Omertà. Vigata non è in Sicilia, ma a Brescia Tutti zitti se domandi del vigile “estorsore”

Un paese ameno in provincia di Brescia. Dal nome immaginifico, degno delle novelle boccaccesche. E in cui con regolarità certosina un signore in divisa gira negozi e bancarelle prelevando il dovuto, ossia quanto a suo insindacabile parere ambulanti e negozianti sono tenuti a conferirgli in omaggio. Non volendo far nomi ma volendo occuparci a lungo di questo scandalo, almeno finché non sarà cessato, daremo a questo paese un nome diversamente immaginifico. Lo chiameremo Vigata, come il paese dei romanzi di Camilleri. Ma, per non confonderlo con quello, lo chiameremo Vigata Nord. Ecco, di Vigata Nord si è occupato Il Fatto lunedì scorso, incrociando per caso, nel frattempo, le riflessioni del direttore del Giornale Alessandro Sallusti sulla mafia e i siciliani. Ha detto in tivù il direttore che la mafia è colpa anche dei siciliani perché sono omertosi, e che la mafia attecchisce là dove la si lascia attecchire. E io ho giusto pensato, per mio malato istinto, a Vigata Nord. Dove i negozianti e gli ambulanti sanno e vedono, tanto da avere affibbiato a questo signore – un vigile, pare – un gustoso soprannome, “Sportina”, per indicare l’oggetto in cui stipa gli omaggi che riceve, o il pizzo che esige, a seconda dei punti di vista. Ma subiscono in silenzio.

Ecco, il fatto che una comunità onesta e timorata di Dio si lasci imporre una prepotenza senza reagire, mi colpisce. Che una sola persona riesca a forgiare di fatto i costumi di un paese mi sgomenta. Anche perché dopo l’articolo di lunedì scorso è accaduto che sia arrivato a Vigata Nord un giornalista (non del Fatto) a cui dalla breve descrizione era sembrato di riconoscere il paese e vi si è dunque recato per rivolgere qualche domanda. Non ha chiesto nomi. Ha domandato solo se ci fosse per caso un vigile che così e così. Gli interpellati, gli stessi che si danno di gomito parlando di “Sportina” con i propri compaesani, hanno tutti negato. Un vigile, dice? Mai visti fatti del genere.

Ora, a Vigata Nord esistono un paio di beni confiscati. E naturalmente chi ci aveva messo tenda non ha nulla a che fare con la comunità locale. Però possiamo dire che se cercava una comunità che non gli creasse problemi se l’era scelta bene. Chi ha paura dei moscerini, mai avrebbe denunciato qualcuno in fama di mafioso, a meno che – stupidamente – questi non avesse fatto, per dirla sempre con Camilleri, una “ammazzatina”. Ecco perché ho pensato alla esternazione di Sallusti. E ho inneggiato dentro di me a due donne di Vigata Nord: la signora che vedendo per due-tre volte con i suoi occhi “Sportina” all’opera si è scandalizzata, e la commerciante ambulante di generi di abbigliamento che ha resistito indignata alla sua pretesa di pizzo detto omaggio. Due donne.

E donna è anche la magistrata di cui nei giorni scorsi ho letto una bellissima, dignitosissima lettera aperta a Luca Palamara. E, vedete gli scherzi dell’antropologia, qui si passa da Vigata Nord alla Calabria. Si chiama Silvana Ferriero, questa magistrata. Ricorda i tempi del comune (con Palamara) uditorato romano, e rammenta di averlo vissuto come una specie di pierre – nel senso di pubbliche relazioni – degli uditori. Poi, racconta, al momento della scelta delle sedi presero strade diverse. Lei “in Calabria a fare il giudice civile, uno di quelli che smazzano carte per dieci ore al giorno, lontani da ogni riflettore e con l’incubo costante dell’arretrato e delle possibilità di incorrere in qualche ritardo nei depositi”. Quanto a Palamara, “non ricordo dove ti condusse la tua strada nell’immediato, ma so che in seguito fu costellata di tappe che sulla mia mappa non erano neanche segnate.” Cercatela, leggetela. È una lettera che fa capire perché alla fine questo Stato regga. Nonostante Palamara e “Sportina”, ognuno nel suo habitat. La magistratura che conta e Vigata Nord.

 

Fine lockdown. Vacanze in lutto e malinconia “Io, mamma medico, vi racconto il caos calmo”

 

“La quarantena tra casa, corsia scuola online e fornelli accesi”

Questo tempo è un ulivo spettinato, siamo tutti un po’ spettinati, ma ognuno di noi pensa di tornare come prima, compresa la piega. Tutto tornerà come prima. Qualcuno raccoglierà i cocci, c’è sempre qualcuno che pulisce dopo la festa. È un’altalena tra la costante ricerca di dpi (dispositivi di protezione) e la dad (didattica a distanza). Nuove sigle che ho imparato. I dpi non li ho mai avuti, prima non c’erano, poi servivano negli ospedali Covid, poi è finita l’emergenza Covid; i pazienti, invece, non sono mai mancati. Spaventati, ipocondriaci, febbrili e non, cronici riacutizzati, gravi, anzi gravissimi. Sono rimasti a casa per paura, sono pluripatologici, hanno mangiato troppo e non hanno preso i farmaci abituali, sono peggiorati e arrivati in pronto soccorso già gravissimi. Per i dpi, nessun problema: c’è Santa Rosalia, lei finora ci ha guardato; anzi ho scoperto, grazie alla scuola di mia figlia, che ai 4 canti ci sono anche Agata, Oliva e Ninfa. Ma nessuno sa chi siano le altre due, tutti conoscono Rosalia e Agata, eppure alle intemperie, ma sopratutto al caldo torrido, hanno resistito anche Oliva e Ninfa. È la vita, molti lavorano, ma non tutti hanno gli stessi followers.

Mentre le 4 sante spazzano il virus via dalla Sicilia tutto torna come prima, i pazienti s’affollano nei pronto soccorso, le attese si allungano, alcuni muoiono, i parenti insultano, si assembrano, denunciano… a volte ringraziano, e i medici? Provano a districarsi, attraversano corridoi di notti infuocate, spostano barelle, tolgono il ventilatore a un paziente per darlo a un altro, bisogna metterlo al paziente più grave, all’altro metteremo gli alti flussi. Mamma sei l’unica che non fai mai torte! Tutte fanno dolci buonissimi e pubblicano foto! Ecco il momento più terribile del lockdown. Mi sono salvata in curva il giorno di Pasqua con una sacher, insomma tipo sacher. In questa “surrealtà” vivo un doppio binario: paura di essere contagiata, isolarsi? Un paziente “dimentica” che 10 giorni prima era a Milano; 10 giorni dopo è a Palermo in pronto soccorso senza febbre, Covid positivo.

Abbracciare i miei figli è l’attimo infinito di questa brutta storia. Il momento più vero, al tramonto, innaffiare l’orto e zappare, questa l’emozione forte. Mentre friggo le melanzane, mio marito, in smart warking, ha cucinato un quintale di tagliatelle; dicevo, mentre friggo le melanzane arriva sul gruppo whatsapp l’esito di un tampone negativo del paziente con cui ho passato la notte; preparo il basilico, sulla pasta è essenziale. Un paziente bipolare mi ha minacciata per più di un’ora, non ho paura. La paura più atroce è negli occhi di chi conosce il profumo della morte. Il Covid ha riaperto piaghe e fragilità. Aspettiamo il mare, ci guarirà, abbiamo nel sangue la passione delle onde. In area d’emergenza, troppi pazienti gravi, impossibile visitarli tutti, mancano barelle. Arrivano altri codici rossi.

Entro domattina devo caricare sul portale il tema di italiano, la maestra mi spiega come fare un tema, a quanto pare non va bene il discorso diretto, terzo momento più brutto degli ultimi 3 mesi. La 98enne ha un Epa, st sotto, non ci sono posti letto. Inizio la terapia. La consegna di matematica è entro dopodomani, coi disegni da colorare. Ci sono anche i fratturati in attesa di posto letto, togliamo le tavole spinali. Ho scongelato il ragù, preparo “anelletti” alla palermitana. Devo fare i disegni Kawaii, passione della mia 6enne. Tutto tornerà come prima, noi non saremo più come prima, ma ci rifaremo la piega e sarà perfetta più di prima.

Stefania Randazzo, donna, medico e mamma siciliana

 

Grazie per questa bella lettera in cui c’è tutto. C’è il caos. La vita.

 

“Zero prenotazione al mio hotel A nord, troppo tristi per le ferie”

Cara Selvaggia, temo che quest’anno di vacanze se ne faranno poche e non per il Covid, ma per le sue conseguenze. Ho un hotel piuttosto isolato in una regione tra quelle fortunate, ed è sempre andato bene. Quest’anno, ecco la situazione. Giugno: quasi pieno un sabato, il resto semi-vuoto. Luglio: poche prenotazione, unica settimana (quasi) piena, la penultima. Agosto: prenotata quasi tutta la settimana di ferragosto, per il resto stanze libere. Un disastro. Abbiamo contattato alcuni dei clienti più fedeli, per proporre pacchetti e offerte. Volevamo anche capire come mai disertassero, con un’epidemia che sta finendo, una località che ha avuto 11 contagi in tutto, nessun morto. In un posto che conoscono, con proprietari di fiducia. Risposta: “Non sappiamo come si metteranno le cose, non siamo dell’umore per prenotare vacanze”. Sono quasi tutti del centro-nord. Noi, al sud, abbiamo vissuto un’ altra storia: forse, non ci sentiamo sopravvissuti, ma spettatori. Forse, molti non credevano riaprissero le regioni e aspettano che passi la tristezza. Forse, dovremmo dare a tutti il tempo necessario per elaborare il lutto. Mi dispiace per il mio hotel, ma capisco e non me ne lamento. Sarò più povera ma avrò clienti più felici, un domani.

Lisa

 

Io stessa, che amo viaggiare più di ogni altra cosa, sento che non c’è ancora l’atmosfera giusta. Che non è questione di ritrovare la normalità, ma la leggerezza. Per ora mi accontento di un bagno nel (bellissimo) Mincio, in attesa di avere di nuovo voglia dell’oceano.

 

Complotti. Monsignor Viganò, “macchietta” della destra antibergogliana senza leader seri

La pandemia e il Peccato Originale, con le maiuscole. L’ingegneria sociale e il complotto massonico. I “figli delle tenebre” in piazza per contestare Trump, emblema del Bene, dopo l’omicidio Floyd: la lettera manichea dell’ormai noto monsignor Carlo Maria Viganò al presidente americano è soprattutto un concentrato reazionario e clericale della destra che fa la guerra a papa Francesco da un lustro.

Perdipiù Trump medesimo ha messo il suo sigillo imperiale con un tweet grottesco: “Così onorato dall’incredibile lettera indirizzata a me dall’arcivescovo. Spero che tutti, religiosi o no, la leggano”. “Incredibile”, appunto. Lo stesso Trump non ci credeva. Essere paragonato al capo dei figli della luce non è cosa di tutti giorni. Già mittente di varie esplosive lettere nel crepuscolo ratzingeriano del primo Vatileaks che inguaiò l’ambigua corte del cardinale Tarcisio Bertone, l’arcivescovo Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, è uno dei pilastri dell’eterogenea opposizione al riformista misericordioso Bergoglio. Le sue invettive antifrancescane rimbalzano in tutto il network online della destra clericale, dall’America all’Italia.

Dopo le accuse strumentali e a scoppio ritardato al papa sugli abusi sessuali del cardinale Theodore McCarrick, adesso Viganò agita pure il Coronavirus contro il pontefice argentino, a suo dire apice di una deep Church veicolo del diavolo e quindi dell’Anticristo, come già fece il vescovo kazako di Astana Athanasius Schneider, altro sodale fariseo in nome della Dottrina. Schneider ricordò una visione profetica di Leone XIII nel 1884, che “vide Satana e legioni di demoni abbattersi sulla Cattedra della verità del beatissimo Pietro”.

Ed è per questo che secondo Viganò, e non solo lui, Dio ha colpito il mondo con la pandemia. In un’intervista del 30 marzo scorso a The Remnant, quindicinale tradizionalista americano, l’ex nunzio ha detto che il Coronavirus è una “conseguenza del peccato originale”, come la morte e le malattie. Una punizione per, nell’ordine, “aborto, divorzio, eutanasia, l’orrore del cosiddetto matrimonio omosessuale, la celebrazione della sodomia e delle peggiori perversioni, la pornografia, la corruzione dei piccoli, la speculazione delle élite finanziarie, la profanazione della domenica”. Colpe dei singoli e “colpe delle Nazioni”. In alcuni casi, convinzioni non distanti dal recente pensiero dell’Emerito Benedetto XVI che ha ravvisato nelle nozze gay e nell’aborto segnali del “potere spirituale dell’Anticristo”.

Tutto questo accade, per il prode monsignore, con la complicità supina di Francesco, colpevole di apostasia al punto che sarebbe necessario riconsacrare la basilica di San Pietro. Leggendo Viganò viene da chiedersi perché la destra clericale non vanti un leader credibile e non comico tra i militanti dell’antibergoglismo crociato. Un altro antipapa improbabile è infatti il pasciuto cardinale Raymond Burke, “macchietta” uguale a Viganò. E viene da chiedersi come mai questi personaggi trovino ampio e serio credito persino tra vaticanisti-blogger italiani un tempo ritenuti autorevoli. Misteri della fede.

 

Al “Fatto” zero fondi pubblici: finanziamento bancario e stop

Il Fatto Quotidiano non ha mai ricevuto, né sta ricevendo, né riceverà un euro di finanziamento pubblico. Siamo costretti, a seguito di “notizie” uscite su siti come Dagospia, quotidiani come il Giornale, Libero, il Riformista e programmi tv come In Mezz’ora di Lucia Annunziata, a spiegare un finanziamento richiesto nei giorni scorsi all’istituto di credito Unicredit da parte di SEIF (Società Editoriale Il Fatto). Non abbiamo motivo, neppure in questo momento, di accedere ad alcun finanziamento pubblico né tantomeno a prestiti garantiti dallo Stato come quelli previsti dalle misure eccezionali varate dopo la pandemia per i soggetti colpiti. Per quanto queste ultime siano sacrosante per aiutare tante aziende in difficoltà, SEIF non le ha richieste.

Ci siamo limitati a chiedere un finanziamento a Unicredit per investimenti in immobilizzazioni, perché riteniamo che la crisi economica che attraversa il Paese potrebbe colpire diverse categorie con cui operiamo, a prescindere dai nostri buoni risultati: distributori, edicolanti, investitori pubblicitari e concessionarie potrebbero avere bisogno di tempo per liquidarci il dovuto. Pertanto mettiamo in conto per i prossimi mesi un oggettivo rischio finanziario (di liquidità) che potremmo essere costretti a coprire. Abbiamo anche ritenuto inopportuno un accesso a capitali sul mercato tramite Borsa, attualmente non conveniente. Stiamo crescendo, in controtendenza rispetto al periodo storico, e stiamo pensando al futuro, come promesso. Il nostro piano di investimenti non si fermerà. Il finanziamento rientra nella legge 662 del 1996. È un normalissimo finanziamento bancario che, come da prassi in caso di destinazione a investimenti, è garantito dal Medio Credito Centrale. Dunque è falso che abbiamo chiesto un finanziamento pubblico, che prendiamo soldi dallo Stato, che riceviamo favori dall’attuale governo: semplicemente perché non è vero. Chi continuasse in questa mistificazione senza rettificare le diffamazioni diffuse per infangare il Fatto, ci costringerebbe ad adire le vie legali e ne risponderebbe in Tribunale.

*Presidente e ad SEIF

Trent’anni di redditi stagnanti: l’Italia è più povera e diseguale

La violenta scossa dell’emergenza Covid-19 ci ha ricordato con forza i divari di condizioni di vita già elevati e crescenti nel nostre paese, creandone di nuovi. Preoccupa il fatto che tante famiglie italiane fronteggino questa nuova crisi già fiaccate da anni di stagnazione e con risorse insufficienti e che le nuove generazioni rischiano di essere intrappolate in una nuova lunga crisi.

Come molte economie avanzate, e nonostante quanto spesso si sente ripetere, anche l’Italia è oggi un paese più diseguale. Dagli anni 80 ad oggi, la percentuale di persone che vivono in condizioni di povertà relativa è aumentata di più di 5 punti. Il coefficiente di Gini dei redditi lordi delle famiglie (con valori da 0 a 100 all’aumentare della disuguaglianza), è aumentato di poco meno di 3 punti. È vero, non si registrano aumenti di disuguaglianza di reddito in Italia dalla seconda metà degli anni 90 alla prima metà degli anni 2000, ma a partire dalla crisi globale del 2007 le cose stanno diversamente. L’indice di Gini dei redditi familiari disponibili equivalenti (corretti per la numerosità e composizione familiare), nelle tavole dell’indagine della Banca d’Italia, è aumentato da 32.1 nel 2006 al 33.5 nel 2016. È un aumento significativo, dovuto al fatto che dal 2006 il reddito del 10% delle famiglie più povere è calato del 25% circa, più del doppio del calo registrato per il 10% delle famiglie più ricche. Anche il “ceto medio” (reddito mediano) perde seppur meno di altri. Tutti hanno perso dunque, anche se le famiglie povere perdono di più. Per una famiglia abbiente, inoltre, le perdite possono essere temporanee e legate alla natura ciclica dei redditi percepiti. Le perdite per le famiglie povere spesso coincidono, invece, con la perdita di lavoro e della capacità di sostentamento.

Non è casuale che la percentuale di persone in famiglie con un reddito inferiore alla soglia di rischio di povertà (poco meno di 10 mila Euro) sia aumentata di più di 3 punti percentuali secondo i dati di Banca d’Italia. Per l’Istat, gli individui in stato di grave deprivazione sono raddoppiati dal 2010 al 2012 passando dal 7 al 15 percento circa, per poi riscendere al 10% nel 2017, un livello ancora molto superiore a quello pre-crisi.

L’evoluzione delle disuguaglianze in Italia va letta all’interno di un quadro macroeconomico preoccupante e unico nel panorama delle economie avanzate.

Primo, la crisi del 2007 ha inferto un duro colpo a tutti i paesi ma, come scritto in Brandolini, Gambacorta, e Rosolia (2018) “L’Italia è l’unico tra i paesi maggiormente avanzati ad avere sofferto, nell’ultimo ventennio, una caduta dei redditi personali reali pro-capite”. Il reddito reale delle famiglie è, dal 2012, al disotto del livello della fine degli anni 80 e la tendenza è guidata dal calo dei redditi da lavoro, autonomo e dipendente.

Secondo, nel 1995 i dati Ocse collocavano l’Italia in cima ai paesi dell’Organizzazione per tasso di risparmio: il 16% del reddito disponibile. Tasso poi sceso all’8% nel 2008 e al 2,5% nel 2018, contro una media dell’area euro del 6% e negli Usa e in Germania rispettivamente l’8 e l’11%. Non sorprende dunque che almeno 10 milioni di adulti più poveri abbiano pochissime risorse per far fronte ad emergenze, con risparmi inferiori a 2.000€ circa.

In ultimo, l’Italia vive una grave crisi generazionale che paralizza il paese. Il tasso di disoccupazione dei giovani fra i 15 e i24anni si attesta intorno al 32,2% nel 2019, contro una media OCSE dell’11.L’abbandono precoce degli studi (14,5% dei giovani fra 18 e24anni) è tornato a crescere e la percentuale di persone fra i 20 ed i 34 anni né in formazione né al lavoro è fra le più alte dei paesi industriali (oggi 28,9% contro una media europea del 16,5%).

Anche chi ha un lavoro ha condizioni peggiori rispetto alle generazioni precedenti, ricevendo salari più̀ bassi di entrata e una progressione salariale più̀ limitata, anche a parità̀ di istruzione. Segue un contesto di progressivo peggioramento della mobilità sociale nel nostro paese dove lo status socio-economico dei genitori è sempre più determinante per delineare le opportunità di vita dei figli.

Invertire la rotta per un futuro più giusto

I numeri mostrano che l’aumento delle disuguaglianze di reddito e di povertà avvenuto in Italia negli ultimi 30 anni e a partire dall’ultima crisi sia reale. Queste disuguaglianze saranno rese ancora più eclatanti dall’emergenza Covid-19 che stiamo vivendo. Le politiche pubbliche non possono non cogliere l’urgenza di invertire questa rotta per favorire la mobilità sociale e garantire un pieno sviluppo delle libertà sostanziali e delle opportunità per tutti gli Italiani e le italiane.

Google&Microsoft a scuola. Chi colma il deficit digitale

Donatella Garello è la preside del “Giolitti Bellisario” di Mondovì: professionali e alberghieri, 1.200 alunni, 200 docenti, 50 unità di personale non docente. A settembre, spiega, non è chiaro come sarà il rientro. Mancano indicazioni precise, si teme che tutto venga deciso ad agosto inoltrato. La Garello cercherà comunque di garantire un giorno alla settimana in presenza a ogni classe e potenziare la didattica a distanza. Per evitare una frammentazione dei canali di comunicazione ha disposto che si utilizzi solo la piattaforma di cui la scuola si era già dotata, sfruttandone le potenzialità. I docenti seguiranno un corso della stessa Microsoft a 300 euro, pagato con i fondi pubblici stanziati per la formazione del personale. La didattica a distanza, insomma, non è finita.

Per il Covid tra febbraio e marzo, studenti, docenti e famiglie sono stati catapultati in una realtà che non erano pronti ad affrontare: pochi dispositivi e poca preparazione, infrastrutture disomogenee. Sul primo punto il ministero dell’Istruzione ha provato a porre rimedio con qualche stanziamento: 70 milioni nel Cura Italia, 80 milioni dei Pon, ora si pensa ad altri 100 milioni per le superiori. Sulla preparazione dirigenti e docenti si sono rimboccati le maniche: “I miei professori hanno usato tutti i canali possibili per raggiungere gli studenti”, spiega Garello. Quanto alle infrastrutture, invece, la soluzione è stata affidarsi ai servizi delle aziende tecnologiche, offerti gratuitamente dopo una call ministeriale: Google, Microsoft e Tim.

Avere dalle multinazionali del digitale i dati per Paese è sempre difficile. Per l’Italia, secondo Google, sono “milioni” gli studenti che hanno usato la sua piattaforma. Il dato globale, però, lascia intuire l’entità della questione. È raddoppiato l’uso di Google Classroom, durante la crisi ha raggiunto più di 100 milioni di utenti, mentre gli utenti di GSuite for Education sono passati dai 90 milioni del 2019 a oltre 120 nel 2020. La soluzione è stata offerta gratuitamente per “rendere l’educazione accessibile a tutti e resterà gratuita”. I dati sembrano al sicuro. Le privacy policy garantiscono che quelli che derivano dai servizi nella fascia scolastica non siano associati alla pubblicità. Qual è allora il vantaggio?

“Le piattaforme digitali monetizzano ciò che forniscono gratuitamente attraverso l’advertising o l’offerta mirata di servizi a pagamento o premium, con più ampie funzionalità rispetto all’equivalente gratuito – spiega Renato Nazzini, professore di diritto antitrust al King’s College di Londra e socio di LMS Legal LLP a Londra -. Ma l’offerta di servizi gratuiti può anche essere una strategia di business per entrare in un nuovo mercato e stabilirvi una forte presenza”. Un po’ come gli operatori telefonici quando offrivano pacchetti vantaggiosi nella prima fase della telefonia mobile. “Si può poi immaginare – continua Nazzini – che aver accesso a milioni di studenti con il proprio brand permetta di acquisire e fidelizzare una parte di consumatori del domani”. Sono privati, il loro lavoro è fare profitto: “E se viene fatto in modo trasparente e nella legalità va bene” spiega Nazzini. Il pubblico, intanto, continua a non dotarsi di una sua infrastruttura digitale, legandosi così ai privati e con l’onere di dover tutelare sia la concorrenza sia necessità di uno standard tecnico comune in tutte le scuole. “Una politica della concorrenza mirata e intelligente potrebbe significare garantire che se e quando servizi diventeranno a pagamento, non ci si trovi di fronte a un monopolio nato dall’emergenza ma che imporrà un costo sociale significativo in termini di prezzo, qualità, scelta e diversificazione dell’offerta”. Questi servizi, poi, hanno un costo per le aziende. Alla call del ministero ha risposto anche la startup italiana (partecipata da Tim) “Weschool”: “In un contesto in cui tutto è da costruire non c’è una dinamica competitiva, l’obiettivo comune è cambiare la scuola” spiega Marco De Rossi, 30 anni, fondatore di Weschool (durante l’emergenza, è stata usata da 230mila docenti). Per farlo fornendo servizi gratuiti, sul lungo termine bisogna essere grandi. “Il tema è legato agli incentivi per l’utilizzo di Internet e di questi strumenti innovativi. Si tratta di infrastrutture che sono come le autostrade, la loro efficienza è essenziale e ha bisogno di strategie ampia, dai dispositivi all’attenzione ai docenti, e di fondi”.

Certo,la scuola italiana ha molto da fare per la digitalizzazione. Con i 70 milioni stanziati durante la crisi da Covid-19 sono stati acquistati, secondo un rilevamento del ministero, 220mila dispositivi. 236mila erano già a disposizione delle scuole. Altri 71mila sono stati comprati dagli enti locali. I servizi digitali sono aumentati soprattutto tra il 2015 e il 2019: le comunicazioni online tra scuola e famiglia sono passate dal 50 al 96%, le aule con lavagne interattive dal 26 al 91%, quelle con connessione dal 35 al 93% e le classi con registro elettronico dal 50 al 94%. Solo il 70 % delle scuole ha però laboratori di elettronica, robotica e pensiero computazionale, il 39 % laboratori per la didattica digitale, solo l’80% è nelle condizioni di farla portandosi il pc da casa (va peggio al sud). Manca la formazione dei docenti. “Nei primi mesi di emergenza abbiamo avuto anche 5mila ticket di assistenza tecnica a cui rispondere al giorno – spiega De Rossi -. Molti non avevano neanche una casella mail”.

La Banda delle Quattro: ecco chi gode con la sanità privata

La ricetta è di una semplicità disarmante. Basta tenere sotto controllo i costi e i profitti, spesso plurimilionari, sono assicurati. Non si può sbagliare. Del resto la domanda è in crescita e i ricavi sono di fatto garantiti in buona parte dalla mano pubblica. È il business della sanità privata, dagli ospedali iper-tecnologici alle case di riposo per anziani fino alla diagnostica complessa, che ha visto decollare attori e numeri negli ultimi anni. Un business ricco e in cui la politica ha un ruolo determinante. Il segreto per gli operatori privati è accreditare le strutture al Servizio sanitario nazionale che così, a fronte delle prestazioni rese, paga a piè di lista garantendo gran parte degli introiti.

In questo sistema, di cui il rapporto con la politica è una delle architravi, prosperano nomi importanti: si va dalla famiglia Rotelli, che col marchio Gruppo San Donato è di fatto il primo operatore per fatturato, alla famiglia dei potenti industriali Rocca, che affiancano il loro Humanitas al business dei tubi per l’industria petrolifera con Tenaris, per finire con gli Angelucci e i De Benedetti, che hanno fatto delle residenze per anziani il perno dei loro affari sanitari.

I Rotelli. Dei Rotelli e del loro brand sotto l’egida di Gruppo San Donato il grande pubblico sa ben poco. La notorietà la famiglia la raggiunse quando divenne azionista forte di Rcs. Abituati a lavorare lontano dai riflettori, il gruppo San Donato è gestito oggi dai figli, Paolo in particolare, dopo la scomparsa nel 2013 del fondatore Giuseppe Rotelli. La società conta oggi su 18 grandi ospedali, oltre 5mila posti letto accreditati col Servizio sanitario e quasi 3 milioni di pazienti che ogni anno usufruiscono delle sue cure.

Forte in Lombardia, dove conta da solo il 14% di tutti i posti letto accreditati dalla Regione. Il colpo da maestro è stata l’acquisizione del San Raffaele di Milano, il prestigioso ospedale, simbolo del “privato di qualità” che Don Verzè aveva portato sull’orlo del crac oberato da un miliardo di debiti.

Il salvataggio del San Raffaele è stato gioco facile per i Rotelli che hanno accumulato liquidità impressionante negli anni. In cima alla catena societaria della famiglia c’è la Papiniano Spa che consolida tutte le attività: ha un attivo di bilancio di 2,1 miliardi; i ricavi consolidati sono di ben 1,65 miliardi, il patrimonio netto è di 426 milioni e il gruppo che raccoglie i 18 ospedali dei Rotelli ha cassa per ben 431 milioni. Un mare di liquidità figlia della gestione oculata del gruppo. Il solo Policlinico San Donato, l’ospedale alle porte di Milano che dà il nome all’impero dei Rotelli, ha fatturato nell’ultimo anno oltre 160 milioni con un utile netto di 26 milioni. Una profittabilità netta del 16% che la dice lunga sulla redditività dell’ospedale. L’ospedale che ha 780 dipendenti aveva cassa liquida nel 2018 per ben 97 milioni. Dai ricoveri pagati a piè di lista dalla Regione il San Donato incassa 102 milioni sui 162 di fatturato complessivo. E che la politica e le buone relazioni contino lo dice il fatto che la famiglia Rotelli ha da poco nominato presidente del gruppo Angelino Alfano, che di sanità sa ben poco, ma che i palazzi del potere li ha ben frequentati. Nel cda del gruppo e in quelli dei vari ospedali ecco comparire nomi di peso. C’è l’ex ad di UniCredit e oggi a capo di Rothschild Italia, Federico Ghizzoni, poi l’ex McKinsey Vittorio Terzi e Andrea Faragalli Zenobi ex presidente di Italo.

I Rocca. La sponda con la politica e il mondo che conta è vitale anche per Humanitas, il gruppo ospedaliero della famiglia Rocca. Nel Cda di Humanitas presieduto da Gianfelice Rocca figurano l’imprenditrice farmaceutica ed ex esponente di punta di Assolombarda, Diana Bracco ma anche Paolo Scaroni ex Eni; Rosario Bifulco, Massimo Capuano ex Borsa italiana. L’amministratore delegato l’uomo operativo dei Rocca è Ivan Colombo, esponente di punta di Cl, un lasciapassare essenziale in una Regione come la Lombardia. Humanitas è una macchina da soldi. Nel 2018 il fatturato consolidato del gruppo è arrivato a quota 920 milioni, raddoppiato in pochi anni. I margini industriali valgono 156 milioni di euro e l’utile nel 2018 è stato di 68 milioni. Più della metà dei ricavi arrivano dalle prestazioni rimborsate dal Ssn. La catena societaria dei Rocca vede in cima al gruppo Humanitas la spa Teur che ha il 93% delle quote. La catena però non si ferma in Italia: finisce (insieme ai dividendi) nella holding lussemburghese San Faustin della famiglia Rocca.

Se i Rocca e i Rotelli gestiscono strutture ospedaliere complesse e sofisticate da un punto di vista tecnologico, sia i De Benedetti che gli Angelucci hanno preferito puntare le loro carte sulle residenze per anziani: più comodo e meno oneroso. Non ci sono grandi investimenti in capitale e tecnologie, il grosso dei costi è rappresentato dal personale e, soprattutto, il business delle case di riposo vede il pubblico fornire un supporto importante. Lo Stato contribuisce a coprire i costi sanitari delle degenze e così, a fronte di rette pagate dai pazienti per la quota “alberghiera” che viaggiano in media sui 90-120 euro al giorno, i gestori delle Rsa incassano altri 40-50 euro al giorno dal Ssn. Tanto per dare un’idea solo la Lombardia nel 2019 ha speso per le Rsa 872 milioni: soldi incassati dalle oltre 500 case di riposo convenzionate con la Regione.

I De Benedetti. La creatura della famiglia De Benedetti si chiama Kos, è nata nel lontano 2002 e opera con vari marchi tra cui il brand “Anni Azzurri” e “Santo Stefano”. Il Gruppo Kos è diventata una realtà tentacolare. Presente ormai in 13 regioni italiane e 3 stati esteri, per un totale di oltre 12.800 posti letto. Kos gestisce 92 strutture in Italia e 48 in Germania. In Italia sono quasi 8700 i posti letto gestiti in: 53 residenze per anziani; 16 centri di riabilitazione; 13 comunità terapeutiche psichiatriche e 7 cliniche psichiatriche; 2 ospedali. Kos è inoltre attivo con 25 centri ambulatoriali di riabilitazione e diagnostica e 29 sedi di service per diagnostica e terapia (di cui 12 in Italia, 14 in India e 3 in UK). Sono oltre 13.700 i collaboratori di cui circa 8.900 in Italia, 6.900 dei quali sono dipendenti del gruppo. Kos ogni anno macina fior di utili. Nel 2019 ha portato a casa ricavi totali per 595 milioni di euro. Dal 2016 al 2019 i ricavi sono cresciuti del 30%. Gestendo bene i costi del lavoro che non superano il 40% dei ricavi, il margine lordo di Kos supera ampiamente il 20% del fatturato. Gli utili netti sono stati nel 2019 di 31 milioni. E negli ultimi 4 anni il gruppo ha cumulato oltre 130 milioni di profitti netti. Un business florido tanto che ci ha messo gli occhi anche il Fondo italiano d’investimento. F2i che ha come soci le fondazioni bancarie, le casse di previdenza e dulcis in fundo la Cdp, ha acquisito il 40% del capitale di Kos. I De Benedetti comandano e Cdp con altri finisce per fare il socio di minoranza. Che ci faccia lo Stato, via Cdp, nella gestione delle cliniche per anziani non si comprende.

Gli Angelucci. Anche per loro, col capostipite Antonio parlamentare di Forza Italia, il business delle Rsa con il marchio San Raffaele, produce ricchezza. Nel 2018 le cliniche degli Angelucci hanno prodotto ricavi per 105 milioni con un utile netto di 11 milioni. Su quei 105 milioni di ricavi ben 81 milioni arrivano dal Servizio sanitario nazionale, in virtù dell’accreditamento. La San Raffaele Spa vanta anche crediti con le singole Asl per 143 milioni. Un business florido per la famiglia che possiede anche Libero e Il Tempo, che compensa ampiamente le perdite nell’editoria. Gli utili che gli Angelucci fanno con le cliniche prendono la via dell’estero. La San Raffaele Spa è posseduta al 98% da una società lussemburghese la Three Sa. Ma non finisce qui perché sopra la Three ci sono altre due scatole basate in Lussemburgo. La Lantigos e la Spa di Lantigos. Due casseforti della famiglia. La stessa Three sa ha distribuito alle controllanti ben 153 milioni di riserve. Un fiume di denaro che dalle cliniche private finisce tutto all’estero.

No ai tecnici, sì al cemento: le idee renziane per la Sicilia

Sicilia Frankenstein. Ancora una volta l’isola rischia di essere il laboratorio perverso in cui far crescere un mostro che divori l’ambiente e il patrimonio storico e artistico della nazione. È una storia antica: tutto inizia con l’autonomia pre-costituzionale del 1946, e si consuma con la scellerata decisione del 1975 di devolvere a quell’autonomia anche il patrimonio culturale dell’isola. Un’autarchia risoltasi in una pressoché totale subordinazione degli organi della tutela al governo regionale.

Ora il disegno di legge 698-500, approdato alla discussione dell’Assemblea regionale, si propone di eliminare anche quel “pressoché” cancellando di fatto le soprintendenze sicule, e con esse il fastidioso intralcio di un corpo intermedio che obbedisce solo alla scienza e alla coscienza e non agli interessi privati, e alla politica che li difende. Eliminare di fatto l’articolo 9 della Carta che impone alla Repubblica di “tutelare” il territorio: è il sogno proibito dei politici che fanno delle mani libere sul territorio il cuore della loro idea di crescita (e, ora, di rinascita).

Due partiti oggi sono esplicitamente su queste posizioni: Lega e Italia Viva. Qualcuno ricorderà Porta a Porta del 16 novembre 2016: dialogando amabilmente con Matteo Salvini, l’allora ministra per le Riforme Maria Elena Boschi candidamente ammise: “Io sono d’accordo: diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d’accordo”. Non è un caso che, nelle ultime ore, le dichiarazioni più sperticate a favore del Ponte sullo Stretto siano di Matteo Renzi e di Matteo Salvini. È un’oggettiva omogeneità culturale, che accomuna anche i renziani rimasti nel Pd. Come Dario Nardella, che ha appena chiesto al governo di “consentire ai sindaci delle città d’arte di superare anche un muro di vincoli burocratici sul patrimonio storico e artistico. Senza non potremmo fare niente”.

Cosa ha in mente il sindaco di Firenze? Lo ha chiarito nella stessa intervista: “Per spostare una piccola parete ho bisogno di autorizzazioni delle soprintendenze, per rifare una facciata dell’autorizzazione paesaggistica”. L’idea è chiara: demolire, ampliare, ‘ristrutturare’ i monumenti storici senza dover passare dal vaglio delle odiate soprintendenze. Licenza di uccidere il patrimonio culturale in nome dello sviluppo (leggi cemento). Nella stessa Firenze la senatrice De Giorgi presenta un ddl (clamorosamente incostituzionale) per il quale gli stadi non sarebbero più soggetti a tutela (nemmeno se sono un capolavoro da manuale come quello di Nervi a Firenze) e il candidato Pd alla Regione Eugenio Giani annuncia che, se eletto, imporrà “coi carri armati” l’inceneritore a Livorno. Chiaro no? Basta vincoli, lacci e lacciuoli: che a decidere siano i politici, supremi garanti e interpreti del bene comune. Ci chiediamo cosa sarebbe stato delle città, delle campagne e delle coste italiane se in Costituente avessero prevalso questi spiriti animali: è presto detto, vivremmo “tombati” nel cemento.

Ora la Sicilia ci prova. L’idea della nuova legge è di Luca Sammartino, il dentista di Catania detto “Vasa vasa” per l’abitudine di baciare i suoi sostenitori. Un bacio efficace, visto che nel 2017 è stato eletto a Catania con 32.000 preferenze, più di chiunque altro nella storia dell’Assemblea Regionale. Non c’è bisogno di dirlo: Sammartino è prontamente transitato dal Pd a Italia Viva. E dunque: l’articolo 6 del ddl prevede che a decidere sulle autorizzazioni paesaggistiche non saranno più i soprintendenti (tecnici che provano, a volte con successo, a difendere la loro autonomia dalla politica) ma i comuni (come dare alla volpe la chiave del pollaio) e “il dirigente generale del dipartimento dei beni culturali e della identità siciliana”, cioè una diretta emanazione dell’assessore regnante cioè degli interessi che l’hanno portato al governo. All’articolo 7 si prova a fare in Sicilia quel che non riuscì alla Legge Madia: affidare ad accordi tra amministrazioni ciò che invece ora dipende dalle soprintendenze. Le quali vengono svuotate dall’articolo 8, che attribuisce tutte le loro competenze in fatto di conservazione a un Centro Regionale per il restauro. Se si aggiunge che il volontariato è definito “integrativo” degli organici si capirà che il fine è demolire i ranghi di archeologi, storici dell’arte, architetti, bibliotecari.

In una parola: cancellare in Sicilia l’articolo 9 della Costituzione italiana. Tutto questo col silenzio-assenso dell’assesore leghista alla Cultura, ora impegnato a giustificare il suo inno poetico alle SS di Hitler.

Insomma, a Palermo si prepara un’apocalisse culturale: che è la prova generale di quella che Renzi sta già pretendendo a Roma, dove sotto l’eterna insegna delle “semplificazioni” avanzano le truppe della cementificazione. Fermare questa scellerata legge mangia-bellezza è il primo passo per impedire che la peste del cemento divori l’Italia intera.

La sai l’ultima?

Cucina 90 olive ascolane mentre viene operata per rimuovere un tumore al cervello

Secondo chi scrive ci sono poche cose al mondo buone come le olive ascolane. È un dato di fatto: nessun momento è inopportuno quando si tratta di cucinare le olive ascolane. Come ci informa l’Ansa, una donna abruzzese – ma residente al confine con le Marche – ne ha cucinate 90 mentre veniva operata al cervello. Le ha preparate proprio in sala operatoria, sotto i ferri, mentre veniva sottoposta a un intervento per rimuovere un tumore al lobo temporale sinistro, l’area deputata al controllo del linguaggio e dei movimenti della parte destra del corpo. L’operazione è stata portata a termine con successo (sia per il cancro che per le olive) all’Azienda Ospedali Riuniti di Ancona. “È andato tutto bene”, ha detto il responsabile dell’intervento, il dottor Roberto Trignani. E non è nemmeno la prima volta: Trignani ha effettuato già “60 interventi in 5 anni in modalità ‘awake’ con il paziente sveglio e impegnato in a altre attività”. Ma nessuno prima aveva cucinato le olive ascolane: stavolta quindi è un trionfo.

 

Feltri spaziale. Libero ci ricorda una triste realtà: “Gli astronauti in orbita bevono la loro stessa urina”. 

È uno dei titoli più intensi della settimana. Ce lo regala Libero, il quotidiano di Vittorio Feltri. Edizione del 10 giugno, pagina 13, taglio basso: “Gli astronauti bevono la loro stessa pipì”. Sopra il titolo, l’occhiello arricchisce l’informazione: “Così si dissetano durante le missioni spaziali”. È in realtà una vecchia storia: da oltre dieci anni le navi spaziali hanno introdotto un sofisticato impianto di depurazione che trasforma l’urina dei viaggiatori in acqua potabile. Un sistema che è stato sperimentato con successo dalla Nasa a partire dal 2008 ed è a pieno regime da diversi anni a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. È un aneddoto senz’altro curioso, che ogni tanto viene riciclato dai giornali o dai siti – proprio come la pipì degli astronauti – e torna a fare capolino nel ciclo delle notizie. E poi, vuoi mettere? Se uno si ferma al titolo l’impatto è assicurato: “Gli astronauti si bevono la pipì”. E chissà cosa si mangiano.

 

Dramma in Belgio: da nove anni gli consegnano delle pizze a domicilio che lui non ha mai ordinato
È uno degli scherzi più antichi: mandare le pizze a casa di qualcuno. Magari vi è capitato: suona il citofono, dall’altra parte c’è il rider, si crea un minuto di imbarazzo perché tu non hai ordinato nulla e certamente non hai intenzione di pagare. Alla fine il fattorino prende atto di aver sprecato tempo e denaro, tu hai fatto una figuraccia gratuita, da qualche parte c’è qualcuno che si immagina la scena e ride. Ecco, succede. Per un uomo però questa boiata quasi innocente è diventata un incubo quotidiano. La preziosa notizia arriva dal Belgio, precisamente dal giornale fiammingo Het Laatste Nieuws: un cittadino di Turnhout, vicino Anversa, riceve pizze e altro cibo a domicilio quasi ogni giorno da 9 anni, senza aver mai ordinato nulla. Si chiama Jean Van Landegham, ha 65 anni ed è disperato: non ha idea di chi ci sia dietro. Nel 2019 ha rifiutato 500 euro di beni alimentari. Il record sulla singola consegna è di 14 cartoni di pizza. Il povero Jean sta perdendo il sonno. Solidarietà.

 

Si infila il caricabatterie nel condotto urinario: uomo indiano operato di urgenza alla vescica
La scena è piuttosto pulp e francamente facciamo fatica a comprenderne la dinamica. Ma tant’è: un uomo indiano è stato operato dopo lancinanti dolori all’addome. Grazie a una radiografia, il medico ha scoperto che il trentenne era riuscito nell’impresa di infilare il cavo di un caricabatterie dello smartphone all’interno della sua vescica. L’uomo all’inizio aveva mentito ai dottori sostenendo di aver ingerito il filo (lungo circa mezzo metro). Bugia: il cavo era entrato attraverso il condotto urinario. Volgarmente: se l’era infilato nel pisello. Lo fanno. È un tipo di masturbazione che si chiama “urethral sounding”, si può tradurre come “inserimento uretrale”. Il nostro amico indiano però ha rischiato di lasciarci la pelle, come racconta all’Hindustan Times il suo chirurgo, il dottor Walliul Islam: “Abbiamo prima proceduto a un’endoscopia perché il paziente ci aveva detto di aver ingerito delle cuffiette per via orale. In 25 anni non mi era mai capitato niente del genere”.

 

Alla cieca in tangenziale: a Milano un uomo guida per chilometri col cofano rialzato sul parabrezza
Come diceva quella canzone di Rovazzi che purtroppo non riusciamo a dimenticare, “col trattore in tangenziale, andiamo a comandare”. Qui non ci sono trattori ma c’è un eroe metropolitano che si è fatto un bel tratto della tangenziale est di Milano con il cofano dell’auto spalancato di fronte al parabrezza, coprendogli completamente la visuale. Ha guidato alla cieca, insomma. È successo pochi giorni all’altezza di Cascina Gobba in direzione Bologna. Una visione improvvisa. Una vecchia Lancia K color argento lanciata verso l’ignoto. Oltretutto a velocità piuttosto sostenuta. L’ignoto genio della tangenziale è finito nel video girato da un camionista esterrefatto, che l’ha ripreso con il telefono mentre guidava (a proposito della diffusa sensibilità per il codice della strada). Il video ovviamente è diventato virale. Le cronache raccontano che dopo pochi chilometri il guidatore folle si sia fermato alla prima area di sosta per risolvere il problema. Per fortuna nessuno si è fatto male.

 

Nuovi eroi di bronzo:in Virginia vogliono sostituire la statua di Lee con l’icona metallara Oderus Urungus
In questi giorni di furia iconoclasta vecchie statue vengono buttate giù e nuove statue hanno l’ambizione di sorgere. A Richmond, in Virginia, è stata vandalizzata e distrutta quella di Cristoforo Colombo e si apprestano a rimuovere anche quella del generale Robert E. Lee, comandante dell’esercito sudista durante la Guerra civile americana. Fin qui tutto bene, più o meno. Allo stesso tempo però sta prendendo piede una petizione goliardica che vorrebbe sostituire la statua di Lee con una dedicata a Oderus Urungus. Vi chiederete, comprensibilmente, chi fosse costui. La risposta potrebbe non piacervi: Oderus Ungerus è la mostruosa maschera da troll che indossava sul palco Dave Brockie, leader e frontman dei Gwar, band heavy metal satirica – citiamo da Wikipedia – “conosciuta per la sua immagine d’ispirazione horror-fantascientifica, canzoni ed esibizioni dai testi osceni e dai toni demenziali”. Il mitico Brockie è morto per overdose da eroina nel 2014. La petizione, mentre scriviamo, si avvicina alle 40mila firme.

 

Thailandia, feticista 24enne ruba 126 paia di ciabatte. E dopo averle indossate faceva l’amore. Con loro
Non sarebbe intenzione del titolare riempire questa rubrica di discutibili pratiche sessuali e devianti fantasie auto-erotiche, ma pare che nel mondo quasi non succeda altro. Oltre all’eroe indiano che si infila un caricabatterie nel pene, ha conquistato le cronache internazionali anche la storia dell’eroe tailandese che fa l’amore con le ciabatte. Ne dà notizia Metro.uk: il 24enne Theerapat Klaiya è stato arrestato in Thailandia dopo aver rubato 126 paia di babucce ai suoi malcapitati vicini. Non per dispetto: per passione. Il giovane feticista, a quanto si apprende, aveva una passione particolare per le infradito, ma all’occorrenza sapeva arrangiarsi con pantofole di ogni forma e ogni colore: così aveva messo insieme una collezione sterminata. Il ragazzo ha raccontato agli ufficiali il complesso rituale di accoppiamento: prima di congiungersi carnalmente con l’infradito, le indossa per diverse ore, prende confidenza con loro, inizia a baciarle e coccolarle. E poi quello che succede, succede.

“Furbo del monopattino. Io sono un po’ Trump e un po’ come Briatore”

“Da siciliano volevo che il mio piccolo avesse il nome del nonno. Ma qui a Beverly Hills gli americani storpiano la pronuncia. Lo avrebbero chiamato Giuseppi. Allora ho pensato un qualcosa che iniziasse con G, come quello di papà, e ho scelto George, poi ho aggiunto la W di William, che è più americano. Siamo felicissimi io e Samantha del nostro meraviglioso George W. Si chiama come Bush, un grand’uomo”

Salvatore Palella, mister Monopattino, il conquistatore dell’Italia a due rotelline, che ti fa correre senza dover sudare, ti fa cadere senza mandarti in ospedale e ti fa spendere pochissimo per il noleggio, è il volto dell’impresa pirotecnica, scapigliata, non allineata.

Helbiz la società con la quale è entrato nel business della smart mobility, fatturava ottomila euro due anni fa. Ora vale 160 milioni. Forbes dice che è il nuovo guru della mobilità green.

“Alt: negli Usa come fatturato stavamo già a 300 mila dollari”.

Ugualmente pochi. Ma il monopattino piace alla gente che piace.

Esattamente. L’avvocato che deve arrivare puntuale all’appuntamento, il notaio, il businessman.

Lei abita a Beverly Hills, ha sposato una ex modella, Samantha Hoopes ed è papà di George W. Già così è molto cool.

Sto con Trump fino al midollo. E sono nato il 29 settembre, il giorno di Silvio Berlusconi.

A 17 anni era a Dublino. Poi a Londra e a Milano. Un po’ cameriere, un po’ commerciante, un po’ affarista, un po’ spicciafaccende.

Mi sono sempre dato da fare. Dove c’è un problema c’è una soluzione.

Acutissimo, spregiudicato, vitale, arrembante. Soprattutto scaltro.

Faccio, faccio, faccio. Sono avanti.

Un po’ di guai con una società ora decotta, la Witamine.

Faccenda chiusa.

Andiamo a riprenderla dalla soffitta.

È una società finita, per colpa della quale sono stata vittima di una estorsione. Lei mi fa queste domande perché dalla Sicilia è partito un attacco contro di me”.

Era il prestanome di un signore poco raccomandabile.

Tutto chiarito col giudice. E vicenda archiviata. Il giornalista che lo ha scritto neanche mi ha chiamato.

La Sicilia l’ha scritto indagando sul suo passato.

In Sicilia non vedranno mai i miei monopattini. Vado ovunque ma non lì.

Due protesti cambiari.

Non ricordo.

Mi pare per 50 mila euro.

Ora ricordo.

I pagamenti non onorati ai calciatori dell’Acireale, quando nel 2013 ha fatto il presidente della squadra della sua città.

Quell’investimento fu una scelta sbagliata, un anno da dimenticare.

In una intercettazione un tizio le dice: “Tu in cinque anni l’hai messo in culo a mezza Italia”.

Rifiuto questa interpretazione, non mi racconta, non mi disegna, non dice chi è veramente Salvatore, Salvo per gli amici, Palella.

È un modo colorito per dire che lei è sempre un po’ avanti, scaltro, attivo. Agli italiani piacciono i furbi come lei.

In questa seconda definizione mi ritrovo.

Ha conquistato Roma, è entrato nel cuore della sindaca Raggi. Anche la Appendino l’ha accolta a Torino, e a Milano si è presentato nel migliore dei modi.

E Bari, Pescara, Napoli, Salerno, Verona. Ci stiamo espandendo ovunque.

A Parigi invece no.

Lì i gilet gialli bruciano i monopattini (e comunque noleggio anche le bici muscolari). Meglio stare alla larga.

La destra dice che il suo attrezzo è radical chic. Il bonus del governo per i ricchi.

Ma hanno capito che sono di destra, proprio come loro? Sono conservatore, Trump è un uomo che fa la storia.

Ha buoni rapporti con i cinquestelle.

Vero, si sono spesi molti con la smart mobility. Ci credono. In Parlamento mi ha aiutato, senza neanche conoscerlo, Luciano Nobili, un deputato di Italia Viva (Il mio uomo ai public affairs ora è un suo grande amico).

Molto bene.

Molto bene, sì.

Palella sbarca al Nasdaq.

A settembre. Abbiamo rinviato di qualche mese l’ingresso in Borsa per capitalizzare l’enorme aumento di valore che abbiamo ottenuto durante questa pandemia.

È un vero uomo del fare. Miami, New York, Los Angeles. Belle donne, alberghi favolosi, vacanze vip a Malibu, Porto Cervo. Ecco: lei è un Briatore junior.

Vivo la mia vita e non do molto peso alle sconfitte. I fallimenti sono solo una scusa per poter ricominciare.