I consigli interessati: dalla “velina” Marcegaglia al referendum di Renzi

Il grande piano alternativo di Confindustria si è ridotto all’ennesima lamentela al governo come è avvenuto sempre. Le “lezioni” di Confindustria, del resto, si illustrano da sole, basta ripercorrere le assemblee annuali dell’associazioni dal 2008, anno della grande crisi, in poi.

Nel 2009 era amicissimo il governo Berlusconi che si consentiva di definire la presidente Emma Marcegaglia una “velina”. Gli imprenditori si spellavano le mani per applaudire nientemeno che il “coraggioso” Renato Brunetta che battagliava contro i fannulloni di Stato. Al governo si spiegava, guarda la fantasia, che “siamo il Paese con la spesa sociale più squilibrata a favore delle pensioni” e con Berlusconi era talmente baci e abbracci che alla Marcegaglia, l’anno dopo, si chiedeva di diventare ministro. Il no di lei inaugurò una fase di freddi rapporti fino al voltafaccia del 2011. All’assemblea annuale la standing ovation fu solo per Giorgio Napolitano e Mario Draghi e gli imprenditori quasi svuotarono la sala mentre parlava l’allora ministro allo Sviluppo economico, Paolo Romani.

Le pensioni le taglierà sul serio il duo Monti-Fornero, ben disposto ad ascoltare consigli e suggerimenti con risultati che rimarranno indelebili (dal punto di vista del massacro sociale).

La musica cambia poco nel 2012, quando è Giorgio Squinzi a guidare Confindustria. Atteggiamento più incline al centrosinistra, ma con in tasca lo stesso spartito: “Ridurre il cuneo fiscale eliminando il costo del lavoro dalla base imponibile Irap e tagliando di almeno undici punti gli oneri sociali”. E poi “sostegno alla filiera dell’edilizia”, “liquidità alle imprese”, sgravi fiscali. L’interlocutore è Enrico Letta, ma dura poco. Per fortuna delle imprese, perché con Matteo Renzi è amore a prima vista: “La nostra disponibilità – dirà Squinzi nel 2014 – è immutata e completa”. E così parte la morsa sul sindacato per riformare lo Statuto dei lavoratori, visto che la prima riforma Fornero non era bastata. Tanto che Maurizio Landini, allora segretario della Fiom, inizia a intuire dove si andrà a parare e risponde: “Gli imprenditori pensino a investire”.

Cosa che invece hanno sempre fatto poco. Secondo il rapporto della Commissione Ue, nel 2018 gli investimenti delle imprese erano al 10,2% del Pil, “leggermente al di sotto del valore del 2008 (10,7). E, proseguiva, “sebbene la spesa per R&S sia in aumento negli ultimi anni, il livello rimane nettamente al di sotto della media dell’Ue”.

Più che investire, l’abitudine è stata invece di chiedere soldi allo Stato con una lista monotona: riduzione dell’Irap, riduzione del cuneo fiscale, fondi pubblici per gli investimenti, sgravi fiscali, taglio allo Stato sociale. I “consigli” sono stati sempre questi e i migliori rapporti sono sempre stati con governi inclini alle ragioni d’impresa: Come Renzi: “Giorgio Squinzi rinsalda il feeling degli industriali con il governo Renzi e scalda la prepartita con i sindacati” è la sintesi dell’Ansa del 2015.

L’anno seguente, il nuovo leader, Vincenzo Boccia, si spinge ancora oltre: “Bisogna portare avanti con coraggio e determinazione un percorso deciso di riforme costituzionali, istituzionali ed economiche”. Tutto è pronto per giungere al capolavoro dell’Ufficio Studi di Confindustria che nel 2016 prevede scenari apocalittici – “una nuova, grave emergenza economica” – in caso di vittoria del No al referendum costituzionale. L’autore di quel report, Luca Paolazzi, peraltro buon giornalista, intervistato da Antonello Caporale su questo giornale, si è giustificato così di fronte al fallimento di quelle previsioni: “Abbiamo previsto uno scenario che si sarebbe potuto avverare” ma sì, forse è vero “sono stato un tantinello apocalittico”. Quasi come Bonomi, verrebbe da dire.

Bonomi: “Ridateci le accise”. Conte: “Voliamo più in alto”

“Tutto qui?”, diceva Muhammad Ali a George Foreman mentre quello lo riempiva di pugni sul ring di Kinshasa, in Zaire, nel 1974. Incontro per la corona mondiale dei pesi massimi restituita in un celebre film, Alì, con Will Smith a interpretare il campione.

“Tutto qui?” sembra il commento di Giuseppe Conte dopo aver ascoltato – abbastanza seccato, confessa chi era presente all’incontro – l’intervento del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, agli Stati generali di Villa Pamphilj. E di fronte alla più veemente richiesta di Bonomi (il rimborso delle accise sull’energia) il premier ha gioco facile a rispondere: “Oggi il tema è il piano di rilancio. Voliamo un po’ alto”.

La partita, in effetti, è molto tecnica perché Bonomi si riferisce a una sentenza della magistratura che impone la restituzione di 3,4 miliardi di accise sull’energia, “impropriamente pagate dalle imprese e trattenute dallo Stato nonostante la sentenza della Corte di Cassazione che ne impone la restituzione” come lui stesso ha scritto su Twitter. Solo che la restituzione alle imprese dipende non dallo Stato, ma dalle società di vendita di energia elettrica.

Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, risponde che “Confindustria sa benissimo che lo Stato farà la sua parte” aggiungendo che il caso sollevato “riguarda una vecchissima accisa” che risale al 1998 e sarà “senz’altro” risolta.

Eppure Conte aveva proposto un terreno di discussione all’altezza di quella che sembrava essere la sfida con molte concessioni e una piccola frecciata. “Nessun pregiudizio nei confronti della libera iniziativa economica”, ha spiegato nell’introduzione. Nessuna concezione “collettivista”, anzi “condividiamo anche la filosofia di Milton Friedman: per noi l’obiettivo di un’impresa è produrre guadagno”.

Però pensiamo, ha aggiunto, che l’impresa abbia una responsabilità “sociale” e “un impatto sull’ambiente” con lo Stato in una funzione “regolatore”. A questa Confindustria, però, questo approccio sembra dare fastidio, continuando a ripetere slogan un po’ usurati (vedi articolo in basso) e che, quando applicati, hanno portato a guai seri (vedi Fornero).

Oltre alla richiesta delle accise, Bonomi ha elencato una serie di richieste come il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, una maggiore e più puntuale liquidità alle imprese che ne hanno bisogno, fino all’accusa al governo di non aver saputo onorare gli impegni sulla cassa integrazione, scaricata, per quanto riguarda gli anticipi, sulle imprese.

Conte gli ha contrapposto l’ampio numero di provvedimenti a favore delle imprese facendo notare che è del governo una proposta che “Bonomi ci avrebbe voluto rubare”, l’Industria 4.0 plus per investimenti in tecnologia digitale e green. I due non si amano anche perché, come titolava ieri Il Messaggero, Bonomi vuole “un governo diverso”. Conte non ci pensa proprio. La sfida continua.

 

Non solo le fregate: l’Italia vuole costruire navi militari in Egitto

In questi ultimi giorni, il governo pretende sui giornali la verità egiziana sulla morte del ricercatore universitario Giulio Regeni. Da ottobre, invece, lo stesso governo negozia col regime del generale Al Sisi un’ampia vendita di armi e una sinergia nell’industria bellica per entrare nel mercato africano. Per esempio Fincantieri ha intenzione di formare un consorzio con il Cairo e di costruire in stabilimenti egiziani pattugliatori d’altura per il fabbisogno della Marina di Al Sisi, ma anche di altri Stati del continente. Ogni tappa di questa vicenda chiarisce la posizione del governo sul “dossier Egitto”.

23 settembre 2019. A margine dell’Assemblea generale dell’Onu a New York, il premier Conte e il ministro Di Maio incontrano Al Sisi. Al centro del colloquio, dice Di Maio, c’è l’impegno a collaborare su Regeni.

Ottobre 2019. La Presidenza del Consiglio informa la multinazionale statale Fincantieri che il Cairo ha immediato bisogno di una coppia di fregate Fremm (la tecnologia di bordo è di Leonardo). Il cliente ha urgenza, è assai soddisfatto dei prodotti italiani, si rivolge ancora a Roma dopo aver acquistato 32 elicotteri per un valore di 881 milioni di euro. C’è soltanto un modo per accontentare Al Sisi: sottrarre due navi già destinate alla Marina italiana. Fincantieri avvia l’operazione assieme a Chigi.

Febbraio 2020. Il dem Guerini, ministro della Difesa, crea le condizioni per la cessione delle Fremm: ritira dalla pensione due navi e ne ordina altre due a Fincantieri. La Marina è in subbuglio, ma prevale l’interesse nazionale. Allora Fincantieri, secondo la legge 185/90, presenta istanza a Uama – l’Unità del ministero degli Esteri che autorizza le esportazioni di materiale bellico – per discutere con gli egiziani. Uama deve intervenire tre volte: apre e chiude le trattative e poi assegna la licenza alla vendita. Il Cairo ha un vasto elenco di desideri: due fregate subito, due in futuro; i succitati pattugliatori d’altura da Fincantieri; 24 caccia Eurofighter e 20 velivoli da addestramento M346 di Leonardo. Per la coppia di Fremm, la “Spartaco Schergat” e la “Emilio Bianchi” tolte alla Marina, Fincantieri fissa il prezzo a 1,4 miliardi di euro. Il Cairo si ferma a 1,25 miliardi e subordina all’affare Fremm il resto della commessa di Fincantieri e, si presume, pure di Leonardo. Un’intesa che per l’Italia pesa oltre 10 miliardi di euro e che per Fincantieri equivale a salvaguardare l’occupazione.

Giugno 2020. Per Uama la seconda verifica è superata: l’accordo si può sottoscrivere. Il consenso politico, peraltro unanime, arriva con il Consiglio dei ministri di giovedì 11 giugno. Vuol dire che per Uama e governo, dopo una riflessione avviata in febbraio, l’Egitto rispetta la legge 185/90, in particolare il comma 6 dell’art. 1, cioè il Cairo non ha commesso violazioni dei diritti umani nel caso Regeni o in quello del giovane Zaky arrestato al rientro da un viaggio di studio o ancora in quello della ragazza torturata per aver sventolato una bandiera arcobaleno (e che poi si è suicidata), non è protagonista di conflitti armati e non viola embarghi di armi come in Libia dove foraggia l’esercito di Haftar contro il governo di Tripoli in teoria sostenuto da Roma. Per ragioni economiche e geopolitiche, il governo italiano decide così. A differenza del vecchio programma, il 5 giugno la “Schergat” non viene consegnata alla Marina, ma si trova nei cantieri liguri, vicina alla “Bianchi” (ancora da terminare), entrambe da sottoporre a un lavoro di conversione dalla durata di due mesi poiché l’Egitto non fa parte della Nato. La licenza di Uama per l’esportazione è una formalità e non serve mica oggi. Oggi serve, invece, la firma del contratto con il Cairo. Però il governo si stupisce di una scelta presa mesi fa e da cui non si torna più indietro, perché ci si è spinti troppo in avanti. Dopo i contatti con Al Sisi del 23 settembre a New York, del 19 novembre a Berlino, del 14 gennaio al Cairo, del 26 dicembre, dell’11 marzo, del 3 aprile e del 7 giugno al telefono, solo per restare alla stagione giallorosa, stasera il premier Conte dovrà riferire i progressi su Regeni all’omonima commissione parlamentare d’inchiesta.

La svolta di Renzi: “Gli impegni di Conte diventano realtà”

Fratelli d’Italia sceglie di non presenziare all’informativa di Conte alla Camera. La Lega esce dall’aula dopo l’intervento del capogruppo Riccardo Molinari. Forza Italia invece no, resta. “Adesso facciamo insieme il piano nazionale delle riforme”, dice il capogruppo Renato Brunetta al premier. Con un avvertimento: “Lei non ha una maggioranza sul pacchetto europeo”.

Un paio d’ore dopo, al Senato, c’è un quasi inedito Matteo Renzi, nella veste di sostenitore convinto del governo. D’altra parte a breve si vota per le presidenze delle Commissioni. Non solo: Iv sta cercando il sostegno di Conte per evitare il proporzionale: “Si faccia valere in Europa, noi siamo con lei”, gli dice. Di più: “Molti degli impegni presi dal governo stanno diventando realtà”.

Sullo sfondo di tutti questi movimenti, ancora una volta il Mes. Ieri il premier ha scelto di fare una semplice informativa in vista del Consiglio europeo di domani. Perché, spiega, “l’incontro avrà una natura solo consultiva per fare emergere convergenze e dissensi”. E così evita il voto sulla mozione della Bonino sul Mes. I tempi non sono ancora maturi per chiedere al Parlamento di pronunciarsi sulla richiesta di attivazione del Mes. Questo anche se nel Pd di governo tale richiesta la ritengono inevitabile. E lo stesso premier è consapevole che i 36 miliardi della linea di credito sanitaria servirebbero rapidamente. Ma sulla possibilità di attivarli a luglio il rischio è di non avere il sì del Parlamento. Per questo fervono i colloqui tra Pd e M5S per capire se fare la richiesta a settembre, con il Recovery Plan del governo presentato e il via libera del Parlamento europeo che blinda ufficialmente il risultato del Consiglio sul Next Generation Eu (atteso per luglio). Ieri il premier ha parlato di un voto parlamentare prima del vertice Ue. Tra le ipotesi, la presentazione di una risoluzione su tutti gli strumenti previsti dalle istituzioni europee per contrastare gli effetti della pandemia. Ma per farlo, Conte deve essere certo di avere la maggioranza.

“Lo dico: il Pd mi ha sorpreso. E Dibba non vuol fare il capo”

Parlando di futuro cita il passato: “Quando il 22 gennaio mi dimisi da capo politico usai più volte la parola ‘responsabilità’. Ho sempre lavorato per la pace interna e continuerò a farlo. Nominare un nuovo capo del M5S potrebbe deresponsabilizzare molti, spingendoli a sollevare problemi”. Luigi Di Maio non è più il capo dei 5Stelle, ma per il ministro degli Esteri passa molto dell’avvenire del Movimento e quindi del governo.

Cos’è questa segreteria invocata da Beppe Grillo?

Prima di ogni altra cosa voglio dire, anche in base alla mia passata esperienza da capo politico, che il Movimento è composto da tante anime e questa diversità è una ricchezza. Dobbiamo trovare il modo di tenere assieme queste anime e di fare sintesi, una volta per tutte.

Così si rischia un accordo tra correnti basato sulla spartizione dei posti.

Non dobbiamo partire dai nomi, ma dai temi. Negli Stati generali dovremo stabilire i nuovi obiettivi del M5S, il suo programma per i prossimi dieci anni.

L’epoca del capo politico è finita?

Se ora lo nominassimo sarebbe un capo balneare, perché durerebbe poco. Prima dobbiamo fissare il programma che serve al Paese e risolvere i problemi del M5S. Poi si potrà pensare alla struttura.

Quando e come?

Saranno il capo politico reggente Vito Crimi e il Garante, Beppe Grillo, a stabilirlo e a fare sintesi. Credo però che gli Stati generali avranno bisogno di un lavoro istruttorio.

Il M5S pare sempre l’anello instabile del governo.

Tutt’altro. Tanti dicevano che non saremmo durati al governo, e invece eccoci qui, con i nostri risultati già raggiunti come Reddito di cittadinanza, legge Spazzacorrotti e decreto Dignità. Il Movimento può governare l’Italia per i prossimi 20 anni.

Di Battista invoca un congresso dove si voti: pare avere la legittima voglia di fare il capo.

Non credo che Alessandro prema su questo tasto. Anche per lui vengono prima i temi, e un programma basato non sull’io, ma sul noi.

Non pensa che Grillo abbia esagerato accostandolo a terrapiattisti e gilet arancioni?

Beppe e Alessandro vogliono un bene dell’anima al M5S, e tutti e due vogliono che il governo vada avanti.

Davide Casaleggio aveva chiesto di eleggere subito un nuovo capo e gli è stato detto di no. Ha contro tanti parlamentari e con lei pare essere sceso il gelo. Volete togliergli la gestione della piattaforma Rousseau?

Rousseau è un patrimonio del Movimento e io stimo Davide, che ha dato un grande contributo. C’è chi parla di rivedere il ruolo di Rousseau, e io dico che se si progettano i prossimi dieci anni dell’Italia tutto verrà da sé. Il mondo è cambiato e gli strumenti vanno rimodellati sugli obiettivi da raggiungere.

Grillo vuole il M5S sempre nel centrosinistra, lei invece come ago della bilancia tra i poli: il governo con i dem non l’avrebbe fatto…

Ero scettico, ma devo dire che il primo anno di lavoro con il Pd mi ha sorpreso. Durante la pandemia abbiamo cementato i rapporti e lavorato molto bene assieme.

Ma in futuro?

Noi 5Stelle stabiliremo dei nuovi obiettivi, poi vedremo chi vorrà realizzarli con noi.

Ne cita alcuni?

Serve una fiscalità di vantaggio per gli investimenti italiani e stranieri nell’economia sostenibile del nostro Paese, la cosiddetta green economy. Poi dobbiamo investire nella formazione: le imprese rischiano di non trovare più personale qualificato. Ed è fondamentale un patto per le esportazioni.

Il Pd chiede di cambiare sensibilmente i dl Sicurezza di Salvini, voi volete modifiche minime: è così?

Sappiamo che questa è una sensibilità del Pd: domani (oggi, ndr) ci sarà una riunione di governo sul tema. Siamo disponibili a trovare un punto di caduta, e sono certo che si troverà.

I genitori di Giulio Regeni si sentono traditi dal governo perché venderà armi per miliardi all’Egitto. Hanno ragione, no?

Al posto loro, l’ho detto, forse avrei reagito allo stesso modo. Si può solo immaginare il dolore che hanno provato e che continua a provare la famiglia Regeni. Posso dire che le due vicende sono slegate: la ricerca della verità da parte nostra, resterà incessante.

Il primo nodo del governo resta il Mes. Voi 5Stelle non potreste reggere il sì e ora volete rinviare il voto in Parlamento a settembre.

Non dobbiamo rinviare nulla perché non è mai stato calendarizzato alcunché.

Si attendeva il voto a luglio.

Per noi il Mes rimane inadeguato. Dobbiamo concentrarci sul Recovery Fund e trattare perché le sue risorse arrivino il prima possibile. Parlando del fondo salva-Stati si commette un errore, perché si alleggerisce la pressione sull’Europa.

Ha detto che Conte può “aiutare” il M5S. Da capo o da candidato premier?

Non è un problema di definizioni. Il Movimento lo stima, tanto da averlo proposto due volte premier. Nel rispetto del suo ruolo può darci una grande mano.

Il Pd non gradirebbe…

Ho detto che può farlo nel rispetto del suo ruolo. Il giorno in cui Conte dirà di voler aiutare il M5S sarà solo una buona notizia.

È vero che ha incontrato più volte Matteo Renzi?

L’ho incontrato come ho fatto con altri esponenti politici della commissione Esteri. Abbiamo parlato dei problemi del Paese.

Si fida di lui?

La fiducia i partiti la danno al governo in Parlamento. Finora Italia Viva l’ha sempre votata.

Canton Vicino

Basta giochi di correnti e collusioni fra politica e magistratura, le toghe non devono soltanto essere indipendenti, ma anche sembrarlo. Detto, fatto. Memore degli alti moniti degli alti colli, il Csm volta pagina dopo lo scandalo Palamara e nomina a capo della Procura di Perugia – competente sui reati dei magistrati di Roma – un uomo che più lontano dalla politica non si può: Raffaele Cantone. Che non è omonimo del pm-prezzemolo-multiuso prediletto dal Pd, nominato capo dell’Autorità Nazionale Anticorruzione da Renzi, che poi accompagnò nella gita-spot alla Casa Bianca con cena chez Obama alla vigilia del referendum 2016, con altri testimonial come Sorrentino, Benigni e Bebe Vio: è proprio lui. Così ora rappresenterà l’accusa nel processo a Palamara e gestirà le indagini ancora aperte sullo scandalo Csm che coinvolge gli amici dell’amico Matteo: da Lotti a Ferri, che poco più di un anno fa tramavano con l’uomo nero di Unicost per piazzare fedelissimi in varie procure-chiave, fra cui proprio Roma e Perugia. Invano Davigo e Di Matteo han fatto notare al Csm l’inopportunità della nomina, votando con MI l’aggiunto di Salerno Luca Masini: i giochi erano già fatti, con un’inedita, spettacolare ammucchiata bipartisan pro Cantone di tutti i membri laici (dal Pd alla destra al M5S: wow!) e dei togati progressisti (Area), più l’astensione provvidenziale di Unicost su Palamara. Che purtroppo non è più al Csm con trojan incorporato, sennò sai quante ne avremmo sentite. Del resto bisognava affrettarsi: se la nomina fosse arrivata dopo la riforma del Csm annunciata da Bonafede, Cantone se la sarebbe scordata, visto che i magistrati reduci da incarichi “politici” fuori ruolo dovranno farsi due anni di purgatorio prima di accedere a incarichi direttivi. Invece Cantone, che ha lasciato l’Anac a fine anno per riaccomodarsi al Massimario, in meno di sei mesi diventa uno dei procuratori più importanti d’Italia. Per giunta a occuparsi di toghe indagate proprio per rapporti incestuosi con gli amici dell’Innominabile che lo aveva nominato all’Anac. Una palamarata 2.0 senza più Palamara.

Cantone è, naturalmente, una persona perbene e un buon magistrato (infatti Palamara&C. li aveva contro), anche se probabilmente arrugginito nell’arte delle indagini, abbandonate nel 2007. Ma è forse il più “politico”, il meno equidistante e il più equivicino dei magistrati, dunque il meno adatto a dirigere i pm di Perugia. Negli ultimi 10 anni è stato candidato (senza mai una smentita) a tutte le cariche esistenti sul territorio nazionale, escluse forse quelle a Miss Italia e a presentatore del Festival di Sanremo.

Nell’ordine: sindaco di Napoli e di Roma, governatore della Campania, presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, ministro della Giustizia, dell’Interno e dei Trasporti (al posto di Lupi), persino presidente del Napoli Calcio e – Mara Maionchi dixit – “giudice di X-Factor”. Poi supercommissario qua e là, consulente, docente, membro di commissioni, task force, patti, tavoli e tavolini. A ogni scandalo targato Pd, da Mafia Capitale a Expo, dal Mose a Bancopoli, si mandava o si evocava San Raffaele come foglia di fico. E lui, uomo per tutti i gusti e le stagioni, non smentiva. Anzi, lasciava dire. Tanto quell’ente inutile che è l’Anac è tutto chiacchiere e distintivo. Sempre dalla parte giusta, Canton Vicino sorvolava sugli appalti senza gara, le corruzioni e le collusioni mafiose di Expo (“Milano è la capitale morale, Roma invece è inquinata”) e persino sui processi per falso a Sala, sulla cui innocenza metteva la mano sul fuoco, mentre denunciava la Raggi per falso. Poi naturalmente Sala veniva condannato e la Raggi assolta. Dava una mano a quell’obbrobrio ostrogoto del Codice degli appalti, poi tuonava contro la burocrazia. Esaltava “l’esperienza fondamentale e coraggiosa di Antonello Montante e di Confindustria Sicilia” che “cacciano gli imprenditori collusi con la mafia”, poi Montante finiva dentro per collusione con la mafia.

Consulente del governo Monti, collaborava alla legge Severino, ma appena si applicò a De Luca disse che per lui la decadenza dopo la condanna in primo grado non valeva (anche se era già valsa per decine di amministratori). E se la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi inseriva De Luca fra i candidati impresentabili in base alle sue imputazioni, com’era obbligata a fare per legge, lui urlava al “grave passo falso”. Quando il Pd salvava qualche ladrone forzista in Parlamento, lui trovava “doveroso che il Parlamento dissenta dai giudici”, manco fosse il quarto grado di giudizio. Le controriforme della giustizia renziane gli piacevano un sacco (persino il voto di scambio col buco e la boiata sulle ferie togate). Le riforme di Bonafede invece molto meno, perché sì vabbè il trojan, l’anticorruzione, il voto di scambio, la bloccaprescrizione, le manette agli evasori, però il problema è sempre “un altro”. Anche la trattativa Stato-mafia – malgrado le sentenze – non lo convince, perché dietro le stragi lui vede “una mano straniera: non ne ho le prove, è una sensazione”. La famosa trattativa mondo-mafia. L’estate scorsa l’Innominabile passò dal no ai 5Stelle al sì ai 5Stelle e propose un bel governo Cantone. Davigo l’avrebbe querelato. Canton Vicino tacque e lasciò dire. Come sempre. Hai visto mai.

Altro che “prodotto per signore”: Bevilacqua fu un talento in narrativa (e cinema)

“Nell’attico di Vigna Clara, a Roma, da dove si vede la città allungarsi in tutta la maestosità di tetti, ha scritto la maggior parte dei romanzi di successo”. Comincia così Alberto Bevilacqua. Materna parola, il volume che Alessandro Moscè dedica allo scrittore parmense morto nel 2013. È l’occasione per tornare a interrogarsi su una parabola letteraria che per molti continua a essere l’esito di una mistificazione (il Meridiano del 2010 non ha avuto il timbro di una vera canonizzazione).

Bevilacqua se non è del tutto dimenticato, ha pur sempre vinto Strega e Campiello, è menzionato tutt’al più per biasimare una certa deriva commerciale della nostra narrativa. Certo, Bevilacqua ci ha messo del suo per farsi fagocitare dal moloch mediatico. Regista di film dalle sue stesse opere, personaggio tv grazie al Costanzo Show, rubriche su rotocalchi femminili, romanzi di alterno valore pubblicati con regolare cadenza annuale. Ma sotto il tappeto del successo si nasconde solo polvere?

Scoperto appena ventenne da Sciascia, hanno scritto su di lui, tanto per limitarsi a due nomi, Geno Pampaloni (“Per Bevilacqua, Parma è il teatro ideale dove inscenare con la massima evidenza le passioni del nostro secolo”) e Cesare Segre (“Quasi compaesano di Fellini, Bevilacqua richiama spesso alla memoria temi e magie del grande regista”). Difficile credere che due critici tanto esigenti si siano lasciati irretire. Altrettanto si può dire, leggendo il volume di Moscè, per le varie personalità internazionali con le quali l’autore di La Califfa ha intrattenuto fecondi sodalizi: da Borges a Mishima, da Fassbinder a Orson Welles. Amico personale di papa Paolo VI, Bevilacqua ebbe il privilegio di poter vedere piazza San Pietro dallo studio privato del pontefice. Grazie a uno zio ciclista osservò a Parigi da vicino Céline, che definì “piovuto da un altro pianeta, non era terreno fino in fondo”. Così come gratificò l’amatissima madre di momenti eccezionali, dalle telefonate di Totò per alleviarle la depressione a una visita in casa nientemeno di Charlie Chaplin.

Bevilacqua ha scritto fino all’ultimo su una Olivetti Lettera 44 perché la macchina da scrivere gli consentiva “un avvicinamento potente alla materia”, proprio come nei suoi esordi di cronista di nera al Messaggero. Dopo la gavetta con Zavattini, collabora con De Sica, Visconti, Rossellini (di cui gira alcune scene del Messia) ma soprattutto scrive i film di Mario Bava. I tre volti della paura oggi è una pellicola cult, fonte di ispirazione per maestri del calibro di Tarantino e Polanski. Bevilacqua, cresciuto tra i circhi erranti degli Strioni sul fiume Po, tra narrativa poesia cinema ci lascia un’eredità creativa che certo marketing ha sbagliato bersaglio nel liquidarlo alla voce “prodotto per signore”. Urge riabilitazione o quantomeno riscoperta.

A Silvia: “Rimembri ancora i tuoi ormoni e i miei fiori”

Una finestra, due bar e quelle fanciulle in fiore. Tutto in pochi metri in via Tesi, l’aria dell’Appennino modenese più frizzantina delle bollicine della Coca. Il tizio affacciato non è un voyeur attempato, ma un universitario che scribacchia cose per dare un senso ai suoi inciampi, e a volte scende con la chitarra: dentro il corpo ha più canzoni che alcol, e le ragazze di Zocca gli accendono l’anima. Il giovane Vasco, un apprendista Bukowski con un’ombra di Proust.

Il bar sotto casa è il Trieste, la figlia del titolare è Giovanna, che sta sempre chiusa in stanza con i suoi 13 anni e quando esce prende la corriera per la scuola. L’altro locale è l’Olimpia, anche qui il barista è il papà della musa puberale di Rossi: la ragazzina si chiama Silvia Benuzzi, un viso radioso sul crepuscolo dell’innocenza, che ieri l’artista ha rievocato con foto d’epoca su Instagram: “Uno sbocciare delicato, dove gli ormoni diventano fiori. Ero anche dalla sua parte quando si metteva il rossetto e la mamma non voleva. Se fossi stato una femmina, a quell’età mi sarei comportato come lei. Racconto queste cose perché ho una parte femminile importante, sono cresciuto in mezzo alle donne delle famiglia, la mamma e le zie”.

Vasco dipinse la quattordicenne come un’implume sognatrice che coltivava “mille fantasie che non lasciano andare via”. Nei campi del pensiero si è aggirata fino a oggi, la Benuzzi, prof di Filosofia nel liceo psicopedagogico di Modena. A metà degli anni Settanta Silvia restava in sala quando il womanizer montanaro organizzava suonatine fra le pesanti colonne che sorreggevano il soffitto dell’Olimpia. Poi c’era la novità della radio libera, Punto Radio, dove Silvia dava una mano a Vasco, Gaetano Curreri e Massimo Riva per rimettere i 33 giri nelle copertine, guai a sbagliare busta, finisce che il vinile non lo ritrovi più e addio maratone rock. Silvia che c’era anche la sera in cui, nei fumi della discoteca Punto Club, Vasco introdusse una sua canzone rivelando che era stata ispirata da “una di Zocca che si è trasferita a Modena”. Gli amici si voltarono verso Silvia, che imporporì: “Guarda che sta parlando di te”.

Troppe coincidenze, a partire del nome. Ci stava pure la descrizione di lei pigra che rischia di far tardi per le lezioni. Ma quei versi, “andiamoci piano però con il trucco, se no la mamma brontolerà…”? Uhm. E perché quel dettaglio, “mentre una mano si ferma sul seno, è ancora piccolo ma crescerà”? Oddio che vergogna. Gliene chiese conto, al cantautore deb, che fece spallucce. Ma come poteva la studentessa non essere orgogliosa di finire immortalata su quello storico primo 45 giri? Va bene, sull’altro lato si parlava di Jenny, la “pazza”, ma quella era una proiezione delle depressioni di Rossi. Lei era reale.

Anni dopo, di nuovo a Zocca, fermò l’ormai famoso Blasco per dirgli: “Mi avevi proprio capita”. Fino alla rivelazione di tre anni fa, Bonolis che intervista Silvia in tv nel live di Modena Park.

Sì, ma Giovanna? Quel particolare scabroso di un altro risveglio. Albachiara. Non la prese bene, la tredicenne. Quando Vasco le confermò di averla scritta per lei, rispose “Vaffanculo”. Allora lui ne compose un’altra, Una canzone per te. Per farsi perdonare. Invano.

Il nostro maestro Albertone nelle sue battute esilaranti

“E invece è importante sapere che io ero astemio.

– E ci doveva restare astemio.

– E si fa presto a dire! Sei mesi chiuso in cantina.

– E che faceva chiuso in cantina?

– La guerra!

– In cantina?

– Sì! Mentre il mondo combatteva io resistevo chiuso, in cantina. Solo, senza luce, senza acqua. Sempre vino, solo vino.

– Ed è uscito quando è finita la guerra.

– No, quando è finito il vino!” (Accadde al penitenziario).

“Che fai, prima spari e poi dici chi va là?” (La grande guerra).

“Vallo a raccoglie’, va” (Una vita difficile).

“Quando la vecchia sta davanti al televisore dice guarda Corrado poverello… tutti se la prendono con Corrado, e lui buono buono non dice niente. Quanto è simpatico Corrado, dice la vecchia. E la televisione ti riconferma. E la vecchia è contenta. La giovane, un po’ meno… ma per la televisione quella che conta è la vecchia”

(Studio Uno, in tv).

“Io le brutte abitudini le prendo subito” (La più bella serata della mia vita).

“- Tersilli, ricordi: i poveri pagano sempre meglio.

– Quante cose devo imparare da lei, professore” (Il medico della mutua).

Sordi spiega alla troupe: “A me nun po’ succede niente perché se me fermo io nun magnate più nessuno” (Lo sceicco bianco).

“Signorina, capisco che un animo come il suo possa turbarsi, ma non il funzionario deve impressionarla, bensì l’uomo (Il commissario).

Sordi impiegato finge di essere malato e il capoufficio, pur sapendo della bugia, lo fa ricoverare. Sul lettino in sala operatoria lo aspettano due chirurghi, padre e figlio. Il padre chiede al figlio: “Bisturi corto”. Il figlio: “Quello lungo va bene uguale, papà?”. E Sordi: “Ma se papà te chiede de daje quello corto, daje quello corto! E dai retta a papà che c’ha molta più esperienza de te!” (Un eroe dei nostri giorni).

“- I viaggi sono belli solo nei ricordi, perché tutto sembra bello nei ricordi.

– Allora accosta e fai riposare ’a machina, perché se si fonde er motore sai quante risate che ce facciamo l’anno prossimo quanno ce lo ricordamo?” (Una botta di vita).

“Io non so niente, se lo sapessi ve lo direi, io so’ un vigliacco, lo sanno tutti” (La grande guerra).

“Ho sognato che ero rimasto vedovo: io camminavo dietro al feretro e, mentre tutti piangevano, io solo ridevo. Poi mentre calavano la bara giù, nella fossa, ho sentito come un colpetto qui dietro alla nuca. Tac! Anche abbastanza forte… Mi sono svegliato nel mio letto; era mia moglie che mi diceva: ‘Cos’hai, cretinetti, ridi nel sonno?’” (Il vedovo).

“Ormai hai ventun’anni, è tempo che tu sappia di chi sei figlio” (Un americano a Roma).

“Mi dispiace. Ma io so’ io, e voi non siete un cazzo” (Il marchese del Grillo).

“Vedi, Paolino, tua madre è una grande donna, e noi dobbiamo avere per lei un grande rispetto. Ma ragiona come una donna” (Una vita difficile).

“Feci il navigatore solitario. Giorno e notte, fra cielo e mare, mare e cielo. In questa natura, padrone del mondo. Lei non sa cosa vuol dire il navigatore solitario. Solo, nell’immensità del mare, in assoluta meditazione, a contatto della natura più pura, è allora che capisci… quanto sei stronzo, a compiere queste imprese, che non servono a un cazzo” (I nuovi mostri).

“Negriero portoghese: Vegliaccos! Meteros em dois!

Sordi: E se eravamo tre, te menavamo in tre” (Riusciranno i nostri eroi…).

Quel bagno di Sordi “nella marrana” con i ragazzini che gridano “America’ facce tarzan!” (Un giorno in pretura).

“Cos’è, un dolce?” (Lo sceicco bianco, quando lei gli fa vedere il disegno, ndr).

“È meglio che ti ci abitui da piccolo alle ingiustizie, perché da grande non ti ci abitui più!” (Il vigile).

“Mo’ fa il fanatico perché c’ha i tori!” (Il Conte Max).

Ustica, il supermarket dei depistaggi e l’urlo “Guarda, cos’è?”

Sta per riaprire il funebre Supermarket dei depistaggi, scaffale Ustica. Sul quale stanno in ultima fila le identità delle 81 vittime ormai invisibili: uomini, donne, bambini inghiottiti quarant’anni fa dal mare di onde del Tirreno e per quarant’anni dal mare di bugie della Repubblica italiana.

Sullo scaffale in prima fila luccicano le scatole colorate di tutte le false verità che i militari dell’Aeronautica, le agenzie di investigazione, i servizi segreti, le cancelleria dei Paesi Nato, i presidenti e i ministri di 31 governi italiani, le ambasciate, le gazzette, i testimoni falsi e quelli veri, hanno confezionato con velocità costante di crociera e rotta verso il nulla, a partire dalle 20.59 del 27 giugno 1980, quando il Dc-9 Itavia, in volo da Bologna a Palermo, scomparve dal cielo dei radar, per ricomparire, in forma di fantasma e di rimorso, nella palude oscura della nostra storia.

Tutte scatole allineate, spolverate, a portata di mano, basta scegliere quella che sa come attrarci di più, che è poi la migliore tecnica del depistaggio che consiste nell’accumulare versioni verosimili, bugie equivalenti e strato dopo strato, nasconderci il più a lungo possibile la verità.

La prima scatola contiene il famoso “cedimento strutturale” dell’aereo, imploso così, senza preavviso, maledetta fatalità, no anzi colpa della compagnia aerea Itavia, colpevole di mancata manutenzione e che a causa del disastro, andrà fallita. Tanti saluti all’aerolinea che solo oggi (forse) riceverà 330 milioni di euro dai ministeri della Difesa e dei Trasporti, a titolo di risarcimento per quella falsa accusa.

La seconda racconta che fu colpa di due Mig libici di scorta all’aereo di Gheddafi in viaggio verso Belgrado, che si infilarono sotto la traccia radar del Dc-9 per proteggersi nel cielo ostile della Nato, sbagliando i calcoli della distanza dall’aero passeggeri, abbattendolo nella collisione.

La terza corregge l’incidente in battaglia aerea: furono i Mirage francesi che tentarono di intercettare l’aereo di Gheddafi e i Mig. Presero la loro scia, lanciarono due missili aria-aria, purtroppo sbagliando la fonte di calore e colpendo l’aereo di linea in transito.

La quarta scatola cambia i protagonisti dell’inseguimento, non più i Mirage francesi, ma gli F 104 americani : anche loro lanciati all’inseguimento di Gheddafi, che in una versione scagliano il missile assassino, nell’altra vanno a sbattere contro un’ala del Dc-9, facendolo esplodere in volo.

L’ultima scatola, improbabile quanto la prima, ma utile a completare l’offerta, una bomba a bordo, forse nascosta nelle toilette dell’aereo, dunque un attentato terroristico, di cui non si è mai capito lo scopo, salvo quello di scagionare tutti: i francesi, gli americani, la Nato, i libici. E naturalmente i nostri generali che infatti l’hanno scelta a colpo sicuro e con la mano sul cuore.

Ognuna delle cinque scatole è confezionata per bene con milioni di parole, migliaia di particolari, centinaia di confessioni, ritrattazioni, equivoci. E poi dettagli tecnici, intercettazioni radio, tracciati radar, fogli bianchi, fogli smarriti, registrazioni telefoniche cancellate, testimoni che appaiono e scompaiono, testimoni che muoiono, come due addetti ai radar di quella notte, che a distanza di anni si impiccano senza lasciare spiegazioni, o i tre piloti italiani che muoiono durante l’esibizione acrobatica aerea di Ramstein, in Germania, prima di un loro interrogatorio cruciale, o il tecnico informatico, anche lui suicida, che lavorava ai tabulati e alle comunicazioni tra le basi militari italiane. E poi i processi che non si celebrano. Le Commissioni di inchiesta che riempiono migliaia di pagine, senza arrivare mai a nulla di definitivo. Nemmeno sul Mig libico ritrovato venti giorni dopo la strage sui monti della Sila, con tanto di pilota “in avanzato stato di decomposizione”: c’entra con quella battaglia aerea? Forse sì, forse no. Anche quel mistero ha diritto al suo scaffale nel Supermarket delle verità in offerta.

Perché il più clamoroso depistaggio della recente storia italiana – quello con più vittime e con meno spiragli di luce – è una sorta di Esposizione Universale dei meccanismi che lo hanno reso impenetrabile. Compresa la clamorosa raccolta dei 2 mila frammenti dell’aereo ripescati a 3500 metri di profondità e incollati l’uno all’altro a ricostruire i 31 metri della fusoliera, dal muso alla coda, compresi i sedili contorti, le ali spezzate, gli oblò. Offrendo a chi visita quel Museo della Memoria, a Bologna, la paradossale sensazione di una penombra riempita con il vuoto di quelle lamiere. Promettendo una spiegazione e insieme la collezione completa e tragica dei frammenti che la nascondono.

Francesco Cossiga, che all’epoca della strage era il presidente del Consiglio, disse quasi trent’anni dopo che erano stati i francesi con “un missile a risonanza”. Versione plausibile, visto che in quei giorni due portaerei, una americana, l’altra francese, incrociavano nel Golfo di Napoli e al largo della Corsica. Gheddafi era un bersaglio di guerra calda, non fredda. Né gli americani, né i francesi hanno mai offerto collaborazione, ma solo il silenzio dei no-comment militari. Salvo che sono stati proprio i francesi – ma guarda la coincidenza – a ottenere l’appalto per il recupero dei resti, con la società Ifremer, legata ai servizi segreti parigini, raccomandata dal nostro capo dei servizi militari, l’ammiraglio Fulvio Martini, a Giuliano Amato, plenipotenziario del governo Craxi. Furono i francesi, nel 1987, a recuperare anche la scatola nera, con quell’ultima sillaba pronunciata dal co-pilota che grida “Gua…”, prima di interrompersi. Sillaba che quarant’anni dopo, grazie ai tecnici di Rainews, che hanno ripulito il nastro, è diventata una frase intera: “Guarda, cos’è?” a segnalare che qualcosa era davvero comparso davanti agli occhi dei piloti. Era la verità dei fatti. Comparsa in quell’istante e poi mai più.