Allarme a Hong Kong: gli attivisti democratici chiedono al Foreign Office britannico di formalizzare “gli impegni vaghi e imprecisi” annunciati dal Boris Johnson per concedere la cittadinanza britannica a milioni di residenti della città asiatica. I fatti: il 22 maggio scorso i vertici del Partito Comunista Cinese approvano una controversa legge di riforma della sicurezza nazionale da applicare alla regione di Hong Kong, semiautonoma ma sotto il controllo cinese dal 1997, quando cessò di essere un protettorato britannico. Una cessione negoziata fra Regno Unito e Repubblica popolare cinese per garantire il mantenimento dell’autonomia in diversi ambiti, fra cui la libertà di parola e associazione, autonomia della magistratura e una serie di diritti democratici. Il 28 il National People’s Congress cinese la approva. La nuova legge consente di sedare qualsiasi atto di “sedizione, sovversione, interferenza straniera e terrorismo”. Secondo il Regno Unito e diversi osservatori internazionali è una pesante violazione degli accordi fra Cina e Regno Unito alla base della autonomia di Hong Kong, la Basic Law e la Dichiarazione congiunta depositata presso le Nazioni Unite, che limitano a pochi casi la possibilità per Pechino di imporre a Hong Kong leggi cinesi. Il 3 giugno Boris Johnson, in un editoriale pubblicato sul Times e sul South China Morning Post promette che, se la Cina dovesse insistere nell’imporre la riforma “verrà consentito ai 350 mila residenti di Hong Kong che hanno passaporto britannico e agli altri 2,5 milioni che hanno i requisiti per chiederlo di entrare in Regno Unito per un periodo rinnovabile di 12 mesi e ottenere ulteriori diritti di immigrazione, incluso il diritto al lavoro”. È la strada per la cittadinanza, lo scippo di milioni di persone qualificate all’economia e alla società di Hong Kong, e anche, sul piano geopolitico, uno schiaffo: il Regno Unito come campione di diritti democratici contro il regime liberticida cinese. “Molte persone a Hong Kong temono che il loro stile di vita sia in pericolo. La Gran Bretagna non può, in coscienza, girare la spalle a queste persone: al contrario onoreremo i nostri obblighi e forniremo un’alternativa”. Ma gli attivisti di Hong Kong Watch, organizzazione non governativa britannica, temono si tratti di parole vuote. In un rapporto sottolineano come l’offerta britannica sia in realtà molto limitata da stringenti requisiti finanziari, senza accesso a finanziamenti pubblici. Non sarebbe chiaro, fra l’altro, cosa accadrà ai familiari a carico dei richiedenti, né se agli studenti saranno applicate le tasse universitarie per stranieri o quelle, molto più basse, per i residenti nel Regno, né quali siano le misure per proteggere i nati dopo il 1997, i più vulnerabili alla repressione cinese.
Crisi economica e proteste Diab: “Tutti da arrestare”
Questa volta, la crisi politica ed economica libanese non finirà come al solito. Ovvero con l’arrivo di nuovi prestiti internazionali che da molti anni a questa parte hanno permesso alle “autorità” del Libano post guerra civile di tamponare i danni enormi inferti al Paese dalla propria avidità, corruzione e incapacità di governare. Anche la Francia, per legami storici alleata e intermediaria, ha sospeso il trasferimento dei miliardi promessi nel 2018 fino a che non verranno fatte le riforme richieste. Che solo in piccola parte corrispondono a quelle che chiedono i manifestanti che da diverse notti sono tornati nelle strade di Beirut, Tripoli e altre città nel nord come nel sud e non sembravo intenzionati a mollare nonostante la reazione violenta delle forze di sicurezza ela diffusione del Covid-19 sia cresciuta in seguito alle proteste del mese scorso: 1.464 il numero delle persone contagiate, con un aumento di 18 casi nelle ultime 24 ore. L’aeroporto internazionale è stato richiuso e le misure di distanziamento imposte nuovamente per evitare che la diffusione metta a nudo l’inesistenza del sistema sanitario pubblico. Che è proprio uno dei motivi per cui i libanesi dall’anno scorso protestano davanti alle sedi delle istituzioni accusate di essersi intascate le valanghe di aiuti versati anche dall’Europa, anzichè costruire una rete di infrastrutture moderne, servizi di base efficienti e un welfare in grado di sostenere i più deboli e i tantissimi giovani disoccupati.
Le proteste del 2020 hanno ampliato il raggio d’azione e non prendono più di mira solo il neo governo. Dopo aver costretto quello precedente a dimettersi contestando non solo l’allora premier Saad Hariri, ma anche tutti gli altri ministri come i parlamentari, chiedendo loro di lasciare l’incarico e fare largo ai tecnici e figure qualificate, ora i libanesi attaccano gli istituti di credito. Molte delle sedi principali sono state oggetto di lanci di molotov e raid. La maggior parte dei libanesi oggi non può più pagare le bollette, tutte altissime specialmente quella dell’elettricità che però non è garantita tutto il giorno nemmeno nella capitale. Quando la casa brucia, chi tenta di salvarsi non bada certo a come lo fa e se provoca distruzione ai danni di chi la casa ce l’ha e, per giunta, dopo averla rubata. È questo il pensiero dei libanesi, anche di quelli appartenenti al fu ceto medio, sempre più povero e senza futuro. La rabbia della popolazione contro le banche ha raggiunto il punto di non ritorno quando , dopo aver bloccato il ritiro da parte dei correntisti dei soldi depositati in altre valute e poi in valuta locale, queste hanno razionato anche i prelievi giornalieri ai bancomat. Un tentativo in extremis per evitare il tonfo della moneta locale. Dopo la prima notte di incendi e scontri, il neo esecutivo si è riunito e al termine della seduta ha promesso che la Banca centrale metterà a disposizione dollari nel mercato per rafforzare la valuta in continuo avvitamento. La lira libanese ha perso circa il 70 per cento negli ultimi nove mesi. Il nuovo premier Hassan Diab sta discutendo con il Fondo monetario internazionale per un programma di riforme in cambio di miliardi di dollari in finanziamenti. Questa volta però le condizioni saranno molto dure e chi ne pagherà le conseguenze saranno i soliti, che non potranno fare altro che ricominciare a protestare. Diab però non mostra di voler fare concessioni alla piazza: “I vandali devono stare in carcere – ha detto – non ci sarà tolleranza per chi mette a rischio la sicurezza e la stabilità del Libano”. Diab ha ribadito: “Non tollererò violazioni delle strade, delle proprietà private e delle proprietà dello Stato, o i tentativi di minacciare la sicurezza e la stabilità; chiunque prenda parte a questo crimine, sia a Beirut, a Tripoli o in qualunque altra regione, deve essere arrestato”.
Brooks, anche il procuratore ammette: “Sì, è omicidio”
Nella giornata in cui la Corte suprema si esprime contro la discriminazione di gay e trans nei luoghi di lavoro – regalando un mal di pancia al presidente Trump – la buona notizia viene di fatto sminuita nella sua portata dal dolore della comunità afroamericana che ormai dal 24 maggio, quando fu ucciso a Minneapolis George Floyd, è mobilitata. Stavolta l’urlo “Siamo stanchi, siamo stanchi” è di Tiara Brooks, nipote di Rayshard Brooks, ucciso venerdì notte dalla polizia ad Atlanta. la sua famiglia ieri ha tenuto una conferenza stampa: “Quante proteste ancora serviranno per assicurare che la prossima vittima non sia vostro cugino, vostro fratello, vostro zio, vostro nipote o il vostro amico e il vostro compagno? Quante proteste ancora per porre fine all’uso eccessivo della forza da parte della polizia?” dice Tiara. La moglie della vittima chiede l’arresto dei due agenti che avevano trovato Brooks a dormire dentro una automobile che bloccava l’ingresso di un ristorante. L’afroamericano era ubriaco, i poliziotti volevano portarlo al distretto; lui si è divincolato spintonando gli agenti, poi è fuggito. Gli avvocati della famiglia denunciano un omicidio e l’autopsia conferma: il fuggiasco è stato abbattuto con due colpi che lo hanno centrato alla schiena, dunque, mentre scappava, ma non costituiva una minaccia. Lo asserisce anche il procuratore distrettuale della contea di Fulton, Paul Howard. sarà lui a stabilire eventuali capi d’accusa nei confronti dei due poliziotti; chi ha sparato è stato licenziato, ma entrambi sono ancora a piede libero. L’uccisione di Brooks ha determinato anche che il capo della polizia di Atlanta, Erika Shield, alleata dell’amministrazione comunale nel cercare di tenere a bada i comportamenti illegali di alcuni agenti, abbia deciso di lasciare l’incarico. Le manifestazioni del movimento Black Lives Matter si susseguono, da Los Angeles a Washington, fino a New York. Il presidente Trump non si scompone, lui pensa ormai alla campagna elettorale, e gioca sul fatto che le intemperanze, i negozi distrutti, le vetrine fracassate durante i cortei, rinsaldino l’America che ha paura degli estremismi attorno a lui, e faccia perdere ancora i democratici nelle elezioni di novembre. The Donald è concentrato sul ritorno ai comizi, il primo sarà il 20 giugno a Tulsa, luogo nel 1921 di un massacro di afroamericani. Le autorità sanitarie sconsigliano l’assembramento, ma lui risponde che già un milione di persone hanno prenotato il biglietto. È l’America di Trump, ben lontana dal grido di dolore di Tiara Brooks.
L’altro razzismo: violenze e abusi sui minori migranti
In ciascuno degli ultimi quattro anni censiti, oltre mille minori migranti entrati negli Stati Uniti dalla frontiera meridionale da soli, senza i genitori, o separati dalla famiglia all’arrivo, come prevede la prassi instaurata dall’Amministrazione Trump, hanno subito molestie sessuali mentre erano affidati all’autorità pubblica. I dati sono contenuti in un rapporto ufficiale del Dipartimento della Sanità e dei Servizi umani. E’ un segnale d’allarme che drammi umani e sociali rischiano di passare inosservati, nell’America delle pulsioni razziste e dei fremiti di protesta anti-razzisti, colpita dall’epidemia di coronavirus e indebolita dalla perdita di decine di milioni di posti di lavoro e da masse di nuovi poveri.
Intanto, l’Amministrazione porta avanti le sue politiche d’allentamento delle tutele dei più deboli. Contro la quale si erge talora la Corte Suprema, che per esempio ha ieri trovato un modo di tutelare le minoranza Lgbt nella legge sui diritti civili del 1964 che vieta discriminazioni sul luogo di lavoro basate su razza, religione, origini e sesso. Il parere di maggioranza, scritto da Neil M. Gorsuch, giudice conservatore, nominato da Donald Trump, e condiviso dal presidente, John G. Roberts Jr., pure un conservatore nominato da George W. Bush, è stato approvato 6 a 3. I diritti degli Lgbt sono nel mirino dell’Amministrazione Trump fin dai suoi esordi. I dati pubblicati dal Dipartimento della Sanità e dei Servizi umani sono stati oggetto di audizioni davanti alla Commissione Giustizia della Camera, che indagava sulla politica di ‘tolleranza zero’ dell’Amministrazione repubblicana verso i migranti illegali. I dati coprono il periodo dall’ottobre del 2014, quand’era ancora presidente Barack Obama, all’estate del 2018: l’Ufficio per i rifugiati del Dipartimento ha ricevuto 4556 denunce di abusi sessuali su migranti minori non accompagnati; 1303 sono state trasferite al Dipartimento della Giustizia, compresi 178 casi di violenze commesse da personale adulto. L’anno peggiore è stato il 2018, con 1261 denunce, un terzo delle quali – 412 – ritenute abbastanza fondate da divenire oggetto d’indagine. Il deputato democratico della Florida Ted Deutch è in prima linea nel denunciare gli abusi sessuali sui minori migranti. Ma la prassi di separare i bambini dai genitori suscita diffuse proteste – anche la first lady Melania se n’era indignata, andando a fare visita a minori ‘detenuti’ – ed è stata pure contestata in giustizia, ma non è mai stata abbandonata. Negli ultimi mesi la pressione dei migranti alle frontiere dell’Unione s’è allentata, per via dell’epidemia di coronavirus.
Delle denunce di abusi e molestie fatte, la vasta maggioranza, i due terzi circa, sono ufficialmente risultate “infondate”, ma oltre 1300 sono parse abbastanza serie da meritare un’indagine più approfondita. John Burnett, che segue il dossier per la Npr, la radio pubblica degli Stati Uniti, ricorda: “La maggior parte erano casi fra i minori. Ma 178 casi riguardavano il personale dei rifugi, in particolare i lavoratori che accompagnano i ragazzi ovunque essi vadano e che dovrebbero proteggerli”. Le denunce coprivano una vasta gamma di comportamenti inappropriati, da relazioni definite ‘romantiche’ tra adulti e minori a palpeggiamenti a atteggiamenti da guardoni. Deutch considera i 135 rifugi per minori non accompagnati allestiti dall’Amministrazione Trump “un ambiente malsano”: “I documenti – dice – dettagliano un contesto di sistematici attacchi sessuali sui minori da parte del personale”. Di fronte alla Commissione della Camera, i funzionari del Dipartimento della Sanità ammisero le preoccupazioni, perché “anche un solo minore abusato è di troppo”, ma difesero l’Office of Refugee Resettlement (Orr). “Le accuse si rivelano infondate nella stragrande maggioranza”, sottolinea Jonathan Hayes, il responsabile del personale di custodia dei minori. L’Orr dichiara ‘tolleranza zero’ nei confronti degli abusi sessuali d’ogni sorta: chiunque ne venga a conoscenza deve riferirne nel giro di quattro ore. Gli Sati Uniti considerano minori non accompagnati quelli che superano la frontiera da soli o che viaggiano con un parente che non è un genitore. I minori non accompagnati affidati alla custodia dell’Orr sono stati, a un certo punto, lo scorso anno, 13mila: in media, passano tre mesi nei rifugi, prima di andare a vivere con un adulto loro ‘sponsor’ in attesa che una Corte decida il loro destino.
“Più Europa”, l’orma sulla sabbia
Ancora non è dato sapere quanti vertici europei saranno necessari, perché sia approvato il Fondo di ripresa post Covid proposto da Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione. E quale sarà la sua forma, oltre che la sua entità, se mai gli Stati membri troveranno l’unanimità cui sono tenuti.
Pomposamente l’hanno chiamato Next Generation EU, ma il rischio è grande che del progetto non rimanga che l’orma lasciata per un momento sulla sabbia, la traccia di quello che l’Europa unita avrebbe potuto divenire, trasformando se stessa, e non è divenuta. Anche di questo si discute agli Stati generali dell’economia organizzati da Giuseppe Conte, ed è importante che le autorità europee siano state convocate prima ancora che vengano attivati i vari Fondi. Perché in gioco non è solo lo sfacelo dell’Italia, ma anche e in misura macroscopica lo sfacelo dell’Unione.
Se il Recovery Fund e la messa in comune dei debiti falliscono sarà difficile parlare ancora di unione, o come si diceva fino al 2009, di comunità. Nelle mani ci resterà quello che già conosciamo: una convenzione fra Stati creditori e Stati debitori che non si uniscono per solidarizzare e fronteggiare insieme le avversità (pandemiche, climatiche); un mercato unico pensato per diminuire l’intervento dello Stato nell’economia, proprio ora che di investimenti pubblici c’è più bisogno. L’Unione non diverrà il baluardo che protegge gli europei da una mondializzazione incontrollata, ma continuerà a essere quella che è stata per quarant’anni: una “forma particolarmente sviluppata di iper-globalizzazione, anche se regionalmente circoscritta”, come la definisce uno studio pubblicato giorni fa da Chatham House. Perfino lo spazio giuridico europeo rischia l’erosione, come dimostrato dalla recente sentenza della Corte costituzionale tedesca sui poteri reputati eccessivi della Banca centrale e, indirettamente, della Corte di giustizia europea.
Se così stanno le cose, non ha molto senso parlare di uno scontro tra chi vuole più Europa e chi ne vuole di meno, tra chi accetta aiuti condizionati e chi no. Ormai si è capito che saranno assortiti di condizioni sia il Recovery Fund sia i prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Non c’è per ora unanimità fra gli Stati attorno al cosiddetto “momento Hamilton” – invocato da Roma e Madrid – che trasformerebbe i debiti dei singoli Paesi in un debito comune, come temporaneamente deciso negli Stati Uniti dopo la guerra di indipendenza, nel 1790. Sono contrari i Paesi del nord (i “4 frugali”), e anche il gruppo di Visegrad a Est, che l’11 giugno ha messo in guardia contro un piano “troppo sbilanciato verso il Sud”. L’entità stessa del Fondo potrebbe essere ridimensionata.
La distinzione tra più e meno Europa – o tra condizioni e non condizioni – è insensata per un motivo centrale: l’Unione, con le regole e i parametri che impone, con l’ordinamento che si è data negli anni 80-’90, non è all’altezza della crisi che traversano le economie dei suoi Stati, messe in ginocchio dal Covid in maniera del tutto asimmetrica e non simmetrica come si sostiene. Non è in grado di rispondere ai tre grandi bisogni del momento: il bisogno sempre più diffuso che lo Stato riprenda il controllo sui mercati, e metta fine alle dottrine neoliberali del laissez-faire; il bisogno che sia chiarita la questione della sovranità, cioè di chi ha il comando in situazioni di sconquasso post-pandemico delle economie; il bisogno infine di indipendenza geopolitica dagli Stati Uniti. “Più Europa” è fuori luogo, se resta quella che è.
In un certo senso, ovunque affiora la domanda che motivò il voto popolare inglese in favore del Brexit: take back control, riprendere in mano il controllo sui mercati, stabilire quale debba essere il giusto equilibrio fra Stato e mercato, sia quando sovrano è il governo nazionale sia quando la sovranità è trasferita in Europa. Naturalmente i promotori del Brexit non puntavano a questo riequilibrio ma a un neoliberismo ancora più inegualitario: l’imbroglio del referendum è stato questo.
L’Unione consolidatasi alla fine degli anni 70 ha costituzionalizzato la dottrina neo-liberale, affossando il compromesso del secondo dopoguerra fondato su massicci investimenti pubblici e sull’estensione continentale del piano presentato a Churchill da William Beveridge (istituzione del Welfare per sventare future tentazioni nazifasciste). Tutte le regole fissate a partire dagli anni 80, nella politica industriale e nel mercato del lavoro, si prefiggono la diminuzione del peso dello Stato, e hanno avuto come conseguenza l’indebolimento dei sindacati, il predominio dei mercati globalizzati, l’abnorme dilatazione del lavoro precario e non protetto. Il culmine venne raggiunto con la creazione della moneta unica e della Banca centrale europea, cui non fece seguito alcun passo avanti sulla strada dell’unione politica e della solidarietà fra nazioni. Una moneta senza Stato, una Banca centrale il cui obiettivo ufficiale continua a essere la stabilità dei prezzi e non la piena occupazione e uno Stato sociale funzionante: ecco i fattori dell’attuale sfacelo dell’Unione.
Quest’architettura fatica a cambiare, perché ha arricchito alcuni Stati e ne ha impoveriti altri. Sicché, quando Mario Monti parla di buone condizioni dell’Unione, e giunge sino a sostenere che come italiani “abbiamo bisogno di una buona condizionalità come dei soldi, e forse più che dei soldi” (Otto e Mezzo, 12 giugno) dice e non dice, perpetuando lo status quo. Non dice quali debbano essere le nuove “buone condizioni”, né come l’Europa debba riscrivere la propria costituzione economica, sormontando in maniera permanente e non saltuaria parametri e regole che non hanno unito ma disgregato l’Unione. Non indica i fini completamente diversi che dovrebbe darsi la Bce. Resta prigioniero di quella che lo studio di Chatham House chiama la trappola dell’Unione: uno “status quo sub-ottimale privo di consenso su come mutare l’Europa, e incapace di muoversi verso una politica economica che torni ad avere lo Stato al suo centro, come chiesto oggi dai suoi cittadini”.
Questa costruzione si sta infrangendo, soprattutto nei Paesi che più hanno sofferto dell’austerità. È arrivato il momento di riconoscere che l’Unione deve darsi gli strumenti per cambiare rotta, smettendo di essere la forma regionale dell’iper-globalizzazione e disseppellendo le politiche di Welfare che permisero il “trentennio glorioso” del dopoguerra, fra il ’45 e il ’75.
“’A livella” e l’Africa che muore nel silenzio
I versi di “A livella”, scritti da Giacomo Rondinella e Antonio de Curtis (Totò), meriterebbero di essere letti con attenzione per non dimenticare che tutti siamo uguali davanti alla morte. Non è mai stato così, nemmeno durante una pandemia. Chi ricorda i morti in Africa? Lì, oltre che per malaria e Aids, si muore ancora per Ebola, guerre dimenticate, denutrizione, dissenteria. Solo qualche minuto in tv per l’invasione delle locuste, che potrebbe essere grave quanto una pandemia. E il Covid? In Africa sembra che l’informazione trovi confini invalicabili. Altro che infodemia! Lì è difficile raccogliere le notizie, ma anche diffonderle e renderle appetibili all’estero. Secondo l’Oms, in Africa il SarsCoV2 si propagherà in maniera più lenta, ma rimarrà più a lungo. I modelli che hanno simulato il numero di morti se non ci fossimo attenuti alle misure di distanziamento sociale, mascherine, igiene delle mani, valgono solo in Occidente? Lì sono tutti interventi impossibili. Eppure l’Oms pubblica la sua strategia: diagnosticare, isolare, distanziamento sociale. Mi viene da chiedere se l’autore di questi documenti sia mai uscito dagli hotel dove si organizzano le riunioni per la Cooperazione e gli aiuti.
È un universo a parte. L’Africa, senza far notizia, nell’ultimo decennio è diventata una colonia cinese, passando dalla schiavitù dei “bianchi” a quella dei “gialli”. Radio, tv e giornali ci aggiornano sui casi di Covid nel mondo, ma non lì. E non è credibile che in un continente con 1 miliardo e 216 mila abitanti, con le condizioni di vita che conosciamo, si siano avuti solo 78 mila casi e 2.600 morti. Quei numeri sono il risultato di pochi tamponi effettuati in una decina di centri gestiti dall’Oms. Molti ambulatori delle Ong sono stati chiusi e i reagenti scarseggiano. La gente muore senza aiuto, senza sapere perché. Sebbene, trattandosi di una popolazione giovane, si possa pensare che l’impatto della patologia sia inferiore al resto del mondo, i morti ci sono. L’Africa ha il diritto di essere aiutata.
Dite ai giornali di Angelucci che la clinica focolaio è la sua
Due quotidiani, undici edizioni ciascuno, zero tituli. Il focolaio dell’Irccs San Raffaele Pisana, con i suoi 111 contagiati e 5 morti, non interessa né a Liberoné a Il Tempo, che casualmente appartengono al padrone della clinica, il deputato di Forza Italia, Antonio Angelucci. Il primo, dal 4 giugno, giorno in cui la Regione dà notizia dei primi tre tamponi positivi, nomina una sola volta la struttura al centro della paurosa impennata dei casi Covid nel Lazio, con infetti anche nel Reatino e alla Rai, e la risalita di Rt oltre quota 0,9. Lo fa l’8 giugno in un occhiello a pagina 11 che la assolve perché i malati “sono pazienti trasferiti da altre strutture”.
Ancora meglio fa Il Tempo. Il quotidiano della destra pre-berlusconiana della Capitale non dedica al caso un titolo, non un occhiello, ma neanche un micragnoso sommarietto. Il San Raffaele e i suoi infetti restano affogati nei pezzi di cronaca locale con un unico assolo l’8 giugno, quando a pagina 15 – sotto al titolo “11 contagi, aumentano i guariti” e all’ancor più rassicurante occhiello “Continua il trend positivo di contenimento dell’epidemia” – il giornale racconta che i casi sono 37, ma l’assessore D’Amato tranquillizza sul fatto che “la gestione del focolaio al momento è sotto controllo”. Per poi sciorinare l’intero comunicato della struttura: 70 righe (70) per dire che va tutto bene, madama la marchesa.
In totale undici giorni senza che il nome della clinica del sor padrone compaia in un carattere più grande di quello degli articoli. Poi, ieri, l’epifania: l’espressione campeggia ben visibile in una mezza pagina 10 su una bella foto. Stai a vedere che il giornalismo stavolta trionfa. Invece no, è una pubblicità: “Dona il tuo 5Xmille all’Irccs San Raffaele Pisana”.
Mail box
La nostra cultura obsoleta e gerarchica
Il nostro Paese vive una delle più grandi crisi culturali della sua storia. Ogni generazione attacca la precedente, vede in lei solo una forza repressiva, intenta ad abbattere i principi della propria futura istruzione. Questa volta, però, non è così: attacchiamo un sistema scolastico certamente limitato, superato, gerarchico, poco incline ad accrescere lo sviluppo dell’individuo all’interno della comunità. Ma tale depressione non è nata oggi: è figlia di un lungo processo di sedimentazione, in cui l’educazione e i valori morali e civili sono venuti a mancare. La cultura viene considerata obsoleta, superata, passata come un accessorio: è diventata una moda. In tutto questo, la scuola, prima, era un privilegio, ora, un obbligo, un comando da eseguire.
Enrico Ioseffi, studente
Medici pubblici: basta con la libera professione
Ritengo che sia giunto il momento di porre rimedio a quella, che secondo me, è una grave pecca del Ssn: la libera professione dei medici ospedalieri. Non credo che altri dipendenti pubblici o privati possano fare concorrenza ai loro datori di lavoro. Se vuoi una visita specialistica dal medico ospedaliero x o y devi prepararti a tempi di attesa biblici viste le ingolfate liste di attesa. Se invece sei disposto a pagare, la visita dallo stesso medico x o y è rapidissima. È troppo frequente osservare che una intera equipe medica operi in una struttura privata in concorrenza con il pubblico. La ministra Bindi aveva iniziato a impedire che i primari potessero svolgere la libera professione ma è durata poco visto il potere della lobby medica.
Ezio Ghisolfi
L’Ue riconosce il valore dell’Italia: era ora
Caro direttore, non ci posso credere. Durante gli Stati generali la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha detto che grazie all’Italia l’Europa s’è desta. Come a dire che, grazie al nostro Paese, l’Ue ha cambiato atteggiamento: è finito il tempo dei vincoli, che rendevano eventuali aiuti indigesti. Chissà cosa pensano i partiti dell’opposizione che da mesi contestano tutto quello che fa il governo. Non solo; subito dopo la dichiarazione di Ursula, il presidente dell’Ue Charles Michel ha detto che l’Italia ha probabilmente salvato vite in Europa. A quel punto sono sobbalzato dalla sedia: ma come si permettono questi signori di parlare bene di un governo accusato da quasi tutti i giornalisti italiani e dall’opposizione di essere incapace, non adeguato all’emergenza Covid, traditore della nazione…? Grazie Europa e grazie al vostro giornale che riporta i fatti senza condizionamenti del padrone editore.
Maurizio Sforza
Grazie alla redazione: mi date una prospettiva
Colgo l’occasione per un’altra lettera di semplice ringraziamento a tutta la redazione del Fatto. Grazie per l’amore che mi avete trasmesso per il giornale di carta stampata. Andare dal giornalaio, trovare il quotidiano già lì posato, essere avvertito quando esce Millennium… Quello che fate è molto più che scrivere un giornale: è dare una prospettiva.
Gennuso Gabriele
Guala, un grande uomo destinato all’eternità
Gentile redazione, sono un vostro abbonato: ho letto con commozione l’articolo che Gianni Vattimo ha dedicato a Filiberto Guala perché ho avuto occasione di conoscerlo di persona presso il convento delle Frattocchie in cui era monaco di clausura. Ne serbo uno straordinario ricordo: trascorremmo un pomeriggio insieme e mi raccontò la storia della sua vita, dalla Torino occupata dai nazisti fino al “contemptus mundi” e alla scelta della clausura, soffermandosi su Frassati, il piano Ina Casa, Fanfani, l’incarico di direttore generale della Rai… Era un uomo di grandissima spiritualità: nei giardini del convento con semplicità mi indicò dove sarebbe stato sepolto accanto ai suoi confratelli; lo ricordo nel coro scandire con il canto e con la preghiera il trascorrere delle ore… Mi ha dato l’impressione di una persona destinata all’eternità.
Massimo Turci
La scuola è la vera emergenza nazionale
Caro Direttore Travaglio, complimenti per il giornale nuovo, ma scrivo anche per proporvi di occuparvi di più della scuola. Preoccupa molto la marginalità con cui è stata trattata in questi mesi. Preoccupa molto la ripresa di settembre. Come si potrà?… Si è perso molto tempo. Ancora non c’è un piano serio e adeguato per tornare in classe. E in classe si deve tornare, esaurita la retorica ideologica della Dad… Solo annunci, ipotesi campate in aria e parole in libertà. Da mesi è attiva la cosiddetta task force (ancora una espressione di origine militare e manifesto provincialismo) e nessun piano, nessuna discussione approfondita in Parlamento (e docenti e presidi pochissimo considerati). Attenzione, perché l’impoverimento della scuola è già in atto. E il Paese non può permettersi ulteriore perdita di tempo con conseguenze incalcolabili, ora, soprattutto sul diritto allo studio e l’uguaglianza dei cittadini… Dunque la scuola dovrebbe essere centrale nel dibattito pubblico: spero che almeno voi possiate aprirne uno e far intervenire le menti migliori del Paese. È urgente.
Francesco Pugliese
Uccisione di Floyd. Negli anni di Obama andava anche peggio
Qualcosa non mi torna: con Obama presidente ci sono stati altri casi di uccisione di afroamericani da parte della polizia, ma non è accaduto quasi nulla. Perché tutto questo durante la presidenza Trump?
Giacomo Brescia
Il razzismo è stato una ferita aperta nella società americana più negli anni della presidenza Obama che in quelli della presidenza Trump: può parere un’assurdità, ma è così; e c’è una logica. Con Obama alla Casa Bianca i neri si sentivano quasi automaticamente rappresentati e tutelati, pur se le loro aspettative non sempre trovavano riscontro; invece, suprematisti e razzisti rimuginavano rabbia e frustrazione e talora la sfogavano, se erano poliziotti, ammazzando neri disarmati. Una lista incredibilmente lunga: da Treyvon Martin, ragazzino della Florida che “poteva essere mio figlio”, disse Obama nel 2012, a Michael Brown, diciottenne ucciso a Ferguson nel 2014, la cui morte aprì un’estate di tensioni razziali, simile all’attuale; e ancora una litania di nomi: Alton Sterling, Philando Castile e numerosi altri. Poi, s’insediò alla Casa Bianca Trump. Definirlo razzista e/o suprematista è forse improprio, ma certo il magnate ha in razzisti, suprematisti, rednecks, fondamentalisti evangelici, maschi bianchi più o meno alfa – muscolarmente, non intellettualmente – una esclusiva constituency elettorale: nessun candidato democratico può, e vuole, contendergliela. Benpensanti alla The Help e Alt-right si sentono garantiti dal presidente; e gli afroamericani hanno capito che tirava brutta aria e hanno, magari inconsapevolmente, ridimensionato le aspettative e adeguato gli atteggiamenti. Non ha sempre funzionato tutto bene: nell’agosto del 2017, quando, dopo incidenti a Charlottesville in Virginia, Trump mise sullo stesso piano neonazisti e neri che lo contestavano – ci fu una morta fra gli afroamericani –, la tensione crebbe. Ma fino al 25 maggio, cioè fino all’uccisione di Floyd, questa pareva un’estate americana votata alla pandemia e alla recessione, non alle tensioni razziali. Eppure, segnali non erano mancati; e adesso che la vicenda di Minneapolis ha innescato proteste e rivendicazioni, fermare l’onda sarà difficile. Specie se il presidente getta olio sul fuoco e la polizia continua a sparare.
Giampiero Gramaglia
Salvini da politico vincente è diventato un pugile suonato
C’è un momento, più o meno lungo, in cui un politico un tempo vincente si trasforma in pugile suonato. A Matteo Salvini accade da mesi, per l’esattezza da quando si è comicamente sgambettato da solo al Papeete. Roba che gli storici lo prenderanno per il culo nei secoli (ma non c’è bisogno di aspettare gli storici: possiamo già farlo anche noi. Con agio e in atarassia). Dall’8 agosto in poi, il Salvini a cui pareva riuscire tutto si è trasformato in un Fantozzi presbite. Si è messo gli occhiali, forse anche per sembrare un po’ intellettuale, ma la trovata oculistico-strategica non ha portato grandi frutti. Tutte le volte che non si intervista da solo, e quindi non è da Porro (o derivati), è un pianto. Per lui: per tutti gli altri, immagino alleati inclusi, sono invece le matte risate. La figuraccia raccattata una settimana fa da Floris è roba da Guinness dei Primati. Quel suo “Posso mentre parlo con una signora abbassarmi la mascherina?”, pronunciato con aria stralunata di fronte a un attonito (e divertitissimo) Floris, è stato l’ennesimo suicidio mediatico. Lo difendono giusto gli ultrà infoiati, che ovviamente non fanno testo. Con quella frase, Salvini non ha soltanto dimostrato di non avere capito nulla della pandemia (e delle regole base per arginarla) dopo quattro mesi di fase 1, 2 e 3. Quella frase ha ribadito altresì come Salvini sia totalmente fuori fase. E purtroppo (per lui) non ha uno straccio di amico vero in grado di dirgli per il suo bene: “Fermati un po’ oppure qua è un massacro”. O magari gli amici li ha, e glielo auguriamo, ma lui si crede troppo figo per ascoltarli. Durante il Salvimaio teneva una foto di Renzi in salotto (regalatagli da Giorgetti) per “non finire come lui”, ma sta facendo gli stessi errori. Accecato da sondaggi, da vanagloria e da un ego che mangia persino più di lui. Non c’è volta in cui apra bocca e non ne spari un’altra. “È sempre stato così”, direte voi, e certo anche prima non era Churchill. Ma ora è proprio divenuto il clone del Poro Asciugamano. Fa una manifestazione il 2 Giugno e la trasforma colpevolmente in un assembramento pericolosissimo. Non solo non chiede scusa, ma i giorni successivi si ripete in Campania, Abruzzo e Marche. Poi non partecipa agli Stati generali, obbedendo a una Meloni che nel frattempo lo sta sabotando senza pietà, e va in Sicilia. Risultato? Fischi, sfottò e assembramenti.
Nei giorni scorsi ha trasformato la testimonianza di Conte, Lamorgese e Speranza sulla mancata zona rossa in Val Seriana (in qualità di persone informate sui fatti) come prova di inequivocabile colpevolezza (“giustizia è fatta”). C’è o ci fa? Entrambe, si presume. E domenica ha pure trovato il tempo di andare dalla D’Urso e dialogare con un aureo simposio composto da Orietta Berti, Eleonoire Casalegno, Riccardo Fogli, Fausto Leali e un tizio anonimo che voleva ingrassare un chilo per ogni grillino morto. Incapace di chiedere scusa, ogni volta che sbaglia o non sa rispondere parte con la solita lista della spesa: i migranti, la cassa integrazione, i figli, il cuore immacolato di Maria. Il poro Salvini è ormai un Tafazzi così sciagurato – più di 10 punti bruciati in 10 mesi, stando ad alcuni sondaggi – da essere detestato anche da buona parte del suo stesso partito. Che punta, non senza ragione, sul più affidabile Zaia. Salvini ricorda oggi uno di quei pugili divelti dal primo Tyson, maciullati sin dal primo round e ridotti a birilli malfermi prima di franare al tappeto. Loro, persi in quella smisurata mattanza, facevano pena. Salvini, neanche quello: solo scherno. Una prece.