L’intesa tra governo e sindacati irrita Salvini&Confindustria

Non è un governo tutto “Venezuela e Cgil” come insinua rozzamente Matteo Salvini. Ma certo, a giudicare dalla puntata di ieri degli Stati generali, governo e sindacati stanno vivendo una fase di grande intesa.

Giuseppe Conte, nell’attirare a sé i tre leader di Cgil, Cisl e Uil ascoltati al mattino prima ha annunciato che il Consiglio dei ministri avrebbe varato il decreto per estendere di 4 mesi le 14 settimane di Cassa integrazione già usufruite per l’emergenza Covid, ma anche che gli ammortizzatori sociali vanno riformati. Poi, ha rispolverato alcuni cavalli di battaglia del riformismo storico: il lavoro non solo “come fonte di reddito” ma come fonte di “senso e significato” in nome dell’articolo 4 della Costituzione – “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Ma il premier si è spinto ancora oltre ricordando il “trentennio d’oro” del dopoguerra, quella fase di compromesso keynesiano tra capitale e lavoro che non solo ha consentito la ricostruzione del dopoguerra, ma ha poi portato alle conquiste sociali di fine anni 60.

Così, il programma che Conte ha presentato ai sindacati, basato sulle slide del “programma di Rilancio” ha visto sciorinare oltre alla “riforma e semplificazione degli ammortizzatori sociali”, “il rinnovo della disciplina della Naspi”, “l’istituzione di un salario minimo” o “la detassazione dei rinnovi contrattuali”, il “Documento Unico di Regolarità Contributiva su appalti e subappalti”, il contrasto al caporalato e al lavoro nero, l’incentivazione del welfare contrattuale. C’è spazio anche per una “rimodulazione dell’orario di lavoro” legato all’utilizzo dello smart working, e poi “i contratti di espansione”, il contrasto al part-time involontario o, ancora, “la partecipazione e la co-gestione dei lavoratori in azienda” con un passaggio impegnativo sulla “responsabilità sociale d’impresa” nella prospettiva di “un nuovo paradigma socio-economico, perché l’imprenditore non è solo responsabile verso l’attività economica, ma ha anche una responsabilità giuridica, sociale, morale nei confronti di tutta la comunità in cui opera”.

“A orecchio sento tanti titoli condivisibili e un interesse comune”, ha detto nel primo intervento Maurizio Landini, mentre Annamaria Furlan, della Cisl, ha espresso un “giudizio positivo” sperando però che tutto questo porti a “un patto sociale forte”.

E allora si passa al vero punto dell’incontro, al di là dell’esposizione delle reciproche priorità. I sindacati si rendono conto che il premier ha in testa un dialogo forte e sincero con i sindacati – da segnalare che nel pomeriggio sono stati invitati anche i sindacati più radicali come Cobas e Usb –, ma vogliono capire come tutto questo si traduca in “accordi scritti”. Landini ha fatto l’esempio del Patto sulla sicurezza, concordato tra sindacati e governo e tradotto in un Dpcm: “Non pretendo che ogni nostro accordo diventi legge – ha chiosato – ma vorremmo capire come parteciperemo alla realizzazione dei progetti”.

Che saranno tanti e con risorse mai viste prima. La partita è tutta qui, nell’impiego dei fondi e quindi in una trattativa che ha un interlocutore ieri apparentemente assente, ma presente nella testa di tutti. Dal canto suo, Carlo Bonomi, nuovo presidente di Confindustria, si è fatto sentire tenendo una conferenza stampa per i giornalisti esteri in cui ha annunciato che si presenterà agli Stati generali con “un piano” di cui, addirittura, avrebbe fatto “un libro”.

“Benissimo – ha ironizzato Conte – vuol dire che la mia battuta sul fatto di non presentarsi solo con il taglio delle tasse ha funzionato”. Punzecchiature che misurano la distanza tra i due che, a parte il dettaglio su quanti soldi saranno allocati qui o là (Irap, incentivi, finanza agevolata, grandi opere) ha come sfondo uno scontro più ampio. Ieri, Bonomi non ha attaccato casualmente “la disastrata gestione dello Stato imprenditore” in Alitalia e Ilva tanto da irritare anche il paludato Antonio Misiani, viceministro Pd dell’Economia: il timore di uno Stato più forte dopo la crisi pandemica ossessiona gli imprenditori mentre Maurizio Landini propone “un’Agenzia pubblica per lo sviluppo” in grado di orientare gli investimenti e quindi tenere sotto il pieno controllo pubblico le principali leve economiche.

Resta da segnalare la definitiva scomparsa di Vittorio Colao: nel giorno della sua relazione e nonostante i ringraziamenti di Conte per l’operato svolto, i temi della task force sono praticamente accantonati e il programma di Rilancio, al momento, è saldamente nelle mani del presidente del Consiglio. Del resto, questi Stati generali servono anche a questo e a quanto pare stanno funzionando.

Movimento 5Stallo

Capire che succede e succederà nei 5Stelle è più difficile che capire cosa vuole il Pd e a cosa serve Salvini. Perché il M5S non è più un movimento e non è ancora un partito. Ha un capo provvisorio poco carismatico e un fondatore carismatico che ogni tanto si ricorda di esserlo e molti aspiranti leader che si ritrovano a essere molto meno popolari del premier che hanno indicato due volte in due anni, ma che non è neppure iscritto. Comunque, quando una forza politica litiga sulle idee e non sulle poltrone, è sempre un buon segno: di vita. E, checché se ne dica, la rissa innescata da Di Battista con la proposta di “congresso o assemblea costituente” non riguarda le poltrone. Il pasionario pentastellato ha tanti difetti, ma non quello di inseguire cadreghe, avendo passato gli ultimi tre anni a scansarle: no alla ricandidatura, no a un ministero nel governo gialloverde e in quello giallorosa. E ora, diversamente da altri (e altre) big che tramano contro il Conte-2 per agguantare o riagguantare un ministero, è diventato più contiano di tanti finti contiani, ben conscio del valore aggiunto che Conte rappresenta per il M5S (vedi sondaggi) e soprattutto dell’orrore di ciò che verrebbe dopo: un governissimo di larghe intese&imprese per arraffare la cascata di miliardi che sta per piovere dall’Ue.

Di Battista però sconta la fama che lo precede: quella di movimentista sfasciacarrozze, creata dai retroscenisti esterni e dai rivali interni, che però lui negli ultimi anni ha fatto troppo poco per smentire. Domenica poi, rispondendo all’Annunziata sull’ipotesi di Conte leader 5Stelle, ha detto un’ovvietà (“Conte prima dovrebbe iscriversi”), ma ha aggiunto: “Si vota e vediamo chi vince”. E questa frase ha mandato su tutte le furie Grillo, che l’ha vista come una sfida a Conte e come la negazione di ciò che il fondatore ripete ai suoi da settimane: la fase del capo politico con pieni poteri è superata, dunque niente conta all’O.k. Corral che destabilizzerebbe il governo e dilanierebbe i 5Stelle; molto meglio una segreteria allargata a tutte le anime, come il direttorio che l’estate scorsa decise con lui la svolta giallorosa. Soluzione a cui lavorano Di Maio, Fico, Taverna e altri. Questa è la posta in gioco, non certo il partito di Conte o la corsa di Di Battista verso la scissione o altre ipotesi fantascientifiche evocate (anzi auspicate) dai media nel fumettone quotidiano su un movimento mai capito né accettato (vedi la bufala dei soldi da Maduro). Grillo ha ragione da vendere col sostegno a Conte e l’allergia al capo politico unico. Ma Dibba non sbaglia quando denuncia l’afasia programmatica e identitaria del M5S, che non è più quello di prima, ma non è mai diventato qualcos’altro.

Ma, per rendersi credibile, il pasionario dovrebbe chiarire di non voler fare il capo politico con corse solitarie e conte fratricide e di essere disponibile a entrare in una segreteria collegiale che progetti il M5S del futuro. L’identità nebulosa non è un problema solo dei 5Stelle. Che cos’è il Pd? Boh. Cosa vuole la Lega, a parte le sparate contro gli immigrati, le tasse, l’Europa e a favore degli evasori? Boh. E FI? Boh. Il Covid ha cambiato il mondo e i partiti balbettano. Tant’è che il premier, stufo di chiedere proposte e di ricevere risme di fogli bianchi, mette su comitati, task force e Stati generali per riempire il vuoto della politica e sfuggire all’accusa di far tutto da solo. I 5Stelle, ambientalisti e legalitari della prima ora, cultori dei “beni comuni” e del “pubblico” contro la privatizzazione del welfare, partono avvantaggiati nella nuova fase. Ma, assorbiti dalla routine di governo e dalle beghe intestine e incapaci di formare una classe dirigente, non se ne accorgono.

La battaglia sul rinnovamento della Rai l’hanno persa perché (a parte rare eccezioni come Salini e Freccero) non avevano nessun soldato autorevole per combatterla, e si sono ridotti a riciclare vecchie banderuole. E la bandiera della discontinuità all’Eni l’hanno ammainata perché, al momento di indicare un successore credibile dell’eterno Descalzi che passasse al vaglio della diplomazia e del Quirinale, non avevano un manager adeguato nel settore energia. Ora altre sfide cruciali arriveranno al dunque e nessuno sa come la pensino su Mes, decreti Sicurezza e nuove grandi opere (alcune utilissime, altre demenziali e criminogene). E alle Regionali di settembre andranno in ordine sparso: ora col Pd (in Liguria e forse nelle Marche), ora contro il Pd (in Campania, e ci mancherebbe: il Pd riciccia De Luca), ma senza una strategia. Che dovrebbe includere le Comunali del 2021: se il centrosinistra vuole davvero un’intesa organica col M5S,dovrebbe piantarla di far la guerra a Raggi e Appendino (peraltro senza uno straccio di candidato spendibile), magari in cambio del sostegno a figure tutt’altro che impresentabili come Emiliano in Puglia e altri buoni amministratori. Tanto alle elezioni politiche, speriamo nel 2023 o comunque il più tardi possibile, l’unico nome utile per battere i cazzari sarà quello di Conte candidato premier della coalizione giallorosa, non quelli dei leader dei partiti. Ce n’è abbastanza perché chi ha la testa sul collo si metta subito intorno a un tavolo, lasci a casa i soliti sospetti, le nostalgie del tempo che fu e i vecchi rancori, sgombri il campo dalle corse solitarie, formi un vertice di 4-5 persone e metta nero su bianco ciò che solo interessa ai cittadini: le nuove cose da fare.

A memoria di balena Il “mostro” e la letteratura

Se devo essere onesto: non ho mai visto una balena. Potrei rassegnarmi: forse non la vedrò mai, così come magari non vedrò mai l’Isola di Pasqua, la Mecca o l’aurora boreale. Nella vita non si può vedere tutto. Io però per le balene ho una venerazione, un’ossessione (ci fosse ancora TeleMike potrei partecipare al quiz portando come argomento le balene) e allora questa è una mancanza che mi mortifica. Così, per nostalgia e senso di colpa, cerco di incontrare le balene là dove so che non mi scapperanno, nelle storie, nella letteratura; e anche così resto deluso: non le vedo. Cioè, mi spiego, le balene che abitano la storia della letteratura – e sono tantissime! – non sono quasi mai balene; lo diventano nel ricordo del lettore, ma concretamente, quelle che tutti noi ricordiamo come “storie di balene” non parlano di balene. Davvero? Già.

Una delle prime narrazioni in cui una balena ha un ruolo decisivo è il libro biblico di Giona. E il libro più corto della Bibbia, tre capitoli, nemmeno 60 righe, eppure in questo microcosmo appare l’immensità della balena. Giona è un profeta scorbutico e iracondo, il peggior profeta della Bibbia: inviato a Ninive a predicare da Dio in persona (pardon, in spirito) si fa beffe della missione che gli viene affidata, sale su una nave e si fa condurre sulla rotta opposta. Scappa. Sorpreso da una tempesta, addormentato, forse ubriaco, viene scagliato in mare e tra le onde comincia ad affondare. Da qui in poi la storia è nota: prima che affoghi una balena lo inghiotte e lo porta a Ninive (dove ancora litigherà con Dio). La memoria semplifica tutto: Giona è il profeta della balena, anche Melville gli dedicherà un capitolo intero in Moby Dick. Bellissimo, solo peccato che il testo sacro non faccia mai riferimento alla balena. Dio non manda una balena a prelevare dall’abisso Giona, manda – la traduzione è letterale – un pesce grande. E fa differenza? Beh, prima di tutto la balena è un mammifero, non un pesce e se Dio – che appunto è Dio – avesse voluto mandare da Giona una balena non avrebbe avuto problemi a trovarne una. E invece no: manda un pesce grande. Cervellotiche cavillerie, si dirà. E invece no perché il versetto ebraico recita: “E Dio, per Giona, procurò un pesce grande”; la cosa interessante è il verbo procurare. Cioè Dio non manda il primo pesce che gli passa per la testa, ma va in ogni angolo del Mediterraneo a scegliere il pesce giusto, lo procura. E non vuole una balene, è evidente.

Andiamo avanti: Pinocchio. La vicenda è nota: il burattino trova nella pancia della balena Geppetto e i due da lì fuoriescono sfruttando uno starnuto dell’animale (che per altro soffre d’asma). Chi non ha mai pensato alla balena di Pinocchio? Ecco, anche qui: nessuna balena. E se il Dio di Giona è onnipotente ma vago (parla solo di pesce grande), Collodi è molto più preciso e nel testo cita il pesce scelto: un Pesce-Cane. Così, con il trattino, uno squalo. E noi leggiamo squalo e vediamo una balena. Ma perché? C’è un caso ancora più eclatante, il leviatano. Il leviatano è il mostro acquatico prototipico dell’immaginario occidentale. Salta fuori ovunque e lo sanno: è una balena! Ed è curioso perché negli unici testi ebraici in cui viene descritto, il leviatano ha le squame, i denti lunghi, la coda serpentina e, ogni tanto, le zampe. Il profeta Isaia è proprio chiaro, lo chiama “serpente tortuoso”. Cioè, zoologicamente il leviatano, tenetevi forte, è un coccodrillo. Di più: è il grande coccodrillo del Nilo. Ma la memoria collettiva letteraria non si interessa di zoologia: il mito puoi anche descrivere un coccodrillo, la storia può dire chiaramente di pesce-cane ma dalla memoria emerge una balena.

Perché? Anche Melville non ha le idee chiarissime a riguardo – o meglio, le ha e gioca a confonderci: l’ombra di Moby Dick copre ogni parola, ogni pagina del romanzo, ma il Capodoglio nel testo appare pochissimo e ogni volta che viene descritto tutto sembra fuorché una balena. Perché succede? Perché troviamo balene ovunque? Perché non possiamo far diverso. Perché ogni volta che nella memoria cerchiamo un’immagine per riempire la parola “mostro marino” evochiamo una balena, anche a sproposito. La memoria stessa è una balena, un po’ perché come lei si muove, inabissa e fa riemergere ricordi così come nuota una balena; un po’ perché la sede della memoria è una zona del cervello chiamata Ippocampo, e ippocampo vuol dire mostro marino. O meglio Ippo significa cavallo e Campo deriva dal greco chetos, che significa cetaceo, che significa: balena.

La memoria è una balena galoppante (o zoppa), è un mostro marino che emerge o s’inabissa. La memoria vive di significati aggregatori di significanti, e la balena aggrega come significato tutti i significanti il cui si può declinare il tema mostro marino. Nulla di strano, succede con altri simboli: non esiste descrizione alcuna del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male ma da millenni lo immaginiamo mela; avete mai sentito Kafka parlare di scarafaggio? Eppure quello è l’insetto che immaginiamo. Provate a pensare al mare, infilate la testa ben sotto, cercate un mostro: eccolo. Buone balene. Qualsiasi cosa voi abbiate visto davvero. E se non avete visto niente… è la balena. Vi ha già inghiottito.

Il senso dei leader per la guerra. La sconfitta è colpa dei soldati

Esiste un secolo breve del mondo – reso celebre dallo storico britannico Eric Hobsbawm – e c’è poi un secolo breve tutto italiano, che condensa in ottant’anni la parte finale del processo unitario, la tragedia fascista, la lacerazione del settembre 1943 e la successiva, nuova, unità, questa volta in nome della Repubblica e della Costituzione. Eventi il cui filo conduttore si bagna del sangue delle guerre combattute, appunto, tra il 1866 e il 1945. A raccontarlo nel suo ultimo libro è Nicola Ferri, già magistrato e membro del Csm, “storico dilettante” (ipse dixit) del XX secolo e firma del Fatto quotidiano, che in La nostra memoria perduta – Le 16 guerre d’Italia da Crispi a Mussolini cerca di trovare coerenza tra battaglie ora coloniali ora parte dei conflitti mondiali, ma con in comune quasi sempre “l’illusione di facili vittorie” e la caratteristica di “essere marcate dalla irrazionalità, dall’avventurismo, dal miope opportunismo, dall’impreparazione, dall’improvvisazione, dal turpe cinismo per la sorte dei soldati mandati allo sbaraglio e dalla fretta di sederci al tavolo della pace”. Si potrebbe dire che in queste righe c’è il senso del libro e della nostra storia compresa tra gli ultimi 40 anni dell’Ottocento e i primi 40 del Novecento.

E se il secolo breve di Hobsbawm si chiudeva “con il rumore di un’esplosione e un piagnisteo”, si può dire che l’esperienza italiana sia colma degli uni e degli altri. Ferri sceglie di raccontare le 16 guerre concentrandosi “sulle storie”: di generali, di soldati, di uomini di Stato crudeli o soltanto troppo piccoli di fronte al momento. Un modo per rendere l’argomento alla portata anche dei meno esperti o di chi ha terminato gli anni scolastici da un pezzo, senza per questo fare a meno dell’accuratezza. Gli aneddoti e le voci dei protagonisti raccolte nei telegrammi, nei diari o nelle cronache dell’epoca aiutano a chiarire di volta in volta il contesto e pure a smontare alcune delle false ricostruzione storiche divenute – chissà perché e chissà come – verità acclarate nell’immaginario collettivo.

Ne è esempio la prima delle 16 guerre, quella che la “compiacente storiografia dell’epoca” battezzò, senza più essere smentita, come la “Terza Guerra di Indipendenza”. Slogan fortunato ma che semplifica i fatti, edulcorandoli all’uso dell’Unità d’Italia: in realtà fu “un patto d’alleanza con il cancelliere Otto von Bismarck”, che mirava a “affrancare la Prussia dalla pesante supremazia dell’Impero Asburgico nella Confederazione degli Stati tedeschi”. L’accordo, stipulato nel 1866 con “il patrocinio di Napoleone III”, prevedeva che l’Italia tenesse occupato parte dell’esercito austriaco sul fronte Lombardo-Veneto, in modo da agevolare le azioni prussiane altrove. Così andò, tanto che nonostante le nostre sconfitte (“Uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro”, commentò l’ammiraglio Whilelm von Teghetoff dopo la battaglia di Lissa) ottenemmo quel che volevamo al tavolo di pace, dove ci potemmo presentare da vincitori in quanto alleati della Prussia che intanto aveva sgominato l’esercito austriaco.

Fatta l’Italia, come noto, si cercò di fare gli italiani senza accontentarsi di chi viveva tra i confini. Alla fine del XIX secolo fummo sedotti dall’illusione delle guerre coloniali, che ci avrebbe accompagnato per decenni, fino al goffo machismo africano del Ventennio fascista. Il primo tentativo, nel 1887, fu in Etiopia ed evidenziò i tratti peggiori del nostro colonialismo: “Imprevidenza, iattanza, disprezzo degli avversari, eroismo di chi non ha scampo e alla fine preferisce la morte al tribunale militare” (riportando le parole di Angelo Del Boca). Al disastro di Dogali, la nostra peggior sconfitta di quella spedizione, sarebbe seguito quello di Adua nel 1896, che portò alle dimissioni di Francesco Crispi e alla fine della seconda guerra in Etiopia. Da lì la Libia d’inizio secolo, nuovo avamposto delle velleità di conquista risvegliate da un improvviso nazionalismo gonfiato a furor di giornali e intellettuali (“La grande proletaria s’è mossa”, scriveva Giovanni Pascoli), che portò sì ad una costosissima vittoria, ma dopo “una guerra inutile, sanguinosa e priva di ogni vantaggio politico, sociale, economico, strategico”. Il contrario di quel che s’aspettavano gli italiani, quando nel 1911 Giuseppe Bevione, giornalista vicino a Giovanni Giolitti, sulla Stampa spacciava la conquista della Libia come “soluzione al problema dell’emigrazione e della questione meridionale perché la Tripolitania e la Cirenaica potevano ospitare milioni di italiani”.

In Africa saremmo tornati anche con Benito Mussolini, in una delle 3 guerre iniziate prima dell’ingresso nel Secondo conflitto mondiale (Etiopia, Spagna e Albania), nota, più che per la vittoria, per la scelta dell’arsenale: “Autorizzo all’impiego – scriveva il Duce a Pietro Badoglio – anche su vasta scala di qualunque gas”. Per stroncare la resistenza abissina, l’Italia si affidò ai gas asfissianti in spregio alla convenzione di Ginevra del 1925.

Erano anni in cui i Generali italiani utilizzavano metodi spietati persino contro i nostri stessi soldati, a cui imputavano sconfitte causate da errori nelle alte sfere. Ne è emblema la Prima guerra mondiale, teatro della nostra disfatta più celebre, a Caporetto: “Cadorna, nel tentativo di nascondere le sue responsabilità (e quelle dei Generali Capello e Badoglio), cercò di addossare tutte le colpe della disfatta ai suoi soldati che pure in larghissima parte si erano battuti con grande coraggio e spirito guerriero”.

Lo stesso Mussolini, una ventina d’anni più tardi, quando ormai era chiaro che la Seconda guerra mondiale sarebbe stata la fine delle sue fortune, avrebbe preferito prendersela col suo popolo. Il 17 aprile 1943, in un clima che già preludeva l’armistizio dell’8 settembre, parlando ai dirigenti del Partito fascista il Duce sbottava contro gli italiani “cretini, imboscati, deficienti (che) siccome non hanno mai fatto la guerra, trovano un alibi alla loro coscienza dicendo che questa guerra non si doveva fare”. Svanito il sogno della vittoria al fianco dei tedeschi, l’armistizio avrebbe visto un re in fuga e un Badoglio “terrorizzato” che “non si era preoccupato affatto di assicurare la difesa di Roma, vergognosamente abbandonata a se stessa, con l’esercito sbandato e i pochi reparti ancora in assetto operativo lasciati senza ordini”. Conclusione coerente del nostro secolo breve, il cui approdo alla democrazia sarebbe stato poi possibile soltanto al caro prezzo del sangue della Resistenza.

Deforestazione narcos e veleni: Ma c’è chi semina non solo coca

“Coltivo questo campo solo da due anni, ma già si vedono i risultati”. Mario Vilca – Don Mario, come lo chiamano qui –, è un coltivatore di piante della coca nella regione del Nor Yungas, a circa 100 chilometri da La Paz. È quasi mezzogiorno e, sotto il sole che picchia, sta mostrando il suo terreno a due vicini, Jimena Vilcachambi e Tulio Magueño, agricoltori anche loro. Tutti e tre camminano tra i filari di coca, la pianta dalla “foglia sacra”, destinata all’uso tradizionale, ma anche alla produzione di cocaina. Il terreno si sviluppa a terrazze sul fianco della montagna, come è tipico in questa regione degli Yungas, dove le Ande incontrano l’Amazzonia, a circa 1.500 metri di altitudine. Mario coltiva la coca biologica in agrosilvicoltura e per questo è preso come esempio da tutti.

Anche sull’altro fianco della valle si estendono campi di coca, ma lì si ricorre al debbio, perciò la montagna è brulla, non ci sono più alberi e si possono scorgere i residui di bosco carbonizzato. Il terreno di Don Mario invece è diverso: “Il principio dell’agrosilvicoltura è di ricreare l’ambiente naturale – dice –, nel nostro caso il bosco. Alle piante di coca accostiamo altri alberi. Lì c’è un huasicucho, qui un albero di limoni, laggiù un arancio”. Si evita in questo modo l’erosione del suolo che in questa regione provoca frane drammatiche. La strada che dalle alte vette andine scende verso gli Yungas è una delle più pericolose al mondo, soprattutto nella stagione delle piogge. Autobus interi vengono spazzati via dalle colate di fango o si ritrovano schiacciati sotto le frane. L’erosione nella regione è colpa di quindici anni di monocoltura: qui la coca è ovunque. Il motivo di tanto interesse per questa pianta è semplice: è facile da coltivare e si vende bene, tre raccolti all’anno per circa 11 euro al chilo. Abraham è autista di minibus: “I prezzi non sono mai stati così alti. Eppure, il consumo tradizionale è rimasto lo stesso, non mastichiamo più coca di prima. È ovvio – dice – che è il narcotraffico a imporre questi prezzi”.

Gli alberi piantati sul terreno di Don Mario, oltre a prevenire l’erosione e a offrire un po’ di meritata ombra, permettono al terreno di conservare le sostanze nutritive. Romane Chaigneau lavora per l’associazione Cœur de forêt, che fornisce supporto tecnico e finanziario all’agricoltore: “La coca – spiega – è una coltura che impoverisce molto il terreno. Piantando degli alberi su un campo di coca, dopo dieci, quindici anni al massimo, una volta rimosse le piante di coca che non danno più nulla, non ci si ritrova con un terreno completamente spoglio, ma con degli alberi, già un po’ cresciuti, che forniscono la materia organica. Evitiamo in questo modo che la terra resti senza sostanze nutritive e che non sia più fertile”. In questa regione a nord di La Paz si vedono spesso ampie praterie al centro di fitti boschi, le chiamano pudicamente “pajonales”. Si dice che si tratti di vecchie piantagioni di coca su cui il bosco non è mai riuscito a ricrescere. Se Jimena Vilcachambi è andata ora a trovare Don Mario è perché ritiene che sia urgente agire: “Quando ero bambina, il paesaggio era completamente diverso. Le montagne erano coperte di alberi. Una giungla! Si guardi intorno ora – dice – non è rimasto più nulla. E poi non c’è più acqua da nessuna parte”.

Jimena ha una trentina d’anni, è madre ed è a capo della sua comunità, si sente quindi responsabile nei confronti delle generazioni future: “Anche io coltivo la coca. Ma ho visto come il terreno si riduce dopo anni di sfruttamento. Cosa lascerò a chi viene dopo di me? E poi, tutti questi erbicidi che usiamo, non possono essere buoni per la salute”. Miguel Crespo, direttore di Probioma, una fondazione per la produttività, la biosfera e l’ambiente, conferma che “nelle regioni in cui si coltiva la coca, le aziende che vendono pesticidi fanno molti affari e gli agricoltori spargono queste sostanze chimiche sui campi come se fosse acqua”. Per Crespo, ricercatore in biologia, c’è già un problema di salute pubblica, di cui però non si parla: “Si immagini queste foglie di coca coperte di fertilizzanti che la gente mette in bocca direttamente e che mastica per ore”. Per Don Mario però chi pratica da tempo l’acullico (la masticazione della coca) sa fare la differenza tra la coca piena di pesticidi e la coca biologica. L’agricoltore non ha problemi a vendere il prodotto dei suoi raccolti. Mentre la foglia di coca “standard” si vende tra 11 e 14 euro al chilo, Mario Vilca vende le sue tra 17 e 20 euro al chilo. In Bolivia, sono autorizzati 22 mila ettari di piante di coca su tutto il territorio nazionale, destinati, in linea di principio, ad un consumo tradizionale della foglia: masticazione, infusione e industrializzazione su piccola scala (dolci, torte). Le due regioni principali di coltivazione della coca sono gli Yungas, dove vive Don Mario, e il Chapare, dove l’ex presidente Evo Morales, ormai 20 anni fa, si era affermato come leader sindacale dei produttori di coca prima di entrare in politica. Nel Chapare Morales aveva affrontato i governi neoliberali che, sotto l’influenza degli Stati Uniti, promuovevano la politica “zero coca”, sollevando la feroce opposizione dei cocaleros, che da generazioni vivono grazie a questa coltura tradizionale. Se oggi una parte dei campi della regione sono legali, il Chapare, come è noto, è al centro dei traffici di droga della Bolivia. Nel 2011, 80 laboratori di lavorazione della cocaina sono stati scoperti nella riserva di Tipnis, un parco nazionale che si estende in parte nel Chapare, come riporta Silvia Rivera Cusicanqui nel suo libro Mito y desarrollo en Bolivia. Nel Tipnis vivono popolazioni ancora isolate dal mondo moderno e la flora e la fauna sono preservate.

Ma circa 30 anni fa dei “coloni” si stabilirono nell’area sud-orientale del parco, chiamata Polygone 7, dei boliviani dell’Altiplano che le autorità avevano fatto spostare dopo la chiusura delle mine in un’area giudicata all’epoca ancora “da conquistare”. Cristina Molina, di etnia mojeña, ha sempre vissuto nel Tipnis, nella comunità di Santisima Trinidad, sola con i suoi due figli. Suo marito è dovuto partire perché non riusciva a trovare lavoro: “È insegnante, ma perché è mojeño, qui non lo fanno lavorare.

I cocaleros sono diffidenti e controllano tutto. Il solo lavoro che ci viene permesso di fare, a noi popolazioni indigene, è coltivare la coca”. Cristina ritiene che in venticinque anni qui tutto sia cambiato: “Oggi per preparare la colazione si va all’alimentari. Lo stesso vale per il pranzo e per cena. Tutto è diventato una questione di soldi e, se non ne hai, non puoi fare nulla. Prima c’era la foresta. Mio padre andava a caccia e con un cinghiale avevamo da mangiare per tutta la settimana”. Il Polygone 7 è attraversato da una strada sterrata lungo la quale le foglie di coca sono messe a seccare, anche se coltivarla è vietato nel parco nazionale. Ma questa regione è diventata un no man’s land dove a comandare sono i produttori della foglia: né le autorità né i turisti vi possono entrare senza essere sorvegliati. I cocaleros hanno anche ottenuto di prolungare la strada in modo che attraversi tutto il parco, così potranno trasportare più facilmente il prodotto, causando però una deforestazione irreparabile. Con 70 mila produttori registrati a livello nazionale, più tutte le persone che lavorano nella raccolta, nel trasporto, nella vendita al dettaglio e nella lavorazione della foglia, la coca rappresenta circa il 10% del Pil del settore agricolo in Bolivia, ovvero 450 milioni di dollari (se consideriamo che tutta la coca passi per i mercati legali, stando al rapporto UNODC Monitoreo de cultivos de coca 2018, agosto 2019). Se i voti dei produttori e il valore della coca interessano gli uomini politici in corsa per le prossime elezioni presidenziali, la cui data non è ancora stata fissata a causa della pandemia di Covid-19, il tema dell’impatto ambientale della foglia di coca invece non figura in nessuno dei programmi di campagna dei candidati.

Traduzione Luana De Micco

Tempo tiranno. Il piacere di arrivare in ritardo: ci si gode di più la vita e si evita anche la gastrite

Ho un terribile difetto, sono una ritardataria seriale. Arrivare puntuali è indubbiamente una gran bella virtù. Arrivare in ritardo è irrispettoso, ma da parte mia non è intenzionale. Semplicemente ho una concezione del tempo diversa, il mio tempo è dilatato perché sono una vera ottimista. Però è altrettanto grave arrivare in anticipo! Non parlo di chi arriva puntuale, ma degli anticipatori cronici, quelli sono una categoria irritante. Se prendi un appuntamento con un anticipatore alle 11,00, arriverà almeno alle 10,45. Sono i peggiori, bisogna starne alla larga, perché dieci minuti di ritardo sono tollerabili, ma 15 minuti di anticipo sono insopportabili. Quando arrivi, non ti avvicini subito all’anticipatore, perché ti viene un po’ d’ansietta. Lo osservi, lo spizzi da lontano, e vedi che guarda l’orologio con fare irrequieto. Poi ti vede, lo saluti e ti avvicini con grande cautela, gli stampi un sorriso come il “dentone” di Alberto Sordi nel film I Complessi e lui invece ti fa la faccia da rimprovero. “Oh Ciccio, sei arrivato 15 minuti prima, se fossi arrivato puntuale avresti aspettato solo 10 minuti sindacali, non 25!” – “Sei sempre in ritardo!” – “E tu sei sempre in anticipo! E poi l’arte del ritardo, è solo una diversità nella percezione del tempo. Arrivare in ritardo è un dovere. I ritardatari cronici come me sono persone creative, produttive e vivono più a lungo, lo dice la scienza” – “La scienza?” – “Sì. I puntuali hanno mille problemi di salute, come la gastrite. Tu soffri di gastrite?” – “Eh, sì” – “Hai visto? Perché sei nervoso. Tu vivi il tempo sempre un quarto d’ora prima. Che ore sono adesso?” – “Un quarto all’una” – “No sono le 13,10! Lo vedi, tu vuoi anticipare il tempo e questo ti rende nervoso. Invece io, da ritardataria il tempo me lo godo, lo lascio scorrere” – “Adesso basta! Sono qui in mezzo alla strada che ti aspetto, sono stufo e che cavolo!” – “Lo vedi come sei nervoso, calma calma… diamo tempo al tempo!”

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

 

In sestina allo Strega. La voce di Carofiglio trasporta il lettore nella giuria di un processo

Non riesco a pensare a quest’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio come alla forma piatta e rilegata dell’oggetto che chiamiamo libro. E non mi resta la memoria visiva delle pagine, come mi accade per altri libri che amo. Sento la voce. E non intendo riferirmi alla voce della persona ma alla voce del libro. Apri un nuovo libro di Carofiglio (in questo caso sto parlando de La misura del tempo, Einaudi) e sai che sei in una casa che conosci bene perchè la voce (la stessa che ti aveva accolto e guidato, fin dal suo primo romanzo) ti ha preso in carico e ti dà, insieme, una senso di rassicurazione (sei nel posto giusto) e un po’ di ansia perchè non vuoi che finisca troppo presto. Se questa sensazione non è solo mia, spiega perchè storie senza colpi di scena e senza clamorose rivelazioni, diventano e restano subito bestselller e, qualche volta, non di rado “longseller”. Credo di avere una interpretazione per questi due fatti e La misura del tempo è il libro adatto per spiegarla. All’autore importa molto restare in uno stato di equilibrio, che non vuol dire narrare restando estraneo, non vuol dire fingersi giudice (che pure è il suo mestiere nella vita salvo i due anni in Senato, che abbiamo trascorso insieme). Vuol dire che la forza e la capacità di difesa dei personaggi resta intatta nonostante le scelte evidenti del conduttore della storia, che ama e respinge senza esitazione, ma impedisce che il suo giudizio pesi nella vicenda che sta narrando. È un curioso espediente di verità che trasforma il lettore in giuria e lo incarica della responsabilità di avere una sua posizione senza poter invocare il già detto e il già fatto nella vicenda che state leggendo e nei personaggi che, come in un confronto all’americana, vi vengono presentati fra sospetti e presunti innocenti. Non pensate però a un romanzo poliziesco o a un noir. Se mai La misura del tempo appartiene al genere, raro, del romanzo giuridico, in cui gli argomenti devono passare attraverso due barriere: quel che dice la legge (qui conta soprattutto la procedura, perchè Carofiglio narra la storia di un processo che deve rifare un processo) e quel che i protagonisti cercano di far dire alla legge. Ecco in che senso la voce di Carofiglio è così importante. Perchè il lettore si fida di lui e lo segue contro gli ostacoli e le obiezioni di chi lo fronteggia e lo vuole screditare. Però conta molto, in questa voce che vi aggancia, un senso di cautela e rispetto anche per le persone odiose (e per gli evidenti colpevoli, per esempio i poliziotti che hanno aperto la strada a una condanna pesante perchè non hanno fatto le indagini) e la possibilità, che sentite sempre aperta, di poter passare dal male al bene se solo mostrate una vera intenzione di farlo. Tutto ciò crea un clima di lieve, impalpabile affettuosità (sarà la parola giusta?) che rende la storia di Carofiglio (e dei molti collaboratori che con gli stessi sentimenti gli stanno intorno, e di un giovane-vecchio amore che torna per consegnargli un suo bagaglio di pene, che è la storia narrata) che induce il lettore a restare nella storia che scorre troppo in fretta, per poi rimpiangere il libro finito.

 

La misura del tempo, Gianrico Carofiglio, Pagine: 288, Prezzo: 18, Editore: Einaudi

L’enigma Draghi Servitore o traditore dello Stato? La biografia (simpatetica) di un uomo indecifrabile

Nella primavera del 1991, quando il ministro Guido Carli lo assunse come direttore generale del Tesoro, Mario Draghi era un economista 43enne sconosciuto alle masse. Marco Cecchini, uno dei pochi giornalisti che lo conoscevano, scrisse uno striminzito ritratto sul Corriere della Sera. Adesso tocca ancora a Cecchini l’impresa di descrivere in un libro un mistero, affascinante per gli ammiratori, ambiguo per i detrattori.

Nel trentennio trascorso Draghi si è trasformato da giovane e determinato studioso in uno degli uomini più potenti del mondo, forse, d’Italia sicuramente. Da giovane Ciampi boy, regista della grande stagione delle privatizzazioni, a eroe continentale del salvataggio dell’euro e non solo grazie al “whatever it takes”, un marchio del made in Italy diventato celebre quanto quello della Ferrari. Il libro si propone esplicitamente di offrire un vademecum per capire il possibile presidente del Consiglio o addirittura il prossimo presidente della Repubblica. Il curriculum di Draghi, che a settembre compirà 73 anni, è pesante: consigliere economico di Giovanni Goria al Tesoro nel 1983, poi alla Banca Mondiale, per dieci anni dg del Tesoro (1991-2001), una breve parentesi alla Goldman Sachs (il lavoro più pagato della sua vita) lasciata per tornare a Roma, governatore della Banca d’Italia per “restituirle il prestigio” dissipato dal dimissionario Antonio Fazio, infine al vertice della Bce. Il titolo del volume, dichiaratamente rubato a una definizione del Financial Times (“L’enigma Draghi”), riassume l’apparente doppiezza del protagonista che si presta a essere catalogato come un rigido servitore dello Stato o come un infiltrato dei poteri forti della grande finanza internazionale; come un fedele erede del keynesismo del suo maestro Federico Caffè (l’economista più di sinistra tra quelli bravi della sua epoca) o come un convertito al mercatismo più bieco; come uomo riservato fino all’ossessione o come un vanitoso attento a ogni virgola dedicatagli dai media.

La preferenza di Cecchini per il lato positivo di ciascuna delle numerose alternative sembra fondata su una fredda lettura dei fatti: quando il governo D’Alema decide di favorire la scalata a Telecom Italia della “razza padana” di Roberto Colaninno (1999) è lui a mettersi di traverso e a battersi contro il mercatismo imparaticcio del premier, mentre il ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi tace come gli capitava di fare molto più spesso di quanto non si sappia. Draghi deve la sua reputazione di freddo calcolatore alla capacità di non tradire mai un pensiero o un’emozione: “La sua mimica facciale in pubblico ha poche varianti. È capace di sedere per un’ora senza muovere un muscolo della faccia”. Un’abilità che però non ne fa un uomo subdolo, secondo Cecchini. Che gli riconosce come qualità principale, dimostrata dai fatti, un grande coraggio, imparato dal padre Carlo, ispettore di Bankitalia morto quando il figlio era ancora ragazzino, lasciandogli in eredità il motto letto su un monumento in Germania: “Se hai perso il coraggio hai perso tutto”.

 

Alitalia, Ilva, Autostrade: Idee per gli Stati generali

In attesa di sapere se dal conclave degli Stati generali a porte chiuse emergerà un’idea per l’Italia di domani speriamo più modestamente che il governo prenda qualche piccola decisione. Che fare con l’Ilva di Taranto, o meglio, con la città di Taranto? Qual è il piano per rilanciare Alitalia? In che modo si concluderà la partita con i Benetton su Autostrade per l’Italia? Magari potrebbero essere al centro dei dibattiti a Villa Pamphili.

Tutti i dossier sono, come si dice, allo studio dell’esecutivo da tempo. Tutti, ci assicurano, sono vicini alla soluzione, ma nessuno si prende la briga di spiegare quale sia. Ci si limita, come dicono i geni della finanza, a kick the can, a dare calci alla lattina, cioè a rinviare il problema, vera strategia nazionale.

Quando, nel 2012, la procura di Taranto sequestrò gli impianti dell’Ilva per l’inquinamento trentennale iniziato dallo Stato e perpetuato dai Riva, bisognava decidere se tenerla aperta, investendo per produrre acciaio senza uccidere i tarantini, o chiuderla. Si è invece deciso di vendere il più grande siderurgico d’Europa (e il futuro di 13mila operai più altrettanti dell’indotto) come fosse un appartamento, al miglior offerente. Se l’è aggiudicato Arcelor Mittal, colosso mondiale sospettato fin da subito di volerlo solo chiudere. Cosa che prova a fare da un anno, mentre il governo giallorosa non è riuscito a elaborare una vera alternativa, subendo il ricatto, complici anche le divisioni interne. A Taranto servono almeno due miliardi di investimenti e un grandissimo manager siderurgico. Il governo li sta cercando? Nessuno lo sa. In Alitalia, commissariata dal 2017, è prossima la nomina di un manager interno senza nessun peso internazionale. Il ministro Patuanelli deve discutere il futuro della compagnia – a cui ha destinato 3 miliardi – e le nomine con la senatrice Giulia Lupo (M5S), esperta del settore in quanto ex hostess. Ad Autostrade da due anni il governo minaccia di revocare la concessione per il disastro del Morandi senza mai procedere ma portando a decozione la società controllata dai Benetton.

C’è solo da sperare che gli Stati Generali non estendano a tutta l’economia nazionale questa incapacità di decidere.

Calcio Razzismo in panca, vietato allenare per Thuram & C: 2 mister di colore su 98

Nella Francia che nel 2018 trionfò al mondiale in Russia, 7 giocatori sui 14 schierati nella finale, cioè il 50%, erano di colore: Umtiti, Pogba, Kante, N’Zonzi, Mbappè, Matuidi, Fekir. Nell’ultima finale di Champions, Liverpool-Tottenham 2-0, i giocatori di colore erano 9 su 28 (il 32%), in quella di Europa League tra Chelsea e Arsenal 8 su 28 (28%). Venendo a noi, nella Juventus che giocò l’ultima finale Champions nel 2017 contro il Real i giocatori di colore erano 4: Cuadrado, Alex Sandro, Dani Alves, Lemina. Tutto questo per dire che nel calcio che conta non esistono pregiudizi di sorta rispetto all’utilizzo dei giocatori. Stabilito ciò, la domanda che è invece il caso di porsi è: quanti sono gli allenatori di colore che siedono sulle panchine dei 98 club dei 5 top-campionati, i 20 di Inghilterra, Spagna, Italia e Francia e i 18 della Germania?

Se non lo sapete, tenetevi forte: 2. Per l’esattezza Patrick Vieira, il francese di origini senegalesi allenatore del Nizza e Nuno Espírito Santos, il portoghese originario di Sâo Tomè allenatore del Wolverhampton. Due su 98 corrispondono allo 0,02%; e con tutto il rispetto per la campagna Respect dell’Uefa contro il razzismo, questo dato significa qualcosa di tremendamente sinistro: significa che il mondo del calcio ritiene che un ex calciatore di colore non possa essere, nè possa diventare, un buon allenatore. “La verità è che siamo visti come esseri di seconda categoria – ha detto Eto’o, l’attaccante del triplete dell’Inter di Mourinho –, ed è per questo che molti vecchi giocatori di colore non prendono il patentino, anche se magari lo vorrebbero”.

Domanda brutale: li si ritiene forse meno intelligenti degli ex calciatori di razza bianca? Sembra proprio di sì. Ed è meglio dire le cose come stanno se è vero che persino in Brasile, dove il 55,8% della popolazione è di colore, pochi mesi fa, il 12 ottobre 2019, allo stadio Maracanà è stata scattata una foto a suo modo storica, quella che immortalava gli unici due allenatori di colore del campionato brasiliano, Marcão del Fluminense e Machado del Bahia, per la prima volta avversari in un match di calcio.

Per l’occasione, Marcão e Machado hanno indossato la maglietta dell’ “Observatorio de discriminação racial”. “Penso che dovremmo riflettere e porci molte domande al riguardo – ha detto Roger Machado –. Se è vero come dicono che in Brasile non ci sono pregiudizi, perché i neri sono meno istruiti dei bianchi? Perché il 70% della popolazione carceraria è composta da neri? Perché i giovani di colore vengono uccisi più di qualsiasi altro gruppo sociale? Perché il reddito dei neri è il più basso? Perchè le donne nere sono pagate meno delle donne bianche e muoiono più spesso delle donne bianche? Negare tutto ciò è colpevole. Negare la realtà significa confermare il razzismo”.

“Quando ero giovane – ha ricordato recentemente Lilian Thuram, ex difensore di Parma e Juventus, campione del mondo con la Francia nel ’98 – la leggenda voleva che i calciatori di colore non potessero fare né i portieri né i difensori non disponendo, per una questione di indole, di sufficiente concentrazione. Era un’idiozia, eppure oggi nel 2020 si continua a ritenere che nessun ex calciatore di colore possa pensare di fare l’allenatore. È quando la gente dubita dell’intelligenza di un’etnia che capisci che non c’è salvezza”. Come si dice in questi casi: #blacktrainersmatter.