Dal generale De Lorenzo a Scaramella. I dossier-patacca non finiscono mai

La patacca d’autore è un cocktail molto colorato e molto alcolico, preparato da bartender che mixano il vero e il falso in dosi variabili. Il risultato deve stupire, indignare, sbalordire, sorprendere. Deve essere credibile. E fare male: colori, sapori e ombrellini di carta nascondono nel bicchiere sempre una dose di veleno. È una vecchia storia: la politica – in particolar modo quella italiana – si è sempre servita di dossier, minacce, documenti segreti, allusioni, attacchi, ricatti. I professionisti del settore, mixologist da bar notturno, veleggiano tra luce e ombra, verità e menzogna, apparati e illegalità. Si danno arie da agente segreto, ma non hanno mai una patente ufficiale e sanno che saranno scaricati presto. “Dirty job”, dicono in America. Lavoro sporco.

Chissà se il documento venezuelano sui soldi passati ai Cinquestelle fa parte di questa storia gloriosa d’ignominie. Iniziata nel dopoguerra come arma psicologica nella lotta al comunismo, con veri artisti del settore, tipo James Jesus Angleton, ha visto all’opera in Italia figli, figliastri e nipotini, da Federico Umberto D’Amato al generale Giovanni De Lorenzo, dal Venerabile Licio Gelli al giornalista Mino Pecorelli. Fino a personaggi più pittoreschi che romanzeschi, da Mario Scaramella a Igor Marini. Un’informazione pronta a credere alle patacche chiude il cerchio. Dal caso di Wilma Montesi al coinvolgimento degli anarchici nelle bombette precedenti Piazza Fontana, e quindi poi nella strage della Banca dell’agricoltura, la storia italiana è fatta anche di bufale e dossier. Poi la cupa grandezza delle manovre occulte della Prima Repubblica ha lasciato il posto a operazioni più sguaiate. I dossier di casa Berlusconi contro Antonio Di Pietro. L’intercettazione di Piero Fassino (“Abbiamo una banca?”) portata ad Arcore e finita in prima pagina sul Giornale. La “macchina del fango” di Vittorio Feltri contro il direttore dell’Avvenire Dino Boffo. Ha tentato – invano – di tornare ai fasti del passato Pio Pompa, detto shadow, l’ombra del direttore del servizio segreto militare Nicolò Pollari. Aveva accuratamente schedato, a partire dal 2001, coloro che riteneva fossero i “nemici” dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, prospettando che fossero da “disarticolare” (verbo da volantino Br), anche con “azioni traumatiche”. Tra i “nemici” da “disarticolare”: 200 magistrati di Milano, Palermo, Roma, Torino, alcuni dei quali impegnati in indagini su Berlusconi, e poi politici, intellettuali, giornalisti (tra cui chi firma questo articolo e il direttore di questo giornale). Altri giornalisti – si fa per dire – erano invece a libro paga: come Renato Farina, nome in codice Betulla. E Scaramella? Aveva un nome che non lo aiutava. Eppure viene assunto da Paolo Guzzanti (non Corrado), allora senatore di Forza Italia, come consulente della Commissione Mitrokhin sulle attività del Kgb in Italia. Da quel podio, Scaramella sostiene che il presidente del Consiglio Romano Prodi e il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio sono agenti del Kgb. E che l’allora presidente della Regione Campania Antonio Bassolino ha assegnato appalti a “cooperative rosse” legate alla camorra. Prove: zero.

Il massimo dello show viene raggiunto da Igor Marini, che da scaricatore di cassette al mercato ortofrutticolo di Brescia diventa “operatore finanziario” e grande accusatore dello scandalo Telekom Serbia. Al suo fianco, Antonio Volpe, a lungo collaboratore del servizio segreto militare. Marini parla, denuncia, accusa. Sostiene che nell’acquisizione dell’azienda telefonica serba da parte di Telecom Italia sarebbero state pagate tangenti a uomini di governo del centrosinistra: mica scartine, ma leader di primo piano come “Mortadella” (Romano Prodi), “Cicogna” (Piero Fassino) e “Ranocchio” (Lamberto Dini). Accuse infondate, prove false. Ma mesi e mesi di dibattito, polemiche, inchieste. A questo servono le patacche. I cocktail variopinti girano, i veleni si diffondono, l’aria esotica – ieri la Russia e la Serbia, oggi il Venezuela – li rende più misteriosi e credibili. Alla fine, di solito, la bolla scoppia. Ma c’è sempre chi è pronto a scommettere che la verità è stata insabbiata. Il mal di testa resta.

Povero Tortora: giornata “fantasma” a scuole chiuse

Il primo a sorriderne sarebbe probabilmente proprio Enzo Tortora. In vita vittima di un errore giudiziario che ha pagato a caro prezzo. E a cui oggi il Parlamento vorrebbe porre rimedio restituendogli giustizia con una giornata di commemorazione e una lunga lista di buoni propositi. Peccato che quelle celebrazioni non potranno mai svolgersi, almeno per come sono state concepite. Ossia con iniziative che le scuole dovranno tenere ogni 17 giugno, quando per gli studenti è già suonata la campanella dell’ultimo giorno di scuola o, come avrebbe detto Tortora, quando ormai “il Big Ben ha detto stop”. Ma tant’è, oggi al Senato si discuterà proprio di questo: in calendario, tra i lavori della commissione Giustizia, l’esame delle proposte di legge di Italia Viva e Lega presentate tra gennaio e febbraio mentre deflagrava la polemica contro il ministro Guardasigilli Alfonso Bonafede per certe sue frasi in tv a proposito degli innocenti in carcere.

E che li ha convinti a chiedere all’unisono di istituire la Giornata nazionale in memoria delle vittime degli errori giudiziari da far coincidere con la data dell’arresto di Tortora. Che il 17 giugno del 1983 era passato dai successi in televisione alle manette in un amen con l’accusa di essere colluso con la camorra oltre che un trafficante di droga e di morte.

Nelle intenzioni del folto gruppo di renziani e salviniani che hanno sottoscritto le proposte la giornata servirà a scuotere l’opinione pubblica. Ma soprattutto a promuovere iniziative negli istituti scolastici volte alla sensibilizzazione “sul valore della libertà, della dignità personale, della presunzione di non colpevolezza, quale regola di giudizio, oltreché quale regola di trattamento, di coloro che sono ristretti in custodia cautelare prima e durante lo svolgimento del processo”.

Ma pure sul giusto processo “quale unico strumento volto a garantire, entro tempi ragionevoli, l’accertamento della responsabilità penale in contraddittorio tra le parti e davanti a un giudice terzo ed equidistante tra accusa e difesa”. Peccato che nessuno di loro si sia accorto che da un pezzo le scuole terminano prima del 17 giugno, a parte i nidi d’infanzia.

Ma tant’è l’amore per la giustizia ha fatto già un miracolo, almeno per quel che riguarda i senatori di Matteo Salvini. Che hanno portato in Parlamento una proposta del Partito radicale da sempre a fianco di Tortora ma non propriamente amato dai leghisti, pur di “dare, sebbene in modo simbolico, dignità e riconoscimento ai protagonisti di storie strazianti, a innocenti accusati dei reati più diversi e tremendi sulla base di prove inesistenti o senza fondamento”.

E i renziani? Per loro è l’occasione per affrontare il tema degli errori giudiziari uscendo da un dibattito sulla giustizia che “acquisisce quotidianamente i toni della retorica, impedendo così di entrare nel merito delle questioni attraverso proposte concrete che assolvano il compito di avanzare opportune soluzioni”. Peccato davvero non aver fatto caso alla data.

L’epidemia rallenta, ma il calcio rischia

Quarantena solo per il calciatore positivo al tampone? Doccia fredda per il modello Bundesliga che avrebbe dovuto accompagnare il ritorno dei giocatori professionisti sul campo, consentendo alle società di mettere in isolamento l’intera squadra e alla Serie A continui “stop and go”. Il problema “non è stato superato”, ha avvertito Vincenzo Spadafora durante la registrazione di Porta a Porta. “Il Comitato tecnico-scientifico ha detto sì alle modifiche del protocollo però bisogna cambiare la norma, quella dei 14 giorni, che è contenuta nel dl (il 33/2020 del 16 maggio, in vigore, ndr) – ha spiegato il ministro dello Sport – O si fa un emendamento o bisogna cambiarla nel prossimo decreto. Cercheremo di fare il prima possibile, ma non credo possa essere efficace dal 20 giugno (ripresa del campionato, ndr)”. “Nessun Paese al mondo ha una previsione così stretta sulla quarantena”, ha detto l’ad della Lega di A Luigi De Siervo.

I dati della Protezione Civile, intanto, confermano che la curva epidemica continua a flettere. Sono 210 i nuovi casi di Covid-19, che portano il totale a 237.500: lunedì erano stati 303. Numeri incoraggianti, anche alla luce del numero dei tamponi: 46.882 contro i 28.107 delle 24 ore precedenti. Di questi 210, tuttavia, il 68% (143) arriva dalla Lombardia. Ma, secondo l’assessore al Welfare Giulio Gallera, per molti si tratta di “infezioni di vecchia data”. Aumentano i decessi – 34 quelli comunicati ieri, in leggera risalita rispetto a lunedì, quando erano stati 26 –, ma continuano a svuotarsi le terapie intensive: sono 177 i letti occupati nei nosocomi di tutta Italia (-30).

Undici giorni è il tempo mediano che intercorre tra l’insorgenza dei sintomi e il decesso, si legge nell’ultimo report dell’Iss sulle Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SarsCov2 in Italia. Un lasso di tempo – si evince analizzando i dati dello studio che si basa su un campione di 32.938 casi e dati aggiornati all’11 giugno – che si è allungato passando per gli 8 giorni di metà marzo e i 10 rilevati ad aprile. “Questo accade nei casi in cui il decorso clinico si conclude in maniera sfavorevole, che sono una parte minoritaria – spiega Claudio Mastroianni, professore ordinario di Malattie infettive alla Sapienza di Roma e primario al Policlinico Umberto I –. Oggi i malati arrivano in ospedale con un quadro clinico più lieve perché ora intercettiamo prima i casi positivi, innanzitutto. Inoltre utilizziamo meglio i farmaci che finora sono serviti a curare altre malattie”. Il report indica anche come il tempo mediano tra la scoperta dei sintomi e il ricovero sia di 5 giorni (dai 4 di marzo) e quello tra l’ingresso in reparto e il decesso sia di 6 giorni, contro i 4 di 3 mesi fa. L’intervallo tra il ricovero e la morte, poi, è di 4 giorni più lungo in chi è stato trasferito in rianimazione rispetto a chi resta in reparti ordinari (9 giorni contro 5, a marzo erano 5 contro 4). Non esiste tuttavia “nessuna evidenza”, conclude il professore, sul fatto che il virus sia diventato meno aggressivo.

Fontana: “Ecco 9 comuni da chiudere”. E non lo fece

Una lista di comuni in provincia di Lodi da aggiungere ai 10 della zona rossa che non fu mai inserita nei documenti ufficiali. E questo nonostante il governatore della Lombardia Attilio Fontana ne abbia parlato in una riunione del 23 febbraio assieme ad alcuni sindaci e ai rappresentanti del governo sul territorio. Risultato: la prima area di contenimento del virus doveva essere più ampia, eppure così non è stato. La riunione con collegamenti telefonici si svolge la domenica 23 febbraio. Da lì a poche ore scatteranno i check point per chiudere i dieci comuni della Bassa lodigiana così come indicato dal governo. Fontana inizia e dice: “Casalpusterlengo”. Subito viene bloccato. Si corregge: “C’era già”. E infatti Casalpusterlengo rientra nella lista dei dieci paesi che saranno cinturati. Questo l’elenco: Codogno, Castiglione d’Adda, Casale, San Fiorano, Bertonico, Fombio, Terranova dei Passerini, Somaglia, Maleo e Castelgerundo. Il presidente riprende allora con l’elenco dei “nuovi” comuni. Nessuno, però, rientra nel decreto diramato dalla presidenza del consiglio: “Santo Stefano Lodigiano, San Rocco al Porto, Corno Giovine, Cornovecchio, Caselle Landi, Pizzighettone, Formigara, Gombito, Brembio”.

Sono nove, di questi tre sono della provincia di Cremona e cioè Pizzighettone, Formigara, Gombito, il resto, come fa notare il prefetto di Lodi Marcello Cardona, anche lui collegato durante la riunione, “sono tutti miei, sono tre Cremona e il resto tutto Lodi”. Poi sempre il prefetto in modo professionale aggiunge: “Sto facendo il calcolo, credo che dobbiamo aggiungere altri venti, ci stiamo muovendo sulle 70mila persone. Noi stiamo lavorando su quei dieci che Attilio aveva già individuato, già individuati i check, già individuato il numero dei rinforzi”. Il quadro è chiaro: sui dieci paesi che saranno cinturati e che contano 40mila persone si sta operando da tempo. Il discorso ora, seguendo il ragionamento del prefetto, si sposta sui nuovi comuni da inserire presumibilmente nella lista. La maggior parte sono a sud di Codogno, uno, Brembio, invece è appena fuori Lodi. Spiega il dottor Cardona: “Appena Attilio mi formalizza questi comuni, ma già lo sapevo perché me lo aveva comunicato Giulio (Gallera, assessore al Welfare), lavoriamo sui nuovi check perché li dobbiamo mettere su carta”.

In quelle ore convulse, quindi, il perimetro della zona rossa doveva essere allargato, piano che bisognava formalizzare (“mettere su carta”) ma che non andrà mai in porto. In quell’occasione non ci fu neppure alcun accenno a Lodi, che rimase aperta per altri 15 giorni (fino alla chiusura dell’8 marzo), con inevitabile diffusione del contagio, tracollo dell’ospedale e percentuali di mortalità nelle terapie intensive del 54%.

Il prefetto conclude: “Comunico poi al dipartimento della Pubblica sicurezza, l’ho già comunicato anche al ministro dell’Interno che ci sarà un ulteriore allargamento”. Va da sé che l’area da chiudere nei piani doveva essere molto più ampia. Dal 24 febbraio iniziano i controlli che però non riguarderanno mai quei comuni citati da Fontana nella riunione del 23 febbraio. In realtà la versione del Viminale, ricostruita informalmente dal Fatto, spiega che l’allargamento riguardò i primi paesi attorno a Codogno. Inizialmente, secondo questa spiegazione, l’area comprendeva meno di dieci comuni. Una posizione che pare in contrasto rispetto ai discorsi fatti durante la riunione del 23 febbraio.

La città di Lodi manca comunque all’appello. Della sua chiusura, per quanto risulta al Fatto, se ne parlò a livello istituzionale, ma mai fu presa una direzione chiara. E questo nonostante le chiare richieste dei medici di renderla zona rossa. Tra i motivi della mancata chiusura, c’è l’assenza di contagi al 22 febbraio, come si legge in una nota del sindaco di Lodi, la leghista Sara Casanova. In realtà, ci dice una fonte interna all’ospedale di Lodi, già il 21 febbraio erano ricoverati due positivi al Covid. “Siamo rimasti sorpresi – prosegue il medico – che la zona rossa non comprendesse Lodi. Fin dal 21 era palese: la malattia era già fuori dalla zona rossa. Tanto più che abbiamo avuto focolai importanti in comuni attaccati a Lodi, come Sant’Angelo, Ospedaletto, Lodi Vecchio”. Tutti risultati infetti da subito, e non compresi nella lista fantasma di cui parlò Fontana il 23 febbraio.

Dopo 7 mesi di Reddito, meno poveri dal 2014

Quattrocentocinquantamila poveri assoluti in meno. Ecco, per la prima volta, un numero che misura l’efficacia del reddito di cittadinanza nei primi sette mesi di vita. Ieri l’Istat ha certificato che nel 2019 – anno in cui, a maggio, ha esordito il sussidio – sono diminuiti gli indigenti, cosa che non accadeva dal 2014. Non più oltre 5 milioni, come registrato nel 2017 e nel 2018, ma 4 milioni e 593 mila. Un calo che però ha lasciato delusi in tanti, poiché a dicembre 2019 erano ben 2,5 milioni le persone con in tasca la carta acquisti “di cittadinanza”.

Ci si aspettava una discesa più marcata, oltretutto l’emergenza Covid-19 peggiorerà i dati. Secondo “Alleanza contro la povertà” sono ancora troppe le persone che fanno i conti con il disagio economico. E la povertà relativa – che indica chi ha uno standard inferiore alla media – è rimasta stabile.

La differenza tra l’alto numero di famiglie raggiunte dal reddito di cittadinanza e il basso numero di famiglie uscite dalla condizione di difficoltà ha varie ragioni. Come ha spiegato l’Istat, le due platee sono solo in parte sovrapponibili. Per ricevere il sostegno, infatti, bisogna stare sotto determinati limiti di reddito e patrimonio. Il calcolo della povertà assoluta, invece, dipende dal livello di spesa di una famiglia: se è inferiore al minimo necessario per una vita dignitosa, si è considerati poveri. Può succedere che un nucleo possieda proventi oltre i limiti della norma ma tenga un livello dei consumi sotto la soglia: è in povertà, ma non ha diritto al reddito di cittadinanza. C’è poi la diversità tra i territori. Acquistare beni essenziali al Nord è più costoso rispetto al Sud. Il reddito di cittadinanza, però, non cambia a seconda della residenza e può quindi essere molto efficace per alcuni e molto poco per altri. L’Istat lo conferma: la povertà assoluta famigliare al Sud è passata dal 9,6% del 2018 all’8,5% del 2019; nel Nord Est è invece aumentata, dal 5,3% al 6%.

Il reddito di cittadinanza, poi, richiede per gli extra-comunitari almeno 10 anni di residenza nel nostro Paese. Questo ne lascia fuori la maggior parte, tanto che l’Istat segnala 400 mila famiglie di non italiani in povertà assoluta, ma a dicembre 2019 i nuclei composti da stranieri ammessi alla carta acquisti erano 92 mila. Penalizzate anche le famiglie numerose: un nucleo con cinque componenti al Nord ha bisogno di 1.900 euro per galleggiare; il reddito di cittadinanza non può superare i 1.330.

Un’altra curiosità riguarda le classi di età: la povertà assoluta è diminuita tra gli under 65, ma è aumentata (di poco) tra gli over 65. Anche se i più anziani restano la fascia meno colpita dall’indigenza, i benefici maggiori sono andati ai più giovani.

Secondo Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid in Italia e componente del Forum Disuguaglianze Diversità, “il potenziale del reddito di cittadinanza è più alto rispetto ai 450 mila poveri assoluti in meno”. “Nel 2019 – aggiunge – è stato avviato tardi e un po’ azzoppato, perché non sono quasi per nulla partite le misure di accompagnamento con i centri per l’impiego o i servizi sociali. Nel 2020 troveremo un dato sporco a causa del Covid, la povertà aumenterà e sarà necessario aumentare le risorse”.

Oggi arriva Bonomi: sui soldi Ue vuole un posto “a tavola”

Se volessimo andare avanti per immagini, la fotografia degli Stati generali mostra un governo che si prepara a ricevere l’aristocrazia imprenditoriale, Confindustria, mentre incontra il “terzo Stato”. Se oggi, infatti, Giuseppe Conte dovrà mostrare il suo miglior viso all’ormai evidente gioco di Carlo Bonomi, ospite principale della giornata che sta per cominciare, l’immagine più movimentata di ieri è quella del leader sindacale Aboubakar Soumahoro, italiano di origini ivoriane, che prima si è incatenato a Villa Pamphilj e dopo è stato ricevuto dal presidente del Consiglio. A cui ha illustrato tre richieste fondamentali: riforma della filiera agricola in cui si addensa lo sfruttamento del lavoro migrante, il varo di un Piano nazionale per l’emergenza lavoro e un cambio delle politiche migratorie dando voce agli “invisibili delle periferie”. Appunto, il nuovo terzo Stato. “Atti concreti, non parole” è stata la richiesta di Soumahoro, volto ormai anche televisivo, a un Conte disponibile ad ascoltare e che ha assicurato che il tema dei diritti dei migranti e dei lavoratori sta a cuore al governo. Come e quando si vedrà, ma il gesto, appunto, ha il sapore dell’immagine. E infatti Matteo Salvini se ne accorge e ci si butta sopra con il solito messaggio a uso dei social media: “Cancellare i decreti Sicurezza, regolarizzare tutti i clandestini, regalare la cittadinanza a chi nasce in Italia, dice il sindacalista idolo della sinistra e di Fabio Fazio. E poi? Un insulto a milioni di italiani (e di immigrati regolari) in difficoltà”.

Ma Conte sembra voler insistere nel presentare gli Stati generali come luogo di ascolto e apertura alla “società civile”, tanto che cento parlamentari, tra cui molti del M5S, hanno chiesto audizione per discutere anche della “legalizzazione della cannabis”. E anche i ragazzi di Fridays for future si sono dati appuntamento a villa Pamphilj il 20 giugno per ricordare la crisi climatica agitando dei nuovi cahiers de doléances (e siamo di nuovo al 1789).

Alla fine sarà stata una passerella, forse, ma l’obiettivo è quello di tenere un filo di comunicazione fuori dal recinto dei partiti che sostengono il governo, filo tenuto saldamente nelle mani del premier. Che alla fine dovrà dare delle risposte: per il momento si limita a dire che il “Recovery Italia” ci sarà a settembre e proporrà misure specifiche da presentare per i progetti europei.

Sulla inconsistenza di questo piano scommette Bonomi, che arriva oggi con il suo “piano 2030” in cui, oltre a illustrare le varie misure di Confindustria – presenterà un nodo politico: far parte della cabina di regia che discuterà e deciderà l’utilizzo delle risorse europee (si parla oramai di 172 miliardi complessivi anche se non si sa da quando saranno disponibili). E così, come un qualsiasi sindacato corporativo, Confindustria lancia la “democrazia negoziale”, costruita e radicata “su una grande alleanza pubblico-privato su cui il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale, ma con cui esso dialoga incessantemente attraverso le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del terzo settore, della ricerca e della cultura”. Lo si legge nella prefazione al piano 2030 anticipata da Askanews e il senso è che non deve decidere solo la “politica”, ma anche gli imprenditori. Qualcosa di analogo dicono anche i principali sindacati in una voglia complessiva di co-gestione in cui ognuno fa finta di essere solo al tavolo.

Bonomi non risparmia ancora critiche a Conte, accusato di non essersi presentato con un piano preciso e dettagliato – che se l’avesse fatto gli avrebbero rimproverato che però sarebbe stato giusto ascoltare, etc. – mentre Confindustria il piano ce l’ha e lo farà vedere a tutti: “Mi dicono che quando c’è un nuovo insediamento – la velenosa risposta di Conte – c’è una certa ansia da prestazione politica. Io dal dottor Bonomi e da tutti gli associati mi aspetto un’ansia da prestazione imprenditoriale, è questo il loro scopo”.

Il premier fa melina sul Mes e Di Maio cerca un accordo

Raccontano che Giuseppe Conte lo abbia assicurato al Quirinale: “Ho parlato con Pd e Movimento, alla fine sul Mes troveremo un accordo”. Ma per mantenere la promessa avrà bisogno dello sminatore. Per evitare che il voto sul fondo salva Stati diventi una botola e che i Cinque Stelle esplodano, facendo detonare anche il governo, il presidente del Consiglio dovrà affidarsi al ministro che pure non lo ama, Luigi Di Maio. Perché è il ministro degli Esteri ed ex capo politico del M5S a interrogarsi su come scongiurare una spaccatura in aula tra grillini e dem sul Mes.

Magari partendo da un rinvio a settembre della votazione, come confermano fonti di governo a 5Stelle: “Ci stiamo lavorando assieme al Pd, per ora è l’unica soluzione”. Ed è sempre Di Maio, per forza d’accordo con Beppe Grillo, a lavorare a quella segreteria collegiale per il Movimento senza un nuovo vero capo politico, su cui a breve si riunirà il caminetto dei big del M5S: mai più convocato dopo la scorsa estate.

Dovrà rivivere proprio per proteggere il governo, perché Grillo è convinto che la segreteria sia la sola via per schermare Conte, schivando quel congresso con annessa conta invocato da Alessandro Di Battista, con l’appoggio di Davide Casaleggio. E non è un dettaglio. C’è già l’ombra di una guerra sopra i 5Stelle, e la posta in palio sarà la gestione della piattaforma web Rousseau, la macchina operativa nonché lo scrigno dell’elenco degli iscritti. Così Di Maio prova a fare da paciere, dicendo ai suoi: “Dobbiamo tenere tutti dentro” . D’altronde, quando il 22 gennaio si sfilò la cravatta e il ruolo di capo politico aveva già in mente questo, il Movimento che sarebbe tornato a chiedergli di tenere assieme tutto, e di portarlo lì, a una gestione collegiale con lui primus inter pares. In queste ore sta provando a ricucire con Di Battista, colpito domenica dalla scomunica di Grillo. I due si sono sentiti più volte, al telefono. Anche se pare che l’ex deputato non abbia gradito la frase di Di Maio a L’aria che tira, lunedì: “Non credo che un congresso serva al Paese”. Però quella è la linea di Grillo, chiaro nell’avvertire i suoi che ora è tornato al timone. Se le cose non dovessero andare nel verso giusto, è pronto a esercitare i suoi ampi poteri di Garante. Fino a tornare capo almeno temporaneamente, se dovesse servire. Di certo la sua priorità è tutelare Conte. Quindi vuole una segreteria, anche con nomi tutti decisi da lui, da Grillo, se sarà necessario. Probabilmente in autunno, a ridosso o dopo gli Stati generali. “Difficile che ora si faccia un Direttorio temporaneo”, dicono.

Meglio un organo stabile, come immagina da mesi un big che si sta tenendo volutamente a margine, il presidente della Camera Roberto Fico, ascoltatissimo da Grillo. E il suo post di domenica sull’urgenza di una legge sull’acqua pubblica, un totem di Fico, ne è la riprova. Però prima c’è la grana del Mes. Un rompicapo, perché una cospicua parte dei 5Stelle non potrà mai votarlo. Dal Pd pensano di aver convinto Conte della necessità di adottarlo. Ma sanno che in caso di sì dei grillini Di Battista farebbe l’inferno. Per questo il capodelegazione dem Dario Franceschini ritiene indispensabile la mediazione di Di Maio. “È l’interlocutore più solido che abbiamo dentro il Movimento” è la sua vecchia tesi, ribadita in questi giorni. Invece il segretario dem Nicola Zingaretti fa trapelare che lui e Conte si sentono spesso “e sono in ottimi rapporti”.

In questo scenario, oggi in Parlamento il premier scandirà la sua informativa sul prossimo Consiglio europeo. Informativa e non comunicazioni all’aula, così da evitare votazioni sul Mes, come già pregustavano le opposizioni. Conte ripeterà che bisogna attivare in fretta i soldi del Recovery Fund, perché “una decisione tardiva sarebbe già un fallimento”. E cercherà di non parlare di Mes, il primo dei suoi problemi.

Oggi le coliche

Fermo restando che certe cartacce buone per avvolgere il pesce, comunemente definite “quotidiani”, sono un po’ meno attendibili di Tiramolla, fa sempre un certo effetto constatare come chiunque sia libero di diffondere fake news a profusione nella beata indifferenza del cosiddetto Ordine dei giornalisti. L’altra sera, in una rassegna stampa, ho visto campeggiare su due cosiddette testate nazionali il mio nome cubitale con gigantografia, manco avessi sterminato un esercito. Ma ho dovuto attendere l’indomani per scoprire che avessi fatto di tanto grave per meritarmi cotanto rilievo: si trattava nientemeno che del finanziamento bancario di 2,5 milioni chiesto dalla nostra società Seif a Unicredit e ottenuto perché, con questi chiari di luna, c’è il rischio che chi ci deve dei soldi (distributori, edicole, concessionarie e investitori pubblicitari ecc.) ritardi i pagamenti e interrompa i flussi di cassa, fondamentali per un giornale che vive delle copie vendute. Un prestito puramente precauzionale per investimenti in immobilizzazioni, cui speriamo di non dover mai attingere, visto che le nostre vendite sono in aumento. Un prestito che la legge 662 del ’96 (24 anni fa, 13 anni prima che nascessimo) ha stabilito fosse garantito dal Medio Credito Centrale, se destinato a investimenti.

Sapete come ha titolato Libero, giornale di proprietà degli Angelucci che tutti noi paghiamo da 20 anni a botte di decine di milioni? “Sia benvenuto Travaglio tra gli assistiti di Stato. Pecunia non olet”. Firmato: Renato Farina che, non contento di prendere lo stipendio da noi, si faceva pure pagare il dopolavoro come “agente Betulla” nel Sismi di Pollari&Pompa. E non osiamo immaginare quali informazioni passasse, visto che non distingue un elefante da un paracarro: infatti s’è inventato un “aiuto di Stato” al Fatto, che si sarebbe “infilato fra i bisognosi strozzati dal Covid-19”, “ha approfittato del decreto sul Covid” e ora “infila la mano nelle tasche di Pantalone”. Per non essere da meno, quell’altra parodia di giornale visibile solo in tv, il Riformista dell’imputato Romeo e dell’impunito Sansonetti, ha titolato a tutta prima: “Regime: dal governo 2,5 milioni al ‘Fatto’ di Travaglio”. E giù scemenze e falsità sul finanziamento “garantito dal governo Conte… utilizzando uno degli ultimi decreti del governo, quelli che hanno come scopo il salvataggio delle nostre imprese colpite dal virus” perché “il Fatto, probabilmente potendo contare su una certa simpatia a Palazzo Chigi, è riuscito a intrufolarsi e a mettere in tasca i soldi”, dopo la nota “conquista della presidenza dell’Eni” e sempre in attesa di invadere la Polonia.

Intanto, sul web, altri noti peracottari come Nicola Porro, Littorio Feltri, Giuseppe Sottile e la fidanzata di un nostro ex passato a De Benedetti, nonché Lucia Annunziata su Rai3, il Giornale e il solito Dagospia, ripetevano la fake news confondendo una legge del ’96 col recente dl Liquidità e un normale finanziamento bancario (ricevuto in 24 anni da chissà quante centinaia di migliaia di aziende) con un aiuto di Stato, anzi del governo Conte: chi sproloquiando contro le nostre campagne su Radio Radicale (che non chiede prestiti alle banche: vive di soldi pubblici), chi azzardando paragoni con Fca (che, diversamente da noi, ha sede all’estero ma prende prestiti garantiti dallo Stato italiano, essa sì per il decreto Conte, dopo aver poppato fiumi di miliardi dalla pubblica mammella). Così la panzana ha fatto il giro delle fogne del web e l’unico quotidiano che non ha mai preso un euro dallo Stato è diventato un giornale finanziato dallo Stato. Anzi da Conte. Con questi signori ci vedremo in tribunale. Ma è stupefacente come neppure le precisazioni della nostra Ad Cinzia Monteverdi abbiano sortito rettifiche. Buon segno, comunque: i nostri record di crescita devono avere provocato coliche renali a parecchia gente.

A proposito di fake news. Si spera che una seria indagine accerti se il dossier pubblicato dal giornale della destra spagnola Abc sulla valigetta con 3,5 milioni di euro recapitata dal venezuelano Maduro a Casaleggio sr. nel 2010, otto mesi dopo la nascita dei 5 Stelle, sia autentico o – come fanno supporre alcuni errori marchiani – una patacca. Ma è interessante l’uso che ne han fatto i giornaloni e i loro siti (quelli sempre a caccia di fake news altrui). Tutti uniti su questa linea: forse il documento è falso, ma le simpatie del M5S per Caracas sono vere, dunque lo scandalo c’è comunque. Ora, è un po’ di tempo che il Venezuela elegge i suoi presidenti – prima il discutibile Chávez, poi il pessimo Maduro – senza chiedere il permesso agli Usa e ai loro leccapiedi sparsi per il mondo. Così due anni fa gli americani, non contenti dell’embargo che affama il Paese, patrocinarono il golpe del presidente dell’Assemblea nazionale Guaidó, poi fallito nel ridicolo. E tutti s’affrettarono a riconoscere il golpista contro il presidente legittimo, tranne il governo Conte (rimasto neutrale, grazie al M5S, ma sollecitando libere elezioni sotto controllo internazionale), quelli di Grecia, Bulgaria, Romania, Slovacchia, Irlanda, il Vaticano e, all’Europarlamento, M5S, sinistra Gue e Verdi. Nell’Italia alla rovescia dei nemici delle fake news che sparano fake news, mancava la comica (anzi la colica) finale: i tifosi del golpista che danno lezioni di democrazia a chi chiede libere elezioni.

“Zappo, imbianco e con Ranieri penso a un supergruppo”

“Ranieri ha già detto sì, Morandi è interessato”.

A cosa, Al Bano?

A unire le forze per una canzone che sto ultimando, dedicata alla nostra Mamma Terra violentata dall’umanità. Una sorta di Earth Aid discografico, commissionato dalla Società Italiana Medicina e Ambiente. Vorrei coinvolgere anche i beniamini dei giovani: Rovazzi, Ghali, J-Ax. E ho chiamato la Loren.

Che dice Sophia?

Proverò a convincerla. Ho in mente una parte recitata per la donna e diva che protegge un pianeta fragile. A settembre dovremmo essere operativi.

Lei, Carrisi, proprio non riesce a starsene con le mani in mano.

Qui a Cellino zappo i campi, imbianco i muri. Dopo sessant’anni di viaggi mi godo la compagnia dei figli.

Jasmine è alle prese con la maturità.

E ha realizzato un suo brano, Ego, con tanto di video. Lontano dalla mia idea di musica, ma spacca. Del resto, quando aveva 12 anni Jasmine mi implorò di portarla al concerto di Justin Bieber. Aveva occhi solo per lui. Suo padre era diventato trasparente.

Una gioia dopo tanti dolori. Ora rispuntano voci su Ylenia viva a Santo Domingo.

Sono sciacalli. Va avanti così da sempre. Poco dopo la sua scomparsa l’inviato di un Tg prestigioso sosteneva che io tenessi Ylenia sequestrata in casa per farmi pubblicità. Pretendeva pure di intervistarmi!

No comment, parliamo d’altro… Ricorda il giorno in cui lei, Al Bano, partì in cerca di fortuna?

Era il 5 maggio ’61. Il treno della notte, un vagone stipato di persone con le valigie piene di friselle e focacce. Risento ancora quei profumi. Non chiusi occhio. Volevo imprimermi nella mente le montagne, le città, i binari.

Destinazione Lombardia.

Una settimana a Varese e subito dopo a Milano, in via Giambellino, nel primo ristorante dove lavorai da cameriere. Filavo con una ragazza, il figlio del padrone mi insolentì: “Venite al Nord a fregarci pure le fidanzate”. Gli risposi: “Un giorno sarai tu a dover servire me al tavolo”, e così fu. In un altro locale giravano tipi loschi: ‘Quanto guadagni? Vendi queste bustine’. Era cocaina. Ovviamente rifiutai. Mio padre contadino mi aveva messo sull’avviso.

Poi la fabbrica.

L’Innocenti a Lambrate. Catena di montaggio, settore profilati. Cantavo mentre lavoravo, mi gridavano: “Zitto, terrone”. Un giorno tornai in Puglia su una di quelle Mini Minor. Ero diventato famoso grazie alla cassa integrazione.

Cioè?

Nel periodo di inattività avevo ottenuto un provino con il Clan. Ingaggiato per le stesse serate in cui compariva Celentano. Ma non osavo avvicinarmi a lui: ero troppo timido. Due anni dopo, nel ‘65, Mogol mise un testo italiano su una cosa di Gene Pitney. La mia prima canzone: La strada.

Ne ha fatta molta, da allora. Nel ‘67 il trionfo in tv, a Settevoci con Baudo.

Vinsi quattro puntate, esaurii il repertorio. L’applausometro, che misurava il gradimento del pubblico in studio, andava alle stelle. Pippo mi aveva scoperto grazie al maestro Massara, che mi cambiò il look. Investimmo 50mila lire dell’anticipo della Emi in un negozio di via del Gesù. Una giacca stile 800, nuovi occhiali. Il boom di Nel sole, gli autografi, il Disco per l’Estate.

Il primo concerto all’estero?

In Grecia. Il 6 luglio 1970 c’erano 90mila spettatori in tripudio ad Atene. I colonnelli del regime mi permisero di cantare i brani proibiti di Theodorakis, che inneggiavano alla democrazia.

Al Bano testimonial di speranza.

In Albania nell’89, in un momento in cui il Paese era diviso tra due fazioni, il futuro presidente Topi mi disse dopo un concerto: “Stasera ci hai dato la spinta per la libertà”.

E con gli ucraini ha fatto pace?

L’ambasciatore venne a Cellino quattro anni fa e mi porse le scuse. Io un sobillatore?.

Però Putin…

Con Romina ci esibivamo a Leningrado, era l’86. Venne in albergo, fu gentilissimo. Vladimir era ancora il capo del KGB. A San Silvestro 2004, al Cremlino, lo rividi insieme a Eltsin. Mi colpì un tavolo con i leader religiosi ortodossi, copti, musulmani. Pensai: allora si può.

A proposito: ha cantato sette volte per Wojtyla.

Mi rivolse parole di conforto dopo la sparizione di Ylenia. Tremavo come una foglia mentre leggevo il Vangelo all’alba in Vaticano. Lo sguardo di Giovanni Paolo II metteva soggezione, eppure mi spalancava l’anima. Lo sentivo amico.

Come va con i dinosauri? La sua gaffe è diventata un videogioco.

Uffa, quella dalla Venier era una battuta. Comunque qui vicino, ad Altamura, ci sono le impronte di quei bestioni. Non escludo scoperte.

Processo a Montanelli. “Razzista? Non ha senso”

uesti sono gli effetti della cancellazione del tema di storia dalla maturità”. Non ha dubbi il professor Angelo Del Boca, tutto l’affare Montanelli accusato di essere “razzista e stupratore” nasce dall’ignoranza assoluta non tanto dell’uomo quanto del tempo, “dall’incapacità di comprendere un’epoca completamente diversa dalla nostra”. Autore di una serie di opere dedicate alle guerre degli italiani in Africa orientale nelle quali si svela la brutalità dei combattimenti, Del Boca ebbe modo di far ricredere Montanelli sull’impiego dei gas, che il grande giornalista aveva sempre negato. Ma davanti a questo improvviso polverone prevale lo stupore. “Fatico a capire. Sostenere che Montanelli è stato razzista a distanza di quasi ottant’anni dai fatti non ha alcun senso. Primo, perché parliamo di un episodio ben noto, perché lui stesso lo ha più volte raccontato. Secondo, perché si tratta di contesti lontani anni luce dalla nostra sensibilità. Forse da parte dei suoi accusatori non c’è malafede, tutto quanto, più che un’accusa, mi sembra un enorme abbaglio”.

Partiamo dal contesto. Quanto razzismo c’era da parte dei conquistatori fascisti verso le popolazioni africane?

C’era una visione fortemente colonialista, com’è ovvio, ma non in maniera particolare. Questa era l’attitudine e la cultura di tutti i popoli europei, inglesi e francesi in testa. Noi italiani ci siamo arrivati per ultimi, e ci siamo allineati.

Montanelli ha sempre motivato l’acquisto della quattordicenne Destà quale moglie provvisoria come un gesto quasi necessario. È verosimile?

Be’, proprio necessario no, ma suggerito sicuramente sì. Il matrimonio temporaneo, o madamato, era una sorta di compromesso consolidato nei territori di guerra coloniali. Per un ufficiale a capo di una guarnigione di ascari, quale era Montanelli, rappresentava un forte segno di integrazione. Si è razzisti marcando la propria diversità da un popolo, ma con il “madamato” accadeva il contrario.

In diverse circostanze Montanelli ha dichiarato anche che molti compagni d’armi decisero di tenersi le loro spose etiopi, e di portarle con sé in Italia. Risulta anche a lei?

Sì, è accaduto effettivamente. Sono stati i primi matrimoni misti della nostra storia.

Sempre dalle sue testimonianze sappiamo che Montanelli pagò al padre di Destà 500 lire di allora per un “pacchetto” che comprendeva oltre alla ragazza anche un cavallo e un fucile. Anche questo corrisponde alla verità dei fatti?

Qui un po’ di invenzione del giornalista c’è senz’altro. Il cavallo fa molto romanzo d’avventure, e sappiamo che il giovane Montanelli amava molto Kipling…

Veniamo all’accusa di stupro e di “schiavitù sessuale” in cui sarebbe stata ridotta la sposa.

Un’altra forzatura che non tiene alcun conto del contesto storico. Erano le tribù locali a chiedere il madamato, e nella stragrande maggioranza dei casi le giovani spose erano fiere di avere un marito italiano.

Questo sembra essere anche il caso di Destà Montanelli.

Direi di sì. Altrimenti non si spiega perché Montanelli ne abbia sempre parlato con affetto, e la stessa Destà abbia dato al suo primogenito il nome di Indro.

Certo, c’è il tema dell’età. Davvero “quelle lì a quattordici anni erano già donne” come disse una volta a Enzo Biagi?

È obiettivamente così, questa era la cultura di quelle tribù, e in parte lo è ancora adesso. Difficile da accettare per noi, ma anche da questo punto di vista non fu perpetrata alcuna violenza.

Tuttavia, in pieno revisionismo da politicamente corretto, tutto questo non conta. E a nulla vale la statura intellettuale del “colpevole”. Al di là del caso Montanelli, come giudica la sempre più frequente condanna di grandi uomini sospettati di essere moralmente riprovevoli?

Viviamo un’ondata di neo puritanesimo, ci si concentra sul dito e si perde di vista la luna. Milano ha fatto bene a dedicare un monumento a Montanelli in quanto grande giornalista, questo è quello che conta. Dopodiché, la grandezza di un uomo è inseparabile dai valori del suo tempo. Voler abbattere un monumento senza una profonda consapevolezza culturale significa voler rieducare la Storia, che è ancora peggio ancora che dimenticarla.