Omicidio del parà Scieri, l’indagine è chiusa. Accuse di favoreggiamento a un ex ufficiale

Un’inchiesta archiviata per suicidio e riaperta 18 anni dopo grazie alla commissione parlamentare d’inchiesta che in seimila pagine di documenti e 45 audizioni aveva ricostruito i fatti della sera del 13 agosto 1999. Ieri, 21 anni dopo, la Procura di Pisa ha chiuso le indagini per la morte di Emanuele Scieri, l’ex parà di 26 anni caduto dalla torre di asciugatura della caserma “Gamerra” di Pisa. I pm toscani hanno consegnato l’avviso di conclusione delle indagini a cinque militari allora in servizio: ci sono i tre caporali accusati di omicidio volontario – Alessandro Panella, Luigi Zabara e Andrea Antico – ma anche l’ex comandante della Folgore, Enrico Celentano, accusato di false dichiarazioni al pm. La novità è il coinvolgimento di un quinto militare: Salvatore Romondia, oggi 73enne ufficiale in congedo, accusato di favoreggiamento per una telefonata a Panella dopo il ritrovamento del cadavere di Scieri. Secondo i pm di Pisa, la chiamata sarebbe servita a preconfezionare una tesi difensiva: “Abbiamo elementi che dimostrano che il livello di conoscenza dell’episodio fu abbastanza immediato anche da parte della struttura di comando e comportò una serie di reazioni e di organizzazioni di cose che furono messe in atto”, ha detto ieri il procuratore di Pisa, Alessandro Crini.

Gli investigatori hanno ricostruito cosa sarebbe successo quella sera: i tre caporali avrebbero incontrato Scieri mentre stava per fare una telefonata con il cellulare e, dopo averlo scoperto, lo avrebbero obbligato a “svestirsi parzialmente”, a fare “numerose flessioni sulle braccia” prima di colpirlo con pugni sulla schiena e schiacciandogli le dita delle mani con gli anfibi. Il giovane parà avrebbe tentato la fuga sulla scala della torre di asciugatura ma, una volta raggiunto, Panella avrebbe continuato a “percuoterlo” prima di sferrargli un violento “colpo al dorso del piede sinistro” facendolo precipitare da un’altezza di cinque metri. Secondo gli investigatori, Scieri sarebbe stato abbandonato agonizzante ed è morto poco dopo. Alla base dell’accusa la lunga perizia svolta dalla professoressa Cristina Cattaneo dell’Università di Milano sui resti riesumati di Scieri: nuove lesioni sul corpo dell’ex parà spiegherebbero le dinamiche della sua morte tra cui una ferita al piede compatibile con un corpo contundente e le lesioni alle mani che secondo i pm sarebbero legati “ai pestoni subiti mentre Scieri aveva tentato di arrampicarsi sulla torretta”. Anche la Procura militare ha chiuso le indagini nei confronti dei tre caporali fissando l’udienza preliminare al 17 luglio. “Il clima è cambiato – ha detto ieri la mamma di Scieri, Isabella Guarino – a mio figlio dico che finalmente si sta facendo giustizia”.

Il mistero di un altro “angelo della morte”. Infermiere arrestato: “Ha ucciso 8 anziani”

La strage non l’ha fatta il virus, l’avrebbe fatta un infermiere di 57 anni, un padre di famiglia, molto prima che il Covid-19 portasse via migliaia di anziani ospiti delle Residenze sanitarie assistenziali di tutta Italia. Così ieri è stato arrestato al termine delle indagini dei carabinieri coordinate dalla Procura di Ascoli Piceno. È accusato di aver ucciso otto anziani e di aver tentato di ucciderne altri quattro nella Rsa di Offida (Ascoli Piceno) tra il gennaio 2017 e il febbraio 2019 somministrando volontariamente farmaci letali: in un caso promazina in dosi eccessive, in un altro insulina in un soggetto non diabetico. L’infermiere sapeva già di essere indagato a piede libero e da tempo gli erano state assegnate mansioni che non prevedono il contatto diretto con gli anziani. All’origine dell’inchiesta la segnalazione di un rilevante “picco di mortalità” e le dichiarazioni di un’operatrice socio-sanitaria. Ieri l’ordine di arresto disposto dal gip su richiesta della Procura. Il suo avvocato, Tommaso Pietropaolo, respinge le accuse. Dice che nell’ordinanza “manca il movente” e “non sussistono le esigenze cautelari”.

“Pestato in cella”. Tre poliziotti accusati di tortura

Tre agenti di polizia penitenziaria in servizio a Ferrara rischiano di essere processati per il reato di tortura. A fine settembre 2017, dopo aver costretto un detenuto 25enne a spogliarsi, lo avrebbero ammanettato e picchiato “con crudeltà e violenza” costringendolo a subire un “trattamento inumano e degradante per la dignità della persona” secondo l’accusa della pm Isabella Cavallari che ha coordinato le indagini dei carabinieri. I tre, un sovrintendente di 55 anni e due assistenti capo di 49 e 51 anni, sostengono di essersi difesi da un’aggressione e per questo rispondono a vario titolo anche di falso e calunnia. L’udienza preliminare è fissata per il 9 luglio, potrebbe essere il primo processo per tortura a Ferrara da quando è stato istituito il reato nel 2017. Secondo l’accusa il terzetto di agenti penitenziari si sarebbe alternato nelle percosse e nel ruolo di “palo”. A scatenare il pestaggio sarebbe stato il sovrintendente che avrebbe colpito il detenuto con calci allo stomaco e con un oggetto di ferro, rimediando poi una testata e la rottura di un dente. Alle grida di aiuto del 25enne lo stesso sovrintendente avrebbe risposto urlando: “Qui non c’è nessuno, comandante e ispettore sono solo io”. A questo punto il secondo agente sarebbe entrato nella cella dicendo “ora tocca a me” e lo avrebbe picchiato e insultato, seguito poi dal terzo collega. La vittima sarebbe poi stata lasciata ammanettata e inginocchiata fino a quando non è stata notata dal medico del carcere, durante il giro tra le sezioni. Insieme ai 3 agenti è accusata di favoreggiamento e falso anche un’infermiera del carcere Arginone che ha dichiarato di aver visto il detenuto sbattere la testa contro la porta blindata. Il detenuto, che ha avuto una prognosi di 15 giorni ed è stato spostato a Reggio Emilia, è in carcere per omicidio: nell’estate del 2016 uccise il compagno con una mannaia in un appartamento nel Ravennate affittato per la stagione estiva.

Salvini si dimentica dei 49 milioni e attacca: “Al governo c’è il modello Cgil-Venezuela”

I pentastellati fanno quadrato: tutti uniti, compreso Alessandro Di Battista. Il caso dei 3,5 milioni che sarebbero stati consegnati a Gianroberto Casaleggio nel 2010 ha riportato indietro le lancette dell’orologio mettendo la sordina allo scontro a distanza tra il fondatore Beppe Grillo e lo stesso Di Battista. Adesso che gli avversari agitano la clava adombrando il sospetto che le posizioni pro Chavez espresse in passato dal Movimento non fossero esattamente disinteressate, si cerca di rispondere come si può. Specie a Lega e Fratelli d’Italia, i più duri nel denunciare i presunti finanziamenti dal Venezuela. “Alcuni partiti invece di dedicarsi ai problemi dei cittadini, preferiscono lo sciacallaggio politico su fake news”, polemizzano in una nota i parlamentari M5S. “Ancora più assurdo è che a gestire l’ignobile attacco è una Destra compromessa che non ha mai fatto luce sui propri finanziamenti dall’estero o sui rapporti di alcuni esponenti con la criminalità organizzata. Giusto per ricordare: chi ha rubato i 49 milioni di euro alla collettività italiana? Chi è stato coinvolto in inchieste su presunti rapporti con la ‘ndrangheta?”.

Dall’altra parte della barricata il fuoco di fila di dichiarazioni dell’opposizione e degli alleati di governo. A cominciare da FdI che chiede non solo una commissione d’inchiesta per far luce sui condizionamenti del regime di Maduro sulla nostra politica interna. Ma che con la leader Giorgia Meloni arriva a sollecitare “che la magistratura sia celere nell’indagare sulle numerose ipotesi di reato e che il governo chiarisca immediatamente in aula”. E già, perché ora per l’affaire venezuelano l’opposizione punta l’esecutivo, accusato dalla Lega di flirtare con regimi sanguinari e dittatoriali. E che fa dire a Matteo Salvini: “Mi vergogno di essere italiano: al momento al governo c’è un modello misto Cgil-Venezuela”. A ruota anche Antonio Tajani di FI che annuncia un’interrogazione urgente all’Alto rappresentate dell’Ue per gli affari esteri e la sicurezza, Josep Borrell, per sapere chi in Europa e per quanto tempo ha ricevuto finanziamenti illeciti dal regime sudamericano.

E gli alleati di governo? Imbarazzata la risposta di Graziano Delrio, capogruppo Pd alla Camera: “Ogni partito ha le sue dinamiche, i suoi rapporti e le sue relazioni”. Maliziosa quella dei renziani di Italia Viva: “Non so se le notizie siano vere, lo scopriremo con le indagini e il passare del tempo”, dice Davide Faraone, capogruppo al Senato. Che affonda il colpo: “Una cosa però la so, noi non riserviamo la stessa giustizia sommaria che loro, i 5 Stelle, ci hanno riservato in questi anni”.

Abc e i suoi fratelli: lo scoop su Zapatero e l’assalto della destra

Un colpo all’Italia e uno alla Spagna. Mentre il quotidiano Abc pubblicava in prima pagina “Il chavismo finanziò con 3,5 milioni di euro il Movimento 5 Stelle ora al governo in Italia”, l’altro quotidiano iberico di riferimento della destra cattolica El Mundo metteva in prima un altro titolo-bomba: “L’ambasciatore di Zapatero in Venezuela, passò denaro off shore alla vicepresidenza di Hugo Chavez”. Il link fra i due articoli lo sancisce Marcos Garcia Rey, autore del primo, ritwittando il secondo. Garcia Rey, tra i fondatori del Master del Mundo in data journalism dell’Università Juan Carlos di Madrid, sostiene di aver “verificato tramite più fonti” la notizia della valigetta di denaro che sarebbe arrivata a Milano per Gianroberto Casaleggio tramite il console Giancarlo Di Martino, il quale ha smentito di aver fatto da intermediario. “Sono sicuro del mio lavoro”, ha spiegato il giornalista freelance, fino ad aprile al Confidencial e membro del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi vincitore del Premio Pulitzer per i Panama Papers, dopo che, come riportava il sito di Abc, “lo scoop venezuelano era l’apertura di tutti i quotidiani italiani online”. Ad appoggiarlo, il vicedirettore del giornale, Luis Ventoso, che ha ribadito “l’attendibilità assoluta dell’articolo” e la veridicità del documento pubblicato.

Così, mentre in Italia l’esclusiva sul M5S irrompeva nel dibattito politico, quella del Mundo su Zapatero chiudeva lo scontro interno. Da settimane, la stampa di destra rilancia le accuse da parte dei Popolari al governo Sanchez/Podemos sulla gestione della manifestazione dell’8 marzo, a detta loro, focolaio dell’epidemia di Covid a Madrid. Un dossier fake, simile a quello creato dalla destra per gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004, scriveva sabato il quotidiano online vicino a Iglesias, eldiario.es. Il giornale ricordava che come l’allora premier, José Maria Aznar, aveva teorizzato che ci fosse la mano dell’Eta, il terrorismo basco, dietro alle quattro esplosioni alla stazione di Atocha, pur sapendo già della pista di al Qaeda, così oggi il leader del Pp, Pablo Casado, voleva attribuire a Sanchez il Covid. “È un tentativo di far cadere il governo, come fecero con il mio”, ha assicurato in un’intervista sempre a eldiario, l’ex premier Zapatero. E proprio sul suo ambasciatore a Caracas sono le rivelazioni di ieri del Mundo, lo stesso giornale che, nel 2004, raccolse l’intervista all’allora candidato di destra contro Zapatero, Mariano Rajoy, che assicurava che la responsabilità morale degli attentati fosse di Eta e basta. Zapatero ieri ha negato di essere al corrente del denaro passato tra le mani del diplomatico a Caracas, con cui non aveva alcun legame.

Lo scontro sul Paese sudamericano, tuttavia, non è recente in Spagna e in molti casi è stato utilizzato come arma contro socialisti e Podemos. Non ultima la notizia che proprio Abc pubblicò a gennaio sull’incontro all’aeroporto di Madrid tra il ministro dei Trasporti, José Luis Abalos con Delcy Rodriguez, la vicepresidente di Maduro. Sanchez spiegò che Abalos era intervenuto per evitare che la numero due di Maduro atterrasse in suolo spagnolo, contravvenendo alla moratoria internazionale. Sempre Caracas è stata al centro d’inchieste sui finanziamenti a Podemos. Alla formazione di Pablo Iglesias si imputa di aver ricevuto 7,1 milioni di euro in consulenze, tramite una fondazione di cui il leader era membro, dal governo di Chavez tra il 2002 e il 2012. A far riferimento alla “mitomania dei media della destra mondiale contro il Venezuela” su Twitter è stato il ministro degli Esteri di Maduro, Jorge Arreaza. “Riciclano vecchie fake news con sensazionalismo spudorato. Intraprenderemo azioni legali. Basta!”, ha assicurato Arreaza.

“Da Chávez soldi ai 5S”. I tre buchi del dossier

C’è l’intestazione, il timbro e poi qualche dubbio riguarda anche la data. Stando ad alcune indiscrezioni raccolte dal Fatto, sono i primi risultati di una perizia disposta dal ministero degli Esteri del Venezuela sul documento che ieri è diventato un caso politico, specie alla luce delle posizioni tenute dai 5Stelle, che non hanno mai appoggiato il tentativo di Juan Guaidò di rovesciare il governo di Maduro.

Stiamo parlando della notizia pubblicata dal giornale di destra spagnolo Abc che ha annunciato di aver visionato documenti secretati dei servizi di Caracas dai quali si evince che nel 2010 il governo dell’allora presidente Hugo Chavez avrebbe finanziato il Movimento 5 Stelle con una valigetta contenente 3,5 milioni di euro. Il denaro sarebbe stato spedito da Nicolas Maduro, oggi alla guida del Paese e al tempo ministro degli Esteri, al console venezuelano di Milano, Giancarlo di Martino. Quest’ultimo a sua volta avrebbe fatto da intermediario con Gianroberto Casaleggio (deceduto nell’aprile del 2016). È la ricostruzione fornita dal giornale spagnolo, che ieri ha ricevuto una raffica di smentite. A cominciare da Davide Casaleggio: “Tutto totalmente falso – ha detto il figlio di Gianroberto –. È una fake news uscita più volte, l’ultima nel 2016. Dalle smentite ora passeremo alle querele”. Anche fonti dell’ambasciata venezuelana a Roma parlano di “un documento falso”. “Ci sono tanti punti incongruenti in una nota che è falsa e contraffatta”, aggiungono. E infatti il ministero degli Esteri ha già disposto una perizia su quel documento.

L’atto segreto, lo “scoop” di Abc

L’atto riporta la data del 5 giugno 2010 ed è classificato come “segreto” dalla direzione generale dell’intelligence militare del Venezuela. Qui si parla dei 3,5 milioni di euro destinati al Movimento 5 Stelle, somma che – spiega il giornale spagnolo – sarebbe stata attinta da fondi riservati amministrati dall’allora ministro dell’Interno (oggi al dicastero dell’Economia), Tareck el Aissami, “che era ed è una delle persone nella cerchia di fiducia di Maduro”, il quale a sua volta avrebbe autorizzato il trasferimento di denaro. Secondo Abc, destinatario di quei presunti fondi neri sarebbe stato Gianroberto Casaleggio, che nel documento viene definito come promotore di un movimento “rivoluzionario di sinistra e anticapitalista nella repubblica italiana”.

I dubbi su intestazione, data e simbolo

Sulla validità di questo documento è in corso una perizia “di parte”. È stata infatti disposta dal ministero degli Esteri venezuelano. Non è ancora conclusa. “Stiamo aspettando l’informazione più approfondita da parte del ministero degli Esteri – spiegano fonti dell’ambasciata venezuelana a Roma –, ma ci hanno già spiegato i risultati di una prima parte della perizia della nota”. Sarebbero dunque quattro i punti “incongruenti” evidenziati da una prima analisi dei periti. A cominciare dall’intestazione.

Il documento pubblicato dal quotidiano spagnolo riporta in alto: “Ministerio de la Defensa”. Secondo fonti dell’ambasciata venezuelana a Roma, questo basta per dimostrare che non si tratta di un atto “interno”: “Abbiamo cambiato i nominativi dei nostri ministeri nel 2007 – spiegano dall’Ambasciata –. Da allora tutti si chiamano ‘ministerio del poder popular’ e così via. In quella nota del 2010, fatta tre anni dopo questa modifica, non c’è il cambio del nominativo del ministero”. Insomma l’intestazione sarebbe dovuta essere “Ministerio del Poder Popular para la Defensa”.

Un altro dubbio riguarda il simbolo dello Stato riportato sul documento. “Il simbolo è stato modificato nel 2006: da allora la testa del cavallo è rivolta verso sinistra. Non corrisponde neanche il timbro, quindi”. Altro aspetto, ma meno rilevante rispetto ai precedenti, spiegano dall’ambasciata, riguarda la dicitura “director general inteligencia militar”: “Anche questa non è esatta”. E poi dei dubbi riguardano la data riportata. “Nelle prossime ore – aggiungono – sapremo di più. Stiamo aspettando l’informazione più approfondita da parte del ministero degli Esteri”. Che nel frattempo, via Twitter, annuncia azioni legali.

Il giornalista: “Tutto vero, ho altre prove”

Ieri ha smentito la ricostruzione riportata da Abc anche il console venezuelano a Milano, Giancarlo Di Martino: “Smentisco totalmente” di aver agito da intermediario per fare arrivare i soldi al M5S, ha detto. “A Madrid c’è la cupola dell’ultradestra fascista venezuelana e credo che il documento sia stato prodotto proprio lì”, ha aggiunto.

Mentre i giornalisti autori del presunto scoop non arretrano. Marcos Garcia Rey, firma dell’articolo, in un’intervista al sito Open ha ribadito: “Non ho dubbi che questa valigetta in contanti sia arrivata in Italia (…) e che Di Martino abbia fatto da intermediario tra il governo di Hugo Chavez e il Movimento 5 Stelle. Ho pubblicato il documento, ma ho altre prove che ciò che vi è scritto sia la verità”.

Adesso, con tutte le querele annunciate, la questione dai giornali potrebbe trasferirsi in tribunale.

 

I pareri

 

Domani Di Battista può essere una risorsa, ma dentro a un direttorio insieme ad altri
Andrea Scanzi

L’uscita di Alessandro Di Battista è un suicidio politico. Un harakiri strategico. E un regalo a chi odia questo governo e il M5S. Immagino che, vedendo l’intervista, i Renzi, Salvini e Meloni abbiano goduto come ricci. Non solo: mi immagino la gioia dei Di Maio, Bonafede, Patuanelli eccetera, che son lì a sporcarsi e sgobbare (dentro una pandemia) tra tensioni e responsabilità. Poi arriva Di Battista, fresco come una rosa, e pontifica dall’alto minandone il lavoro: son soddisfazioni!

L’uomo è certo onesto, passionale e sincero. Può dire quello che vuole. Ma non è “un cittadino come gli altri”. Ogni volta che apre bocca così, sembra Renzi con Letta (“Conte stai sereno”). Certe cose dovrebbe dirle in privato ai suoi (non in tivù). Può essere eccome una risorsa dentro un direttorio con altre 4/5 figure di spicco. Ma è del tutto controproducente come “picconatore a sua insaputa di se stesso” (e del movimento). Decida cosa fare da grande. La smetta con ’sta boiata del “destra sinistra pari sono”. Ammetta che sopravvalutò la buonafede della Lega nel governo Conte I. E chieda scusa per avere detto che il vero movimento è quello di Paragone, uno che – quando venne cacciato – definì “nullità” i parlamentari grillini.

 

Nessun parricidio. Nulla di disdicevole: l’esasperazione porta al cambiamento
Daniela Ranieri

La polemica tra Di Battista e Grillo – o comunque si voglia chiamare l’irrisione del fondatore verso la proposta del frontman del M5S di un congresso – sarebbe normale dialettica interna se il M5S avesse superato le sue febbri di crescita. A meno di pensare che Di Battista abbia rinunciato più volte a incarichi politici per covare sufficiente rancore e sia stato addestrato dal deep state americano in qualche base del Venezuela per rovesciare Conte, il suo afflato deve essere considerato sincero. Non c’è nulla di disdicevole nel portare l’attenzione sul tema ambientale, il conflitto d’interessi, la rissa per accaparrarsi i soldi Covid da parte dei soliti gattopardi, se pensa che la leadership attuale non lo stia facendo. La posta in gioco non è il parricidio (Di Battista farebbe prima a iscriversi a Italia Viva, se pensa di poter assassinare Grillo e Conte restando indenne in politica), ma il rapporto di ciascuno dei due col cambiamento: Di Battista vuole che il M5S cambi; ma vuole che cambi perché pensa che debba restare uguale all’immagine originaria. Elezione del capo politico (antico rituale del nuovo) o segreteria di partito? È una questione identitaria, che Grillo vede come l’ennesimo candelotto di dinamite sotto il governo e risolve con la metafora del Giorno della Marmotta, il ritorno del sempre uguale che non ammette l’impermanenza di tutte le cose. Ma nel film era proprio l’esasperazione per la routine cristalizzata a produrre il vero cambiamento: che parte da dentro, cioè dall’animo, come tutte le rivoluzioni.

 

Ricatti interni. “Dibba” non sia l’equivalente di Renzi, minando così la stabilità di conte
Nadia Urbinati
La proposta di Alessandro Di Battista creerebbe una situazione simile a quella del 2013, quando Matteo Renzi diventò segretario del Pd con al governo Enrico Letta, imponendo poi i suoi ricatti fino a condizionare l’esecutivo. In questo caso, però, sarebbe ancora più grave, intanto perché all’epoca Renzi conquistava un partito che già esisteva, mentre il Movimento nasce come anti-partito e dunque si sta cercando di cambiarne la natura, e poi perché in una fase come questa è da irresponsabili mettere a rischio l’esecutivo. Siamo ancora a un passo dal baratro, con persone che non vedono come uscire dalla crisi. Mi sembra chiaro che Di Battista, qualora si prendesse il Movimento, punterebbe invece a minare la posizione di Conte: oggi l’ex parlamentare è l’equivalente da fuori di quello che è Matteo Renzi dentro al governo.
Oltretutto, con un po’ di diffidenza, mi viene da pensare se dopo essere uscito dalla politica ed essere stato solo un privato cittadino, Di Battista torna proprio adesso, quando ci prepariamo a gestire la fase di uscita dall’emergenza e ci saranno da gestire i miliardi di aiuti che arriveranno dall’Europa, dunque può far valere il suo indirizzo. Questi giochi partitici sono peggio della Prima Repubblica.

Torna Grillo e stavolta fa un passo in avanti

Il fondatore è tornato e va di corsa. Non ha voglia di discutere: gli interessa solo proteggere il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il suo governo. Tutto il resto è relativo per Beppe Grillo, il Garante del M5S, che domenica ha strapazzato addirittura Alessandro Di Battista, reo di invocare un congresso per il Movimento. E sarebbe un sisma per i 5Stelle e soprattutto un rischio per il premier, che ieri ha schivato l’argomento: “Non ho sentito Grillo e non mi sento di valutare vicende di singole forze politiche che compongono la maggioranza, e dico a tutti che sarò contentissimo se tornerò a fare quello che facevo”. Ma il Garante vuole che resti dov’è, per anni. Così domenica ha punito Di Battista accostandolo ai terrapiattisti e ai manifestanti in arancione del generale Pappalardo, schizzi al curaro in un tweet per abbattere la statua dell’ex deputato. “Beppe non vuole sentire ragioni, è pronto anche a tornare capo per acclamazione se sarà necessario per tenere la rotta”, avverte un big che lo conosce bene. E d’altronde il Fatto aveva già raccontato giorni fa della sua battuta scandita in qualche telefonata: “E se tornassi io come capo?”. Rideva, Grillo, dall’altro capo dello smartphone. Ma non scherzava. Certo, ora il suo primo progetto è un altro, costruire una segreteria, un organo collegiale, per schivare la conta chiesta da Di Battista.

Il ritorno del caminetto per preparare la svolta

Per questo nei prossimi giorni dovrebbe riunirsi il caminetto dei big del Movimento, lo stesso delle riunioni della scorsa estate per preparare governo con il Pd. Un vertice a cui stanno già lavorando il reggente Vito Crimi e soprattutto l’ex capo Luigi Di Maio, che ieri a L’aria che tira è stato chiaro: “Non credo che un congresso serva all’Italia, dobbiamo restare uniti”. Nella riunione si ragionerà sulla segreteria: su come comporla, con quanti membri (l’ipotesi di partenza è 5-6) e con quali poteri. Probabilmente senza un capo che faccia da primus inter pares, come ha proposto ieri sul Fatto Paola Taverna, e come – dicono – voglia proprio Grillo. Non è affatto un dettaglio, anche perché per passare dal capo politico a un organo collegiale bisognerà comunque cambiare lo Statuto, quello calato nel dicembre 2017 da Di Maio con l’avallo di Davide Casaleggio, l’ormai ex sodale di ferro, e il silenzio assenso di Grillo. Tre anni dopo servirà una modifica delle norme che andrà votata dall’assemblea degli iscritti, sulla piattaforma web Rousseau. A meno che non si vari un organo provvisorio, un Direttorio 2.0 come ha proposto ieri Roberta Lombardi, per accompagnare il M5S agli Stati generali in autunno e poi costruire il nuovo assetto. Norme alla mano, potrebbe nominarlo direttamente il Garante, cioè Grillo, a cui è attribuito “il potere di interpretazione autentica dello Statuto”.

Il monito del fondatore ai grillini distratti

Comunque vada si passerà dal fondatore, che prima di mordere Di Battista domenica aveva diffuso un post, “La nostra prima stella”, esortando gli eletti a dare seguito al referendum sull’acqua pubblica. “Cosa stiamo aspettando?” chiedeva Grillo. Sillabe di peso, fa notare un grillino di rango: “Pochi l’hanno notato, ma con quel post Beppe ci ha tirato le orecchie, ricordandoci perché siamo in Parlamento. E ci ha parlato da padre nobile come non faceva da tempo”. Convinto che il punto di riferimento dei 5Stelle debba essere Conte, a cui ieri sempre sul Fatto Taverna ha chiesto di “accompagnare il percorso del Movimento”. E in serata Di Maio l’ha imitata: “Se Conte desse una mano al M5S sarei contento”. Perché il premier ora è necessario, anche a lui. Ma restano tanti nodi. C’è l’insofferenza di tanti parlamentari e dei territori, fortissima nel Nord dove il Movimento è dato moribondo dai sondaggi: e infatti due grillini di peso come Stefano Buffagni e Jacopo Berti chiedono da tempo più rappresentanza e politiche apposite per i 5Stelle sopra Roma. E poi c’è l’incognita che non si può risolvere con un tweet, Davide Casaleggio. Perché i big, anche per accontentare il corpaccione parlamentare, vogliono togliergli potere, cioè la gestione della piattaforma Rousseau: la macchina operativa, che in pancia ha anche l’elenco degli iscritti. Un’altra possibile guerra in punta di norme. E la segreteria servirebbe anche a questo, a ingabbiare Di Battista, ma anche il suo principale sponsor, il figlio di Gianroberto. Perché anche questa sarà la partita degli Stati generali: decidere chi e come gestirà il web, il liquido amniotico del Movimento.

Dibba insiste: “Ma niente scissione”

In mezzo alle schegge, però, c’è sempre Di Battista, che domenica a Mezzorainpiù è stato scorbutico con Conte, paragonandolo a Mario Monti. Però giura di non voler tirare giù il premier, e a Palazzo Chigi gli credono, convinti che l’ex deputato non sia una minaccia. Sa che molti parlamentari hanno accolto come una liberazione il tweet di Grillo, compatti contro di lui. Ma tira dritto: “Dalla Annunziata sono riuscito a prendere diverse posizioni, cose che ribadisco e per le quali lotterò”, ha scritto ieri su Facebook. E comunque “se Grillo non è d’accordo quando parlo di congresso amen” ha sibilato a Quarta Repubblica. In questi giorni sarà spesso in tv “per sostenere le mie idee”, ha spiegato ai suoi. Però assicura: “Ma quale scissione, io il Movimento voglio rafforzarlo”. Teme l’etichetta di pifferaio della spaccatura. Ma una faglia c’è nel M5S per cui l’obiettivo è innanzitutto sopravvivere. Anche perché tra il dire e il programmare c’è di mezzo una votazione sul Mes, il fondo salva-Stati, su cui il governo potrebbe farsi malissimo. Qualche 5Stelle teorizza che si può rinviare a dopo l’estate. “Ma arriverà e noi non potremo dire di sì”, riassume un big. Preoccupato: “Rischiamo di cadere”. E altro che congresso.

Dem, migliora il bilancio. Ma Iv fa perdere 2 milioni

II Pd migliora i propri conti, ma la scissione renziana è costata un paio di milioni di euro solo nel 2019. È quanto emerge dal bilancio dei dem pubblicato ieri, il primo che fa riferimento alla gestione di Nicola Zingaretti, divenuto segretario a marzo dell’anno scorso. La differenza tra entrate e uscite è in positivo di 682 mila euro, in miglioramento rispetto al rosso da 612 mila euro dell’anno precedente.

A colpire però sono alcune voci del bilancio, le cui variazioni sembrano riconducibili proprio alla fuoriuscita di Matteo Renzi e di una quarantina di parlamentari, avvenuta a settembre ma preparata prima, tanto che l’ex premier in primavera raccoglieva fondi per i Comitati civici.

E così le “contribuzioni da persone fisiche” nel 2019 sono pari a 2,7 milioni, contro i 4,7 del 2018. In questa voce confluiscono i versamenti mensili dei parlamentari, che finanziano il partito autotassandosi per 1.500 euro al mese. La scissione ha privato il Pd di almeno 4 mensilità per ognuno dei renziani, sorvolando su eventuali morosità (lo stesso Matteo Renzi in tutto il 2019 ha girato “solo” 6.500 euro al partito).

Il saldo è quindi in negativo di 2 milioni, un dato peggiorato dal fatto che nei primi mesi del 2018, fino alle elezioni politiche di marzo, il Pd poteva contare su molti più parlamentari rispetto a quelli della nuova legislatura. Ma c’è di più, perché la nascita di Italia Viva potrebbe avere avuto conseguenze anche sulle “contribuzioni da persone giuridiche”, i versamenti di società, aziende ed enti. Cifre più basse, ma in cui il crollo percentuale è palese: dai 129 mila euro del 2018 si passa ai 13 mila del 2019. Diverse aziende, quindi, hanno smesso di finanziare il partito col nuovo corso zingarettiano. Opposta, invece, la tendenza sul contributo derivante dal 2×1000 dei cittadini: il Pd ha incassato 8,4 milioni nel 2019, contro i 7 milioni del 2018: 1,4 milioni in più. Preziosi, insieme al contenimento dei costi, per sistemare il bilancio.

“Conte serve a tutti i giallorosa: avanti fino al voto sul Colle”

Non ha dubbi Goffredo Bettini, padre nobile Pd: Conte è una carta che la maggioranza dovrebbe decidere insieme come giocarsi, anche in futuro. Una delle opinioni che pesano di più nel Pd post-Renzi.

Dove va il Pd?

Con Zingaretti ha ritrovato una linea politica, una unità interna, una maggiore consistenza elettorale. E governa il Paese in una stretta drammatica. Siamo il baricentro dell’esecutivo, abbiamo Gualtieri, un ottimo ministro del Tesoro. Grazie innanzitutto all’Europa, per la prima volta disponiamo di risorse ingenti da investire: dobbiamo onorare le responsabilità e la fiducia che ci sono state date. L’identità del Pd è in questa funzione nazionale. Se non ora, quando si può tentare di salvare l’Italia cambiando i suoi difetti antichi e le strozzature che ne hanno impedito la crescita e l’equilibrio sociale?

Ci sarà un congresso?

Non ne sento l’esigenza. Noi giustamente chiediamo a Conte di mettere in campo progetti concreti. Bene. Ma intanto cominciamo a fare il nostro dovere. L’assemblea proposta da Zingaretti a luglio dovrebbe concentrarsi esclusivamente sulle priorità che noi indichiamo per i prossimi mesi. Per fortuna ancora non dilagano lo sconforto e la rabbia, ma i cittadini aspettano risposte urgenti. Guai a fallire.

Il bilancio del governo?

Buono. Senza trionfalismi. Siamo riusciti a tamponare l’emergenza, abbiamo cercato di non abbandonare nessuno, abbiamo sostenuto famiglie, lavoratori e imprese. Abbiamo combattuto bene in Europa. E ora stiamo cercando di delineare il futuro. Errori, ovviamente, ce ne sono stati. La Repubblica ha retto, non era scontato. Conte è apparso un gigante rispetto ai vari Johnson, Bolsonaro, Trump, che per difendere una ideologia inumana e di destra hanno sacrificato migliaia di vite dei loro connazionali. Se da noi ci fossero stati Salvini e Meloni avrebbero fatto lo stesso.

Dopo Conte che succede?

Dopo Conte per il Pd c’è il voto.

La legislatura reggerà fino alle elezioni del Colle?

Penso di sì. Sarebbe una follia politica interrompere il tentativo di questo governo di risollevare e cambiare l’Italia e anche l’opportunità di eleggere un presidente della Repubblica democratico.

La guerra nell’ M5S mette in pericolo il governo?

Per certi aspetti, alcuni nodi all’interno del M5S è anche giusto che vengano finalmente sciolti. Alla fine, confido nella autorevolezza, l’intuito e la volontà unitaria di Grillo, che è stato, in questi mesi, molto più importante di quanto sia apparso pubblicamente.

E le rivalità nel Pd? C’è un Franceschini meno entusiasta di prima.

Non ho mai visto i leader del Pd così concordi e impegnati per un obiettivo comune. È merito di Zingaretti. Ma anche, molto, di Franceschini, dedito fino allo sfinimento nel coordinare, per il Pd, l’azione di governo. E di Orlando, che ha dato anima alla nostra azione politica. E poi di tutti gli altri, da Guerini a Martina. Semmai, ora che vengono avanti scelte strategiche, mi piacerebbe un confronto perfino più vivace.

Una valutazione sugli Stati generali.

Conte in dieci minuti ha detto che dobbiamo modernizzare il Paese, renderlo nella sua crescita ecologicamente compatibile e più giusto e inclusivo socialmente. Sottoscrivo al 100%. Da tempo un premier italiano non esprimeva insieme e con tanta chiarezza obiettivi così importanti. Il Pd ha solo rilevato che questo evento poteva essere preparato in maniera più collegiale e con più tempo. Conte ha ascoltato. È solo l’inizio di un confronto che si deve concludere presto con progetti definiti e realistici.

Ha detto no all’appoggio del Pd al Raggi bis. È la fine del tentativo di alleanza organica Pd-M5S?

Sulla Raggi, il Pd dà un giudizio di merito: non ha ben governato Roma. Non ci sono altri motivi. Questo non significa affatto la rottura dell’alleanza con i 5Stelle al governo. Ci mancherebbe! D’altra parte, in tante realtà amministrative e regionali, il M5S ha scelto di non allearsi con il Pd. Per quanto riguarda la candidatura a Roma, non è iniziata ancora una discussione vera tra i democratici. Consiglio di aprirla presto.

Si racconta di un avvicinamento di Zingaretti a Berlusconi.

Sono retroscena un po’ fantasiosi. Berlusconi si è distinto dal nucleo della destra sovranista. E questo è un bene.

Il Pd deve appoggiare un eventuale partito di Conte?

Conte ha un consenso vasto sulla sua persona. Il modo attraverso il quale vorrà spenderlo spero possa essere riflettuto insieme all’interno di tutta la maggioranza.

Possibile un ritorno degli ex LeU?

LeU è un pezzo fondamentale della maggioranza. Speranza si è comportato molto bene; con efficacia e sobrietà. Credo ci si possa ritrovare insieme in un processo di allargamento e di rifondazione del campo socialista e cattolico-democratico.