Da Celentano a Grillo, l’“ignorantismo” è una forma di civetteria

“Ci sono persone che hanno il senso del tempo come nel film ‘Il giorno della marmotta’” (tweet di Beppe Grillo contro Di Battista, che proponeva un’assemblea costituente delle anime del Movimento “e vedremo chi vincerà”).

Riassunto della puntata precedente: stiamo rivedendo daccapo il loop in cui, da qualche anno, Grillo è impaniato. I grillini in Parlamento sono una manica di improvvisati, tenuti insieme dalla paura di restare senza seggio alle prossime elezioni (se avessi un programma tv, inviterei il ministro degli Esteri Di Maio e gli chiederei: “Onorevole, fino a che pagina ha letto il ‘Manuale del Piccolo Ministro’, prima di mettersi a fare questo mestiere?”), che obbediscono – come adepti di una setta – agli ordini del capo, accettando multe salatissime, gogna web ed espulsione coatta nel caso venga loro in mente di esprimere liberamente un pensiero eterodosso, non sia mai.

Il parlamentare grillino che non obbedisce agli ordini di scuderia viene messo fuori, e deve pagare una penale di 150 mila euro. Chi accettò questa clausola (tutti gli eletti) non ebbe il senso della propria dignità personale, che è protetta anche da diritti personali come quello della libertà di opinione: firmando, i candidati del M5S affermarono di rinunciarci, in cambio del seggio possibile; ma un diritto personale è inalienabile. Se te ne freghi dei diritti, non puoi risolvere i problemi di una democrazia, perché i tuoi mezzi corrompono il fine. (Questo discorso vale, a fortiori, per Salvini). La battuta completa di Grillo: “Salvini? L’unica volta che andava in Europa l’ho incontrato in aeroporto. Salvini mi ha passato sua madre, le ho detto: ‘Signora, perché quella sera non ha preso la pillola?’. Poi Salvini mi ha scritto una settimana fa con un tweet, l’ha capita una settimana fa”. Salvini replicò da Floris: “Non ho mai passato mia mamma al telefono a Grillo”. Per amor di battuta, dunque, Grillo inventò la balla di Salvini che gli passa la mamma al telefono. Ci sta. Quando la balla, però, è “no al Tav, no al Tap, no all’Ilva, fuori i partiti dalla Rai, uno vale uno”, dopo un po’ chi ti ha votato te ne chiede conto: “È vero che Salvini ti ha passato sua mamma al telefono?”. Fino a ieri, quando qualcuno lo contestava, Grillo faceva il pesce in barile: “Ma io stavo scherzando”. Prima promette di risolvere i problemi del Paese, poi fa pasticci con la sua ghenga raccogliticcia, poi dice che si fa da parte e invece no, e alla fine ti prende pure per il culo. Stava scherzando, fessi voi che gli avete dato retta.

In campagna elettorale, Grillo rintuzzava l’accusa che i grillini fossero un branco di incompetenti usando il mantra di Trump “abbiamo visto cosa hanno combinato gli esperti”. E nessun giornalista replicò che, se gli esperti non erano ancora riusciti a risolvere certi problemi complessi, figuriamoci cosa avrebbero combinato gli inesperti. Se un chirurgo non ce la fa, ci si deve affidare a un passante solo se è un chirurgo più bravo. (Ma l’ignorantismo di Grillo è una forma di civetteria, e fa il paio con l’omologo ignorantismo di Celentano, che gli preparò il terreno. Li unisce pure una coincidenza emblematica: dotati di vis istrionica, recitarono entrambi nel ruolo di Gesù).

(2. Continua)

 

Oscar Farinetti e l’Apocalisse “ma-te-ma-ti-ca”

Ogni volta che vedo in tv Oscar Farinetti, sempre così placido e conciliante, mi viene in mente quel vecchio Carosello con Ernesto Calindri che, seduto come al bar, in mezzo a un infernale ingorgo di auto, serenamente sorseggiava un famoso aperitivo “contro il logorio della vita moderna”. Così, l’altra sera, a Otto e mezzo

, dopo che il professor Massimo Cacciari, con l’abituale leggerezza sturm und drang

aveva predetto: “ci sveglieremo a settembre e sarà una tragedia”, abbiamo assistito, non senza sbigottimento, alla trasformazione in diretta dell’emolliente Oscar in un profetico Cacciari al cubo: “La crisi a settembre è ma-te-ma-ti-ca” (ogni sillaba, una fucilata).

Nessuno intende prendere sottogamba le tensioni sociali innescate dal lungo lockdown

, la disoccupazione incombente, la destra che soffia sul fuoco e le difficoltà nel trovare subito la montagna di soldi necessari (se va bene quelli promessi dall’Europa arriveranno nel 2021). Ma se davvero fossimo alla vigilia di un’esplosione incontenibile (e matematica) di rabbia, impossibile non chiedersi come mai nel dibattito degli Stati generali in corso a Roma, il tema dell’insurrezione non sia, urgentemente, all’ordine del giorno. Perché delle due l’una. O si tratta di un allarme condiviso dal governo e allora il premier Conte e la ministra dell’Interno Lamorgese ne dovrebbero dare conto alla pubblica opinione, illustrando le contromisure per evitare di ritrovarsi con le barricate per le strade, soprattutto al Sud. Se invece ci troviamo di fronte a un allarmismo ampiamente e artatamente esagerato dall’opposizione, a maggior ragione, i vertici delle istituzioni avrebbero il dovere di denunciarlo, in modo chiaro e forte. Esiste una terza ipotesi, contenuta nella celebre poesia Aspettando i barbari

di Konstantinos Kavafis. Gli ultimi versi: “Si è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più. E adesso senza i barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione quella gente”.

Tav, Corte dei conti Ue: inutile, costoso e infinito

Il linguaggio è asettico, ma la sostanza è una stroncatura totale: il Tav Torino-Lione è antieconomico, non sarà ultimato nel 2030, l’inquinamento prodotto per la costruzione supera i benefici ambientali dell’opera, i cui costi sono lievitati enormemente negli anni così come i ritardi che da soli giustificano il dirottamento dei fondi Ue. Due anni fa era già arrivata la bocciatura dell’Alta velocità ferroviaria europea, che però non menzionava direttamente il Torino-Lione. Stavolta, invece, l’opera è una delle 8 analizzate dalla Corte dei conti europea (Eca) nel suo dossier di controllo “speciale”. Il rapporto pubblicato ieri valuta 8 megaprogetti transfrontalieri inseriti nei “corridoi europei” (noti come Ten-T) di cui il Tav italiano è parte. Ecco una sintesi delle critiche al nuovo tunnel del Moncenisio.

I costI. Col Tav Torino-Lione si intende soprattutto il tunnel transfrontaliero tra le stazioni di Bussoleno e Saint Jean de Maurienne: 57,5 km a doppia canna (114 km totali), per un costo di 9,6 miliardi, di cui l’Italia si accolla, in base ad accordi capestro risalenti al governo Berlusconi – il 78%, pur essendo per due terzi in territorio francese. L’Ue ne dovrebbe finanziare il 50%. Secondo il dossier, rispetto alla stima originaria (5,2 miliardi), i costi sono saliti dell’85%, a fronte del 45% che è la media per le altre opere.

I tempi. Bruxelles si dice sicura che il Tav sarà completato nel 2030. Secondo la Corte dei conti Ue, invece, “è probabile che il Lione-Torino non sarà pronto per quella data, poiché il termine ultimo attuale per il completamento lascia solo un piccolo margine per potenziali ritardi, mentre l’azione co-finanziata dall’Ue per quest’opera aveva già subìto ritardi di attuazione dopo che era stato fissato il termine ultimo”, e infatti la scadenza per usare i primi 800 milioni è stata posticipata al 2021. Non solo, “la pianificazione della Francia – si legge – non è conforme al termine ultimo del 2030”. I tempi non saranno mai rispettati. Il dossier non lo dice, ma Parigi ha deciso che prima del 2030 non prenderà in considerazione di fare la tratta nazionale di collegamento al tunnel. Il rapporto ricorda che la costruzione doveva iniziare nel 2008 e finire nel 2015, data in cui i lavori sono invece partiti. Il “ritardo medio costruttivo” delle opere analizzate è di 11 anni, quello del Torino-lione è di 15 anni.

Inquinamento. Il Tav, hanno sempre sostenuto i suoi fan, serve a ridurre l’inquinamento. Il rapporto però spiega che non è così. “La costruzione di nuove grandi infrastrutture di trasporto è una fonte rilevante di emissioni di CO2 – si legge – mentre i vantaggi ambientali dipendono dal volume di traffico trasferito da altri modi di trasporto più inquinanti (come l’autostrada, ndr). Visto che il trasferimento modale è stato molto limitato in Europa negli ultimi 20 anni, vi è un forte rischio che gli effetti positivi siano sovrastimati”. Nel 2012 la società costruttrice italo-francese Telt ha stimato che costruire il Tav genererà 10 milioni di tonnellate di CO2 e che “l’opera non produrrà un beneficio netto in termini di emissioni prima di 25 anni dopo l’inizio dei lavori”. Secondo gli esperti consultati dalla Corte dei conti Ue, invece, “le emissioni di CO2 saranno compensate solo 25 anni dopo l’entrata in servizio dell’infrastruttura. Per di più, la previsione dipende dai livelli di traffico: se raggiungono solo la metà di quelli previsti, occorreranno 50 anni dall’entrata in servizio prima che le emissioni di CO2 prodotte dalla sua costruzione siano compensate”. Mezzo secolo.

Sostenibilità. Secondo il dossier le stime di traffico alla base dell’opera sono “troppo ottimistiche”: oggi viaggiano nel vecchio Fréjus ferroviario 3 milioni di tonnellate di merci, mentre le stime dell’Osservatorio Tav presieduto a lungo da Paolo Fojetta, l’uomo che da commissario di governo si batteva da vero lobbista dell’opera – parlano di 24 milioni di tonnellate nel 2035, “otto volte i flussi attuali”. “Alcune previsioni sono state molto semplicistiche, con tassi di crescita che rimangono costanti nel tempo – spiega l’Eca –. Le previsioni non sono sempre state aggiornate, e di solito non sono state riviste per tener conto dei ritardi verificatisi”. Questo pregiudica la sostenibilità economica. Secondo i tecnici Ue, per stare in piedi l’opera deve poter trasportare 9 milioni di passeggeri l’anno, ma “il bacino di utenza è troppo poco numeroso per assicurare una sostenibilità a lungo termine”. Parole della Corte dei conti Ue, (che accusa di immobilismo e impotenza la Commissione) non dei no Tav della Valsusa.

Voti troppo bassi al figlio: ci pensa cuore di papà sovrintendente

“Igenitori che chiamano la scuola per chiedere di correggere due voti attribuiti al figlio in pagella. Da 6 e 7 a 8. Ci sarebbe, sostengono, un errore formale. Ma il genitore che venerdì scorso avrebbe chiamato l’istituto dove studia il figlio è il sovrintendente scolastico dell’Alto Adige (il rappresentante di lingua italiana nelle istituzioni scolastiche locali). Non solo: dopo la telefonata viene riconvocato un consiglio di classe e i voti contestati (un 6 e un 7) vengono cambiati in 8.

La storia, riportata da Chiara Currò Dossi sul Corriere dell’Alto Adige, è finita in un’interrogazione al consiglio provinciale presentata da Sandro Repetto (Pd). Nei documenti scolastici in possesso del Fatto si riferisce: “A seguito della comunicazione telefonica ricevuta dalla famiglia… in riferimento alla richiesta di procedere alla correzione di un errore formale nella valutazione finale di tecnologia il professore chiede di modificare il voto da 6 a 8. Il consiglio esprime parere favorevole”. Il secondo voto suscita un dibattito più acceso: “Il professore dichiara che il voto attribuito in pagella è 7, come risultante dalla media aritmetica delle valutazioni del secondo quadrimestre”. Ma, è scritto nel verbale, “il Consiglio di Classe dopo aver analizzato la situazione… si è espresso a maggioranza a favore dell’attribuzione del voto 8”. Il preside della scuola ha negato “di aver ricevuto qualsivoglia comunicazione”, ma un contatto – forse con altri docenti – risulta dal verbale. Gugliotta interpellato dal Fatto non ha risposto. Ma ha rilasciato un comunicato in cui annuncia iniziative legali: “L’articolo mi amareggia molto, come padre, cittadino e funzionario. Comprendo la divergenza di opinioni e anche le critiche sull’operato professionale, ma ritengo estremamente scorretto strumentalizzare la famiglia e un minore per screditare una figura professionale, per di più sulla base di fatti mai accaduti”.

Mafia (ex ) Capitale: la Cassazione “scorda” le motivazioni e Carminati torna in libertà

Ispettori del ministero della Giustizia al lavoro per capire se ci siano stati “ritardi”, “omissioni” che hanno determinato la scarcerazione di Massimo Carminati, uscito ieri dal penitenziario di Oristano per scadenza dei termini di custodia preventiva. L’ex banda della Magliana, ex Nar, estrema destra, era in carcere da 5 anni e 7 mesi per il processo Mafia Capitale, che in base a quanto stabilito dalla Cassazione, mafia non era, ma grave corruzione.

La sentenza della Suprema Corte è dell’ottobre 2019, ma le motivazioni sono state depositate venerdì scorso. La Cassazione ha ordinato per Carminati, Salvatore Buzzi e altri imputati con il 416 bis il rinvio in Appello per la rideterminazione della pena, avendo annullato l’aggravante della mafia, ma il deposito delle motivazioni dopo ben 8 mesi non ha giovato in vista della corsa contro il tempo per evitare la scarcerazione dettata dai termini scaduti. E pensare che la stessa Cassazione negli anni scorsi aveva depositato in tempi record le motivazioni di due tronconi del processo Infinito contro la ’ndrangheta: in un caso, dopo un mese e mezzo (90 imputati) e in un altro in 3 mesi circa (60 imputati). Il Tribunale del Riesame per spiegare che quella di Carminati era custodia cautelare preventiva, quindi con scadenza dei termini, anche se c’è una condanna definitiva per corruzione e altri reati, chiarisce che la pronuncia di annullamento della Suprema Corte “in parte limitatamente al trattamento sanzionatorio, in parte in punto di responsabilità, ha comportato la regressione del procedimento alla fase di Appello, con evidenti conseguenze sia sotto il profilo dell’allungamento dei tempi processuali sia sotto il profilo strettamente cautelare”. I termini della custodia cautelare, secondo gli avvocati Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri erano scaduti il 30 marzo scorso, a 5 anni e 4 mesi dalla prima ordinanza di arresto, il Riesame ha dato loro ragione, riconoscendo la cosiddetta “contestazione a catena” rispetto alla seconda ordinanza di custodia cautelare. L’istanza era stata respinta tre volte dalla Corte d’appello. Ora Carminati attenderà da uomo libero il processo d’Appello bis per la rideterminazione della pena. Ai domiciliari, invece, l’ex ras delle coop rosse Buzzi, l’altra testa pensante dell’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di amministratori e politici della Capitale, che si sono piegati alle loro mazzette, per mutuare un concetto espresso dalla Cassazione. “Sono felice della sua scarcerazione”, ha esultato Buzzi per il socio d’affari illeciti. Attraverso i suoi legali, Alessandro Diddi e Piergerardo Santoro, infine, chiosa: “L’inchiesta Mafia Capitale si rivela per quella che è stata: una montatura mediatico-giudiziaria”.

Casamonica, i finti lavori e la “difesa” di tutta Roma

“ICasamonica proteggono Roma! Ce stanno i servizi segreti che vonno portà la camorra e le ‘ndrine qui. Devono far entrare organizzazioni forti a Roma, ecco perché vonno distrugge a noi!” Guido Casamonica (nella foto) crede che le operazioni della polizia e della magistratura contro la sua famiglia siano mirate a indebolirla, per far spazio alle altre organizzazioni criminali. Ma per la Dda e la polizia di Roma, i Casamonica è solo un clan mafioso da debellare, per questo Guido insieme ad altri 19 esponenti della famiglia (su 23 indagati) è finito in arresto, con l’accusa di associazione mafiosa, estorsione, usura e intestazione fittizia di beni. Le autorità hanno anche sequestrato circa 20 milioni di euro, tra fabbricati, case e due società. Quella dei Casamonica è un’organizzazione formata da singoli gruppi autonomi, come spiegano le ex mogli dei boss Debora Cerreoni e Simona Zukova oggi collaboratrici, pronti a riunirsi e compattarsi quando sorge un problema, come un vero “branco”.

“Per giustificare il loro tenore di vita, – spiega la Zukova – i componenti più giovani della famiglia hanno iniziato a fare ricorso a finte assunzioni. Le somme dello stipendio vengono consegnate brevi manu ai finti datori di lavoro, che le accreditano sui conti dei lavoratori in modo da far risultare un pagamento tracciabile”. Violenza, intimidazioni e armi sono usati per riscuotere il denaro prestato a tassi usurai tra il 120 e 240% annui. “Ricordo che il periodo in cui Raffaele (Casamonica, ndr) – spiega la Zukova – ha riscosso gli interessi dei prestiti per conto del padre incassava circa 10 mila euro al mese”.

“Senti, mo scenno, lo sai dove te butto io a te? “Mo’ te darei ’na bastonata in testa, te spaccherei la testa. Le mascelle te romperebbi io”, dice Christian Casamonica mentre minaccia una vittima, tra gli arrestati insieme a Ferruccio Casamonica, al vertice del clan, e Raffaele marito della Zukova.

Norma anti-Fazio e le quote per gli agenti: nel cda Rai stretta sui conduttori-produttori

Mai più un caso Fazio, con il conduttore di un programma che, oltre al cachet, incassa pure i diritti come produttore del programma stesso. È il caso, appunto, di Che tempo che fa, prodotto da L’Officina, società che appartiene per metà a Magnolia e per metà allo stesso Fazio. Questa sarà una delle novità che l’ad Fabrizio Salini illustrerà oggi nel Cda Rai dove ai vertici aziendali saranno anche presentati i palinsesti della prossima stagione televisiva (la presentazione ufficiale è invece slittata al 9 luglio). Ma le novità riguardano anche lo strapotere degli agenti televisivi, come Beppe Caschetto e Lucio Presta, e tutti gli altri. Facendo propria una delibera della Vigilanza e una dell’Agcom, è stato deciso un tetto del 30% al numero di artisti che un singolo agente può avere in un programma. Non solo: in Rai un agente non potrà curare gli interessi degli artisti e allo stesso tempo fare il produttore di programmi. Infine, a fronte dei minori incassi pubblicitari, Salini ha annunciato un taglio del 10-20% ai compensi di artisti e dirigenti di Viale Mazzini.

Irritabili e senza regole: il jet lag domestico dei bambini

“Nella memoria dell’evento traumatico c’è anche quella di averlo superato”. Fabrizio Starace, psichiatra, direttore del Dipartimento di Salute mentale dell’Ausl di Modena e componente della task force Colao, dà una chiave per lavorare sul superamento dell’esperienza psicologica del lockdown. Dopo qualche settimana dalla riapertura, la ripartenza va accompagnata anche psicologicamente.

Al ministero della Salute con il sottosegretario, Sandra Zampa, e con Paolo Petralia, direttore generale dell’Istituto Gaslini di Genova, si presenta l’indagine sull’impatto psicologico e comportamentale della pandemia durante il lockdown su famiglie e minori condotta dall’Istituto Gaslini e dall’Università di Genova. Hanno risposto al questionario, che è stato raccolto tra il 24 marzo e il 3 aprile, 6.800 persone di cui 3.245 con figli minorenni. La ricerca ha diviso l’analisi in due aree di osservazione: i bambini con meno di 6 anni e quelli con più di 6 anni. Se il 65% dei bambini sotto i 6 anni e il 71% di quelli sopra i 6 hanno subito disagi e problematiche comportamentali, sono significative anche le differenze di sintomatologia. Perché nei più grandi si tende a somatizzare. Per i più piccoli, i disturbi più frequenti sono stati l’aumento dell’irritabilità, disturbi del sonno e ansia (inquietudine, ansia da separazione). Mentre in quelli tra i 6 e i 18 anni è prevalsa una sensazione di mancanza d’aria e una significativa alterazione del ritmo del sonno (con tendenza ad andare a letto molto più tardi e non riuscire a svegliarsi al mattino), oltre che un’aumentata instabilità emotiva con irritabilità e cambiamenti del tono dell’umore, come in una sorta di jet lag domestico. Non secondaria la notazione di Petralia: “Questi dati sono unici perché nessuno potrà anche fortunatamente più raccogliere e ora dobbiamo sfruttarli per ricostruire la loro vita”. In quest’ottica, la Zampa ha annunciato una serie di investimenti per accompagnare bambini e adolescenti nel post lockdown.

L’asse Pd-Renzi per dare più soldi alle private

Trecento milioni di euro subito per evitare che restino chiuse un terzo delle 12.564 scuole paritarie (religiose e non). Le famiglie hanno smesso di pagare le rette e si rischia che, con la crisi, a settembre non rinnovino l’iscrizione. Sarebbe in bilico il sistema scolastico di alcune Regioni, dove i servizi all’infanzia si fondano per lo più sul privato. Arrivano così, immancabili, il grido d’allarme e la conseguente richiesta di soldi da parte degli istituti privati e convenzionati che si andrebbero ad aggiungere ai circa 500 milioni di euro stanziati ogni anno, scatenando l’ennesima battaglia nella maggioranza giallorosa.

La spiegazione è nei numeri. Nel decreto Rilancio, all’esame della commissione Bilancio della Camera, sono stati già stanziati 65 milioni per le paritarie a compensazione del mancato versamento delle rette da parte delle famiglie per il servizio 0-6 anni. Poi c’è stata un’ulteriore erogazione da 70 milioni per coprire fino al liceo. In totale 135 milioni per 866.805 alunni (a fronte dei 7,5 milioni iscritti al pubblico) che però per gli istituti paritari non basterebbero “neanche a coprire la metà della retta di un mese” e a pagare gli stipendi a un settore che impiega circa 230 mila addetti tra docenti, personale tecnico e amministrativo. Laddove comunque nelle strutture che non hanno fatto didattica a distanza, i dipendenti hanno comunque percepito la cassa integrazione.

L’appello delle paritarie è stato nuovamente accolto dal Pd e dal deputato Iv Gabriele Toccafondi, che da ex sottosegretario al ministero dell’Istruzione ha sempre spinto per aumentarne i finanziamenti. Negli 8 emendamenti al dl Rilancio che hanno presentato, dem e renziani chiedono – con l’appoggio di tutto il centrodestra – una detrazioni sulle rette fino a 5.500 euro, un aumento di 130 milioni per i nidi e altri 140 milioni per sopperire ai mancati incassi delle rette. Ma M5S s’è detto pronto alle barricate. “Scegliere di finanziare con fondi aggiuntivi le paritarie significa sottrarre soldi alla scuola pubblica. Chi vuole anteporre altri interessi a quelli costituzionalmente garantiti non troverà il nostro sostegno”, ha spiegato il 5 Stelle Gianluca Vacca.

Una battagliaideologica, che diventa di sistema se però gran parte delle strutture private oggi è chiamato sostituirsi alla scuola pubblica come nel caso degli asili nido, sopperendo alla mancanza di quelli comunali o statali. Rappresentano infatti il 49% delle strutture totali e il 70% di tutte le scuole paritarie. Sono 8.957 e vengono frequentate da 524mila bimbi da 0 a 3 anni. Anche questi istituti da settembre dicono che c’è il serio rischio che non riaprano. E per chi ce la farà, la prospettiva è di riempirsi di debiti. Mentre per le famiglie, da sempre fuori dalle graduatorie pubbliche, significa non sapere dove lasciare i figli piccolissimi e scegliere tra famiglia e lavoro. Secondo Save the Children, solo 1 bambino su 4 ha accesso al nido o ai servizi integrativi per l’infanzia, E, di questi, solo la metà frequenta un asilo pubblico. Un servizio pubblico che è quasi assente in Calabria (2,6%) e Campania (3,6%), a fronte delle più virtuose Valle d’Aosta (28%) o Emilia Romagna (26,6%). Ma anche i nidi che potrebbero ripartire da subito come centro estivo devono scontrarsi contro i protocolli di sicurezza che non sono stati ancora recepiti. Iniziative considerate sperimentali ci sono in Veneto e a Bolzano. “Nessuna delle nostre 30 strutture tra Lombardia, Toscana, Lazio e Campania è riuscita a riaprire”, spiega Domenico Crea di Crescere Insieme che gestisce decine di strutture in 4 Regioni. “Non si sa ancora quale sia il rapporto educatore-bambino. Potrebbe essere indicato un rapporto 1 a 3/4 tra operatori e bambini, rapporto consigliato ma non obbligatorio”, aggiunge. Nella realtà sono state date solo delle linee guida. Le Regioni devono recepirle e inoltrarle ai Comuni, che a loro volta hanno bisogno delle autorizzazioni dell’Asl. Così, dicono le associazioni, non riusciranno a resistere a lungo.

Soli e di fretta: la maturità nella fase 3

Quasi un ritorno alla normalità: un po’ forse ci voleva, anche se la paura c’è lo stesso. Devo essere sincera: nutro sentimenti contrastanti nei confronti di questo esame”: Elisa, 18 anni, ride per cinque minuti. “Non è ridarella isterica – ci rassicura – o forse sì. Oddio non lo so, hihihihi”. Non stava studiando quando l’abbiamo incontrata, nonostante oggi sia la terza della sua classe ad affrontare il colloquio per la maturità. “Il giorno prima – spiegava ieri – non si ripassa mai. Oggi mi rilasso”. Poi ci lascia, deve portare a spasso il cane.

La routine del maturando e le mille incognite

Prima di andar via ci ha però raccontato quanto sia stato complicato ingranare la marcia per la maturità durante il lockdown. La didattica a distanza c’è stata, le lezioni sono state continue “ma ho iniziato a studiare davvero solo dopo l’arrivo del decreto del ministero dell’Istruzione con le indicazioni”. Circa un mese fa, insomma. “Ho sperato fino alla fine che l’esame saltasse”. Secondo le rilevazioni di skuola.net (il portale della scuola più frequentato e più aggiornato dai ragazzi) solo il 16 per cento si è portato avanti col lavoro già durante il lockdown. La maggior parte dei diplomandi ha invece aspettato di conoscere il contenuto dell’ordinanza sull’esame per partire con lo studio vero e proprio: più di uno su due, infatti, dice di aver accelerato con la preparazione solo dal 16 maggio.

Niente gruppi di studio (neanche con l’avvio della fase 2: solo 1 su 5 si è riunito per ripassare), niente banchi a ricordare costantemente l’esame. Il 38 per cento pensa che il voto sarà più basso di quello che si sono prefissati.

Ettore, quando lo chiamiamo, sta ripassando Giovanni Verga. Il suo turno è venerdì. “Ci hanno divisi in gruppi da cinque, un’ora ciascuno e il tempo per disinfettare l’aula tra un colloquio e un altro”. L’ultimo giorno di scuola, al liceo classico, è stato il 7 marzo come per tutti. “Preferivo andare a scuola, perché mi piace stare con i compagni” poi sulle modalità di questo esame al tempo del Covid, un solo colloquio orale e un elaborato aggiunge “penso che sia meglio così. È più veloce, anche se rispetto a chi ci ha preceduto abbiamo dovuto realizzare un power point sull’alternanza scuola-lavoro e un lavoro su cittadinanza e Costituzione”. Nel suo elaborato introduttivo ha tradotto e commentato un testo dal greco e lo ha collegato ad altri testi in latino. “Sarà la parte introduttiva. Poi i docenti sottoporranno i loro materiali e da lì ci si collegherà alle altre materie”. I prof ci sono sempre stati, hanno fatto lezione ogni giorno. “Era come andare a scuola. Certo, c’erano molte più distrazioni. Diciamo che è più facile magari stare sul letto senza seguire, il rischio c’è”.

Matilde invece frequenta il liceo scientifico. Chi scrive fatica a capire di cosa parlerà il suo elaborato. “L’effetto Hall, collegato alla matematica con integrali…” e una parte che non riusciamo a trascrivere. “Il fatto che ci sia solo l’orale è diverso ma l’ansia è la stessa – dice -. Anzi, forse è stato più difficile perché abbiamo avuto meno contatti e fino a poco tempo fa neanche i prof sapevano come si sarebbe svolta la prova”. Vantaggi: “Niente scritto di matematica” .Svantaggi: “Non aver potuto vivere con i compagni gli ultimi giorni di scuola”. Si rivedranno dopo l’esame, ma non a scuola: “Andremo a pranzo”.

Il fantasma dell’università online: “Speriamo di no”

E con Matilde introduciamo un tema delicato: settembre e l’università. “Dovevo fare il test di ingesso per l’università, ingegneria, a marzo – spiega – poi hanno cancellato date e hanno disposto un test online”. Lo spettro del Covid nutre il rischio di un settembre all’insegna dei corsi a distanza.

Lorenzo, liceo classico Russel a Roma, è preoccupato. “Vorrei prendere filosofia e poi specializzarmi in sceneggiatura – spiega – Per l’iscrizione ancora non mi sono mosso. Certo che iniziare l’università online, senza conoscere professori e studenti, sarebbe davvero brutto. Mi auguro che si terrà tutto normalmente”. Sull’esame è tranquillo: i prof sono stati presenti, meno presente la chiarezza su cosa sarebbe successo. Come tema dell’elaborato ha scelto la Medea di Apollonio Rodio, collegato alla Medea di Seneca. “I professori si sono fatti sentire anche oggi per tranquillizzarci – ha spiegato -, per dirci come sono andati gli elaborati: sono professori interni, ci conoscono”. Certo, sarà una maturità diversa da quanto si aspettava: “In negativo perché non potremo esprimere tutto quello che abbiamo appreso, il tempo è poco e anche il numero di crediti assegnati con l’esame mi sembrano comunque troppi (sono stati ridotti dal ministero, ndr). E se in quell’ora ci si fa prendere dall’ansia? Con più prove le reazioni erano almeno ‘spalmate’ su più giorni. Però andava fatto: è una soddisfazione personale, una prova per gli esami futuri e una chiusura per poter dire ‘finalmente è finito il liceo’”.

Il futuro che spaventa più dell’esame

Fin qui parliamo di un futuro prossimo. Cosa accade se si pensa ad un futuro un po’ più lontano lo ha spiegato Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta, docente universitario e presidente dell’Associazione Nazionale Di.Te, che analizza i comportamenti digitali dei giovani: “Il futuro, lo avevamo osservato anche nella precedente ricerca ‘Giovani e Quarantena’, è tra le preoccupazioni maggiori dei ragazzi. È fonte di ansia costante per il 47% dei maturandi: nel 60% dei casi sono più le ragazze ad avvertire questa sensazione. I giovani faticano a immaginare cosa accadrà dopo l’esame e ciò alimenta angoscia in buona parte di loro e, in alcuni casi, pensieri molto negativi. Hanno tante difficoltà a condividere appieno il loro vissuto emotivo. Se i giovani non riescono più a desiderare un domani, a progettarlo, se non avvertono più la speranza di poter esprimere il loro talento nella società è un problema che non si può sottovalutare”.