buon lavoro e auguri per il “nostro” nuovo Fatto!

Roberto Raciti

Appena letto i vostri carteggi su Montanelli, ho ricordato mio zio, militare di carriera che nel 1936 partì per l’Etiopia. A noi giovani nipoti amava raccontare le sue avventure africane: “Chissà quanti figli ho lasciato… ovunque andassi mi facevo qualche bella! Bei tempi”, diceva. Lungi da lui pensare di essere un razzista, ma certamente era stato un conquistatore e come tale si era comportato. Questo per dirle che molti italiani,uomini e donne, in quell’epoca la pensavano come mio zio e ritenevano giusto considerarsi “superiori”. Basti pensare quando per le strade cittadine dell’epoca facevano girare l’effigie del Negus in gabbia fra il dileggio della folla. Anzi, mi pare che Montanelli si sia comportato con più dignità e rispetto di quanto fece mio zio… In età adulta mi sono vergognata di mio zio, e penso che se vogliamo combattere il razzismo dobbiamo smetterla di ignorare il caporalato e lo sfruttamento dei poveri diavoli piuttosto che prendercela con le statue! Vostra lettrice di questo splendido giornale dal primo giorno.
Adriana Re

Il finanziamento. Tutta la verità sul Fatto e il prestito di Unicredit

Continuo a leggere – specie su Dagospia – ancora ricostruzioni sul finanziamento che Il Fatto ha ottenuto da Unicredit e sulle relative garanzie, con allusioni a fondi pubblici e ruoli del governo Conte. Potete dirmi come stanno davvero le cose? Grazie.
Antonio Paris

 

Con molto rammarico ci tocca ancora una volta rispondere al sito Dagospia & C. È ormai chiaro che l’intento di infangare il Fatto Quotidiano e Marco Travaglio prescinde dalla realtà delle azioni della Società Editoriale Il Fatto. Da giorni continuiamo a leggere che il Fatto ha chiesto e ottenuto un finanziamento pubblico. Notizia che abbiamo già smentito. Adesso ci tocca leggere che siamo dei bugiardi perché il finanziamento bancario ha garanzia statale. Il finanziamento richiesto e ottenuto da SEIF è stato erogato da Unicredit. La garanzia sottostante è del Mediocredito Centrale come tutti i finanziamenti della legge del 1996, che nella sostanza non è stata modificata. E non abbiamo richiesto alcun finanziamento diretto allo Stato, tantomeno per danni o impatti causati dal Covid; e, siccome non abbiamo alcuna intenzione di fallire, il Mediocredito Centrale non verserà nulla né tantomeno i cittadini. Se però si vuole continuare a sostenere, non avendo altro di interessante da pubblicare, che abbiamo chiesto soldi allo Stato, non ci rimane che ripetere: ci vediamo in tribunale.
Cinzia Monteverdi, presidente e amministratore delegato di Seif

Ustica e Bologna, dopo 40 anni ancora depistaggi

Quarant’anni tondi dalla strage di Ustica e da quella di Bologna. E i depistaggi ottusi continuano. Il 27 giugno 1980 finiva in mare, al largo di Ustica, il Dc9 Itavia che seppelliva nel Tirreno i corpi di 81 vittime e l’onore dell’Aeronautica militare italiana, inghiottito dai flutti neri, dalle bugie, dai documenti nascosti. Il 2 agosto 1980 scoppiava alla stazione di Bologna la più sanguinaria delle bombe italiane, che uccideva 85 persone e ne feriva 200. Quattro decenni dopo, “tornano i vecchi depistaggi”, denuncia il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Ustica, Daria Bonfietti. “Torna il gioco delle tre carte già tentato anni fa”. Allora era il senatore Carlo Giovanardi a sostenere di aver trovato, partecipando ai lavori della Commissione Moro, “carte che avrebbero potuto riscrivere la storia delle due stragi”.

La pista indicata era quella della bomba a bordo del Dc9 e del terrorismo internazionale, libico o palestinese, entrato in azione anche a Bologna. “Piste smentite e sbugiardate”, spiega Bonfietti. Anche dall’ultima sentenza per la strage della stazione, che nel gennaio 2020 condanna Gilberto Cavallini e conferma la pista nera, con esecutori i fascisti dei Nar Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, oltre, appunto, a Cavallini. “Quarant’anni dopo, si torna allo stesso depistaggio”, continua Bonfietti: si riferisce alle dichiarazioni del presidente del Copasir (il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti), il leghista Raffaele Volpi, che ha detto che il Comitato “auspica che i documenti custoditi negli archivi delle Agenzie di sicurezza sul sequestro di Aldo Moro, sulla strage di Bologna e su quella di Ustica possano essere oggetto di desecretazione e messi a disposizione dell’autorità giudiziaria, anche alla luce delle rilevanti novità riportate nei mesi scorsi dagli organi di stampa, da cui emergerebbero scenari in parte difformi rispetto a quelli accertati dai processi”.

Che scenario evoca Volpi? Niente pista nera per Bologna: verità ormai processualmente accertata. E niente battaglia aerea nei cieli di Ustica, in cui aerei Nato per abbattere i Mig libici di Gheddafi colpiscono il Dc9 civile: verità non acclarata processualmente, ma ipotesi più probabile, benché oscurata dai depistaggi, dalle menzogne dei generali e dalle reticenze dei Paesi alleati. Per Volpi, alla ricerca di un jolly inesistente, tornano d’attualità le vecchie carte di un mazzo truccato che da quarant’anni punta a coprire, da una parte, per Ustica, le (eventuali) responsabilità dei comandi militari Nato; dall’altra, per Bologna, le (certe) responsabilità dei fascisti italiani e dei loro protettori piduisti e di Stato (tra i condannati a Bologna ci sono anche Licio Gelli e due ufficiali del servizio segreto militare, che volevano proprio accreditare l’inesistente pista internazionale).

Ustica. Bologna. Due stragi contigue, due anniversari senza verità completa e con eterni depistaggi. “Mi spiace che il presidente del Copasir, o il Copasir nel suo complesso, cadano in questa trappola”, prosegue Bonfietti. Il jolly di Giovanardi e Volpi è “documentazione regolarmente custodita” che “non riguarda né Ustica, né Bologna. Si vuole ripetere un’operazione che è già stata ampiamente sbugiardata. Poiché sulle stragi non esiste e non può esistere segreto di Stato, tutta la documentazione sulle stragi sia resa pubblica e depositata all’Archivio centrale dello Stato, in base alla direttiva Renzi”. Si occupi di questo, il Copasir, invece di resuscitare vecchi depistaggi. Per Ustica, conclude Bonfietti, “la vera distruzione della documentazione è avvenuta in ambito militare; e oggi l’ostacolo alle indagini della Procura di Roma viene dalla mancanza di collaborazione internazionale, con rogatorie verso Paesi alleati che restano senza risposta, in sfregio alla nostra dignità nazionale”.

 

Come a Pietrasanta e Livorno, le statue non vanno distrutte

Concordo pienamente con quanto ha scritto Tomaso Montanari sul Fatto Quotidiano del 16 giugno: le statue controverse del nostro tempo non vanno distrutte, semmai spostate in Museo. Vorrei solo aggiungere l’esempio dalla civilissima Toscana.

Nella piazza principale di Pietrasanta sorge ancora il monumento all’ultimo granduca di Toscana, Leopoldo II di Asburgo-Lorena. Gli fu eretto nel 1848, in un momento di popolarità del granduca, e i bassorilievi della base rappresentano le sue benemerenze: la promozione del commercio, la fondazione della Scuola d’arte, la bonifica della pianura (lo scultore era Vincenzo Santini). Quando il Granducato fu annesso all’Italia nel 1859, si discusse nel Consiglio comunale se abbattere la statua, ma fu deciso di lasciarla al suo posto, aggiungendo alla base un’iscrizione, ancor oggi leggibilissima, che riporta la deliberazione dell’Assemblea Toscana.

L’Assemblea “dichiara che la dinastia austro-lorenese la quale nel 27 aprile 1859 abbandonava la Toscana, senza ivi lasciar forma di governo e riparava nel campo nemico, si è resa assolutamente incompatibile con l’ordine, e la felicità della Toscana; dichiara che non vi è modo alcuno per cui tale dinastia possa ristabilirsi, e conservarsi senza oltraggio alla dignità del paese, e senza offesa ai sentimenti delle popolazioni, senza costante e inevitabile pericolo di vedere turbata incessantemente la pace pubblica, e senza danno d’Italia; dichiara conseguentemente non potersi né richiamare, né ricevere la dinastia austro-lorenese a regnare di nuovo sulla Toscana.”. Lasciando la statua al suo posto, ma aggiungendovi parole come queste, si salvaguardarono saggiamente due momenti storici, la massima popolarità di quel sovrano e il momento in cui dovette abbandonare per sempre il trono. Le autorità del Regno d‘Italia lasciarono fare e la statua resta lì.

Qualcosa di simile successe a Livorno, dove una prima statua di Leopoldo II era stata abbattuta nei tumulti del 1849, ma la seconda statua, commissionata a Emilio Santarelli poco dopo, è ancora nella piazza dove fu allora posta. Ma con l’aggiunta di un’iscrizione che riporta i risultati del plebiscito per l’annessione della Toscana al neonato Regno d’Italia (quasi 400.000 voti favorevoli, 15.000 contrari), e dunque la fine del Granducato. Per giunta, dal 1946 quella si chiama piazza della Repubblica, registrando nel nome anche la fine di un’altra dinastia regnante, i Savoia.

A Livorno come a Pietrasanta, le statue ancora sui loro piedistalli in piena città ricordano un granduca, ma soprattutto la sovranità del popolo che lo depose in assemblea e decretò la fine della sua dinastia e l’avvento dell’Italia unita. Quei nemici dei Lorena si mostravano assai più sicuri di sé e del proprio futuro di chi oggi decapita Cristoforo Colombo.

 

I pericoli del mantenere in vita i morti (sui social)

Pubblichiamo un’articolo tratto dall’ultimo numero di “Civiltà Cattolica”.

Un test eloquente di quanto il digitale abbia modificato il nostro modo di vivere è il rapporto con il tempo. È ormai appurato che la percezione temporale diminuisce nel corso della navigazione: ci si trova al termine della giornata senza avere consapevolezza della sua effettiva durata, così come è altrettanto difficile ricordare cosa si sia visionato durante le ore trascorse davanti allo schermo. Tutto sembra appiattirsi nell’istante, senza memoria e senza durata. Tale schiacciamento sulla dimensione presente della temporalità non è nato con il web, ma è parte di un più generale clima culturale che ha profondamente rivisitato la nostra relazione con il tempo… Il rapporto con la morte è un parametro di riferimento emblematico. Tale tema acquista un’ulteriore valenza nell’era del web. I dati accumulati negli account, nei social e nei motori di ricerca vengono a formare il profilo digitale di una persona che continua a essere presente in una maniera ben diversa dai mascheramenti fittizi – un avatar, o un personaggio virtuale – di Second life. È l’immagine della medesima persona con la quale si è vissuti che interagisce, parla e risponde alle possibili domande di chi naviga in rete, sempre disponibile al click del suo interlocutore. Nel 1997 la sociologa Carla Sofka ha introdotto il termine thanatology per indicare l’influsso che le nuove tecnologie hanno sulla rappresentazione della morte.

Nel web il morto continua a essere presente, a comunicare in modo visibile attraverso i video, le immagini, i testi. Il digitale rende possibile la creazione di un griefbot, un canale automatico (bot) utilizzato da chi rimane, per alleviare il dolore (grief) della scomparsa di una persona cara. “Pensiamo a Luka, l’applicazione per mobile device che permette di dialogare con lo spettro digitale di Roman Mazurenko, ventisettenne bielorusso morto in un incidente stradale. Eugenia Kuyda, l’inventrice di Luka, ha reso possibile ciò che viene soltanto immaginato nell’episodio Be Right Back (2013) della serie televisiva futuristica Black Mirror: continuare a dialogare con il caro estinto in virtù di un software che, riproducendo il suo stile comunicativo adottato sui social, elabora automaticamente le risposte alle domande dei vivi, ‘immaginando’ le probabili reazioni che egli avrebbe avuto se fosse stato ancora in vita”. Anche senza arrivare a tali progettazioni sofisticate, la possibilità di accedere all’account del defunto consente di immedesimarsi con esso e di interagire sui social come se fosse ancora in vita. Per quanto riguarda l’Italia, è significativa la vicenda di Luca Borgogni, deceduto l’8 luglio 2017: “La madre ha scoperto – con l’ausilio della figlia e senza previo consenso di Luca – la password dell’account Facebook del figlio e per mesi ha scritto quotidianamente post in prima persona (…), come se fosse ancora Luca stesso a scrivere”. Quando Facebook ha constatato il decesso, ha chiuso l’account, nonostante le proteste della madre, che reclamava la possibilità di ereditare il profilo del figlio in modo analogo a ogni altro bene di un caro estinto. Tuttavia, vedersi recapitare messaggi e post da un defunto, se può essere consolante per un familiare, può invece avere un impatto traumatico su altri. La morte rimane un fatto pubblico, e nei social lo è in una maniera ancora più evidente, e risulta impossibile accontentare le esigenze di tutti coloro che ne sono coinvolti. Rimane anche il dubbio se il defunto desideri continuare a sopravvivere sotto questa forma o se invece non preferisca morire anche digitalmente. Per questo molte piattaforme digitali prevedono la cancellazione dei dati dopo aver appreso della morte dell’utente o dopo un prolungato periodo di inattività (per Twitter 6 mesi, per Google 18). Facebook ha elaborato un profilo commemorativo per continuare a gestire i dati dell’account dell’utente dopo la sua morte da parte di familiari o amici…

Negare l’idea di morte porta alla sua diffusione indiscriminata nell’ambito della vita ordinaria. I social, offrendo la possibilità di accedere a una comunità virtuale, possono certamente essere di aiuto e dare conforto a chi resta, formando catene di solidarietà per superare il senso di solitudine, che è uno degli aspetti più dolorosi della perdita di una persona cara. Ma devono farlo con accortezza, tenendo conto dei tempi lunghi e della gradualità propria del difficile lavoro del lutto. In caso contrario, si rischia di celebrare se stessi: si posta un messaggio toccante solo per essere presenti nella piattaforma ed esaltare la propria sensibilità, oppure per avere un riscontro notevole di like, senza pensare a come altri potrebbero vivere quel doloroso momento.

 

L’immagine giusta è quella di Grillo da bruno Vespa, con Di Maio sulle gambe

Ci sono persone che hanno il senso del tempo come nel film “Il giorno della marmotta” (tweet di Beppe Grillo contro Di Battista, che proponeva un’assemblea costituente delle anime del Movimento “e vedremo chi vincerà”).

Riassunto delle puntate precedenti: stiamo rivedendo daccapo il loop in cui, da qualche anno, Grillo è impaniato. Grillo vuole il vincolo di mandato, ipotesi che confligge col diritto alla libertà d’espressione: l’immagine giusta è quella di Grillo e Di Maio da Vespa, con Di Maio seduto sulle ginocchia di Grillo, il ventriloquo che manipola il pupazzo infilando la mano sappiamo dove. Col vincolo, si potrebbe ridurre il Parlamento a una riunione dei capigruppo, e chissene della funzione di rappresentanza. Anche nel Movimento le votazioni contano poco: se il risultato delle grillarie non piace a Grillo, si rifanno le grillarie. Altro esempio: il 6 febbraio 2016 Grillo ordinò ai parlamentari M5S di votare secondo coscienza il ddl Cirinnà, nonostante i 20mila iscritti certificati del M5S avessero deciso che i parlamentari dovevano votare “sì”. Poi ci sono i dietrofront: in un celebre tweet del 23 gennaio 2017, Grillo scrisse: “Salvini, Meloni, mangiate tranquilli. Il M5S non fa alleanze con quelli che da decenni sono complici della distruzione del Paese.” Lo diceva anche del Pd. Una volta protestarono i grillini storici, richiamando Grillo alle sue responsabilità e rinfacciandogli i suoi voltafaccia. E Grillo sbottò: “Non rompete i coglioni a me, che ho fatto così tanto per questo Paese”. Poteva continuare a fare il comico, invece decise di prendere il potere, quindi non rompetegli i coglioni. Non sei molto credibile quando parli di democrazia, se hai creato un movimento senza democrazia interna, senza congressi e libere elezioni della classe dirigente; un movimento dove si fanno votare gli iscritti soltanto sugli argomenti che fanno comodo e con una piattaforma digitale misteriosa, gestita dal vertice. Né sei credibile se parli di crisi economica e di decrescita felice dalle tue ville o a bordo di uno yacht. Un plurimilionario che fa l’indignato, si presenta come salvatore della patria e si atteggia a spiritosone: è la trama del nostro sciagurato Groundhog day. Dopo il voto della piattaforma Rousseau che bocciò l’autorizzazione a procedere contro Salvini (piattaforma i cui conteggi restano volutamente misteriosi: ecco una bella scatoletta di tonno da aprire!), Marco Travaglio scrisse l’editoriale “Dalle 5 Stelle alle 5 Stalle”, per denunciare che il berlusconismo aveva contagiato i grillini, poiché con quel voto si erano rimangiati la lotta contro la Casta. La sera stessa, Travaglio andò a vedere Grillo al Brancaccio. Scrisse l’Ansa, facendo la cronaca dello show: “A un certo punto, il garante dei 5 Stelle va da Marco Travaglio, presente in platea – Travaglio, devi fare come i preti: devi parlare di politica, ma non devi dare programmi politici –.” A parte il paragone sbagliato (la dottrina sociale della Chiesa è un programma politico, ed è tutt’altro che illegittima), la preoccupazione di Grillo è comprensibile: Travaglio è molto più bravo di lui, sia come politico che come satirico; volendo, con un editoriale se lo mette in tasca, il Movimento. Nel frattempo, Di Maio e Dibba si ignorano come due etero che a tredici anni hanno avuto un’esperienza gay al campeggio.

 

Faccette (Nere): la teledestra. È specializzata

Manuale di bella figura nelle ospitate della destra televisiva. La mimica facciale innanzitutto, basilare quando interviene l’ospitato della parte avversa. Se non si sa cosa replicare (quasi sempre) ricorrere alla testolina che fa no, no, no (“È una bambolina, si difende come può”, cantava Michel Polnareff). Oppure, guardare fissi in camera come insegna il maestro Alessandro Cecchi Paone con il suo book delle faccette: perplessa, ammiccante, sconcertata, divertita ma soprattutto basita (vedi Boris).

Ed ecco il prêt-à-porter con le novità primavera-estate. Gli Stati generali? Un’inutile passerella. Il premier Conte? Un vanesio che ha vinto il primo premio alla lotteria. Comunque è inadeguato. Le mazzette venezuelane ai grillini? Sono un incallito garantista, ma non mi meraviglierei affatto se avessero intascato i quattrini. Oppure: ah ah, i famosi puri sono peggio degli altri. Lo scoop del giornale spagnolo Abc? Opera sicuramente di una manina italiana? Allude a Conte? Sorrisetto e dita sulla labbra. Di Battista? Guiderà la scissione dei Cinquestelle, un partito allo sbando. Eppure tempo fa lo aveva definito un parolaio? Oggi direi piuttosto un uomo coerente. Il ministro Bonafede? Ha fatto scarcerare Carminati, deve dimettersi. Ah sono stati i giudici? Comunque è inadeguato. La ministra Azzolina? Inadeguata e basta. Perché mai? Si alzano occhi e braccia al cielo come a invocare i fulmini dell’Altissimo: ma dai, dai, dai… Salvini? Gli vietano perfino di mangiare la ciliegie, i Dem non sanno più cosa inventarsi (copiata paro paro da Libero). La Meloni? Non mi trovo sempre d’accordo con lei, ma la proposta del bond patriottico è geniale, altro che lo strozzinaggio del Recovery Fund, vedrete sarà il grande cuore italiano a trovare i 172 miliardi. E le tensioni sociali nel Paese? La gente muore di fame e questi qua perdono tempo con le minchiate. O anche: ci saranno i forconi sotto Palazzo Chigi. All’occorrenza faccetta (nera) declinabile nelle tre versioni standard: afflitta, indignata, sgomenta.

Il generale e l’uranio in Iraq: “Non posso tutelare i soldati”

Negli uffici della Procura, e della Procura militare di Roma, c’è un esposto che mette in grave imbarazzo i nostri Stati maggiori. Lo firma un generale dei Corpi speciali dell’Esercito, Roberto Vannacci, già comandante dei parà della Folgore, che dal settembre 2017 all’agosto 2018 ha guidato la missione militare italiana in Iraq ed era il numero due della coalizione internazionale anti-Isis. Ipotizza “gravi e ripetute omissioni nella tutela della salute e della sicurezza del contingente militare italiano, costituito da migliaia di militari impiegati in Iraq e sottoposti, tra l’altro, all’esposizione all’uranio impoverito – scrive il generale Vannacci – senza che alcuna informazione fosse fornita al riguardo e senza che alcuna mitigazione dei rischi fosse attuata”. Ne abbiamo parlato ieri sera a Sono le Venti, la trasmissione di Peter Gomez sul Nove.

L’alto ufficiale, nell’esposto, ricorda che “l’uso su larga scala di uranio impoverito in Iraq sin dal 1991” – dalle 300 alle 450 tonnellate a seconda delle stime, quantità di circa 30 volte superiore a quella impiegata nel Balcani nel ’94-95 e nel ’99 – era “di pubblico dominio” perché “oggetto di numerose pubblicazioni ufficiali” tra cui dal 2011 il progetto Signum (“Studio impatto genotossico nelle unità militari”) e riferisce di aver ricevuto documenti incredibili, addirittura con la classifica di “riservato”, dal generale di divisione aerea Roberto Boi, esponente di alta dirigenza dello staff dell’ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, allora a capo del Comando operativo interforze (Coi), secondo i quali “non sussistevano allo stato indicazioni e/o informazioni che attestassero come certa la presenza di uranio impoverito in Iraq”. E denuncia “pressioni” del comandante del Coi.

Vannacci, che non è stato punito e anzi è stato promosso generale di divisione, spiega che l’ammiraglio Cavo Dragone, oggi capo di Stato maggiore della Marina, non ha detto il vero quando per minimizzare i rischi ha riferito alla commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito (23 febbraio 2017), presieduta da Gian Piero Scanu, che le missioni in Iraq duravano “tra i 4 e i 6 mesi”.

A Vannacci risulta invece che “sono pianificate in partenza come semestrali e spesso, in corso d’opera, eccedono significativamente tale periodo”. Scrive peraltro di aver rimandato a casa i militari che stavano laggiù da nove mesi. E ancora, documenta di aver ricevuto solo dopo parecchi mesi la nomina a datore di lavoro che lo rendeva responsabile, ai sensi del decreto 90/2010, della sicurezza dei militari, il che comporta l’obbligo di redigere il Documento di valutazione dei rischi (Dvr), di nominare il medico competente e tutti gli altri adempimenti di formazione/informazione dei militari, ma per valutare i rischi mancavano dati, analisi, campionature dei luoghi. Spiega che nessun altro comandante in Iraq aveva ricevuto quella nomina e i Dvr presentati alla stessa Commissione Scanu sarebbero stati elaborati da soggetti privi di titoli oltre che di poteri per attuare la prevenzione.

Le Procure decideranno se e come procedere. Sul piano politico, siamo ancora una volta alla negazione del problema dopo oltre 150 sentenze che hanno condannato la Difesa a pagare risarcimenti e indennità a militari che hanno contratto gravi malattie, per lo più leucemie e linfomi, a causa delle contaminazioni prodotte dall’uranio impoverito, per lo più dovute alle nanoparticelle metalliche che si sprigionano con la combustione dei materiali perforati dai proiettili rivestiti con la sostanza in questione. L’Osservatorio militare dell’ex maresciallo Domenico Leggiero conta oltre 7.600 malati e 375 morti.

Il Fatto e Sono le Venti hanno chiesto agli Stati maggiori di poter intervistare il generale Vannacci, l’ammiraglio Cavo Dragone e altri ufficiali a conoscenza dei fatti, ricevendo risposte negative motivate con le indagini in corso.