Bimbe pazze per Mattarella e Conte, per Renzi altro flop

Il ciuffo sempre a posto, la pochette e lo sguardo rivolto verso l’orizzonte. Ma non è la solita foto di Giuseppe Conte che lavora chino sui dossier a Palazzo Chigi. Il profilo del premier stavolta è circondato da gelatina, crema pasticcera e qualche fragola qua e là. È una torta di compleanno: “Decretati i tuoi 31 anni”, recita la didascalia per il festeggiato. Firmato: “Le bimbe di Giuseppe Conte”. I Dpcm, le autocertificazioni e le dirette Facebook all’ora di cena (“anche stasera aperitivo con Beppe!”) sono diventate materia di adorazione sulle pagine social dedicate al premier. Ormai un tratto distintivo – quasi ontologico – di “Beppi”.

Ma non ci sono solo le decine di pagine fan del premier, che oggi contano più di 400 mila follower: durante il lockdown ne sono germogliate di nuove tutte dedicate ai politici che hanno dovuto prendere decisioni forti ma meno avvezzi alla comunicazione social, da Mattarella a Conte passando per i governatori Zaia e De Luca. In questo misto di satira, politica e culto della personalità, la sorpresa è grande: latitano le pagine dei leader politici tradizionali – Renzi, Salvini e Meloni su tutti – che con le loro bestie e bestioline hanno costruito la propria fortuna politica. Al leader di Italia Viva sono dedicate tre pagine di “bimbe” su Instagram: una satirica che lo prende in giro e due che ne elogiano la gesta. Ma in risultato è scarso: 213 follower in tutto.

Sui socialspopolano Sergio Mattarella e Giuseppe Conte. Un meme della pagina “Le bimbe di Mattarella”, parafrasando una famosa massima di Giorgia Meloni, li rappresenta come il “genitore 1” e il “genitore 2” della politica italiana. Prima di tutti sono arrivati i sostenitori dell’inquilino del Colle, seguendo l’esempio delle fan femministe di Lilli Gruber: oltre 40 mila follower che si dilettano a inneggiare la “compostezza” e “l’eleganza” di Mattarella per poi trasformarlo nel nuovo tronista che sceglie il premier da incaricare durante le consultazioni o l’Alessandro Borghese della politica italiana che, in piena crisi del Papeete, poteva “confermare” lo scioglimento del Parlamento o “ribaltare la situazione” con un nuovo governo.

Nel mezzo, tanti fotomontaggi – molto popolare quello in cui Mattarella usa il telefono per “bloccare” Matteo Salvini durante la crisi di Ferragosto – l’elogio della prosa quirinalizia (“ineludibile!”) e uno dei filmati politici più condivisi in rete durante il lockdown: “Eh Giovanni, non vado dal barbiere neanche io”. Le capigliature – calvo, lunghi dietro la nuca e le creste – si sono sprecate.

Il “genitore 2” invece è Conte che dalle sue innumerevoli pagine fan – la più attiva è “Le bimbe di Giuseppe Conte” con 109 mila “mi piace” su Facebook e 363 mila su Instagram – viene rappresentato come il protettore del Paese dalle opposizioni: “Bimbe era stanco sì, ma il foglio in mano non tremava di un millimetro – commenta Maddalena dopo la conferenza stampa sul Mes – Che carattere. Che sicurezza. Che assertività”. Per qualcuna, il premier è anche un sex symbol: “Vorrei che fosse il mio congiunto” prega una fan, mentre un’altra trasforma la “posta del cuore” nel “decreto del cuore”. Firmato: ovviamente da lui. Dalla pagina lanciano anche una proposta per il nome del nuovo partito del premier: “Le bimbe di Giuseppe Conte”. Avrebbe già mezzo milione di fan.

Eppure, lo scettro del successo “social” non spetta solo a Conte e Mattarella. Durante il lockdown è esploso il seguito di due governatori che cercano la riconferma a settembre: Luca Zaia in Veneto e Vincenzo De Luca in Campania. Al primo è dedicato il gruppo “Le Tose (in Veneto ragazze, ndr) di Zaia” con 139 mila iscritti: organizzano pullman per seguire i suoi comizi, lo sognano carnalmente (“Come che voaria esser a Venezia co lù adess!”) e stampano magliette con il logo delle “tose” raccogliendo fondi per la sanità. Il premio? Il ringraziamento diretto di Zaia. Stessa fama di De Luca che, imbracciando il lanciafiamme, viene rappresentato dai 30 mila fan come l’ultimo Samurai o il detentore del Trono di Spade.

Quasi assenti invece “le bimbe di” Matteo Salvini, Matteo Renzi, Giorgia Meloni e Luigi Di Maio. Il leader del Carroccio ha una pagina dedicata su Instagram che non sfonda i 2 mila “mi piace” limitandosi a riproporre la propaganda social di Luca Morisi, mentre Renzi si deve accontentare di pochi seguaci. Non pervenute invece le “bimbe” di Meloni e Di Maio.

Gli eroi in camice bianco in corteo contro Macron

“Ospedale asfissiato. I can’t breathe”. Dopo tre mesi di crisi sanitaria, medici, infermieri e altri operatori sanitari sono tornati a mobilitarsi in Francia per ricordare al presidente Macron la promessa fatta al culmine dell’epidemia di Covid-19: un grande piano di rilancio e investimenti per l’ospedale pubblico. A più di venti giorni dall’inizio degli “Stati generali della salute”, una maxi video conferenza inaugurata il 25 maggio, mancano ancora proposte concrete. Più di 200 manifestazioni sono state organizzate ieri in tutta la Francia dal Collectif Inter-Hôpitaux che riunisce 12 sindacati del settore. A Parigi, il corteo degli ospedalieri ha riunito circa 18 mila persone. I manifestanti si sono radunati davanti al ministero della Salute per poi raggiungere Les Invalides. Ma una volta sull’esplanade alla protesta pacifica dei sanitari si sono mescolati degli individui incappucciati, tra 200 e 300, che hanno sfidato le forze dell’ordine, lanciato oggetti, ribaltato auto. Sulla piazza si sono ritrovati anche militanti anti-razzismo e anti-polizia.

Gli agenti hanno risposto con i lacrimogeni. Appena domenica scorsa un’altra manifestazione, quella volta contro le violenze della polizia, era degenerata in place de la République. La Francia, che si prepara ad affrontare la peggiore crisi economica dal secondo dopoguerra, deve far fronte anche al ritorno della crisi sociale dopo mesi di calma apparente obbligata dal lockdown. Per quanto riguarda gli ospedalieri, la loro protesta risale a più di un anno fa, molto prima del Covid. I sindacati non credono in questi Stati generali dove, secondo loro, si parla tanto e si conclude poco. “Il governo snocciola numeri per settori come l’aeronautica o l’automobile, ma niente per la sanità. Che cosa si sta aspettando? Bisogna fare presto”, ha detto il dottor Oliver Milleron dell’ospedale Bichat di Parigi alla radio France Info. I bonus fino a 1.500 euro promessi dal governo per gli “eroi in camice bianco” non bastano a frenare la protesta, che ha radici molto più lontane. I sindacati chiedono da tempo aumenti degli stipendi, soprattutto per gli infermieri, non meno di 300 euro al mese. Chiedono la creazione di posti letto negli ospedali, lo stop alla chiusura di riparti, l’assunzione di personale. Il ministro della Salute, Olivier Véran, ha promesso risposte sin dai primi di luglio. Ma quella che sembra mancare è proprio la fiducia. Emmanuel Macron ritiene che la Francia possa andare “fiera” del suo bilancio contro il Covid e del suo sistema sanitario che ha “tenuto”. “Ma ad aver tenuto – gli risponde Collectif Inter-Hôpitaux – non è stato l’ospedale. Sono stati i suoi operatori, talvolta a scapito della loro salute, mentre da tempo chiedevano aiuto”. A far luce sulla gestione dell’epidemia, che ha ucciso quasi 30 mila persone in Francia, ci penserà la giustizia. Più di 84 denunce sono state presentate, soprattutto da medici e contro membri del governo. Ieri sono iniziate anche le convocazioni davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla crisi. Bisognerà fare chiarezza sulla carenza di mascherine, sulla strage nelle case di riposo (oltre 10 mila morti), sulla strategia dei test. Il primo a essere ascoltato è il direttore generale della Sanità, Jérôme Salomon, che ha stilato i bollettini quotidiani durante il lockdown. Il bilancio della giornata di ieri però per gli ospedalieri è stato amaro: “I casseur ci hanno mandato all’aria tutto”, diceva un’infermiera a BFM Tv.

La Nord Corea fa saltare la casa della pace col Sud

La Corea del Nord ha fatto saltare in aria l’ufficio di collegamento con la Corea del Sud a Kaesong, la città più meridionale in territorio nord-coreano, vicina al confine e sede di attività economiche sud-coreane. Nell’edificio in vetro e acciaio di quattro piani, funzionari delle due Coree avevano fino a poco tempo fa lavorato fianco a fianco. Da settimane, Pyongyang minacciava di porre un termine alla distensione con Seul avviata due anni e mezzo or sono, prima delle Olimpiadi invernali del 2018 a Pyeongchang nella Corea del Sud. Il processo aveva fatto da apripista ai successivi incontri al vertice tra Corea del Nord e Stati Uniti, a Singapore nel giugno del 2018 e ad Hanoi nel febbraio del 2019, oltre che all’incontro sul confine di Panmunjom fra le due Coree a fine giugno 2019 fra i presidenti Kim Jong-un e Donald Trump, presente il presidente sud-coreano Moon Jae-in.

Proprio la frustrazione nord-coreana perché quegli incontri non hanno avuto alcun seguito potrebbe essere all’origine dell’inasprimento dei toni fra Pyongyang e Seul. Kim e sua sorella Kim Yo Jong, che avrebbe un peso crescente nelle decisioni nord-coreane, mandano messaggi a Trump via Moon: senza un alleggerimento delle sanzioni, niente denuclearizzazione della penisola. Una prova di forza; o di debolezza: la situazione economica interna nord-coreana sarebbe disperata. L’agenzia di stampa di Pyongyang, la Kcna, ha segnalato la “completa distruzione” dell’edificio. Un atto che testimonia “lo stato d’animo dell’infuriato popolo nord-coreano”. La tv di Stato mostra manifestazioni di massa di giovani ben inquadrati. Una studentessa dichiara: “Lascio l’università per andare a difendere il mio Paese”. Che non risulta sotto attacco. L’ufficio di collegamento era stato aperto nel 2018 come primo canale di contatto permanente e personale fra le due Coree ed era gestito da funzionari dei due Paesi. L’iniziativa rispecchiava il clima di collaborazione fra i due Paesi creato dagli incontri fra Kim e Moon, nella prospettiva di avviare una vasta cooperazione economica. Nessun funzionario sud-coreano vi era più stato, però, da gennaio, quando l’ufficio chiuse causa pandemia. Tecnicamente, le due Coree sono ancora in guerra, perché non è stato concluso un accordo di pace alla fine del conflitto nel 1953. Per Seul, l’ufficio era un passo avanti importante verso la chiusura di decenni di inimicizia fra i due Paesi: c’era la speranza era che potesse preludere allo stabilimento di missioni diplomatiche nelle rispettive capitali.

Ma da allora le relazioni fra le due Coree si sono inacidite. Da qualche settimana, Pyongyang aveva messo nel mirino della sua retorica bellicosa l’ufficio di collegamento: il 5 giugno aveva minacciato di chiuderlo; il 9, aveva tagliato tutte le linee di comunicazione con la Corea del Sud, compresa quella che passava per l’ufficio. Il Nord voleva “eliminare radicalmente tutte le vie di contatto e liberarsi di tutte le cose non necessarie”. Kim Yo Jong, oggi forse la persona più influente su Kim Jong-un, aveva un piano per distruggere “l’inutile ufficio di collegamento tra Nord e Sud, che potrebbe presto finire in macerie”. E così è stato: la coincidenza fra le parole di Kim e quanto avvenuto sembra confermare il peso acquisito dalla giovane – ha 32 anni – nelle decisioni nord-coreane. Ufficialmente, a fare infuriare Pyongyang è stata una campagna di propaganda anti-comunista condotta da attivisti ed esuli, che facevano volare oltre confine con l’ausilio di palloni volantini anti-Kim. Per preservare il processo di distensione, la Corea del Sud era pronta a porvi termine, varando una legge per renderlo fuorilegge. Ma l’escalation della Corea del Nord non s’è arrestata: ha definito il Sud “un nemico” e ha minacciato di rimandare lungo le confine – il più militarizzato al mondo – le truppe che ne aveva ritirato. Se attuata, la mossa riporterebbe la penisola vent’anni indietro, a prima degli incontri fra i leader dell’epoca il padre di Kim, Kim Jong-il, e il presidente Kim Dae-Jung, gli ideatori della Sunshine Policy.

Himalaya, cima dello scontro tra Cina e India

Le fiamme appiccate improvvisamente due settimane fa dal presidente cinese Xi Jinping e dal premier indiano Narendra Modi lungo la frontiera montuosa più alta del mondo, ai piedi dell’Himalaya, che attraversa parte dell’India orientale, dove si trova la zona dello Stato del Ladakh (l’India è una federazione, ndr) rivendicata da tempo dalla Cina, rischiano di trasformarsi in una guerra dagli esiti potenzialmente catastrofici. L’esercito indiano ha dichiarato martedì che un “confronto violento” ha avuto luogo nella valle di Galwan nella regione del Ladakh. “Durante il processo di de-escalation in corso nella valle di Galwan, ieri sera si è verificato un violento confronto con vittime da entrambe le parti”, ha detto il portavoce dell’esercito indiano. I morti sarebbero una ventina. La perdita di vite umane dalla parte indiana comprende un ufficiale e due soldati. Alti ufficiali militari delle due parti intanto si stanno incontrando nella sede per disinnescare l’impennata di tensione. L’esercito ha detto che anche “17 soldati indiani sono stati gravemente feriti sulla linea di servizio”, il tutto aggravato dalla temperatura di meno venti gradi.

Le truppe cinesi e indiane si sono attaccate a vicenda usando pietre e barre di metallo. I media locali hanno riferito che i soldati indiani sono stati “picchiati a morte”, anche se la Cina nega tutto, compresa la perdita di soldati. L’India e la Cina sono andate in guerra al confine negli anni 60 e da allora non hanno mai concordato formalmente i confini, provocando un conflitto che dura da decenni. Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha dichiarato martedì che il personale indiano ha attraversato il confine e attaccato truppe cinesi. L’ultima volta in cui Cina e India combatterono fu dunque nella guerra-lampo del 1962, ma allora i due giganti asiatici erano dominanti solo in termini demografici. Oggi invece lo sono anche in termini economici e, soprattutto, militari, essendo entrambi potenze nucleari. Pur essendo improbabile, non solo a rigor di logica, che la reale intenzione dei due leader asiatici sia arrivare veramente a un conflitto diretto per mantenere od ottenere l’area contesa, e pur essendo stato stipulato giorni fa un patto di de-escalation, resta il fatto che le scaramucce sul confine generate dai blitz quotidiani oltreconfine dei soldati di entrambi, non solo sono andate aumentando di numero ma anche di entità, fino a che ieri si sono contate le prime vittime tra i militari dei due fronti opposti. Di certo sia i soldati del Dragone sia quelli del leader induista di estrema destra Modi sono stati galvanizzati e “motivati” da anni di retorica identitaria e sovranista con cui tanto Xi quanto Modi hanno costruito la propria scalata al potere. L’ultranazionalismo religioso di Modi ha contagiato la popolazione induista (maggioritaria nel Subcontinente indiano) al punto da indurla a odiare la minoranza islamica fino ai recenti scontri di New Delhi tra vicini di casa un tempo pacifici. La guerriglia urbana è scoppiata in seguito alle proteste dei musulmani contro la nuova legge sulla nazionalità voluta da Modi che esclude gli stranieri fedeli all’Islam. Poco prima il premier indiano aveva mandato l’esercito a isolare il Kashmir in rivolta – un altro territorio conteso, questa volta dal Pakistan nucleare e musulmano, dopo l’indipendenza dall’India – dopo avergli rimosso l’autonomia garantitagli dalla Costituzione. Il sovranismo indiano appare più “classico”, intende cioè mantenere a tutti i costi entro i confini del Subcontinente le aree rivendicate dai paesi vicini, senza però mirare a espandersi. Insomma “India first”, sulla falsariga di Trump.

Il presidente a vita Xi Jinping, invece, deve risolvere oltre che i problemi interni, quelli geopolitici. Fino all’inizio della pandemia, la sua leadership sembrava destinata a svolgersi senza ostacoli. Ma, dopo la inedita crisi economica e di immagine innescata dal Covid-19 partito dalla Cina, ora deve riconquistare la fiducia di quasi due miliardi di cinesi, e lo fa ammiccando al passato imperiale e tentando di convincerli di aver creato una super potenza anche bellica. Allo stesso tempo vuole mostrare ai Paesi vicini e al mondo di avere anche le armi per imporsi, erodendo con l’occupazione militare pezzi di territorio altrui, come già fatto con repubbliche ex sovietiche di confine. Le terre di confine, soprattutto il Ladakh, inoltre servono alla dirigenza cinese per assicurare il passaggio delle merci lungo la “via della Seta” che passa anche tra questi pendii scivolosi. Sono in corso nuove trattative tra i due Paesi, ma la disputa difficilmente verrà risolta in tempi brevi.

Lasciate a Salvini le sue ciliegie e la sua politica da succhi gastrici

Il contesto è notevole, un’apoteosi semiotica: in un ristorante, a fine pasto, si tiene la conferenza stampa dei vertici leghisti, in merito alle morti di tre neonati per un’infezione batterica all’ospedale di Borgo Trento a Verona. Dopo l’amaro e il caffè, parla Zaia: “È doveroso mettere in sicurezza i bimbi e l’ospedale”; accanto a lui, attavolato, Salvini s’infila in bocca una, due, dieci ciliegie arraffadole da un contenitore di plastica. “Non riusciremo più a dare la vita a quei bimbi e ai bimbi che si sono ammalati”, dice grave Zaia, e Salvini sgraffigna altre ciliegie dalla bagnarola, si sgargarozza, sputa il nocciolo nel pugno e così via.

Lo schema è noto: Salvini fa una cosa esteticamente e/o eticamente discutibile; le persone beneducate si indignano; lui ritrova il suo ubi consistam ergendosi a vittima dell’egemonia dei radical chic che mangiano solo zenzero e quinoa, si mettono la mascherina, non vanno negli stabilimenti ecc., tra gli applausi dello stampume di destra per cui la cafonaggine è virile naturalezza.

“Non posso mangiare ciliegie?”, direbbe questo attore della commedia all’italiana davanti alle critiche dei benpensanti. Però qui l’ingordaggine rivela l’uomo più che il politico: il pensiero di neonati morti o con danni neurologici farebbe passare a chiunque non tanto la voglia di far propaganda ruspantista, quanto l’appetito. A Salvini no. A Salvini viene. Dici “neonati morti” e gli si apre lo stomaco. Dal che consegue che quando è a casa, tra i suoi, è esattamente come quand’è sotto i riflettori: non ha filtri, l’unico filtro essendo, ad avercelo, un senso di decenza interno che procrastinerebbe gli istinti. Per lui la politica è quella cosa che accade tra un borborigmo e l’altro. Però ecco, almeno alla fine non ha ruttato.

Mail box

 

Le stupide crociate contro Montanelli & C.

Mi permetto di portare il mio contributo alla crociata antirazzista che vuole eliminare monumenti vari, tipo Montanelli a Milano, film dalla proiezione, vedi Via col vento, ricordando Madama Butterfly, via dai teatri d’Opera! Per chi non lo sapesse la tragica storia nasce da due fatti veri, raccontati da John Luther Long e Pierre Loti. In entrambe la storie, la fanciulla in questione aveva 14 anni, come la protagonista dell’opera pucciniana, con la differenza che questa muore, le altre due continuano la loro vita. E allora che facciamo? Via Puccini da teatri, strade e piazze? E Otello, Shylock, Azucena? Via da teatri, scuole e conservatori, potrebbero infettare i nostri giovani… E pensare che c’era chi credeva che dopo la pandemia saremmo stati migliori!

Nonna Katia

 

La verità per Regeni e gli equilibri geopolitici

Lo so è terribile: fornire armi al Paese che non vuole fornirci la verità sulla morte di un nostro ragazzo. Appoggiare l’Egitto che con gli Emirati sta dietro ad Haftar, che combatte Al Sarraj e quindi Erdogan, non è purtroppo sbagliato. Solo buoni rapporti con l’Egitto un giorno ci daranno la verità su Regeni. Sono triste per quello che sto dicendo, ma è così.

S. Di Giuseppe

 

L’ultima moda italiana: infangare il prossimo

Sono rimasto disgustato dalla interpretazione “ideologica” che il popolino, io incluso, fa delle informazioni divulgate dalla presunta informazione italiana che, rammento, è al 78° posto nel mondo per libertà di stampa… L’interpretazione che viene costantemente data dagli ignoranti è solo di bassa politica, quella stessa politica che ha fatto 16.000 morti nelle Rsa. Non esiste più la ragione, o il torto, l’importante è infangare senza una logica.

Muzio Berardo

 

I conflitti d’interessi del manager Colao

Egregio direttore, leggo sul Fatto che Vittorio Colao viene presentato solamente come l’ex amministratore delegato di Vodafone e non con il suo incarico attuale di consigliere di amministrazione di Verizon, il colosso americano delle telecomunicazioni wireless. Esiste qualche problema della stampa cosiddetta “libera” a denunciare il chiaro conflitto di interessi di Colao, specie quando chiede lo sviluppo delle reti 5G? Colao dovrebbe agire per l’interesse collettivo, ma interesse dei cittadini è anzitutto la salute, che verrebbe compromessa dall’innalzamento dei limiti dei campi elettromagnetici, di ben 100 volte se si considera il valore della densità di potenza.

Dr. Roberto Cappelletti

 

Attenzione alla lesa maestà tra giornalisti

Mi riferisco alla lettera di un lettore relativa al commento a Radio 24 di Mieli sull’inutile passerella degli Stati generali a Villa Panphili, in cui Conte “ha invitato oltre a importanti quotidiani, anche il Fatto”. Caro direttore ben ti sta! Così imparerai a non mancare di rispetto a giornalisti supponenti che si considerano ormai istituzioni del Paese. Così, caro Travaglio, ci penserai bene la prossima volta a non incorrere nel reato di lesa maestà, come quando mesi fa ti sei permesso a Otto e mezzo di interrompere polemicamente il giornalista esclamando “Paolo ma cosa dici?”, mentre Mieli era addirittura arrivato a sostenere che nel comportamento del presidente del Consiglio ci fosse “qualcosa di torbido”.

Salvatore Giannetti

 

Indro strumentalizzato dalla destra ignorante

Credo che Montanelli dovrebbe essere lasciato in pace con i suoi pregi, molti, e i suoi difetti. Un giudizio sulla sua vita dovrebbero darla, eventualmente, storici e chi ha vissuto l’epoca dei fatti. Esiste, purtroppo, da parte di molti italiani di parlare di chi non può più contestargli le “verità assolute” che alcuni, per esempio i tecnici da talk show di certe reti televisive, esprimono sulle partite di calcio appena concluse dimentichi di aver detto il contrario poche ore prima. A scanso di equivoci dico che mi riferisco più al campo politico che a quello sportivo. Oggi non avrei più gli atteggiamenti irrisori di quando da ragazzo e da toscano facevamo battutacce sui gay e sulle ragazze. La coscienza e i diritti degli altri sono piante che hanno bisogno di molto tempo, molta cura e, purtroppo, di alcune vittime. Poi esiste il doppiopesismo intellettuale. Cosa dire di certi politici antidivorzisti che ogni tanto cambiano moglie e, guarda caso, con età inversamente proporzionale alla loro. Basterebbe aver parlato con molti reduci delle campagna d’Africa per sapere che cosa succedeva negli accampamenti dei “portatori di civiltà”… Le cose che mi disturbano della vicenda Montanelli sono due: la prima è che il grande, e libero di sbagliare, giornalista sia strumentalizzato dalla destra; la seconda è che l’orrendo monumento, sono d’accordo con Travaglio, lui non lo avrebbe voluto, come non volle essere senatore. L’imbrattamento del monumento c’era da aspettarselo e mi meraviglio che la Polizia non l’abbia messo nel conto. Mi sarebbe piaciuto vedere in faccia queste (de)menti raffinatissime che hanno sfogato la loro sete di giustizia su un manufatto e distratto la stampa dalla tragica realtà che la Lombardia sta vivendo con il Covid-19.

Franco Novembrini

Aborto, in Umbria l’ennesimo esempio di oscurantismo

Quanto puzza di oscurantismo (così, per esser chiari dalla prima riga) la decisione della giunta regionale dell’Umbria di eliminare la possibilità per le donne di abortire farmacologicamente in day hospital, come previsto da una delibera della precedente giunta. Ora si potrà abortire con la Ru486, il medicinale che dà la possibilità di porre fine alla gravidanza (nel pieno rispetto della legge 194), solo con un ricovero in ospedale di tre giorni. In molti hanno fatto notare che la decisione è quanto mai intempestiva visto che in questo momento si sta cercando di ridurre in ogni modo la pressione sugli ospedali per via dell’emergenza Covid. Nessuno stupore, perché al di là delle dichiarazioni della presidente leghista della Regione Donatella Tesei (un provvedimento preso “a tutela della salute delle donne”) il fine ultimo è chiaro: disincentivare l’aborto con ogni scorciatoia possibile, in una lenta e costante erosione del diritto di autodeterminarsi. Il numero dei medici che si dichiarano obiettori di coscienza (il 68,4% tra i ginecologi, il 45,6% tra gli anestesisti) rende di fatto inapplicabile la legge 194 in diverse regioni: in Molise la percentuale di ginecologi obiettori è del 96,4%, in Basilicata arriva all’88%, in Sicilia all’83,2%, nella provincia autonoma di Bolzano a 85,2%. Il tema è scivoloso e non solo per questioni etiche legate alla professione medica, ma la scelta libera di ogni singolo operatore sanitario incide sull’effettiva applicabilità della legge che all’articolo 9 prevede espressamente l’obbligo degli enti ospedalieri di garantire la possibilità di interrompere la gravidanza, a prescindere dalle obiezioni di coscienza. Il diritto esiste sulla carta, ma esercitarlo è sempre più difficile.

Nel 2019 il ministero della Salute ha pubblicato un report sull’attuazione della legge 194: gli aborti sono in costante diminuzione, si sono ridotti del 38,4%: sono stati oltre 131mila nel 2006 e poco meno di 81mila nel 2017. Quindi non c’è nessuna emergenza e si tratta di parificare sul territorio nazionale l’accesso a un servizio garantito dallo Stato. Per inciso: più volte il Consiglio d’Europa ha criticato l’Italia per le difficoltà che le donne incontrano (a quarant’anni e passa dall’entrata in vigore della norma!) quando decidono di abortire legalmente. Qualche anno fa, in un’intervista a questo giornale, Silvia Vegetti Finzi, commentando i dati su aborti e medici obiettori, disse: “C’è un lento, ma inesorabile riassorbimento e svuotamento dei diritti a opera di quelle che un tempo chiamavamo ‘forze reazionarie’”. Continua a essere inspiegabilmente vero: una settimana fa sulla pagina Facebook di una di queste benemerite associazioni suppostamente pro-vita sono comparse le immagini delle ecografie di due feti, con una scritta: “Quale dei due è stato concepito da uno stupro?”. Sottotitolo: “Non possiamo neanche immaginare la profondissima e ingiusta ferita inferta da uno stupro, e lotteremo accanto alle donne perché questa barbarie sia punita sempre più severamente. Ma tuo figlio non ha nessuna colpa, eliminarlo non cancellerà la ferita. Anzi, con lui tornerai a splendere!”. Non c’è nemmeno bisogno di commentare. Vale però la pena di ricordare che la 194 non obbliga nessuna ad abortire, le consente di scegliere. Chi vuole cancellare la legge invece vuole imporre la propria visione del mondo a discapito della salute delle donne: prima della 194 le donne morivano avvelenandosi con il decotto di prezzemolo o tra le mani di chirurghi improvvisati. Contro questo oscurantismo colpevolizzante ai danni delle donne (“abortirai con dolore” sembra essere il sottotesto, come se già non fosse una scelta di per sé atroce) bisogna continuare a battersi: guai a distrarsi.

 

Confindustria Liberisti (coi soldi nostri) e vittimisti “all’arrembaggio”

Se grattate via la polvere, lo struggente dibattito se Conte si farà un suo partito, le baruffe interne ai 5S, le valigette venezuelane disegnate coi trasferelli, lo spettacolino quotidiano delle destre melon-salviniane, insomma, se togliete il rumore di fondo, la melodia risalterà abbastanza chiara. Quello di cui si parla, malamente perlopiù, è il disegno che si può dare al Paese, nei prossimi anni e forse decenni, facendo nuovi debiti, certo, ma per una volta, si direbbe, non per tappare i buchi, ma per rilanciare.

Dunque, a dispetto di quelli che destra e sinistra non esistono più, e le ideologie sono morte, eccetera eccetera, c’è uno scontro in atto tra visioni del mondo – o almeno della gestione economica di una società complessa, che è la stessa cosa – contrapposte e differenti. Il quotidiano punzecchiamento di Confindustria al governo Conte, un pressing duro e dai toni non proprio diplomatici (“La politica che fa più danni del Covid”), tradisce un certo nervosismo. Tanti soldi in arrivo, il timore di non avere un governo automaticamente amico, come sempre avvenuto in passato, suggerisce agli industriali una strategia aggressiva, ma anche un po’ passiva, insomma, il tradizionale vittimismo seguito dal grido “all’arrembaggio”.

Il nemico è sempre quello, il fantasma dell’“ingresso dello Stato nell’economia”, per cui una volta (illo tempore) si deploravano Alfasud e panettoni, e oggi si fanno altri esempi. Come dice il capo Bonomi, Ilva e Alitalia sono la dimostrazione dei disastri della gestione pubblica. Dimentica forse che l’Ilva fu salvata dai disastri di un privato, che ora la gestisce una multinazionale privata che chiede prebende e sconti un giorno sì e l’altro pure. Quanto ad Alitalia, di capitani coraggiosi, e generosi imprenditori, e impavidi investitori poi atterrati coi piedi per terra si è perso il conto. E si è perso il conto anche dei sedicenti leader e capi di governo dell’epoca che esultavano per aver dato un’azienda sana ai privati e aver accollato i debiti a tutti noi. Una prece.

Ma sia: per condurre la sua battaglia, il fronte liberista (coi soldi nostri) usa due argomenti forti: la burocrazia e l’assistenzialismo, due cose brutte e ripugnanti al solo pronunciarle, tanto che nei talk politici alla parola “burocrazia” escono tutti con le mani alzate e si arrendono. È un buon argomento, insomma, popolare. Ma raramente si pensa, poi, che molta burocrazia vuol dire controlli, procedure, fare le cose secondo certe regole, e la pretesa di “cancellare la burocrazia”, come si sente dire ogni tanto, copre il desiderio, nemmeno nascosto, di far fuori le regole. Tutto più snello, tutto più veloce, tutto naturalmente meno trasparente e più infiltrabile da interessi zozzi.

La guerra del fronte padronale all’assistenzialismo, poi, è poderosa. Per mesi abbiamo assistito al bombardamento sul Reddito di cittadinanza, sui casi di cronaca, sui furbetti, su quelli che stanno sul divano, eccetera eccetera. Il sottotesto (macché, il testo!) è che si spende per assistere le fasce più deboli invece di dare quei soldi a loro – loro la luminosa imprenditoria – che le farebbero lavorare. Una tesi che ha buona stampa, come si dice, cioè l’appoggio quasi monolitico dell’informazione. E così quando l’Inps comunica di aver scovato più di 2.000 aziende che facevano pasticci con la cassa integrazione, e migliaia di assunzioni predatate di parenti e amici per prendere soldi in modo truffaldino, la notizia è stata sepolta, lontanissima dalle prime pagine.

 

La stampa come la casta e Conte come i due Prodi

Sono impressionato dall’assedio politico e mediatico nei confronti di Conte. Ammettiamo che vi sia della ritualità negli Stati generali, ma come ignorare quantomeno il valore del coinvolgimento delle più alte autorità Ue tanto importanti in questa fase, il positivo rapporto con le quali è la ragion d’essere originaria del governo (la “maggioranza Ursula” propiziata dal voto comune all’insediamento della presidente della Commissione Ue) e la principale risorsa per il nostro futuro?

Che, nella polemica, si esercitino le opposizioni ci sta, anche se fa sorridere l’obiezione pregiudiziale sulla sede non istituzionale di Villa Pamphilj, come se i governi da loro espressi in passato non avessero conosciuto ben altre sgrammaticature, con vertici interni e internazionali convocati a casa del premier, a palazzo Grazioli o nella residenza di Arcore. Ma sono i mugugni dei partiti di maggioranza agli Stati generali quelli che più meritano una spiegazione. È chiaro che, a monte, c’è dell’altro, un nodo politico che sembra li ossessioni: chi è politicamente Conte? Che intenzioni ha? Come intende spendere il suo capitale politico? Mira a dare vita a un suo partito o ipoteca la leadership del M5S? Ad acuire speranze o preoccupazioni il sondaggio di Pagnoncelli, dal quale risulta che un M5S capeggiato da Conte tornerebbe intorno al 30% dei consensi sottraendone una quota al Pd. Una stima del consenso, già lo vediamo, che scompagina i giochi interni al M5S, inquieta gli aspiranti alla guida di esso e che mette in tensione il Pd. A ben vedere, la personalizzazione, la esasperata centratura su Conte è degli altri più che sua. A me richiama un film già visto. Do you remember Prodi? Sia chiaro: personalità diverse, contesti diversi, ma convergenti su un punto cruciale politicamente. Conte, come Prodi, non dispone di un suo partito organico di riferimento. Non lo è in senso stretto il M5S, che pure lo cooptò. Quando Prodi, da Palazzo Chigi, cresceva politicamente, puntuali scattarono le gelosie e le preoccupazioni dei partiti, segnatamente, Ds e Margherita, terrorizzati all’idea che egli potesse dotarsi di un suo partito. A seguire, presero il via manovre di logoramento, nelle quali si segnalarono in particolare Rutelli e Marini. A dispetto di una lettura sedimentata nella memoria collettiva, i due governi Prodi non caddero solo né soprattutto per le defezioni di Bertinotti e Mastella, ma per la l’azione di logoramento, meno aperta ma reiterata, dei due principali partiti dell’allora maggioranza. Pur con distacco e con la sua bonomia, Prodi, a distanza di tempo, si affidò alla seguente battuta: “I governi da me presieduti sono caduti per iniziativa dei miei”, non delle opposizioni.

Vi sarebbe poi da spendere una parola sull’assedio mediatico a Conte. La campagna polemica delle testate organiche alle opposizioni di destra è scontata, anche se spesso sguaiata. Ma impressionano certi toni dei media sedicenti indipendenti. Non siamo tanto ingenui: sappiamo bene che hanno a che fare con il core business dei gruppi editoriali che hanno messo Conte nel mirino. Spiace che un opinionista di vaglia come Massimo Giannini (prendendosela con Orlando) abbia reagito scompostamente alla domanda sacrosanta, direi elementare, di un cittadino minimamente avveduto: vi sarà bene una strategia da parte di un editore di peso come Fca e essa avrà ovvi riflessi sulla linea politica dei suoi giornali.

Sono bastati pochi giorni perché essi fossero ben visibili nel nuovo corso di Repubblica, con il suo accanimento contro premier e governo, che le vecchie firme, a cominciare dal fondatore Scalfari, non riescono a dissimulare. Difficile tacere l’impressione che a produrre l’assedio siano due ragioni (affiorate con la richiesta della Fca di oltre 6 miliardi di prestito garantito dallo Stato): la distribuzione delle ingenti risorse in arrivo dalla Ue e il proposito di sostituire l’attuale esecutivo con uno “amico” sul quale quei gruppi possano fare più sicuro affidamento. Ma, oltre a ragioni politico-editoriali, a spiegare il tenore irridente di certi commenti giornalistici agli Stati generali, affidati non a caso a penne specializzate nel cazzeggio, concorrono due fattori più banali: il vieto conformismo, la propensione ad allinearsi quando sono partiti l’assedio e la campagna denigratoria, e l’istinto corporativo generato dall’esclusione della stampa dai lavori. Sulla cui opportunità si può discutere. Ma talune reazioni a essa, taluni pezzi corrosivi di colore tradiscono l’idea che lo sgarbo sia stato fatto non tanto ai cittadini-lettori, quanto alla categoria “eletta” dei giornalisti. Quelli che ci hanno messo del loro nel gonfiare le vele dell’antipolitica con la polemica contro la casta dei politici ma che, per la loro parte, si considerano e si comportano come una casta persino più saccente.

 

Zone rosse L’Autorità giudiziaria non può intervenire in politica

Egregio Direttore, intervengo in merito all’articolo dell’ex collega Gian Carlo Caselli perché, pur nella sua pregevolezza, necessita, a mio giudizio, di una integrazione. Il suo intervento è incentrato su due punti essenziali: 1) la necessaria verifica in ordine alla riferibilità, alla Regione o al governo, della mancata tempestiva adozione delle “zone rosse” nei territori per primi interessati dall’epidemia; 2) la sussistenza del requisito soggettivo, del dolo o della colpa, nella citata omissione. La questione in tal modo impostata difetta dell’indagine relativa alla natura dell’atto, se politico o meno, essendo principio, ormai consolidato in giurisprudenza e in dottrina, quello della insindacabilità da parte dell’Autorità giudiziaria, a ulteriore garanzia della separazione dei poteri, dell’atto di natura politica. Allo stato attuale sembra prevalente (ma la questione è ben lungi dall’essere risolta) la definizione secondo cui la natura politica dell’atto presupponga la coesistenza di due requisiti, uno soggettivo e l’altro oggettivo. Il primo è relativo all’ente a cui l’ordinamento affida l’emanazione dell’atto, che deve essere o il governo o altri enti a cui siano affidate la cura e la salvaguardia di beni o interessi di rilevanza costituzionale. Il requisito oggettivo consiste nell’essere l’atto espressione di interessi statali supremi, ovvero essere previsto a tutela dei citati beni garantiti costituzionalmente. Ne deriva che l’Autorità giudiziaria non può intervenire, ove sia ritenuta la natura politica del’atto. Non decisivo, invece, sempre a mio giudizio, Il rilievo secondo cui la questione di cui si discute concerne non l’emissione dell’atto, ma la sua omissione, in quanto anche l’omissione, o la tardiva emissione, concerne una modalità giuridicamente rilevante del comportamento dell’ente.

Guido De Maio, Presidente emerito Corte di Cassazione

 

Ringrazio il Presidente Guido De Maio per la sua preziosa integrazione, che arricchisce con dottrina e competenza il mio articolo. Esso si riferiva genericamente a tutti i segmenti della “catena” decisionale della complessa questione; per quanto direttamente concerne lo specifico profilo “politico”, aggiungo soltanto che ho potuto dedicargli non più di un accenno nella parte conclusiva dell’intervento. Infatti il numero di “battute” assegnatomi (al riguardo la redazione del giornale è davvero… spietata) non mi consentiva di più.

Gian Carlo Caselli