Atlanta offre un’altra vittima di colore al movimento black

Si chiamava Rayshard Brooks, aveva 27 anni; venerdì sera, ad Atlanta, dinanzi a un ristorante della catena Wendy’s ha avuto una colluttazione con due agenti ed è stato ucciso. Brooks era afroamericano, dunque, è un nuovo caso Floyd? In Rete circola un video girato da alcuni testimoni con un cellulare, per cui ognuno, in attesa dell’inchiesta giudiziaria, può giungere alla propria conclusione. Per chi partecipa alla mobilitazione generata dalla morte di George Floyd avvenuta a Minneapolis il 25 maggio – la vittima soccombe sotto la presa di un agente che viene poi accusato di omicidio – quella di Brooks è l’ennesima fine di un ragazzo di colore che finisce sotto il piombo di due agenti troppo zelanti. Da un altro punto di osservazione, Floyd oppone resistenza all’arresto in modo violento, si divincola, fugge. Gli agenti lo inseguono. Uno degli agenti lo insegue, poi si sentono le detonazioni. La versione ufficiale del Georgia Bureau of Investigation, riportata anche da Buzzfeed, dichiara: la pattuglia (i cui membri sono stati sospesi, ndr) era stata chiamata dai gestori del ristorante perchè una persona dormiva dentro una automobile che bloccava l’accesso al drive-thru del locale.

Gli agenti hanno sottoposto Brooks all’alcol test, che non ha superato. A quel punto i poliziotti tentano di arrestarlo e ne nasce una zuffa durante la quale Brooks si difende a suon di pugni tanto da divincolarsi. Per la polizia, nella lotta l’afroamericano afferra un taser e prova a fuggire, dopo qualche metro uno dei due agenti gli spara. Brooks muore in ospedale. Quello che avviene poi è la reazione della comunità di colore che si è radunata dinanzi al ristorante invocando “No justice, no peace”: senza giustizia non ci sarà pace. Atlanta è una delle città americane che ha preso parte ai cortei per chiedere la fine delle violenze contro gli afroamericani; proprio alcuni giorni fa la sindaca Keisha Lance Bottoms, democratica e di colore, dichiarava alla Cnn che quando si tratta delle azioni della polizia l’equilibrio da raggiungere è difficile: “Mi sento arrabbiata e frustrata, ma a conti fatti sono convinta che vi siano tanti agenti che ogni giorni indossano l’uniforme e si prendono cura della nostra comunità”. Che la situazione ad Atlanta fosse tesa lo dimostra anche un altro episodio, due agenti hanno fatto causa dopo essere stati licenziati per aver usato il taser nei confronti di alcuni studenti, fermati durante un controllo in auto.

Le proteste legate a Black Lives Matter anche in Europa sono state pretesto per menare le mani. È accaduto a Parigi, dove sono tornati i Black Bloc; la polizia ha sparato i lacrimogeni. A Londra in programma ieri due manifestazioni, una dei sostenitori di Black Lives Matter, l’altra di estremisti di destra che si sono assunti la “difesa dei monumenti”, dopo che nella Capitale la statua di Churchill è stata impacchettata per evitare danneggiamenti da chi accusa il primo ministro di essere stato razzista.

 

“Quei nostri ufficiali sedotti da Bolsonaro sono una vergogna”

Le parole di Sérgio Xavier Ferolla, tenente generale dell’Aeronautica ed ex presidente del Superiore Tribunale Militare, hanno un peso in Brasile, dove una parte degli ufficiali iniziano a mostrare un certo malessere nei confronti del presidente Bolsonaro e del suo governo. Il parere critico di Ferolla, di origine italiana, conta anche perché non è certamente legato al Pt, e non è di sinistra; ritiene di essere stato per cinquant’anni fedele alla Costituzione, in particolare a quella proclamata dopo i tragici anni del regime militare.

Iniziamo dal Covid-19; il Brasile è al secondo posto al mondo con 41.952 morti. Secondo lei, il governo Bolsonaro come sta affrontando l’emergenza?

Si tratta di una questione d’estrema gravità per il popolo brasiliano. È chiaro che il coordinamento del governo federale, oltre a essere inadeguato e contrario al buon senso, ignora la sofferta esperienza degli altri Paesi e le raccomandazioni dell’Oms. Di fronte a tale mancanza di controllo, i governatori cercano di fare da soli pur con informazioni incomplete su contagi e decessi reali.

I militari hanno nuovamente un ruolo politico: come giudica questo coinvolgimento?

Su alcuni generali dell’Esercito entrati nell’équipe presidenziale, ho già espresso la mia opinione: arrecano un danno all’immagine delle Forze Armate la cui maggioranza non accetta il loro coinvolgimento negli scontri fra partiti e in atti radicali che minacciano la democrazia.

Il professore Piero Leirner, specialista di affari militari, ha dichiarato a Bbc News che l’attuale escalation del conflitto politico è parte di un progetto. Le provocazioni di Bolsonaro consentirebbero ai militari una futura azione per riportare l’ordine riparando al caos della politica. Un progetto che viene da lontano, dopo la rielezione della presidente Rousseff, quando Bolsonaro iniziò a frequentare i cadetti della sua ex accademia militare Agulhas Negras, dove dichiarò la candidatura alla presidenza nel 2018.

Le cause che portarono all’impeachment della presidente Rousseff maturarono all’interno dello scontro politico e non hanno avuto interferenze dai militari. Direi che Rousseff ha pagato il non aver preso le distanze da politici corrotti che saccheggiavano le imprese pubbliche e i finanziamenti governativi.

Eppure, secondo Lernier, Bolsonaro si è preparato il terreno ed è tornato nel 2015, 2016, 2017 e 2018 ad Agulhas Negras. Il comandante dell’Esercito avrebbe saputo delle visite, ma il ministro della Difesa e il presidente della Repubblica ne erano ignari.

Il comportamento di Bolsonaro è stato il passo iniziale per presentarsi come restauratore dell’ordine e mettere all’angolo i guasti della sinistra. Arrivato al potere, Bolsonaro ha sedotto alcuni generali, li ha trasformati in suoi accoliti: una vergogna per l’Esercito e una mancanza di rispetto verso le altre Forze Armate, come la Marina e l’Aeronautica.

Eppure Bolsonaro fu allontanato dalla carriera in divisa, lo accusarono di avere piazzato delle bombe nei bagni dell’accademia militare, anche se più tardi ottenne nuovamente i gradi di capitano. Come è possibile che le Forze Armate si fidino di un ex militare degradato?

Bolsonaro fu punito dai suoi comandanti e sottoposto al giudizio del Superiore Tribunale Militare. Assolto dall’accusa per mancanza di prove, è stato riammesso nell’esercito, ma con la certezza di non ricevere più promozioni. Con queste prospettive è entrato in politica: prima come consigliere comunale e poi da deputato federale.

Si dice che Bolsonaro rappresenti il livello più basso dei militari e non gli alti ufficiali: lei lo conferma?

Le assicuro che i generali dentro al governo non comandano nulla, e che non esiste una logica di bassa manovalanza nelle Forze Armate; aggiungo che le manifestazioni promosse dal presidente sono coordinate, dietro le quinte, da elementi di estrema destra, a loro volta legati a estremisti americani e religiosi neo-pentecostali.

“Il mio Angelo insultato” “No, per lui solo rispetto”

Caro Direttore, Massimo Fini che dichiara di essere cieco, in realtà quando si tratta di colpire i morti aguzza la vista e vede anche quello che non c’è mai stato. Evidentemente egli odia i trapassati non perché sia cattivo, assolutamente no, ma li strapazza e li insulta perché sa che hanno difficoltà a smentirlo o replicare.

Sul Fatto Quotidiano di giovedì 11 giugno, Fini ha scritto una articolessa sulla famiglia Rizzoli, dal titolo “P2, corna e Tolstoy, la saga del Corriere”, in cui si è divertito a dare addosso soprattutto a mio marito Angelo, prendendolo in giro con commenti insultanti e offensivi, pur dicendosi suo amico, profittando del fatto che non c’è più da oltre sei anni, ucciso dall’eccesso di giustizia applicata su di lui.

Fini non è mai stato amico di Angelo Rizzoli, in venticinque anni di matrimonio non l’ho mai visto in casa nostra e non ho mai sentito mio marito nominarlo come giornalista o commensale, segno che non lo riteneva degno di nota.

Nonostante ciò, Fini lo ha descritto in maniera insolente e vile azzardando addirittura un’analisi psicologica come fosse stato per anni il suo terapeuta, affibbiandogli ignobili soprannomi in modo indegno, proprio a mio marito che era un gentiluomo coltissimo e rispettoso persino di gente squallida.

Avrei preferito che Fini scrivesse di Angelo quando lui era in vita, cosa che non ha mai fatto evidentemente temendo smentite sanguinose e fulminanti che non gli sarebbero state di sicuro risparmiate. Già precedentemente Massimo Fini, sempre sul vostro quotidiano, mentre Angelo era stato appena deposto nella bara, scrisse contro di lui in una prova analoga di codardia, che continua anche ora in modo sgangherato, insistendo come allora con falsità e inesattezze incluse nel pezzo, infangando un uomo che non gli ha mai fatto nulla di male e che merita solo rispetto. Io ho avuto due figli da Angelo che si chiamano Rizzoli, che adoravano il loro padre e vivono del suo ricordo, e non permetto a nessuno di offendere in maniera così miserabile la sua memoria, nemmeno da un vostro giornalista mai decollato.

Capisco il dolore di una donna che ha perso il marito pochi anni fa, capisco molto meno, anzi non capisco affatto, il livore della signora Rizzoli nei miei confronti rovesciandomi addosso una serie di insulti gratuiti, sia sul piano personale che professionale.

Nel novembre del 1983 feci per l’Europeo una lunga intervista ad Angelo Rizzoli, che il direttore Claudio Rinaldi suddivise in tre puntate, che all’epoca aveva già subìto due arresti. In quell’intervista, Angelo conferma punto per punto tutto ciò che ho scritto l’altro giorno sul Fatto. Quindi smentendo me, la signora Rizzoli smentisce, senza rendersene conto, suo marito. Angelo mi fu grato per quell’intervista che avveniva in un momento in cui tutti lo trattavano da appestato perché, diversamente dalla maggioranza degli italiani, è mio costume, signora Rizzoli, correre in soccorso degli sconfitti e non dei vincitori.

Quando a Milano ci fu la seconda tranche dei funerali di Angelo (la prima si era svolta a Roma) mi ci recai. Notai che ero il solo giornalista presente insieme a Paolo Liguori. C’ero andato per onorare la memoria di un ragazzo che era stato mio compagno di scuola, di un uomo che era stato per sette anni il mio editore, di una famiglia che era stata molto importante per Milano e non solo. La signora Rizzoli sembrò contenta di vedermi, fu lei a venirmi incontro e scambiammo qualche parola. Così fu con Alberto (“so che sei stato molto vicino ad Angelo in questi ultimi tempi”, “be’ non si è fratelli per nulla”) e con Andrea. Il quale il giorno dopo mi telefonò ringraziandomi per il pezzo che avevo scritto sul Fatto e ci ripromettemmo di rivederci. Poiché ognuno pensa che gli altri ragionino con la sua testa (se non fosse offensivo oserei dire “omnia sozza sozzis”), la signora Rizzoli si fece l’idea che fossi andato a quel funerale per carpire chissà quali segreti sulla famiglia Rizzoli di cui, non foss’altro che per ragioni anagrafiche, sapevo forse più di lei. Abbastanza di recente, a una cena con più tavoli, la signora Rizzoli venne a salutarmi al mio. Poiché lì per lì non l’avevo riconosciuta a causa dei miei problemi, chiamiamoli così, di vista, cui la signora accenna con grande signorilità, andai al suo tavolo per scusarmi e lei mi disse che uno dei suoi figli, che stava negli Stati Uniti, si occupava di oculistica e avrebbe potuto essermi d’aiuto. Comunque è vero, io ci vedevo benissimo anche quando ci vedevo benissimo. Come documentano i miei articoli sul Giorno vidi lo sfascio della Rizzoli prima dello stesso Angelo, vidi il ruolo che aveva Tassan Din e, in un altro campo, per fare uno dei tantissimi esempi, in una lettera aperta a Claudio Martelli, allora vicesegretario del Psi, nello stesso 1983, previdi che il Partito socialista, se continuava a comportarsi come si stava comportando, sarebbe finito nel fango. Cosa che avvenne dieci anni dopo.

Non ho mai detto né tantomeno scritto di essere amico di Angelo Rizzoli. Non è colpa mia se abbiamo fatto lo stesso liceo, se siamo della stessa mandata, lui del 12 novembre 1943 io del 19 novembre, se siamo nati entrambi sulle colline del lago di Como e per gli stessi motivi, perché allora le famiglie, mariti esclusi, sfollavano per sfuggire ai bombardamenti dei liberatori angloamericani. Ho visto quindi il bullismo psicologico che i miei compagni di liceo, non certo io, esercitavano sul giovane Angelo e che lo stesso Angelo ammette in quell’intervista. Non è affatto vero, come sostiene la signora Rizzoli, che io mi accanisco su Angelo Rizzoli una volta che è morto. È vero proprio il contrario, lo definisco “il più innocente dei colpevoli” nel crac Rizzoli-Corriere, affermo, a dispetto di tutte le maligne gazzette, che quella con Eleonora Giorgi fu una storia d’amore. Insomma lo tratto con quella affettuosa simpatia che ho sempre avuto per i grandi quando cadono in disgrazia. Claudio Martelli, che credo la signora Rizzoli conosca bene, mi può essere testimone.

La signora Rizzoli scrive che non sono “mai decollato”. Bisogna capirsi sul termine. Se s’intende che i personaggi potenti, potentissimi, che ho attaccato, quando erano vivi, vivissimi, non sono riusciti, nonostante tutto, a torcermi il collo, ciò è vero. Se è un giudizio sulla mia carriera è perfettamente legittimo. Però io sono un Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura (e nella giuria c’erano Paolo Mieli e Ferruccio de Bortoli), lo stesso Montanelli ha fatto al mio libro Il Conformista una prefazione così lusinghiera che mi porto come fiore all’occhiello. Inoltre secondo la nipote, Letizia Moizzi, Indro mi considerava il suo erede tanto che avrebbe voluto che, dopo la sua morte, la rubrica di lettere che teneva sul Corriere fosse affidata a me. E in campo giornalistico, se la signora Melania Rizzoli me lo consente, pardon me lo permette, preferisco credere più a Montanelli che a lei. Amen.

Il caso Louis C.K. La molestia non è una forma d’arte

La masturbazione per me è importante. Mi mantiene sano. Sono un buon cittadino, un buon padre, riciclo e mi masturbo. E ne sono orgoglioso. E dopo, mi masturberò pensando a te. E non c’è niente che tu possa fare al riguardo. (Si toglie il microfono e se ne va incazzato) – Louis C.K. a Ellen Farber, presidente del gruppo “Cristiani contro la masturbazione”, in un programma tv, 2011

La cosa più importante da rammentare, quando si giudica la prassi divertente, è che la risata scatta a causa della tecnica della gag, non del suo contenuto. (Chi non sa questo, non sa molto. Ci torneremo su). Di qui l’imbarazzo quando vi trovate a ridere di gag contrarie ai vostri valori: il meccanismo comico ha reso connivente la vostra simpatia. A questa dinamica persuasiva, però, si deve anche il ruolo educativo della satira. Louis C.K. ne approfittò. Spiegava: “Mi piace portare le persone in una zona delle loro menti, o della loro cultura, di cui hanno paura, e poi farle ridere”, e per anni fu celebrato come lo stand-up comedian più sincero nello scandaglio delle proprie miserie, finché si scoprì che certe sue battute famose sulla masturbazione compulsiva evocavano molestie sessuali che lui, all’insaputa del pubblico, commetteva per davvero: si masturbava di fronte a donne non consenzienti (colleghe comiche). “Mi masturbo troppo e mi scoccia e non so perché. Forse perché è così egoista, non so cosa sia, ma so che è sbagliato, so che sto facendo del male a qualcuno da qualche parte”. La riprovazione sociale fu immediata, dopo un articolo del New York Times sulla vicenda: con quelle battute, Louis C.K. trivializzava i suoi abusi; da quelle risate, Louis C.K. ricavava una giustificazione delle sue molestie.

Alcuni fan lo difesero con il vecchio adagio secondo cui arte e artista vanno separati; ma l’argomento non può essere applicato a Louis C.K., perché la sua arte riguardava molestie vere, con disprezzo completo delle vittime, e del pubblico. E Louis C.K. continua a farlo. Nel nuovo tour, parlando della condanna pubblica ricevuta dopo l’articolo del Times, dice: “Aspettate che trovino le mie foto in blackface”. (La pratica del “truccarsi da negro”, in voga negli anni del vaudeville, era usata nei minstrel show, dove comici di pelle bianca interpretavano un personaggio di colore sulla base di stereotipi razzisti. Dagli anni 60, anche grazie alle battaglie per i diritti civili condotte da Martin Luther King, la cultura statunitense condanna il blackface). Louis C.K. prosegue il monologo sostenendo che ha fatto il blackface per anni. “Non lo facevo per essere divertente. Mi piaceva. Mi faceva sentir bene. Lo faccio per prendere sonno”. Questo paragone fra blackface e masturbazione allude alle sue molestie sessuali per minimizzarle: non sono paragonabili a qualcosa che ti piace fare (la masturbazione). Che ti piaccia molestare donne non rende giuste le molestie. L’organo del giudizio morale non è un orpello, ma è la ragione della satira, ad avercelo.

Molto criticate sia la sua lettera di “scuse”, poiché non chiedeva affatto scusa alle sue vittime; sia la sua rentrée, come niente fosse, al Comedy Cellar di New York, dopo pochi mesi di assenza dalla ribalta, durante i quali non aveva mostrato alcuna contrizione, né fatto alcunché per meritarsi il perdono delle sue vittime: era un molestatore sessuale che tornava sul luogo del delitto a sorpresa (confermando il suo pattern comportamentale: imporre se stesso a delle vittime). In quell’occasione ebbe pure la sfacciataggine di scherzare sul fischietto anti-stupro, le spettatrici in prima fila impietrite.

Fece scalpore, inoltre, l’ovazione che il pubblico gli tributò al suo ingresso sul palco, come fosse un eroe. Un paradosso di cui adesso conosciamo il mistero: le accuse hanno reso Louis C.K. un mostro, cioè un capro espiatorio più efficace per il rito comico. In quale altra professione il proprietario di un’azienda avrebbe riammesso in ditta un molestatore sessuale con la leggerezza dimostrata dal proprietario del Comedy Cellar, Noam Dworman? “Allontanare Louis C.K. dai comedy club non è una misura punitiva: è una misura di sicurezza sul luogo di lavoro”, ha scritto Ian Karmel, head writer del Late late show with James Corden.

Permettere a Louis C.K. di esibirsi come “ospite a sorpresa” fu, innanzitutto, una furbata: Dworman poté difendersi dalla tempesta mediatica dicendo che non lo sapeva. Al secondo ritorno di Louis C.K., tempo dopo, introdusse una regola: “I clienti insoddisfatti da un comico possono andarsene”, il biglietto risarcito. Come se fosse legittimo offrire la possibilità di vedere uno che banalizza le sue molestie sessuali. Ed equiparando implicitamente il disgusto per Louis C.K. al non gradimento estetico, altra banalizzazione delle molestie sessuali. Il Comedy Cellar permette solo ai big di esibirsi come ospiti a sorpresa. Concedere questa possibilità a Louis C.K. ebbe una forte valenza simbolica: gli restituì il prestigio intatto.

Qualche settimana dopo, il comico Ted Alexandro, accolto sullo stesso palco da un applauso tiepido, esordì dicendo: “Cos’è, uno dev’essere accusato di molestie sessuali per ricevere una standing ovation?”. E poi, con sarcasmo: “Davvero vogliamo vivere in un mondo dove un uomo non può chiedere a una collega se può togliersi i vestiti e masturbarsi? La nostra cultura è arrivata a questo?”.

Il nuovo monologo di Louis C.K. conferma il suo modus operandi ingannevole. Parlando della vicenda, dice: “Ecco un consiglio che davvero solo io posso darvi. Se mai chiedete a qualcuno: – Posso masturbarmi di fronte a te? – e loro dicono di sì, dite semplicemente: – Ne sei sicuro? – Questa è la prima parte”. Una ricostruzione spudorata, perché falsa: le sue vittime non dicevano affatto di sì, stando all’inchiesta del New York Times. Come se non bastasse, prosegue: “E poi se dicono di sì, non fatelo e basta. Non fatelo. Perché guardate, qualunque cosa vi piaccia, ok, perché tutti hanno la loro cosa, qualunque sia la vostra cosa, non lo so. Tutti voi avete la vostra cosa. Non so quale sia la vostra. Siete così fottutamente fortunati che io non sappia quale sia la vostra cosa. Capite quanto siete fortunati? Che la gente non conosca la vostra fottuta cosa? Perché tutti conoscono la mia cosa”. Come se tutti fossero in segreto molestatori sessuali come lui, o chissà cos’altro. E com’è intitolato il monologo? “Sincerely Louis C.K.”. Sinceramente. Daccapo, la falsità del manipolatore incallito.

(8. Continua)

 

Newsletter e temi inediti, da domani c’è un Fatto in più

Il giornale è sempre lo stesso, ma da domani avrà qualcosa “in più”. Prende il via, infatti, il piano delle nostre Newsletter – in tutto dodici – che ci porterà sui dispositivi digitali senza sguarnire il giornale che avete tra le mani. Una parte di quei contenuti confluirà nella sezione Un Fatto in più sul nostro sito. Nei giorni della epidemia e dei lutti, i nostri abbonati digitali sono raddoppiati e le vendite in edicola aumentate di circa il 30%. A questa fiducia vogliamo rispondere con uno sforzo “in più”.

Quotidiane. I nostri abbonati conoscono già le Newsletter quotidiane: In Edicola, la vetrina del giornale appena sfornato e I Commenti in cui raccogliamo i contributi delle nostre firme. In serata poi abbiamo Ore 19 con un’informazione riassuntiva della giornata in un’unica email. Fino a pochi giorni fa, avevamo anche Speciale Coronavirus pubblicata tutti i giorni dal 28 febbraio e che speriamo di non dover riaprire.

Tematiche. A queste newsletter quotidiane si aggiungono ora quelle tematiche. Iniziamo domani con Il Fatto economico in cui, oltre agli approfondimenti del nostro inserto, riceverete una traduzione dal Financial Times e altri contenuti speciali.

Due newsletter molto speciali saranno invece Fatto for future con le storie più importanti per il futuro del nostro pianeta, la rubrica di Luca Mercalli e uno spazio riservato ai giovani di Fridays for future. E poi A parole nostre, ovvero l’universo raccontato dal punto di vista delle donne, ma non solo per le donne

Scanzi quotidiani. Ringraziamo Andrea Scanzi che ci ha dato la disponibilità con Scanzi quotidiani, a raccontare quello che ha fatto, detto, visto durante la settimana. In Che c’è di Bello, nostro inserto del sabato, offriremo direttamente sullo smartphone una guida degli eventi da seguire, i libri e i film da non perdere, le mostre e gli spettacoli da vedere, mentre con Il meglio della settimana, che pubblicheremo la domenica, rivediamo i principali contenuti della settimana trascorsa, che magari vi siete persi.

Il Fact Checking andrà a scandagliare i grandi fatti che fanno discutere mentre Il Fatto Internazionale mostrerà quel che accade nelle principali capitali internazionali e in più conterrà il dossier del quotidiano francese Mediapart, nostro partner internazionale. Fra poche settimane sarà invece pronta l’ultima nostra creatura, una newsletter sui Fatti di giustizia, in cui vi racconteremo cronache, insider, polemiche e dibattiti.

Le newsletter saranno inviate ai nostri abbonati, quelli del nostro sito e della piattaforma Loft, ma sono disponibili a tutti (troverete le indicazioni nella sezione Un Fatto in più). Le iscrizioni spontanee sono già 20mila, speriamo di saper onorare la vostra fiducia.

Torino, la faida e i tre cadaveri scomparsi. Dopo 24 anni non c’è nessun colpevole

Sotto un cielo coperto di nubi, nella boscaglia vicina ai campi di pannocchie e ai sentieri fangosi di Volpiano (Torino), l’8 aprile di sette anni fa, Rosario Marando indicò ai carabinieri due punti in leggera discesa. Due alberi a 30 metri l’uno dall’altro. Disse: “La zona è questa. Lo so perché ricordo che quando ero nella fossa, la sera del primo giugno 1997, vedevo in lontananza quella casa. E quel campo. Gli alberi sono cresciuti dopo. Avevamo trascinato i cadaveri per un po’. Gli Stefanelli li abbiamo messi uno a destra e uno a sinistra, il Mancuso sopra. A coprire tutto un giubbotto e due sacchi di calce. Sopra ancora rami che ho spaccato io”. Sembrava l’inizio della svolta. La soluzione di un mistero che durava da vent’anni. Il processo sulle morti di Antonio e Antonino Stefanelli (nipote e zio), Franco Mancuso e Roberto Romeo, ammazzati in una faida di ’ndrangheta, era iniziato da pochi giorni. Il 4 aprile del 2013, davanti alla Corte d’Assise, Rosario Marando – uno dei cinque imputati – si alzò in piedi, a fianco del legale Wilmer Perga, esclamando: “So io dove sono i corpi. Seguitemi”. Il giudice Pietro Capello interruppe il processo: “Andiamo a Volpiano”. Per giorni gli inquirenti cercarono i cadaveri degli Stefanelli e di Mancuso. Nessuno li ha mai trovati. Le ricerche furono sospese dopo mesi. Il processo si concluse con la condanna di tutti gli imputati.

Oltre a Marando, che ammise di aver sepolto i cadaveri ma non gli omicidi, c’erano Antonio Spagnolo, Natale Trimboli, Santo Giuseppe Aligi, Gaetano Napoli. Due giorni fa, la Corte d’appello di Torino, al quarto procedimento (dopo la trasmissione degli atti della Cassazione) ha assolto tutti. Mauro Anetrini, avvocato di Aligi, spiega: “Per la Corte non hanno commesso il fatto. Aspettiamo le motivazioni. Il pentito che li accusava, Rocco Marando (fratello di Rosario, ndr), ha ritrattato la sua versione più volte”. Forse questo ha influito. Il caso per ora è chiuso. Oppure – se la procura farà ricorso – si ricomincerà da zero. Per la quinta volta. Dopo sette anni di processi.

L’unico cadavere ritrovato di questa storia che insanguinò la provincia di Torino, in cui i Marando e gli Stefanelli lottavano per la contesa del traffico di droga, fu quello di Roberto Romeo. Gli spararono nel 1998 a a Rivalta (Torino), dietro alla Fiat. Gli Stefanelli e Mancuso erano stati freddati un anno prima, nella villa dei Marando a Volpiano. Gli Stefanelli vennero “invitati” per risolvere una questione. Poi uccisi perché (secondo l’accusa) i Marando volevano vendicare la morte di Francesco, trovato carbonizzato il 3 maggio 1996 nei boschi della val di Susa.

Criminali nazisti all’ergastolo: 2 soli ancora vivi

Nonostante i processi tardivi, istruiti solo dopo la scoperta del cosiddetto Armadio della vergogna, sono stati 60 gli ergastoli inflitti ad altrettanti criminali di guerra nazisti, condannati in via definitiva per alcune delle peggiori stragi commesse in Italia tra il 1943 e il 1945. Quel drappello, per ragioni anagrafiche, si è negli anni via via assottigliato: ed oggi sarebbero solo due – stando almeno agli atti ufficiali – gli ergastolani ancora vivi. Sono Wilhelm Karl Stark, 99 anni, accusato di vari eccidi commessi nell’Appennino tosco-emiliano e in provincia di Massa; e il quasi omonimo Alfred Stork, 97 anni, ritenuto responsabile di una delle stragi dell’isola di Cefalonia.

Secondo il procuratore generale militare di Roma, Marco De Paolis vi sono infatti ancora due procedure di esecuzione della pena pendenti: mai, tuttavia, alcuna è andata a buon fine. Di Stork, caporale “scelto a caso” per far parte del plotone di esecuzione, condannato per l’uccisione di “almeno 117 ufficiali italiani” della Divisione Acqui a Cefalonia, non si hanno notizie da un pezzo. Stesso discorso per Wilhelm Karl Stark, ex sergente della divisione corazzata Hermann Goering della Wehrmacht, condannato per una serie di eccidi, tra cui la strage di Cervarolo, in provincia di Reggio Emilia, in cui furono trucidati 23 civili ed il parroco del paese. Stark è però riemerso dalle tenebre due anni fa, quando una troupe del Tg1 lo ha scovato in un sobborgo di Monaco di Baviera. Quella volta l’ex sergente confermò di essere stato con la Goering in quei luoghi, continuando però a negare le sue responsabilità.

Gabrielli: “Sono un funzionario, non mi candido”

Gentile Direttore, da alcuni giorni si rincorrono voci sulla mia possibile candidatura al vertice del Comune capitolino, come peraltro già avvenne allorquando ricoprivo l’incarico di Prefetto di Roma.

Com’è giusto che sia, gli schieramenti politici stanno lavorando per l’individuazione dei possibili candidati e l’opinione pubblica commenta. Ringrazio quanti stanno pensando a me, ma credo sia doveroso dire che la candidatura a Sindaco di Roma non fa parte dei miei orizzonti.

Da tempo, anche qui senza usare un linguaggio obliquo, vado sostenendo la necessità di limitare il diritto di elettorato passivo, la possibilità cioè che un funzionario dello Stato, con un ruolo apicale, si candidi nel territorio in cui svolge la sua funzione.

Non voglio scomodare considerazioni circa la necessità di restituire dignità alla Politica, sottraendola alla ricerca affannosa di un “Papa straniero”.

Mi limito a rilevare come chi ricopre incarichi pubblici, soprattutto di grande visibilità, goda di una posizione di vantaggio rispetto agli altri contendenti, “dopando” in tal modo la competizione elettorale. Ma l’argomento che trovo dirimente è l’esigenza di riaffermare il carattere terzo della funzione amministrativa: una tardiva “discesa in campo” genera inevitabilmente il sospetto che il comportamento di quel funzionario ed i suoi atti siano stati condizionati dai suoi convincimenti ideologici o dalle sue ambizioni politiche. E ciò semplicemente non può essere.

(Capo della Polizia Direttore generale della Pubblica sicurezza)

Da domani gli aiuti a fondo perduto: “Soldi in 10 giorni”

“Con quello che non può non definirsi un incredibile ritardo rispetto agli eventi, parte da domani la possibilità per piccoli imprenditori e professionisti di ottenere gli aiuti a fondo perduto stanziati dal decreto Rilancio: parliamo di imprese e singoli che abbiano avuto ricavi nel 2019 sotto i 5 milioni di euro e abbiano visto i loro introiti calare di oltre un terzo ad aprile rispetto a un anno prima. Insomma, una misura che si rivolge in primo luogo a commercianti, artigiani, agricoltori e partite Iva e dovrebbe coprire (per fatturati fino a 400mila euro) fino a un massimo del 20% della perdita (salendo coi ricavi la percentuale scende al 15% e al 10%). Ad esempio, se il calo è stato di 30mila euro si ha diritto a 6mila euro al massimo: in ogni caso il contributo – che è completamente escluso da tassazione – non può essere inferiore a mille euro per le persone fisiche e a duemila per le società. La procedura per chiederlo sarà attiva da domani pomeriggio e fino al 24 agosto sul sito dell’Agenzia delle Entrate (può ovviamente attivarla anche il commercialista) e il direttore Ernesto Maria Ruffini pare fiducioso di poter pagare in tempi brevi: “Gli aiuti verranno erogati dall’Agenzia entro una decina di giorni direttamente sul conto corrente dei richiedenti che rientrano nei parametri fissati dal legislatore. La procedura che abbiamo realizzato con Sogei (la società del ministero dell’Economia che si occupa di informatica) consentirà di presentare la richiesta online sul nostro sito Internet oppure tramite il canale Entratel inviando la domanda pre-compilata dai software gestionali di cui già si avvalgono i contribuenti e i loro intermediari”. I soldi non sono a esaurimento: in sostanza se le richieste superassero lo stanziamento, il fondo sarà rifinanziato.

La spiaggia anti-Covid è molto indiscreta. Tende e ombrelloni solo per conviventi

Il muro di Pietrasanta. Di sabbia, si intende. Nonni di qua, nipoti di là. Nella selva di ordinanze e regolamenti partoriti con il Covid arriva il caso dello stabilimento balneare comunale della Versilia: si può stare sotto un unico ombrellone e si può affittare la stessa tenda da spiaggia solo se si è conviventi. A stabilirlo è stato Claudio Viviani, amministratore della Pietrasanta Sviluppo, cioè la società che gestisce lo stabilimento: “Non mi sono inventato niente – ha ricordato Viviani al Tirreno – Devo applicare seriamente le disposizioni”. Una scelta criticata da molti clienti; una ventina avrebbero deciso di non rinnovare gli abbonamenti. Il caso è finito in Comune e in Regione: basta l’autocertificazione, chi prenota l’ombrellone si assume i rischi, pare fosse la decisione. Ma Viviani non indietreggia. Estati separate da una linea d’ombra? La soluzione all’italiana pare dietro l’angolo: l’amministratore dimissionario lascerà il 19 giugno. Poi forse il muro di sabbia cadrà.