Con la nomina di Perugia il Csm dimostri una nuova credibilità

Domani il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura nominerà, dopo nove mesi di vacatio, il nuovo procuratore della Repubblica di Perugia, ufficio, come è noto, strategico per essere competente in ordine ai reati commessi dai magistrati romani. Si tratta di un momento importante che potrà dimostrare se il Csm intende effettivamente riacquistare quella credibilità fortemente compromessa dallo “scandalo Palamara”, che ha fatto emergere quell’inqualificabile “mercato delle nomine” cui erano dedite le correnti associative e lo stesso Csm, sistema scorretto, duramente censurato dal capo dello Stato.

In proposito, non può non condividersi quanto scritto sul Fatto Quotidiano, sabato scorso, da Mario Serio – che negli anni 1988-2002 è stato ottimo componente del Csm – il quale si augura che “non prevalga, ancora una volta, l’indirizzo premiale degli indisciplinati scorrimenti da funzioni estranee alla magistratura, e contigue alla politica, a ruoli giudiziari direttivi”.

Le argomentazioni di Serio fanno evidente riferimento al contesto del raffronto tra i curriculum professionali dei due concorrenti rimasti in gara per il posto direttivo di procuratore di Perugia: l’uno, Luca Masini (che in commissione ha ottenuto due voti), da quattro anni procuratore aggiunto a Salerno e che per molti mesi ha svolto le funzioni di titolare dell’ufficio; l’altro, Raffaele Cantone (che ha ottenuto tre voti), in servizio presso il massimario della Cassazione, dopo essere stato, dal 2015 al 2019, capo dell’Anticorruzione, e che da oltre dieci anni non esercita le funzioni di pm. Una vittoria di Masini significherebbe che il Plenum, sconfessando il parere della commissione, è finalmente intenzionato a prendere atto:

A) che, ai fini della nomina a un incarico direttivo (nella specie, procuratore della Repubblica), un candidato che non ha mai avuto un incarico semidirettivo, non può prevalere su chi, con merito, ha svolto per anni tali funzioni semidirigenziali e che, per lungo tempo, ha esercitato, addirittura, quelle direttive di procuratore capo, e che, peraltro, ha da sempre esercitato le funzioni di pm;

B) che le diverse funzioni svolte dal magistrato fuori ruolo non possono costituire alcun valore aggiunto, ma devono, anzi, ai fini della nomina a posti direttivi (tanto più se di procuratore della Repubblica), essere valutate negativamente sia per il prolungato, mancato esercizio delle funzioni giurisdizionali sia per la vicinanza al potere politico che quella nomina comporta.

Così operando, il Csm anticiperà meritoriamente quanto il governo sta per approvare nel progetto di legge delega al Parlamento sulla riforma dell’ordinamento giudiziario ove, in proposito, non a caso, è previsto che “i magistrati collocati fuori ruolo per l’assunzione di incarichi apicali… non possono far domanda per accedere a posti direttivi per un periodo di anni due a decorrere dal giorno di cessazione dell’incarico”.

 

Le statue controverse finiscano in un museo

Da storico dell’arte trovo appassionante il dibattito che divampa intorno alle statue civiche. Il punto non è la riscrittura della storia: e le provocazioni che in queste ore chiamano in causa libri o film non hanno alcun senso. Perché il vero oggetto di contesa è lo spazio pubblico come luogo in cui una comunità civile costruisce se stessa attraverso una lettura (spesso invenzione) del passato, e indica una via verso il futuro. È commovente che questo accada dopo decenni di privatizzazioni selvagge che tendono a far letteralmente sparire, in tutto il mondo, il concetto stesso di spazio pubblico. Se partiamo da qui, si dovrà convenire che tenere su un piedistallo nella piazza (centro della polis e dunque luogo politico per eccellenza) un personaggio significa indicarlo come modello di virtù civili. È l’equivalente civile della santificazione: “Guardatelo, prendetelo a esempio, fate come lui”.

Naturalmente questo messaggio arriva quando c’è un nesso ancora vivo tra il personaggio e la comunità che lo celebra. I monumenti antichi, medioevali e dell’età moderna sono fuori da questo discorso. Certo, se pensassimo di invadere la Romania, la Colonna Traiana potrebbe recuperare un suo valore politico; e, se scoppiasse una guerra tra Milano e Venezia, qualche infiltrato meneghino in Laguna potrebbe far brillare il monumento di Verrocchio a Bartolomeo Colleoni. Ma non mi pare questo, il problema. Che invece riguarda i monumenti eretti in un’età che sentiamo ancora nostra, in onore di personaggi, remoti nel tempo o contemporanei, che già in quel momento erano in contrasto con i valori di una parte della società. Monumenti che usavano il passato in un conflitto contemporaneo.

Quest’epoca parte dalla Rivoluzione Francese e arriva fino a noi. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 26 agosto 1789 inizia affermando che “gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono fondarsi che sull’utilità comune”. Nel 1792 la Rivoluzione cancellò le discriminazioni razziali, nel 1794 abolì la schiavitù. E in quello stesso 1794 la Convenzione mise fine alla distruzione delle opere d’arte prodotte dalla monarchia francese: fu coniata la parola vandalisme e si affermò solennemente che “solo gli schiavi distruggono i monumenti, gli uomini liberi li conservano”. Era la saggia decisione di coloro che si sentivano definitivamente vincitori, e pensavano di non aver nulla da temere da monumenti passati cui sottraevano il significato originale, e ne imponevano uno puramente culturale, repubblicano. Nasceva il Musée des monuments e con questa operazione di “patrimonializzazione” anche l’idea stessa di patrimonio culturale: quella per cui oggi amiamo, per esempio, le statue di Cosimo I anche se ne esecriamo le gesta contro la libertà fiorentina.

Ma la statua abbattuta a Bristol pochi giorni fa era stata dedicata al mercante di schiavi Edward Colston (1636-1721) – le cui navi trasportarono dalle coste africane all’America almeno 100.000 persone rapite ai loro villaggi e ai loro affetti – solo nel 1895: un secolo dopo l’abolizione della schiavitù! Era nata, ed era poi sempre stata difesa, come un segno del perdurante razzismo della società inglese. Nata e difesa per usare il passato nelle lotte del presente: e perita per lo stesso motivo. Negli ultimi vent’anni su quel bronzo si era aperto un duro confronto: una petizione per la rimozione ha raccolto 11.000 firme, e solo installazioni artistiche non autorizzate hanno reso visibile intorno alla figura di Colston l’immane tragedia che egli provocò, un po’ come ora propone di fare Banksy. Ma i sindaci di Bristol hanno impedito perfino che una targa mutasse il segno del monumento, inchiodando Colston alla verità storica. Così quelle autorità non hanno difeso la storia, ma hanno usato la statua come pedina di una battaglia attuale. Facendo così, hanno condannato quel bronzo a essere gettato nel fiume.

Non ci nascondiamo dietro un dito: se masse oppresse in tutto l’Occidente non riescono a condividere la saggia svolta contro il vandalismo compiuta dalla Rivoluzione trionfante, è appunto perché sono tuttora oppresse, e sconfitte. La loro battaglia non riguarda la storia, ma il futuro: ed è sacrosanta. Credo, dunque, che la risposta più saggia per le statue controverse dell’8-900 sia la loro musealizzazione. Nei musei possono e devono vivere come documenti di una storia che non si cambia: qui i cittadini possono e devono conoscerle, fin dalla scuola. Ma le vie e le piazze sono, per fortuna, ancora luoghi di conflitto, e i loro piedistalli (come le loro intitolazioni) sono nodi del discorso pubblico che costruisce la via verso il futuro. L’ultima cosa che dobbiamo fare è usare l’arte e la storia contro la giustizia e l’eguaglianza.

 

“Vaffanculo” è l’auspicio che tu provi piacere nell’immediato futuro

Ci sono persone che hanno il senso del tempo come nel film “Il giorno della marmotta” (tweet di Beppe Grillo contro Di Battista, che proponeva un’assemblea costituente delle anime del Movimento “e vedremo chi vincerà”).

Da anni, Grillo ripete variazioni di questo tweet: non riesce a uscire dal suo loop temporale, in cui è a capo di un Movimento che è finito al governo, ma perde consensi ed è lacerato da divisioni interne. Abbandonare il loop è rischioso: cosa c’è dopo? È la sindrome di Pannella, che allevava discendenti per farli fuori uno dopo l’altro, finché i radicali sparirono dal Parlamento: uscì dal loop solo con la sua morte. Rivediamo daccapo il loop di Grillo. Gesù fondò la sua religione, il cristianesimo, su un gioco di parole: “Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia chiesa”. Grillo fondò la sua religione, il M5S, ovvero Grillology, su un altro gioco di parole: “Vaffanculo”. Usava questa interiezione come un insulto. Perché la frase non significa “vai a inculare”, un’attività che gli antichi filosofi greci consideravano così piacevole da ritenerla un passaggio obbligato nella formazione dei giovani allievi, su cui la praticavano. No, l’esortazione “vaffanculo” significa “vai a farti inculare”. La connotazione negativa, sedimentata da secoli di uso della frase, è dovuta a un fatto tecnico: la dilatazione forzata dello sfintere anale è dolorosa, come sa chiunque si sia mai trovato a cagare uno stronzo grosso come una melanzana, e duro. (“È un maschio!”) “Vai a farti inculare” è l’auspicio che tu provi dolore nell’immediato futuro. Ma oggi si sa come fare, e poi c’è il gel intimo: inculare e farsi inculare non è mai stato così piacevole (mi dicono). Per cui, “vaffanculo”, oggi, è l’auspicio che tu provi piacere nell’immediato futuro. Ora: Grillo manda sempre affanculo i giornalisti che scrivono peste e corna del M5S. Perché gli augura di provare piacere nell’immediato futuro? È questo che non capisco. Un anno fa, nel suo show Insonnia – ora dormo! (era stato al governo con Salvini e riusciva a dormire, beato lui), Grillo disse, a proposito di Salvini: “La mamma di Salvini, quella sera, non poteva prendere la pillola?”. Chiaro: se ti sei alleato con Salvini per andare al governo, la colpa è della mamma di Salvini che non ha preso la pillola. (E meno male che Einstein ha fatto la cazzata del Papeete, altrimenti era al governo durante la pandemia.) Grillo, con quella sua faccia piena di rughe da impiccione, cerca spesso di cavarsela dando la colpa agli altri. Attirò consensi con un solo argomento: il purismo. “Noi siamo onesti, gli altri sono marci”. Il purismo è ipocrita, perché implica la concezione di un sé separato dal male del mondo. Soprattutto, è consolatorio, dunque persuasivo: per questo il purismo è utilizzato dai demagoghi in ascesa: l’esordio di Berlusconi, Bossi e Renzi è purista; in modo analogo, il fascismo giustificò la propria tirannia dichiarando corrotto il sistema parlamentare. Grillo nacque nel 1948, la pillola non c’era (in Europa arrivò nel 1961); ma i preservativi sono in commercio da secoli, e se il babbo di Grillo, quella sera, ne avesse calzato uno, oggi non avremmo in Parlamento una manica di discepoli frastornati, tenuti insieme dalla paura di restare senza seggio alle prossime elezioni.

(1. Continua)

 

I 2 Matteo & C.: i furbi fottuti dalla “nullità”

Venerdì scorso, a proposito di un suo partito, Giuseppe Conte dichiarava al Corriere della Sera che “sarebbe folle dedicare a questi pensieri anche solo una caloria”. Questo in prima pagina perché all’interno l’autorevole quotidiano riferiva di un incontro riservato tra Luigi Di Maio (M5S) e Dario Franceschini (Pd), preoccupati dal nascente partito di Conte (calorie a parte). Che non ci si possa fidare di questo presidente del Consiglio appariva del tutto evidente sulla prima pagina della Stampa di domenica dove si prendeva in seria considerazione la possibilità che, una volta naufragato il partito personale, il premier potesse assumere al guida dei 5 Stelle. Tanto che poche ore dopo Alessandro Di Battista lanciava in tv un avvertimento al caro Giuseppe: “Se vuole la leadership si candidi”.

Ora chi scrive, pur convinto che sia tutta una polemica di panna montata sul nulla, è anche disposto a prendere in considerazione l’altra faccia della medaglia: che cioè Giuseppi non sia altro che un “avvocaticchio traffichino pugliese che si è montato la testa” (da un articolo a caso di Verità, Libero, Giornale, organo unificato della destra), un signor nessuno abituato a “gonfiarsi i curriculum” (Repubblica), e che il governo guidato da costui sia “il peggiore dai tempi di Nerone” (il forzista Antonio Martino). Disposti a prendere in considerazione ulteriori bassezze e nefandezze dell’inqualificabile individuo, prossimamente svelate da un’informazione sempre così attendibile, poniamo agli illustri colleghi un banale interrogativo: ma come diavolo è stato possibile che un personaggio in tal misura improbabile e farlocco sia costantemente in testa nei sondaggi, e di gran lunga, quanto a popolarità? Per quale bizzarro fenomeno della politica, un simile fallimento “privo di un’anima e di una visione” (obiezioni di opinionisti disgustati) se prendesse le redini del movimento grillino lo riporterebbe minimo al 30% dei voti (Pagnoncelli)? Ma soprattutto, cari Salvini, Meloni, Renzi, Calenda, eccetera: come diavolo avete fatto a farvi fottere da una nullità del genere?

Come sopravvivere alla Fase3: NoMask, social e cene-incubo

Nella confusa accozzaglia di incertezze della Fase 3, spiccano con luminosità le seguenti ambiguità.
Le mascherine. Nessuno si ricorda più dove e quando siano obbligatorie, quindi abbiamo chi se le mette pure per fare snorkeling e chi invece si ritiene svincolato dall’obbligo anche se gli mancano i due incisivi davanti.

E gli basta dire “sì” per sputare saliva a una distanza da record olimpico nel lancio del giavellotto. I no-mask, poi, hanno insinuato il dubbio che le mascherine siano una costrizione imposta dai poteri forti, che respirare con le mascherine provochi il cancro e che Indro Montanelli fosse socio della Pivetti nel traffico delle mascherine, quindi ormai sono invise a una discreta fetta della popolazione. In compenso, c’è la schiera dei resilienti che ha fatto dell’obbligo un’opportunità: chiuse per sempre nel cassetto quelle chirurgiche, ora in molti – troppi – sfoggiano mascherine simpatiche con slogan, fantasie floreali o animalier, fluorescenti, con pizzo, macramè e inserti in lana merinos. Il mio direttore di banca l’altro giorno sembrava Myss Keta intenta a deliberare un mutuo.

Le mani. Anche se lo scemare dei contagi ha un po’ derubricato gli arti superiori da ‘pericolo virologico di prima classe’ a ‘ricordati quale dito hai usato per pigiare il citofono’, le mani – specie i polpastrelli – sono ormai un orpello tossico e inutile, un apostrofo rosa tra il virus e le nocche, nocche con cui ormai pigiamo, trasciniamo, tocchiamo qualunque cosa. Quando la cassiera dell’Iper mi porge il pos e io digito il pin con le nocche, mi sento sempre uno sminatore afghano sopravvissuto a un disinnesco maldestro.

I balconi. Si sono ripresi la loro funzione originaria e cioè quella del deposito scope/pisciatoio del cane, per gli inquilini sciatti, e quella di diramazione della foresta pluviale australiana, per gli inquilini più competitivi. Rimane solinga qualche bandiera dell’Italia, ma le pedane per esibizioni canore e le torrette di avvistamento runner con balestre pronte all’uso, sono state smontate e riposte in garage. Particolarmente spoglio, a Milano, il balcone di Giulio Gallera. Interrogato sul perché ha risposto: “Davvero posso mettere un vaso di gerani? Pensavo fosse competenza del direttore di condominio”.

I social. Serpeggia un terrore diffuso e sinistro nel pubblicare qualunque cosa. Basta una foto al ristorante in cui sembra che il tuo volpino non rispetti la distanza di sicurezza dal gatto del proprietario, per innescare una shitstorm letale in cui si può venire accusati di qualunque cosa, dall’essere responsabili del nuovo focolaio dell’epidemia mondiale, all’essere l’assassino di George Floyd o il social media manager di J.K.Rowling. Io, che nel dubbio pubblicavo solo foto di tramonti, sono stata accusata di sponsorizzare tramonti artificiali causa della manipolazione climatica causa dell’inquinamento atmosferico causa del Covid causa delle puntate di Non è l’Arena con Cecchi Paone e Red Ronnie. In effetti, convinta dalla pericolosità dell’ultimo passaggio, mi sono scusata e ho rimosso tutto.

I ristoranti. Ogni volta che prenoto ho la stessa ansia da prestazione della prima volta che sono uscita a cena senza mamma e papà. ‘Buonasera, un tavolo da 4?’, ‘Congiunti?’, ‘Eh, se non siete congiunti vi devo mettere sfalsati, oppure di sbieco. Le scoccerebbe mangiare di spalle al piatto?’. Mi lavo le mani, ma sedendomi mi avvicino la sedia e allora, non si sa mai, torno a lavarmi le mani. Per non finire in un ciclo infinito sedia-mani-sedia-mani, decido di cenare a tre metri dal tavolo, la mia posata è il retino pulisci-piscina. Non so dove mettere la mascherina. Sul tavolo no, poi magari la sfioro, spezzo il pane sovrappensiero e a fine cena ho già il casco Cpap. Me la appendo a un orecchio, ma alla prima cucchiaiata la urto con la spalla e finisce nel pollo con le olive. Poco male, consulterò di nuovo il menù. Che è digitale, un codice QR da inquadrare col telefonino che ovviamente s’è appena scaricato. L’alternativa è un foglio plastificato stile ristorante per tedeschi in Piazza San Marco, con la pizza ‘Italia bella’ stampata in copertina e le grafiche realizzate con Microsoft Paint ’98. Nel reindossare la mascherina, alla fine del pasto, respiro arrosto con patate per i sei giorni successivi.

Gli scienziati. Rimangono un punto fermo: Zangrillo ha detto che il virus non esiste più nella sua forma virulenta, Galli che esiste e che può essere ancora virulento, Bassetti che è meno aggressivo, Pregliasco che è debole, Burioni che è buono e caro ma se si arrabbia, la Capua che è solare ma un po’ pazzerello. Poi è arrivata la Gismondo e ha chiarito il passaggio fondamentale: i virologi non esistono, sono solo una brutta influenza.

Tutti in sala, ma è déjà-vu. Il “nuovo” cinema è sul set

Grande è la confusione sotto il cielo cinematografico. Che la situazione sia eccellente è però da dimostrare. L’avallo del governo è condizione necessaria e sufficiente per la ripartenza del comparto, le sale che hanno riaperto – meglio, avrebbero potuto riaprire – da ieri fanno in extremis primavera? Gli esercenti dell’Anec hanno strappato, nel Dpcm del 12 giugno, condizioni assai vantaggiose: stralciati il distanziamento tra familiari e congiunti e l’impiego di mascherine da seduti, incassata la riattivazione dei punti ristoro. Nondimeno, le sale ancora chiuse sono la stragrande maggioranza, e chiedersi se il 15 giugno più che il riavvio del sistema si sia concertato un ritorno alla normalità a uso meramente psicologico è retorico. Non latitano solo i contenitori, manca il contenuto: quali film, quanti nuovi? La situazione è fluida, theatrical e on demand oggi sono vasi comunicanti, alla faccia delle windows, e Mao ci sguazzerebbe: i segnali più confortanti vengono dal futuro, ossia dal set. Stefano Chiantini gira Naufragi, con Micaela Ramazzotti; la terza stagione dell’Allieva è ripartita; il 22 giugno batterà il primo ciak Zero, la serie Netflix di Paola Randi, poi I delitti del BarLume di Roan Johnson. Stilati i protocolli da Anica e Apa, il problema rimangono le assicurazioni, soprattutto per i film da realizzare ex novo. Nell’attesa, la sala si coniuga al passato, e non sempre prossimo. Vision Distribution vi porta titoli già usciti in TVOD, da 7 ore per farti innamorare a Favolacce dei fratelli D’Innocenzo. Il circuito UCI Cinemas risponde con residuati pre-Covid, da 1917 a Odio l’estate, e a ‘sto punto perché non Ritorno al futuro? Il 2 luglio sarà La volta buona di Vincenzo Marra, stessa data per Il delitto Mattarella di Aurelio Grimaldi, mentre l’animazione Disney-Pixar Onward il 22 luglio. A crederci parecchio è Movies Inspired: dal 9 luglio al 3 settembre (Ema di Pablo Larrain) un profluvio di offerte, tra cui i classici restaurati Caravaggio di Jarman e Crash di Cronenberg. Déjà-vu mi piaci tu?

Procura di Perugia, Cantone favorito (dopo l’èra Renzi)

Raffaele Cantone a un passo dalla nomina a capo della Procura di Perugia, che ha in mano il caso Palamara. Domani il voto del plenum del Csm. Ex presidente dell’Anticorruzione, nominato da Renzi premier, pm anticamorra a Napoli, è tornato al Massimario della Cassazione a settembre dopo aver lasciato in anticipo l’Anac. Il 4 aprile Cantone ha ricevuto 3 voti dalla Quinta commissione, che propone le nomine: del presidente Suriano, di Area (progressisti), dei laici Benedetti (M5S) e Cerabona (FI). Invece, Davigo di AeI e Miccichè di MI (conservatori) hanno votato per Luca Masini, procuratore aggiunto di Salerno, che ha coordinato l’inchiesta sui magistrati del distretto di Catanzaro, ex uditore di Antonio Di Pietro. La nomina del procuratore di Perugia è la più delicata dopo quella di Roma: ha la competenza a indagare proprio sui magistrati della Capitale ed è alla ribalta per l’inchiesta che ha fatto deflagrare lo scandalo nomine del Csm: quella su Palamara, ex Csm, pm di Roma, sospeso, accusato di corruzione. A favore di Cantone i 5 togati di Area equasi tutti i laci: i 3 di M5S, Benedetti, Donati, Gigliotti, i 2 di FI Cerabona e Lanzi, incerti Basile e Cavanna della Lega. Con Masini, anche perché ritengono Cantone troppo politicizzato, i 5 togati di AeI e i 3 di MI. I capi di Corte Mammone e Salvi dovrebbero astenersi per i risvolti disciplinari del caso Palamara. Ago della bilancia, i 3 togati di Unicost (centristi) Mancinetti, Ciambellini e Grillo: potrebbero astenersi come ha fatto in Quinta Mancinetti, un vantaggio per Cantone.

La corsa dell’app Immuni con 2,5 milioni di utenti

Due milioni e mezzo di italiani: parte da questo dato la corsa di Immuni, quella vera, dopo una settimana di sperimentazione in quattro Regioni (Puglia, Liguria, Abruzzo e Marche). Da ieri le funzioni dell’applicazione sono attive e reattive in tutta Italia e si vedrà quale sia l’effettiva utilità dell’applicazione e soprattutto se sia pronta la rete di intervento del sistema sanitario.

Vale la pena ricordare come funziona la app: si scarica sul proprio smartphone – anche se alcuni modelli con sistemi operativi più vecchi potrebbero avere problemi – e la piattaforma attiva il bluetooth dello smartphone in modalità a basso consumo di energia. Tramite questo segnale, quando due smartphone stanno in contatto per un tempo sufficiente, si memorizzano l’un l’altro e se uno dei due proprietari dovesse scoprirsi positivo al coronavirus, l’altro riceverà una notifica che lo informa di essere un possibile contatto a rischio. Da lì, si dovrebbe attivare una catena virtuosa della rete sanitaria locale con test sierologici e tamponi nel giro di 48 ore.

“Non sappiamo fare stime di quanti utenti finiranno per scaricare Immuni. Ed è difficile stimarne l’impatto ai vari livelli di diffusione perché questo dipende molto da tanti altri fattori. Quel che è certo è che più persone usano Immuni, più l’app può essere efficace”, spiegano dall’azienda Bending Spoons, sviluppatore dell’app Immuni (ceduta gratuitamente allo Stato), in una sessione di domande e risposte su Reddit. Poi però avvertono: “Se tutti attendono a scaricarla per vedere se si diffonde abbastanza, entriamo in un circolo vizioso. Visto che l’app è gratis e che tutela molto bene la privacy, ci sentiamo di invitare tutti a scaricarla in serenità. Alla fine vedremo se e quanto avrà aiutato”.

Poi affrontanorischi e problemi emersi nei giorni scorsi. Sulla privacy assicurano non ci siano problemi, ribadiscono la totale assenza di geolocalizzazione e che sui server finiranno solo i dati necessari ad affrontare l’emergenza sanitaria, sui falsi positivi ammettono sia difficile evitarli. “Il segnale usato dalla app Immuni e dalle altre app di tracciamento che sfruttano la tecnologia di Apple-Google è molto influenzato da vari fattori di disturbo, per esempio gli ostacoli (in primis i corpi degli utenti) che si frappongono fra i due smartphone. Quindi non è realistico pensare di non avere falsi positivi e falsi negativi”. Perché un utente venga notificato l’esposizione deve essere avvenuta a una distanza inferiore ai 2 metri per un tempo superiore ai 15 minuti. Ma gli smartphone non possono misurare direttamente la distanza, quindi ci si basa sull’attenuazione del segnale per ricavarne una stima. Ecco perché i parametri sono stati modificati nei giorni scorsi. L’interferenza potrebbe indebolire il segnale e far ritenere che l’altra persona sia più distante rispetto a quanto sia realmente. “I nostri data scientist hanno eseguito svariati test di calibrazione per rendere questa stima la più affidabile possibile ed è in continuo divenire”, anche per Google e Apple.

Salvini nel Bresciano fa saltare le distanze: selfie e contestazioni

Nei mesi scorsi si era diviso tra “Aprire tutto” e “Chiudere tutto”. Ieri Matteo Salvini ha optato per il “Tocchiamoci tutti”. In visita in una delle zone più colpite dal coronavirus, nella provincia di Brescia, ha fatto saltare le distanze anti-Covid e per mezz’oretta si è gettato tra i sostenitori a somministrare il più magico dei vaccini: il selfie col Capitano. “Sono quattro mesi che facciamo di tutto per tenere la gente lontana”, ha commentato un carabiniere, “e oggi è saltato tutto”. Il leader della Lega lo aveva anticipato agli uomini del servizio dell’ordine: “Voglio arrivare a piedi”. E così Salvini, arrivato nei pressi del polo tecnologico di Gardone Valtrompia, è sceso dall’auto blu e si è concesso alle folle. Lo aspettavano circa 300 persone, democraticamente divise tra entusiasti sostenitori e accaniti detrattori. I contestatori, molti giovani e giovanissimi, hanno fatto partire i cori. Il classico “Scemo scemo”. L’icastico “Matteo vaffanculo”. Il brescianissimo “Va a laurà barbù” (vai a lavorare barbone). Un sostenitore del Capitano affronta un gruppetto di contestatori di pelle nera con un secco: “Tornate in Africa”. I ragazzi rispondono: “Siamo neri ma italiani”. Intervengono i poliziotti della Digos a identificare gli oppositori.

Salvini era sceso dall’auto perché si aspettava non contestazioni, ma solo ovazioni. Non sono comunque mancate: il ritmato “Matteo, Matteo”, il coro da stadio “C’è solo un Capitano”. Salvini con un gesto della mano invitava i sostenitori ad avvicinarsi, a farsi sotto, a rompere le distanze sociali, ad abbracciare, toccare, sorridere, scattare: la raffica di selfie ha animato e ritmato decine di cellulari, esorcizzato mesi di distanze e paure.

Dopo aver nutrito la sua gente, il Capitano è entrato nella sede del polo tecnologico, dove era programmato l’incontro con gli imprenditori locali. Tra questi, il presidente degli industriali bresciani Giuseppe Pasini e Franco Gussalli Beretta, padrone di casa in un paese conosciuto in tutto il mondo per la sua fabbrica d’armi. Prima di sedersi al tavolo, Salvini si è concesso una volta ancora ai suoi fan, dopo mesi di astinenza: si è affacciato alla finestra per incassare l’ultimo mix di applausi e insulti. Poi, finalmente, il meeting con gli uomini dell’industria. Nell’incontro, Salvini ha ricordato le proposte della Lega: azzeramento del codice degli appalti, revisione della cassa integrazione, riforma della giustizia, taglio del peso fiscale e della burocrazia, programma per riportare in Italia produzioni che negli anni sono state delocalizzate. Meno tasse, soldi veri, velocità, libertà d’impresa. Poi ha ringraziato gli imprenditori bresciani che hanno donato belle cifre a favore degli ospedali lombardi nel pieno dall’emergenza virus . Infine ha ascoltato le richieste degli imprenditori: sbloccare l’autostrada Valtrompia, far decollare l’aeroporto di Montichiari, meno burocrazia, più cassa integrazione. “Fra Brescia e Bergamo c’è una buona parte del Pil italiano”, ha sottolineato Salvini. Infine, si è concesso alle domande dei giornalisti. Sfoggiando una mascherina della Polizia penitenziaria e pulendo gli occhiali con la mascherina tricolore. Come non affrontare il più caldo dei temi, in una zona che ha avuto morti e contagiati come forse nessun’altra parte d’Europa? Come ha affrontato l’emergenza Covid il presidente lombardo, il leghista Attilio Fontana? “Sono orgoglioso di quello che ha fatto il sistema. Sia a Bergamo che a Brescia è stato fatto il possibile e l’impossibile. Credo che tutti abbiamo fatto il loro meglio”, se l’è cavata il Capitano, “poi sarà la storia a dire se andava fatto altro”. Ma gli imprenditori, in special modo quelli di Brescia a Bergamo, non avevano chiesto, nel momento più delicato per la diffusione del contagio, di tenere le fabbriche aperte perché la produzione non andava fermata? “Gli imprenditori chiedono alla Lega di svegliare il governo”, dice Salvini. Poi si è pure schierato al fianco di Mario Balotelli, gloria bresciana: “Ci siamo sentiti durante il Covid. È una persona diversa da quella che raccontano i giornali e spero che anche lui pensi lo stesso di me”.

Anche Lodi non fu mai zona rossa. I medici: “La Regione ci disse no”

L’epidemia rallenta, ma è ancora in corso. La curva dei contagi cala e però in Lombardia in modo troppo lento. Tanto che da giorni i nuovi positivi sono il 70% del totale nazionale, ieri l’85%. La causa è chiara: qui il virus è arrivato prima, è stato cercato male con pochi tamponi ed è stato contenuto peggio. E se la mancata zona rossa ad Alzano è diventata un caso politico-giudiziario, altre gravi mancanze passano sotto traccia. Su tutte un’altra zona rossa dimenticata: quella di Lodi città. I primi check point istituiti dal governo erano attorno a 10 Comuni della Bassa lodigiana, a pochi chilometri dal capoluogo.

Eppure Lodi dal 21 febbraio fino alla chiusura della Lombardia decretata l’8 marzo è rimasta città aperta. Così come annunciava il 22 febbraio una nota del Comune, seguendo le indicazioni di Regione e governo rispetto all’assenza di casi a Lodi solamente un giorno prima la scoperta del paziente 1 a Codogno. Due settimane, quindi, durante le quali circa 10mila persone ogni giorno hanno preso il treno, l’auto per andare da Lodi a Milano e qui muoversi con metropolitana e autobus. Perché lì lavorano. Quale miglior volano per portare un virus così contagioso anche nell’area metropolitana del capoluogo lombardo.

Al 29 febbraio il 38% dei casi lombardi arrivava dal Lodigiano, oltre uno su tre. Massimo Vajani è il presidente dell’Ordine dei medici di Lodi. Su questo non ha dubbi: “Più volte ai tavoli con la Regione ai quali ho partecipato ho sottolineato che la città di Lodi doveva essere considerata zona rossa, o almeno zona arancione, ma non sono stato ascoltato”. In quei giorni di fine febbraio e inizio marzo, il virus correva di più in queste zone. Al 2 marzo i casi erano 384 con la provincia di Bergamo a 243. Oggi, a distanza di quasi quattro mesi, non c’è paragone: la devastazione portata dal Covid nel Bergamasco è evidente. Lodi è molto più indietro. Il punto qui però è un altro. In quei primi giorni l’obiettivo era contenere, ma lasciando aperto un Comune di quasi 50 mila abitanti al confine con l’epicentro del contagio, è stato difficile. “Ci sono – prosegue Vajani – ambulatori che stavano a tre chilometri dalla zona rossa ma non vi rientravano, per quale motivo?”. E ancora: “Tutti i pendolari in quei giorni andavano a Milano e lo facevano partendo da Lodi. Molti miei pazienti mi chiedevano giorni di malattia, perché a Milano, dove lavoravano, venivano considerati untori e rispediti a casa”. Il permesso per malattia non era consentito se non per coloro che rientravano nella zona rossa. Non vi è dubbio che fu un azzardo non ricomprendere Lodi nei check- point. E questo anche perché, dopo la chiusura degli ospedali di Codogno e Casalpusterlengo, tutti i malati in quei giorni furono dirottati sull’ospedale di Lodi. “L’ospedale – continua Vajani – in quelle due settimane era sotto assedio. Anche perché lì arrivavano pazienti non Covid che avevano bisogno del pronto soccorso, il contagio in questo modo si è diffuso e subito le terapie intensive hanno collassato”. In città arrivavano pazienti e parenti. Bar e locali erano aperti. Sarebbe stato meglio – sostiene il presidente dell’Ordine dei medici di Lodi – “tenere aperto Codogno (riaperto il 4 giugno, ndr) e attrezzarlo con percorsi differenziati tra Covid e non Covid, magari con tende di triage esterne”. Sempre Vajani, intervenuto a un incontro dell’associazione Lodi liberale, presente anche l’assessore al Welfare Giulio Gallera, ha spiegato: “Nei primi momenti dell’emergenza – riporta il Cittadino – ci siamo trovati a gestire la situazione senza direttive. Non c’è mai stata una voce unica che desse indicazioni. La Regione parla di previsione fin da gennaio, ma allora perché non è stata procurata una prevenzione sui dispositivi di protezione individuale a fronte di possibile epidemia? Il territorio doveva fare da filtro per evitare che si intasassero gli ospedali”. Nulla di ciò è stato fatto e l’ospedale di Lodi è diventato uno dei più importanti focolai d’Italia, libero di potersi propagare verso Milano.