Arrivò con B., arrestato per stupro

Paolo Massari, ex assessore all’Ambiente del comune di Milano e giornalista Mediaset, è stato arrestato nella notte tra sabato e domenica con l’accusa di stupro nei confronti di una amica, una professionista sua coetanea.

A Milano c’è chi lo ricorda, bellissimo, mentre negli anni 80 posa da modello umano per una marca di jeans nelle vetrine della Standa. Ma Paolo Massari era stato accusato di non tenere a bada le sue pulsioni verso l’altro sesso e un guaio, brutto, gli era già capitato. Quella volta, nel 2010, la faccenda si era conclusa con le dimissioni. L’aveva firmata per lasciare il suo incarico da assessore a Palazzo Marino – dove era entrato per la prima volta da consigliere nel 1997 con Forza Italia e sedeva a fianco a Silvio Berlusconi – in seguito a due lettere inviate al sindaco Letizia Moratti in cui una funzionaria del Consolato norvegese e un impiegata denunciavano di aver subito molestie. Lui aveva giurato e spergiurato di non essere “un violentatore”, ma la questione era troppo delicata: la famiglia della sindaca, che con le autorità di Oslo lavorava per questioni legate al petrolio, principale business della famiglia, non poteva permettersi di tenerlo in giunta e così lo aveva costretto al passo indietro. In quell’occasione non c’erano stati strascichi giudiziari: le due donne non avevano querelato e non erano stata aperte indagini. Questa volta, invece, l’inchiesta era inevitabile e per l’ex esponente del Pdl si sono aperte le porte del carcere.

È accaduto tutto sabato sera. Massari, 55 anni, che dopo l’esperienza in politica tornato a fare il giornalista, si era dato appuntamento con un’amica, un’imprenditrice sua coetanea della quale era stato anche compagno di scuola. Lei aveva voglia di confidarsi e magari chiedere aiuto perché, per via del lockdown, il suo lavoro non andava più bene come un tempo. Un problema di cui i due hanno parlato davanti a un drink e che avrebbero dovuto continuare ad affrontare a cena. A quel punto, secondo la ricostruzione degli investigatori, Massari ha proposto alla donna di lasciare lo scooter nel suo box per poi andare al ristorante. Una volta arrivati nel garage, dal quale si accede direttamente al suo loft, lui avrebbe cambiato registro. Secondo la versione della donna, avrebbe cercato di abbassare la serranda senza riuscirci. Da lì l’aggressione e, quindi, la violenza. In un momento di calo di tensione, la donna è però riuscita a scappare. “Mi ha stuprata”, ha detto chiedendo aiuto alla volante che attorno alle 21.45 dalle volanti l’ha soccorsa seminuda in strada, in via Nino Bixio. Trasportata alla clinica Mangiagalli, la donna ha raccontato l’accaduto ai medici che hanno accertato la violenza subita. Poco dopo, Massari è stato arrestato e portato a San Vittore.

Contagio dalla clinica alla Rai “Test e isolamento in ritardo”

Uno spettro si aggira tra le palazzine Rai di Saxa Rubra: il Covid-19. Nella cittadella che sorge a Roma sulla via Flaminia, cuore della produzione del servizio pubblico radiotv, serpeggia la paura che il contagio partito da RaiNews24 si sia diffuso in maniera incontrollata. Centodieci i tamponi effettuati dalla Asl Roma 1, cinque le persone positive al virus individuate ufficialmente, tutti tecnici, ma ce ne sarebbero altri 4.

Secondo gli esperti della Regione, a portare il SarsCov2 nella struttura sarebbe stato un tecnico che aveva una parente ricoverata all’Istituto San Raffaele Pisana, la clinica del gruppo guidato dal deputato di Forza Italia Antonio Angelucci trasformata in un focolaio che preoccupa da giorni la Capitale e ha propaggini anche a Montopoli, nel Reatino: 109 contagi, 5 morti, migliaia di test. L’uomo l’avrebbe poi trasmesso a un parente (forse un cognato) che lavora a Rai Sport. Tra gli infetti c’è un tecnico degli studi del Tg2. Sarebbe stato contagiato da uno dei primi 3 casi registrati nella rete “all news” diretta da Antonio Di Bella al distributore di caffè della palazzina: poiché durante l’emergenza il bar era chiuso, per settimane è stato utilizzato dai dipendenti di diverse strutture. Un altro caso sarebbe stato trovato nello studio “Saxa 5”.

Ora l’azienda sta sottoponendo i dipendenti al test sierologico, ma chi lavora in Rai ha paura. “Il problema si è verificato nella sala regia di RaiNews dove c’è una commistione tra tecnici e giornalisti”, racconta un dipendente. “Nella regia ruotano nelle 24 ore 100 persone e la squadra tecnica fatta di registi, tecnici, assistenti, operatori non ha turni fissi – racconta un’altra fonte –. Tutti lavorano con tutti”. Ancora: “Sono state messe in quarantena solo 9 persone – prosegue –, i nomi indicati dal collega” risultato positivo. “Tutti gli altri che avevano fatto il turno con lui nella stessa regia hanno continuato a lavorare. Una collega che aveva lavorato per due giorni con lui, non essendo stata nominata magari per una dimenticanza, non è stata isolata anche se aveva fatto presente all’azienda il contatto”. Altro problema: le squadre tecniche lavorano in diversi studi, i turni li portano a girare tra le strutture. Ora molti chiedono di superare le rigidità sulla privacy: “L’azienda deve rendere noti al suo interno i nomi dei contagiati – afferma un altro lavoratore – abbiamo diritto di sapere se siamo entrati in contatto con loro. La sera torniamo dalle nostre famiglie”.

“Ieri una collega mi ha detto: ‘Mi è stato comunicato che domani farò il tampone’ – racconta un’altra dipendente –. Ma in quel momento era accanto a me”, prosegue. Tante domande per la task force aziendale anti-Covid: “Le persone tamponate oggi (domenica, ndr) fino a sabato hanno lavorato?”.

Cgil, Cisl, Uil e Stampa Romana chiedono alla Regione test sierologici e tamponi per tutti i dipendenti: “Saxa Rubra ha migliaia di lavoratori – dicono – Tra famigliari, parenti e amici, potrebbe significare avere un terzo della città a rischio”. “È già tardi – commentava ieri sera una giornalista – Se il palazzo delle Garbatella occupato è stato quarantenato per 5 casi, a Saxa con tutto quel via vai andava chiuso tutto”.

“Al M5S non serve più un capo. Conte accompagni noi 5Stelle”

Giura di non avere rimpianti: “Se mi guardo indietro sono solo orgogliosa di quello che noi 5Stelle abbiamo fatto al governo”. Difende Giuseppe Conte, su tutto. E per il M5S del futuro immagina una segreteria collegiale senza un capo politico, “ma lo dovranno decidere gli iscritti”. Così parla la vicepresidente del Senato Paola Taverna, nel giorno in cui Beppe Grillo va dritto contro Alessandro Di Battista.

Oggi partirà il tour virtuale del Movimento. In cosa consiste?

La nostra manifestazione pubblica contro i vitalizi doveva segnare il ritorno del M5S nelle piazze, poi è arrivata la pandemia. Per questo partirà un tour virtuale in cui i parlamentari e gli eletti di tutte le Regioni spiegheranno in diretta su Facebook i provvedimenti del governo, e come sono stati declinati nei territori. A moderare gli appuntamenti saremo io e Danilo Toninelli, e ci sarà una regia a coordinare tutti gli interventi in videoconferenza.

Come si può interagire da dietro un pc?

Si potranno porre domande scritte o tramite video, partendo dal tema di ogni tappa. Domani (oggi, ndr) inizieremo dalla Basilicata, parlando del patto per l’export con il presidente della commissione Esteri Vito Petrocelli e con il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano.

Il premier Conte è impegnato negli Stati generali. A detta di molti sono solo una passerella, mentre invece servirebbero “azioni concrete, subito” come ha detto anche il governatore di Bankitalia Visco.

Tante e concrete misure sono state già assunte contro la crisi. Ma ora per programmare il rilancio serve un confronto. Non si può accusare Conte di decidere da solo e poi rimproverarlo se incontra le parti sociali. Gli Stati generali dureranno solo una decina di giorni, e questo momento di confronto è fondamentale.

I sondaggi dicono che se fosse leader del M5S Conte vi riporterebbe molto sopra il 20 per cento. Che ne pensa?

Conte è una figura super partes e il M5S ha una sua identità politica, anche se siamo noi ad aver portato il premier nelle istituzioni. Detto questo, sarei onorata se Conte decidesse di accompagnare il percorso politico del Movimento.

Dicono che voi 5Stelle vi stiate convincendo ad accettare il Mes. E sarebbe un’altra abiura…

Non so perché cercano di far dire al Movimento cose che ha già smentito. Per noi il Mes non è la soluzione, perché presenta troppe criticità. Non siamo irresponsabili: si sta trattando sul Sure, e bisogna lavorare per avere prima possibile le risorse del Recovery Fund.

Gli Stati generali del M5S dovrebbero tenersi in autunno. E molti di voi spingono per una segreteria collegiale che gestisca tutto.

Il M5S non può più essere solo quello della denuncia e della protesta, e deve interrogarsi su come fare per realizzare ulteriori obiettivi. In quest’ottica, credo una governance diffusa sia la soluzione migliore del futuro del Movimento. Sono sempre più convinta che un capo politico non possa più rispondere alle nostre esigenze.

La segreteria non è solo un modo per fermare Alessandro Di Battista?

Ho un forte legame con Alessandro, e voglio che sia assolutamente partecipe di questo processo. Sono dell’idea che debbano essere gli iscritti a decidere se serve ancora un capo politico o piuttosto una segreteria.

L’ex deputato invoca “un’assemblea costituente, un congresso, e poi vediamo chi vince”.

Sarebbe un congresso dove si scontrano le correnti. Ma noi siamo sempre stati alternativi e spero che lo saremo anche questa volta. A vincere deve essere solo il Movimento.

Beppe Grillo è stato durissimo con Di Battista. Ora il M5S rischia di spaccarsi?

Il Movimento è imprescindibile da Beppe Grillo. La mia ambizione è coniugare Beppe con Di Battista e Di Maio e la nostra rinomata eterogeneità. Se dovessimo pensare ad una conventio ad excludendum avremmo perso tutti.

Il sondaggio di nando pagnoncelli

E Grillo scomunica Di Battista: “Ma quale assemblea…”

Non è uno scontro, è di più. È l’anatema che spacca in due il M5S, e chissà ora come potranno tenerlo assieme. “Da oggi rischiamo davvero la scissione” sussurra un big verso sera, magari pessimista. Ma le agenzie sono colme dei segni della scomunica, quella di Beppe Grillo nei confronti di Alessandro Di Battista, l’ex pupillo con cui divideva i palchi e scorrazzava in moto, che ieri a Mezzorainpiù ha invocato un vero congresso per il Movimento: “Chiedo il prima possibile un’assemblea costituente in cui tutte le anime possano costruire una loro agenda e vedremo chi vincerà”. Ma a Grillo, il Garante, le parole dell’ex deputato non piacciono. E a trasmissione appena finita scaglia un tweet: “Dopo i terrapiattisti e i gilet arancioni di Pappalardo, pensavo di aver visto tutto… ma ecco l’assemblea costituente delle anime del Movimento. Ci sono persone che hanno il senso del tempo come nel film Il giorno della marmotta”.

La citazione è per una commedia americana del 1993, nella quale il protagonista Bill Murray vive sempre la stessa giornata, il 2 febbraio, in cui ogni anno viene aperta la tana della marmotta. Ma il senso è che Di Battista non deve chiedere congressi.

Grillo ha già deciso che il M5S dovrà essere guidato da una segreteria con vari maggiorenti. La stessa idea dell’ex capo politico Luigi Di Maio e di altri big come Paola Taverna. Mentre il lombardo Stefano Buffagni spinge per un Politburo, una sorta di ufficio politico che prevede ancora un capo. Ma Grillo vuole la segreteria. E Conte a palazzo Chigi, inamovibile. “L’attacco ad Alessandro vuole soprattutto blindare il premier, Beppe teme che un congresso destabilizzerebbe il governo”, sostengono in tanti nel M5S. Piuttosto, il fondatore pensa a un Movimento con Conte leader, di certo ancora candidato premier. Progetto che non dispiace neanche all’avvocato, che i sondaggi li legge, eccome. E che a creare una sua lista proprio non pensa. Piuttosto, “meglio guidare il Movimento”, ragiona chi lo conosce bene. In quale forma, si vedrà. Comunque un nodo per Di Battista, che anche ieri ha ribadito “di non voler picconare” il premier. Pur precisando: “Se Conte vuole fare il leader del M5S si iscriva e corra al congresso”. Di certo da giorni l’ex deputato e Palazzo Chigi si scambiavano segnali di pace, quasi di simpatia reciproca. Ma ieri, ecco Grillo. Di Battista guarda il tweet, il telefono gonfio di messaggi. Così se ne va a Villa Borghese con compagna e figlio. Poco dopo pubblica su Instagram una foto dal prato, con la sua reazione: “Ho fatto proposte e preso posizioni chiare. Si può legittimamente non essere d’accordo. Lo si dica chiaramente spiegando il perché”.

Ai suoi predica calma: “La gratitudine è importante, e io sarò sempre grato a Beppe. Ma rivendico il diritto di non essere d’accordo”. E ricorda: “Chiesi un congresso già dopo le Europee dell’anno scorso”. Fuori, gli eletti della sua possibile mozione fanno quadrato. Dalla senatrice Barbara Lezzi alle deputate Giulia Grillo e Dalila Nesci, fino all’eurodeputato Ignazio Corrao: “Di Battista? Ha assolutamente ragione, sono d’accordo al 100 per cento”. E il tweet di Grillo: “Non me lo spiego…”. Invece Vito Crimi, il reggente, esorta: “La parola d’ordine deve essere unità”. In serata ancora Di Battista, su Facebook: “Di ruoli e poltrone non mi interessa nulla. Vedo il Paese in difficoltà, sto solo lavorando a proposte”. Dicono che piacciano molto a Davide Casaleggio, da tempo in rotta con Di Maio, in gelidi rapporti anche con Grillo. Un altro tassello, di un mosaico che esplode.

Ambiente, lavoro e alta velocità: il nuovo programma del premier

Circa 180 progetti specifici, 9 direttrici generali. Più di Colao, ma senza le sue proposte imbarazzanti. Una riscrittura del programma di governo con alcune ambizioni importanti, innanzitutto l’ambiente, ma anche la concessione all’Alta velocità, però senza Ponte sullo Stretto. Importanti alcune proposte per il lavoro e per ora non c’è un dossier sul Fisco. Il documento è diviso in nove dossier principali: Digitale, Infrastrutture, Ambiente, Imprese e Lavoro, Filiera produttiva, Pubblica amministrazione, Formazione e Ricerca, Equità, Giustizia.

Ambiente. È forse il capitolo più corposo a partire dalla proposta di “decarbonizzazione” e l’istituzioni dei “Parchi solari” per produrre energia alternativa. Economia “green” e circolare e la proposta del Made Green in Italy, un marchio dell’economia sostenibile. Si nota il progetto “Italia in bici”.

Pubblica amministrazione. Si punta ad accelerare il rendimento, anche con lo smart-working, portale unico per le imprese, messa in rete di tutti i dati, obbligo di servizi in digitale, l’e-procurement, e un percorso di formazione costante a partire dalla Sna. Nulla su assunzioni di nuovo personale.

Infrastrutture. Sblocco di 13 direttrici ferroviarie e 39 autostradali, quasi tutti progetti già approvati e incagliati a vario titolo. Grande importanza alle Alte velocità Roma-Genova, Roma-Ancona, Roma-Pescara, la direttrice adriatica, la Basilicata, la Puglia, Sicilia e Calabria, ma senza menzionare il Ponte. Gli altri capitoli sono dedicati ai Porti, alla rete idrica e al piano edilizio di “Rinascita urbana” già presentato dalla ministra De Micheli. Approfittando delle Olimpiadi invernali si punta al rinnovamento delle strutture sportive.

Imprese e Lavoro.Conte immagina di confermare e potenziare il piano Industria 4.0 con grandi incentivi agli investimenti, assicurare il sostegno all’Export anche con finanza agevolata. Per il reddito dei lavoratori si fissa il salario minimo, la detestazione dei rinnovi contrattuali e una parziale ipotesi di “rimodulazione” dell’orario di lavoro magari tramite smart working”.

Sostegno a filiere. La principale, dopo il Covid, è il turismo per cui si prevedono sostegni, incentivi per ammodernamento alle strutture alberghiere, riqualificazione dei borghi, l’Agriturismo 4.0. All’Automotive non si offre la rottamazione, ma il passaggio ai veicoli meno inquinanti mentre per l’agricoltura si punta al Green Deal della nuova politica agricola comune. Del “piano acciaio” si legge solo il titolo.

Istruzione e ricerca. Del piano Colao si recupera l’idea di innovare il dottorato di ricerca, mentre si promette un piano straordinario di reclutamento dei ricercatori. La formazione resta però legata all’obiettivo di “riavvicinare la ricerca all’impresa”. Ritorna il progetto di “ridurre il sovraffollamento delle classi” (quanto? quando? come?) e il rafforzamento del tempo scuola.

Equità sociale. Rafforzamento della Sanità sul territorio, servizi di prevenzione, valorizzazione del personale sanitario. C’è in questo capitolo l’Assegno universale per i figli minorenni e la disciplina dei congedi parentali. Un titolo che farà drizzare i capelli a molti è “aumento delle pensioni di invalidità”. Sull’empowerment femminile si va dall’incentivo dell’occupazione e dell’imprenditoria all’eguaglianza retributiva al rafforzamento della protezione per le donne vittime di violenza). Giustizia. Solo l’ipotesi di riformare il codice civile e quello penale costituirebbe una rivoluzione, se poi ci si aggiunge il progetto di velocizzazione dei processi, il piano sarebbe un successo. Digitale. Rete nazionale unica in fibra ottica e sulla Rete 5G. Se ne discute da molto, sarebbe ora di capire come procedere. Il Cash-less che disturba molti esercenti, è un cavallo di battaglia di Conte..

Indro col senno di poi

Caro direttore, che delusione il carteggio tra te e Gad Lerner sul dibattito scatenatosi sulla figura di Indro Montanelli: e che amarezza, da lettore prima e da collega poi. Perché, ferma restando l’immensità di Montanelli in quanto giornalista e scrittore, è passato in cavalleria, nella vostra esegesi, il piccolo particolare della bambina dodicenne che il tuo ex direttore comprò in sposa ai tempi della conquista dell’Impero in Africa orientale: una vicenda, scrive Lerner, “che appartiene anch’essa a consuetudini odiose ma considerate normali all’epoca”, come se si trattasse di allacciare o no la cintura di sicurezza in auto; mentre tu te la cavi dicendo che “certo, commise alcuni errori”. Beh, complimenti. Perché delle due l’una: o Montanelli era un selvaggio primitivo acculturatosi e alfabetizzatosi solo al ritorno in Italia, a Impero africano conquistato, e allora capiamo, anche se con difficoltà; o invece era già quel che era, un intellettuale, e allora non ci sono parole per definire la spregevolezza dei suoi comportamenti umani. A maggior ragione visto che a 60 anni, nel programma Rai L’ora della verità di Gianni Bisiach (era il 1969), raccontava di aver comprato e sposato una dodicenne africana ancora compiacendosene…

Paolo Ziliani

 

Caro Paolo, mi spiace per la tua delusione, ma qui l’unica spregevolezza è quella dei giovani e vecchi somari (i giovani hanno almeno l’attenuante dell’età e di quello che non hanno imparato a scuola) che s’illudono di risolvere i problemi del mondo decapitando, abbattendo o imbrattando monumenti personaggi storici colpevoli di essere figli della cultura del loro tempo (e ora immagino si dedicheranno a picconare in effigie Socrate, Pasolini e quello schiavista suprematista antisemita di Voltaire). Non ho mai fatto “passare in cavalleria” le nozze africane di Montanelli: semplicemente avevo già scritto tutto ciò che so e penso un anno fa, quando un gruppo di femministe festeggiarono l’8 marzo lanciando vernice rosa sulla sua statua. Ma visto che insisti, senz’alcuna pretesa di convincere chi si è già formato il suo pregiudizio, ripeto. Nel 1935, a 26 anni, Montanelli partì volontario come giornalista-soldato in Etiopia, sottotenente in un battaglione di àscari eritrei e abissini. Il suo attendente di colore (sciumbasci) suggerì a lui e ai commilitoni single di sposarsi. Secondo le norme del tempo e del luogo, che non aveva certo importato o imposto Montanelli, chi voleva sposarsi doveva accordarsi coi genitori di una ragazza.

E firmare un contratto pubblico per una dote in denaro e un tucul. Così Montanelli sposò Destà, una ragazza di 14 anni e non di 12 che, com’era (e ancora in parte è) usanza nei Paesi tropicali, era già una donna da marito (anche Maria di Nazareth si sposò a 13-14 anni: pedofilo pure Giuseppe?). Il giovane Indro fece esattamente quello che facevano da sempre e avrebbero continuato a fare milioni di africani: una cosa che a noi occidentali del 2020 ripugna, mentre in quei luoghi era (e tuttora è) la normalità. Il XX Battaglione Eritreo si spostava continuamente nel Paese, ma Destà e le altre compagne dei soldati italiani e africani riuscivano a rintracciarli ogni 15 giorni portando loro biancheria pulita e generi di conforto. Finita la guerra – raccontò Montanelli – “uno dei miei tre bulukbasci (altri graduati del battaglione, ndr)… mi chiese il permesso di sposare Destà. Diedi loro la mia benedizione. Rientrai in Italia giusto il tempo per essere travolto prima dalla guerra di Spagna e poi da quella mondiale. Nel 1952 tornai nell’Etiopia del Negus e la prima tappa la feci a Saganeiti, patria di Destà e del mio vecchio bulukbasci, che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro”.

Oggi quel matrimonio combinato quasi un secolo fa sconcerta, come molte usanze tribali di ieri e di oggi (la ragazza era anche infibulata), mentre il “madamato” fra le truppe coloniali è legata a quel clima storico, fortunatamente superato. Ma è assurdo parlare di schiavismo, violenza, stupro e pedofilia (Destà non avrebbe chiamato Indro il suo primogenito). E peggio ancora di razzismo. Che semmai è quello di tentare di imporre i nostri stili di vita ad altri popoli. Infatti, poco dopo l’unione fra Indro e Destà, Mussolini proibì i matrimoni misti fra colonizzatori e colonizzati (e censurò la canzone Faccetta Nera che li esaltava): misura quella sì razzista, non le unioni fra italiani e africane. Che – come ha scritto Angelo Del Boca, maggiore storico del colonialismo italiano – erano semmai un “simbolo di integrazione” che “nell’atmosfera dell’epoca era inevitabile, una tradizione da rispettare… Ne abbiamo parlato a lungo con lui perchè sapeva che ben conoscevo i costumi eritrei e non mi scandalizzavo”. Se sappiamo delle nozze di Indro con Destà, lo dobbiamo solo al suo racconto. A me ne parlò quando gli chiesi chi fosse la ragazza di colore il cui ritratto campeggiava sulla sua scrivania, accanto a quelli di Maggie e Colette, la sua seconda e terza moglie. “E’ Destà, la mia prima moglie africana”, rispose, accarezzando la foto con tenerezza. Questo era il fascista, razzista, schiavista e stupratore Montanelli. Ora ciascuno può dare i suoi giudizi o tenersi i suoi pregiudizi.

Albertone è stato un attore tragico straordinario (e molto altro ancora)

“Che c’entra, Charlie Chaplin è stato un grandissimo attore, ma Totò era un genio!”. Basterebbe questa frase rubata a un’intervista televisiva per capire l’intelligenza e il livello artistico di Alberto Sordi. Fra pochi giorni, lunedì 15, cade il centenario della nascita. Quando morì, nel 2003, per due giorni una folla immensa sfilò nella sua camera ardente; e alle sue esequie parteciparono 250.000 persone, quasi come a quelle napoletane di Totò.

Sordi ha fatto di tutto: l’attore, il regista, ha cantato, suonato, ballato. Agli esordî, creò due indimenticabili macchiette radiofoniche, Mario Pio e il Conte Claro. Dopo la rivista e il varieté, è stato nelle mani dei più grandi registi italiani. Il primo che ne comprese le qualità fu Federico Fellini, con Lo sceicco bianco e I vitelloni. Poi Albertone sviluppò i ruoli perfettamente comici, come il Nando Moriconi, fanatico degli Stati Uniti, ne Un americano a Roma, di Steno.

I grandi registi compresero ben presto di trovarsi di fronte a una personalità complessa; naturalmente, gli intellettuali disprezzavano lui e sovente loro: mi ricordo come era considerato Steno quando avevo vent’anni. Albertone è stato un attore tragico straordinario; in alcune pellicole principia come comico, poi prosegue attuandosi sempre più tragicamente. Per esempio, ne La grande guerra di Monicelli, ne Un borghese piccolo piccolo, dello stesso, in Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy: tre capolavori. Ma se ne andrebbe un intero paginone a fare il solo elenco dei suoi films.

Sordi aveva una terza chiave, molto originale. Il piccolo borghese o il proletario romano che si “arrangiano”, a volte con esito felice (Il medico della mutua, di Zampa), a volte infelice (Il vedovo, di Risi). Non si tratta di ruoli strettamente comici: li chiamerei di un “mezzo carattere” realista. Questi personaggi posseggono frustrazioni e angosce. La sottigliezza della sua interpretazione, la maschera facciale tanto mobilissima quanto immobile (che si scorderà come si chiude Detenuto in attesa di giudizio?), il suo impareggiabile scrupolo professionale, giustificano la passione provata dal pubblico per lui e le onoranze a un certo punto ricevute in vita e in morte. Lo si diceva avaro: basta leggere una sua biografia per conoscere le sue opere di beneficenza, soprattutto in morte. Speriamo che il centenario gliene porti ancora.

I vostri figli protestano? Allora “Stiamo calmi!”

La famigerata didattica a distanza è ormai conclusa e, probabilmente, al ricevimento delle pagelle non sentiremo genitori perdere le staffe per una bocciatura o per voti non corrispondenti alle loro aspettative; eppure questo non significa che le cose siano andate lisce. La comunità educante ha espresso più volte frustrazione e stizza di fronte all’odissea della scuola e ha cercato costantemente di portare l’attenzione a quella che è stata la realtà emotiva degli oltre 8 milioni di studenti italiani: relazioni interrotte e schiacciate prima sotto l’eco della paura, poi dietro al vessillo della rabbia. Emozioni tanto potenti quanto scomode, che hanno fatto da compagne di banco a bambini e ragazzi e che hanno messo in difficoltà i genitori in questi mesi di convivenza tanto forzata quanto necessaria.

La rabbia è l’emozione delle possibilità negate, pronta a far capolino ogni volta che ci troviamo davanti ad un ostacolo che ci impedisce di raggiungere i nostri obiettivi. In età evolutiva è necessaria per una crescita emotivamente equilibrata, ma questo è possibile solo a patto che gli adulti imparino a leggerne i significati nascosti e a modularli nella relazione con bambini e ragazzi, soprattutto in situazioni di emergenza come i quattro mesi appena conclusi. Nasce da queste considerazioni la scelta di farne il centro del mio libro.

Maria mi racconta della reazione di Samuele (5 anni) alle proposte di lavori e video chat offerte dalle educatrici della scuola materna frequentata. “Non appena vede che preparo il cellulare e i pennarelli scappa e comincia ad urlare, non c’è verso di farglieli fare!”. Come dargli torto? Per i bambini più piccoli la scuola è relazione, è contatto e affetto; la voce della maestra che arriva attraverso la cornetta non è riconoscibile, perché mancano il contesto e la morbidezza emotiva della figura di riferimento. Allora come si fa? Lo si coccola, si accarezza con la voce e si racconta di un futuro, auspicabilmente vicino, in cui si potrà tornare a colorare la stessa identica scheda tra le rassicuranti mura della propria classe. Fino ad allora si respira forte e si impara insieme ad accogliere il dolore sordo della mancanza.

Michela, 9 anni, mi racconta di aver consegnato la verifica di geometria in bianco; semplicemente si è rifiutata di rispondere alle domande che la maestra aveva caricato sul registro elettronico. Inevitabili, le conseguenze. Michela, però, è stata bravissima: si è fatta coraggio e ha affrontato la rabbia della mamma con la sua, affermando che lei la verifica di geometria proprio non riusciva a farla perché, se fossero stati a scuola, la maestra avrebbe insegnato loro cosa sono gli angoli e come calcolarli facendo raccogliere i legnetti dal cortile e costruendoli insieme. Lei l’avrebbe fatto insieme a Lucia, “perché lei ha la colla con i glitter che brillano anche sotto il banco”. 10 e lode alla mamma che ha accolto le motivazioni della figlia, cogliendo che l’apprendimento passa anche attraverso le relazioni con i pari, nella possibilità di osservare ed essere stimolati da qualcuno che è diverso da me. Senza Lucia, l’ampiezza dell’angolo retto è solo un numero stampato su un foglio.

Enrico è furente: sua madre gli ha annunciato che l’esame di terza media non si farà e che sarà sostituito dalla sola discussione della tesina. Via chat. Enrico ha perso le staffe: per mesi aveva riposto in giugno la speranza di rimettersi alla prova, di affrontare l’esame insieme ai suoi compagni e di dimostrare a tutti che la fatica fatta in questi mesi aveva avuto senso. Aveva persino accolto la proposta dei prof di “fare una tesina che parli di voi e non delle materie” e aveva deciso di studiarsi Falcone e Borsellino e discutere del concetto di legalità in Italia. In terza media.

“E ora cosa mi rimane? Venti pagine scritte su word e l’impronta del mio pugno incazzato sul retro della porta”.

“Sotto le bombe in Iran. Il leone che assale papà e mamma senza trucco”

È un’altra dimensione, senza tempo; o un tempo fermo a una stagione della storia dove esistono gerarchie, regole, liturgie, scaramanzie, tradizioni, condivisione, tradizione orale, viaggi lenti, così lenti da poter distinguere dal finestrino un albero dopo l’altro; una dimensione di precarietà perenne e ricercata, e Stefano Orfei Nones, figlio di Moira Orfei e Walter Nones, è uno degli ultimi discendenti dell’arte circense.

Da qualche anno è direttore del circo di famiglia, un’esistenza passata tra cavalli, tigri, zebre, la polvere, le polemiche con gli animalisti, i riflettori, i bambini, le fughe e la certezza di vivere dentro una famiglia molto più ampia del comune albero genealogico. Sua cognata, Benedicta Boccoli, lo definisce un “cavaliere del Medioevo”, e come un cavaliere antico non tradisce sentimenti neanche se parla delle persone che non ci sono più, di quando ha visto suo padre rischiare con un leone, o della tigre che lo ha aggredito e gravemente ferito. Tratta la morte come la vita. E anche lui, per la prima volta in cinquanta e passa anni, si è fermato, ha dormito a casa (“ho imparato a passare l’aspirapolvere e cucinare”) e scoperto una dimensione comune.

Un Orfei Nones stanziale.

Al massimo abbiamo chiuso per le vacanze: tre settimane a giugno…

Poi basta.

L’unica altra volta di uno stop così prolungato è stato al tempo della guerra in Iran, con la Rivoluzione islamica.

E voi cosa c’entravate?

Nel settembre del 1977 siamo partiti da San Donà di Piave, destinazione Teheran: un viaggio in treno lungo 18 giorni, e composto da due carovane speciali con 70 vagoni, più cinque camion rimorchio.

Invitati da…

Lo Scià in persona, e il debutto è stato a Teheran; in oriente abbiamo lavorato fino a gennaio del 1978 e sbaglia chi crede che la Persia fosse un Paese arretrato: erano più avanti dell’Italia, con i centri commerciali, la televisione via cavo, la Cnn collegata, e mia zia che guardava Sentieri. Lì ho bevuto la prima lattina di 7Up e frequentato la scuola italiana.

Le interessava studiare?

Mica tanto; comunque dopo Teheran siamo andati sul Mar Caspio e sono iniziati i problemi: ci hanno bruciato i tendoni, sono morti due cavalli, è arrivata la polizia che ci ha avvertito: “Siete europei, quindi considerati nemici dagli integralisti”.

E voi?

I miei organizzarono un controllo notturno con tanto di torretta; (sorride) il paradosso era che il giorno la polizia manganellava le persone per il troppo caos al botteghino; la notte, sempre la polizia, ci proteggeva da chi ci voleva morti.

Perfetto.

Gli integralisti arrivarono a piazzare un ordigno sotto il camion dell’acqua convinti fosse pieno di benzina, e a lanciare una bomba contro il tendone.

Voi imperterriti…

Avevamo 1.800 spettatori a sera e mio padre andava avanti.

E lei?

Come lui.

Davanti a un problema a chi si rivolgeva?

Da piccolo a mamma, da adulto a papà.

Come mai?

Era un uomo distaccato, focalizzato sul lavoro e attento alle regole; (ci pensa) con mio figlio seguo la medesima strada.

Da bambino che regole aveva?

Non ho vissuto l’adolescenza, ho sempre studiato e lavorato; a 15 anni ho smesso con i libri e mi sono dedicato al circo.

Solo?

A 42 anni, grazie a Reality Circus, ho conosciuto Brigitta Boccoli, poi diventata mia moglie: i primi tempi, quando uscivamo con i suoi amici, sentivo parlare di “settimana bianca”. Zitto, annuivo. Dopo venti giorni ho ceduto e ho domandato: “Ma cos’è questa settimana bianca?”.

Mai in vacanza?

La prima volta, sempre a 42 anni, Brigitta mi ha portato al mare e lì ho scoperto la fobia per i granchi: un giorno ho chiamato l’inserviente perché me ne era entrato uno in camera.

La non adolescenza è un rimpianto?

No, sono cresciuto con delle regole.

Sì, quali?

Per i circensi niente fumo, niente alcool, niente droghe; oltre agli spettacoli giocavo a pallone, poi mi dedicavo al trapezio, lavoravo con i cavalli e assistevo tigri ed elefanti.

Torniamo all’Iran.

Ci spostiamo a Babol e tutti i giorni dei ragazzi ci tirano i sassi, fino a quando il capo della polizia dà l’allarme: “Ci sono circa mille persone che stanno arrivando per dare fuoco al circo: noi tentiamo di arginarli, ma se ci passano difendetevi come potete”.

Quindi?

Piazziamo la corrente elettrica intorno a noi, prepariamo i leoni e le tigri da scagliare contro, mentre noi bambini veniamo chiusi in un tir e a me consegnata un’accetta: “Se vedi una mano alla finestra, non pensare, taglia”.

E…

Alla fine ci fu un accordo: potevamo mettere in scena lo spettacolo, e subito dopo andare via; solo che due ragazzi decisero di lanciarci una bomba, ma a uno dei due gli scoppiò in mano.

Nient’altro?

Siamo rimasti per cinque mesi fermi a Teheran, sostenuti dall’ambasciata italiana; (cambia tono) in quel periodo, in Iran c’erano la rivoluzione e le fosse comuni, poi a ottobre mia mamma riuscì a tornare a casa e con lei mia sorella: appena in Italia cercò sponde e aiuti nella politica, ma Andreotti si rifiutò.

Soluzione?

Mamma tentò il suicidio, l’armatore Achille Lauro mandò una nave a prenderci, e lo Scià ci riconsegnò i passaporti prima di abbandonare il Paese.

Lo dice sorridendo…

Mamma era estrema in ogni manifestazione, conosceva alla perfezione la comunicazione.

Chi comandava in casa?

Mio padre era la sostanza, mamma l’immagine: si integravano alla grande.

Conosciuti, come?

In Kuwait sotto il tendone di Orlando Orfei; però mio padre era un circense atipico: fino ai 18 anni era andato a scuola dai Salesiani, legatissimo a loro, tanto da non tollerare parolacce, soprattutto le bestemmie; poi ha iniziato a lavorare con Wanda Osiris e con lei ha girato i più grandi teatri d’Europa.

Insomma, i suoi…

Incontrati nel 1959, sposati nel ’61 e nel 1963 hanno aperto il loro circo; però mamma era impegnata nel cinema, da lì i primi guadagni (gli brillano gli occhi).

Che succede?

Non avevano una lira, ma una pila di cambiali e alcuni compromessi: era impossibile acquistare una roulotte, così mamma viveva con la sorella, papà con il fratello; dopo qualche tempo, e grazie a un film, mamma ottiene una bella cifra e la invia a papà: “Compra un caravan”. Passano delle settimane e lei lo raggiunge al circo: “Dov’è la nostra casa?”. Lui, zitto, la porta dagli elefanti e dai leoni: “Li ho investiti così”.

Lei da sempre in giro.

Potevo cambiare scuola ogni quattro giorni e tutte le volte che entravo in una classe nuova la maestra mi presentava e, sistematicamente, con il tono di voce da idea originale, proponeva un tema sul circo. Io scrivevo sempre lo stesso.

Com’era sua madre struccata?

Con i capelli lunghi, ancor più bella e la pelle perfetta: dai suoi vent’anni aveva smesso di prendere il sole, e non c’è una foto di lei senza trucco e senza “cofana” in testa; se non era perfetta, non usciva.

Quanto impiegava per prepararsi?

Circa due ore.

Dei genitori impegnativi.

Non mi ha mai pesato, anzi è un motivo di orgoglio (sorride); al massimo mi sono agitato quando mio padre è stato aggredito da un leone. E io ero lì. E mio zio lo ha salvato.

Anche a lei è successo…

Premesso: gli animali per il circo possono nascere solo in cattività, devi crescerli da subito e quando ci sono aggressioni, la colpa è sempre nostra.

Cioè?

Quando crei un gruppo, e impieghi anni, non puoi inserire un elemento nuovo, non puoi alterare gli equilibri, e quella volta mio padre accolse un altro leone; il “vecchio” si vendicò.

Invece, lei?

Un errore da idiota: dopo 200 repliche ho cambiato il mantello, la tigre non mi ha riconosciuto e mi ha aggredito.

Quanti punti di sutura?

Nessuno, quei tagli non si possono ricucire, altrimenti viene l’infezione.

E non parliamo di graffi…

Mi ha aperto la testa, dalla fronte fino a dietro la nuca, e mi è saltata una parte di orecchio; poi mi ha ferito la mano, dietro la schiena (e alza la maglietta), e uno squarcio sulla coscia.

La tigre dopo se ne rende conto?

Zero, non percepisce, ed è tornata in moto con me.

La porta in moto?

Sul sidecar.

Se qualcuno la attacca, la difende?

No, l’elefante sì: la sera dell’aggressione, quando poi in pista sono entrati gli elefanti, quella che mi amava alla follia ha sentito l’odore del mio sangue e ha dato di matto; sono stato costretto a uscire dall’ospedale, in sedia a rotelle, per tranquillizzarla e farla mangiare.

Neanche qui ha avuto paura…

Forse non è chiaro, ma dopo l’Iran, e avevo 12 anni, nei primi anni Novanta siamo finiti in mezzo alla guerra in Jugoslavia.

Anche lì?

Nel 1991 il circo era a Belgrado e ci siamo rimasti diversi mesi perché non riuscivamo a uscire; ancora peggio in Croazia nel 1995: a Slavonski Brod, confine con la Bosnia, di notte arrivavano gli attacchi aerei; un giorno, per un tamponamento, mio cugino finisce in questura a Sisak, e mentre è lì vede la gente arrivare, prendere mitra e fucili, e andare via.

Siete fuggiti?

Immediatamente e il giorno dopo li hanno bombardati; il nostro agente sul posto era un tizio che poi abbiamo scoperto essere un boss della guerra, e la sua brigata si chiamava “Moira Orfei”. Lo hanno ucciso con un colpo alla nuca.

Ha mai detto: chi me lo fa fare?

Posso stare a Spalato, in Iran, a Roma o a Teramo, non cambia nulla: il circo è sempre lo stesso e per me conta solo riempire il tendone e la soddisfazione di render felice il pubblico.

I suoi l’hanno mai rimproverata di qualcosa?

Avevo troppo rispetto, non ho mai sgarrato: a 19 anni ho chiesto a mio padre se potevo uscire con una ragazza, c’era una festa; lui: “Meglio di no, chissà che gente c’è”. Ho obbedito.

Oltre il circo?

Solo il pallone, ho giocato nella Primavera del Genoa e dovevo finire in C1, ma ho rinunciato per un altro “no” dei miei.

Questo è un rimpianto.

Un po’ sì, ma ho portato avanti la nostra storia; mia moglie mi rimprovera perché secondo lei sono più in ansia se sta male uno dei miei animali che uno dei nostri figli.

È vero?

Sono cresciuto così: mio figlio ha la mamma, l’animale ha solo me.

Ha mai mangiato carne di cavallo?

Non ci penso proprio.

Scaramanzie?

Tutte la classiche.

Pregiudizi su di voi?

Spesso ci confondono con i rom, e secondo la leggenda i circensi sono dei ladri acrobatici, in realtà chi lavora nel circo non muore di fame, non ha bisogno di rubare.

Quanto guadagna un circense?

Due o tremila euro, ma è spesato, vive nel circo, quindi mette tutto da parte; (sorride) la gente ha da sempre un po’ paura di noi, ci considera pericolosi.

Un po’ lo siete?

È più la fama, ma siamo cresciuti per strada, conosciamo le regole, sappiamo difenderci ed è vero: alcuni circensi sono pericolosi, se provocati alzano le mani e sanno pure come.

Il suo cognome è Orfei Nones.

Nel 1986 tramite il presidente Pertini mi hanno cambiato il cognome e anteposto quello di mia madre.

Era d’accordo?

No, poi negli anni ho capito che avevano ragione i miei: per papà era più importante l’attenzione sullo spettacolo; (ci pensa) per l’ambiente circense sono il figlio di Walter Nones, per il pubblico sono il figlio di Moira Orfei o il marito di Brigitta Boccoli, e a scuola di mio figlio sono il papà di Manfredi.

C’è qualche componente della famiglia che non ha seguito la tradizione?

Nessuno.

Lei chi è?

Uno che ha sulle spalle una tradizione meravigliosa.

 

Torna il Covid-19 al mercato: questa volta il virus è nel salmone

Torna la paura in Cina per una seconda ondata di Covid-19 e il Dragone richiude le porte dopo i nuovi casi scoppiati a 55 giorni dall’ultimo positivo al virus che proprio dalla città cinese di Wuhan ha messo sotto scacco il mondo negli ultimi sei mesi. “Si torna allo stato di guerra” ha annunciato il governatore del distretto del Fentai meridionale, dove nel mercato alimentare di Xinfadi, a sud di Pechino, sono risultati positivi un uomo di 52 anni e altre dozzine persone, perlopiù asintomatiche.

Tornata alla vita normale nell’ultimo mese, con la riapertura di ristoranti e negozi e la ripresa anche del traffico nelle ore di punta, la Cina si trova di nuovo a fare i conti con i metodi studiati per tenere a bada la malattia, soprattutto per quanto riguarda le norme – a detta del governo, “rigide” – per i mercati alimentari.

Il focolaio di Fengtai ha costretto Xi Jinping a chiudere 11 complessi residenziali e diverse scuole vicino al mercato, oltre a restringere di nuovo i movimenti per la Capitale, sospendere gli eventi sportivi, chiudere al turismo proveniente da altre parti del Paese e congelare i nuovi piani per la riapertura delle scuole primarie. In particolare, le nuove infezioni hanno scatenato il panico intorno al commercio di salmone i cui lotti, provenienti dal mercato di Xinfadi, sono stati ritirati da tutto il Paese. Infetti e positivi al virus pare fossero i taglieri utilizzati per preparare il salmone importato, sebbene i pesci non possano essere contagiati dal Covid-19. Ieri sono state segnalate altre sei infezioni tra i lavoratori del mercato. Intanto il governo ha testato centinaia di persone del sito, uno dei più grandi mercati agricoli all’ingrosso in Asia, scoprendo altri 45 casi asintomatici. I funzionari hanno isolato in tutto 139 contatti e il mercato è blindato da militari e poliziotti 24 ore su 24, mentre in queste ore si stanno testando più di 100mila dipendenti. Il governo, preoccupato che il nuovo focolaio possa espandersi come fu per Wuhan, ha anche inviato volontari porta a porta a chiedere se qualcuno si sia recato a Xinfadi, prevedendo tamponi anche per chi sia passato di lì dalla fine di maggio. Torna anche l’incubo dell’origine animale – ma dai contorni ancora poco chiari – del nuovo coronavirus.

In Thailandia i ricercatori hanno iniziato a raccogliere campioni di pipistrello e a testarli per il Covid-19, nonostante il parere contrario del governo che ritiene che questo rappresenti una minaccia per i cittadini. L’obiettivo è quello di raccogliere 300 pipistrelli in due giorni dalle grotte della provincia di Chanthaburi nel sud-est del Paese, testarli e poi rilasciarli. “Abbiamo bisogno di farlo, perché potrebbero esserci similitudini tra il pipistrello cinese da cui può essere partito il virus e le nostre specie”, ha spiegato lo scienziato a capo della ricerca. Insieme a nuovi casi, torna anche la polemica sul tema della “disinformazione cinese” sul Covid. Sulle polemiche sollevate dalla chiusura di centinaia di account da parte di Twitter perché ritenuti colpevoli di diffondere fake news sulla pandemia, è intervenuta ieri anche la portavoce del ministero degli Esteri, Hua Chunying, secondo cui la Cina sarebbe la “più grande vittima” di tali menzogne fin dallo scoppio dell’epidemia da parte di alcune persone e forze della comunità internazionale che hanno calunniato e diffamato la Cina con dicerie.

Hua ha citato anche quello che ha presentato come un promemoria divulgato dai media statunitensi che per le elezioni Usa 2020 consiglierebbe ai candidati repubblicani di affrontare la crisi del Covid attaccando la Cina.

“Se Twitter ritiene che i tweet che elogiano gli sforzi anti-epidemici della Cina siano ‘disinformazione’, ha concluso Hua, mi chiedo cosa faranno con la vera disinformazione che ha innegabilmente infangato la Cina”.