Chissà come se la gode Indro Montanelli di fronte al dibattito sul monumento ai Giardini Pubblici di Milano. Chissà come incrocia le dita, nella speranza che sia rimossa quella statua di rara bruttezza, ispirata alla celebre foto in cui Montanelli batte a macchina sui gradini del palazzo del Corriere, però l’effetto è quello di vederlo soggiacere a un altro, non meno impellente bisogno. Ma non si tratta solo di estetica. C’è anche l’allergia di Montanelli al conformismo (circa il 99 per cento della cultura italiana) che gli valse il timbro di “fascista” in piena moda radical chic, e il timbro di “comunista” al tempo dei berluscones. Nel coma delle ideologie tutto sembrava perduto, il rischio di doversi tenere il monumento era concreto. Ma ecco arrivare una speranza dalla dittatura del politicamente corretto, dal maccartismo dei social. Montanelli sarebbe un razzista mai pentito di un errore di gioventù. Per i successivi 70 anni è stato il più grande giornalista del 900? Chi se ne frega. Nel fascismo digitale la conformità alla norma è tutto ciò che conta. Indro, incrocia le dita. Forse stavolta no, ma prima o poi qualcuno più uguale degli altri ti libererà dal tuo monumento.
Se un comizio estivo vale più del rientro in classe
Nelle trenta ore di dibattito sul “decreto elezioni”, la parola “scuola” è stata pronunciata 82 volte. Quasi tutte da Fratelli d’Italia e Lega, che l’hanno presa a pretesto per dire che non è il caso di votare il 20 e 21 settembre per regionali, amministrative e referendum: meglio rimandare di una settimana, sennò sai che trauma tornare a scuola e rifermarsi subito per i seggi da allestire. E vabbè, facciamo finta di crederci: se non si fossero messi di traverso, chissà, si sarebbe votato una settimana prima, anziché nel weekend che più intralcia la regolare (sic) ripresa delle lezioni. “La data del 13 aveva il vantaggio di non chiudere le scuole, ma spostava troppo la campagna verso agosto”, ha spiegato il dem Stefano Ceccanti, rivendicando la “leale collaborazione” dei giallorosa con l’opposizione. Così, tra un comizio estivo e il diritto all’istruzione, si è difeso il primo.
Ora il Miur proporrà ai presidenti di Regione di riaprire il 14, lasciando a loro la scelta se sanificare due volte gli istituti o rinviare il rientro. Un ritornello già risuona: il 23 è in linea con il calendario degli anni passati, non è un dramma dopo quello che è successo. Peccato che nel 2019 nel Lazio le scuole cominciarono il 16 settembre, in Lombardia il 12, in Piemonte il 9. Nel 2018 la Campania aprì il 12, il Veneto idem. Tre anni fa l’Emilia Romagna iniziò il 15 settembre, l’Abruzzo l’11. Insomma: si parte la seconda settimana del mese, non a metà della terza. Che sarà mai qualche giorno in più? Nulla per famiglie, bambini e ragazzi che in questi mesi hanno necessariamente imparato a fare da soli. Figuriamoci se li spaventa un’altra settimana di abbandono. Ma la politica dovrebbe chiedersi se la scuola sia davvero l’unica cosa che si può sacrificare. La viceministra Ascani ha portato avanti una nobile campagna per dare agli alunni “l’ultimo giorno di scuola”. Grazie, però adesso vogliamo il primo.
Italia, un giugno fresco dopo dodici mesi caldi
In Italia – Che la prima metà di giugno al Centro-Nord sia instabile e temporalesca non stupisce, ma quella di quest’anno si è fatta notare per i rovesci quotidiani e le temperature sotto media di 2 °C a causa di depressioni estese a tutta Europa. D’altra parte è il primo periodo più fresco del normale dopo una straordinaria sequenza di dodici mesi troppo caldi (giugno 2019–maggio 2020). Nubifragi domenica 7, strade inondate da acqua e grandine tra Torino e Asti, torrenti in piena nel Varesotto (70 mm di pioggia in un’ora in Valmarchirolo), mentre in Sicilia era estate con scirocco e 35 °C a Siracusa. Lunedì piccolo tornado a Trecate (Novara), senza danni, come in Piemonte orientale era già accaduto il 6 giugno 2009 (Vercelli) e il 6 maggio 2012 (Trino); allagamenti nel Vicentino e Trevigiano (131 mm a Castelfranco Veneto, record per la stazione). Martedì 9 sott’acqua molti edifici e 21 famiglie evacuate a San Mauro Torinese, colate di fango sulle colline del Po, mercoledì imbiancata di grandine Venezia e 63 mm di pioggia in 6 ore a Livorno. Neve a più riprese a 2000 m sulle Alpi, 40 cm allo Stelvio, ma in questa stagione non è così raro. Per Einaudi esce Prevenire – Manifesto per una tecnopolitica di Paolo Vineis, epidemiologo all’Imperial College di Londra, Luca Carra, giornalista scientifico e Roberto Cingolani, fondatore dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Esortano a una più stretta cooperazione tra politica e scienza per arginare i tre debiti creati dalla crescita economica dell’Antropocene: quello economico e sociale (noto), ambientale (che comincia a essere noto) e cognitivo (poco noto, di cui iniziamo a renderci conto). Problemi complessi, globali e interconnessi dai quali solo la prevenzione può salvarci.
Nel mondo – Violenti temporali anche su gran parte d’Europa. Gravi danni e vetture trascinate via dalle flash-flood in Repubblica Ceca il 7-8 giugno (una vittima), e ad Ajaccio (Corsica) giovedì 11 (stimati da radar 100-120 mm di pioggia in 2 ore). In Svizzera, Locarno e Lugano hanno già ampiamente superato la pioggia media mensile con 247 e 265 mm, temporaneamente chiuso per neve il passo del San Bernardino (2065 m). Domenica scorsa la tempesta tropicale “Cristobal” ha raggiunto la Louisiana scaricando fino a 233 mm di pioggia in 24 ore e causando inondazioni costiere anche in Alabama, Mississippi e Florida. Un’intensa linea di temporali lunga centinaia di chilometri, fenomeno detto “derecho” e raro per la zona, ha spazzato sabato 6 giugno le Montagne Rocciose (vento a 125 km/h a Denver). Maggio 2020 è stato il più caldo nella serie dal 1907 a Nome, Alaska, e dal 1898 a San Juan, Porto Rico. Record mensile di pioggia a Chicago (241 mm, due volte e mezzo il normale), siccità e incendi invece nel Sud-Ovest americano. Venti vittime per le alluvioni in Cina meridionale (diluvio da 140 mm il 10 giugno a Wuhan), inondazioni anche in Pakistan, Nigeria, Burkina Faso e Ghana. Se pensavate che al mondo esistessero ancora dei luoghi incontaminati, lo studio Plastic rain in protected areas of the United States, coordinato da Janice Brahney dell’Università dello Utah e pubblicato su Science, spegnerà ogni illusione. Le microplastiche – come le fibre derivanti dal logorio degli abiti sintetici o i minuscoli frammenti in cui i rifiuti abbandonati si sminuzzano – sono così piccole e leggere che, sollevate dal vento, rimangono in sospensione nell’atmosfera e poi vengono di nuovo trascinate al suolo dalla pioggia: si stima che nei parchi nazionali dell’Ovest americano ne cadano mille tonnellate all’anno, come dire cento milioni di bottiglie di plastica, che invisibilmente piovono sulle lande più selvagge d’America anche a centinaia di chilometri dai luoghi d’origine.
Dopo Floyd tutti noi dobbiamo farci un vero esame di coscienza
Il razzismo è uno dei pregiudizi dell’umanità più difficili da superare. Culture, chiese e religioni, progetti educativi e politici hanno raccolto così tanti fallimenti che tutti dovrebbero farsi un esame di coscienza e anche agire e impegnarsi in modo più costante e determinato. L’uccisione di George Floyd ha prodotto un’imponente sollevazione morale negli Stati Uniti e in molti paesi del mondo, tra cui l’Italia. Purtroppo non è successo (o almeno non nello stesso modo) nei moltissimi casi precedenti, ma ora è successo ed è un bene perché significa che la società ha ancora gli anticorpi per reagire a brutalità e violenze razziali. Ma le proteste e gli impegni di questi giorni saranno in grado di produrre cambiamenti culturali stabili e profondi, una conversione di mentalità senza la quale le leggi antidiscriminazione, benché necessarie, non sono sufficienti?
Anche in Italia abbiamo assistito a un crescendo di parole e comportamenti motivati da odio razziale, conditi da quel seguito di pregiudizi religiosi e xenofobi che spesso li accompagnano. Lo ha ricordato a Torino il 6 giugno scorso, durante la manifestazione in memoria di George Floyd “Black lives matter – le vite dei neri contano”, la giovane Esperance Hakuzwimana Ripanti, nata in Runda e cresciuta a Brescia, autrice del libro E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana, che ha detto: “C’è una narrazione sbagliata e carica d’odio che sta iniziando a rendere difficile la vita di chi, come me, in questo paese è nato, è cresciuto e vorrebbe considerarlo proprio, perché è il suo. Perché chi non ha gli strumenti per comprendere e per capire tutto questo, sta insinuando l’idea che l’origine o il colore di un corpo siano molto più importanti della sua dignità e della sua vita”.
I vangeli ci raccontano che anche Gesù ha dovuto e voluto affrontare i molti pregiudizi che ruotano intorno alle diversità umane (a quel tempo considerate “impurità”): il “buon” samaritano (Luca 10,25-37), la donna straniera e pagana (Marco 7,24-30), il lebbroso (Matteo 8,1-2) e molti altri. Per Gesù, i “fratelli” e le “sorelle” non sono i parenti biologici ma gli uomini e le donne che Dio padre ha messo al nostro fianco (Marco 3,34). Sono il “prossimo”, l’altro o l’altra anch’essi “creati a immagine e somiglianza di Dio” (Genesi 1,26). Gesù non ha limitato il cerchio dell’amore (e della responsabilità) alla propria famiglia naturale, al clan, alla tribù, alla nazione della quale si è parte. E neanche alla religione che si professa. No, quello insegnato da Gesù, e raccontato nella Bibbia, è un amore inclusivo che sorpassa barriere e steccati, che non discrimina, non riconosce categorie riservate, casistiche limitative o pre-condizioni: o si ama o non si ama.
La testimonianza apostolica delle origini rimarrà fedele a questo insegnamento “non negoziabile” di Gesù: dall’Apostolo Paolo (“poiché tutta la legge è adempiuta in quest’unica parola: “Ama il tuo prossimo come te stesso”, Galati 5,14) alla prima epistola di Giovanni (“Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: che chi ama Dio ami anche suo fratello”, 1 Giovanni 4,21). Il fascino della Bibbia è che in certi testi sintetizza con una disarmante semplicità un fondamento tanto ovvio quanto trascurato e persino tradito della fede cristiana: l’amore di Dio si sostanzia nell’amore per il prossimo. Anzi, non è dato amore per Dio senza amore per il fratello e la sorella che stanno al nostro fianco perché, per una ragione qualsiasi, hanno incrociato le nostre esistenze e noi le loro. È la doppia dimensione della fede cristiana, verticale e orizzontale insieme. Esattamente come la croce di Cristo.
Il Paese è frantumato in tutti i punti chiave
Lo spazio è vasto. È quello che nella nostra mente comprende il Paese fisico (l’Italia dello stivale, con le sue regioni e le sue zone franche a statuto speciale), comprende gli enti e le istituzioni, comprende i tre poteri della democrazia, comprende la sua forza economica, la sua forza lavoro e il suo deposito passato e presente di cultura e di scienza. Lo spazio è ingombro di frammenti (i comuni contro le regioni, le regioni contro il governo, il Parlamento che non può funzionare perché è in corso una lunga bagarre contro se stesso e contro il governo, vuol dire fare in modo che il Parlamento non lavori per poi dire che è inutile) in nome di cittadini che possono fare bagarre solo davanti alla loro fabbrica chiusa.
La Giustizia ha frantumato se stessa, e ogni partito, quando diventa il governo di una regione, non ha niente a che fare con storia e natura della regione. È un frammento nazionale o personale del partito che vede la regione come terra di conquista. Adesso è Lega, non Piemonte, è Forza Italia, non Umbria, è centrodestra, non Sardegna. Oppure diventa Miccichè, invece di Sicilia, De Luca, invece di Campania, Jole Santelli, non Calabria, Fontana non Lombardia.
Il problema può essere grande (la pandemia) o sembra piccolo, nel senso che non allarma, ma va risolto con urgenza come la mancanza di asili nido, ma per affrontarlo dovresti ogni volta ricomporre il quadro, come in un gigantesco cartone animato, il comune diventa regione, la regione diventa Paese, le istituzioni raggiungono (e sono raggiunte) in tutti i luoghi, gli esperti consigliano, i politici dirigono, le burocrazie eseguono e la giustizia, implacabile e agile, sa quale filo tirare per portare giustizia, mentre i medici si accordano per dire, insieme, più o meno la stessa cosa sul problema che affanna i cittadini.
Ma non va così, perché il Paese è frantumato in tutti i suoi punti chiave, in tutte le sue istituzioni e ogni strumento, economico o scientifico, istituzionale, politico, partitico, è stato messo in condizione di non funzionare. Poiché il cartone animato della automatica ricomposizione del quadro in caso di necessità non esiste, occorre organizzare “gli Stati generali degli Stati generali”. Il problema è come fare in modo che ogni frammento abbia una voce. Infatti l’accostamento e il reciproco ascoltarsi di questa marea di voci sarebbe l’unica possibilità, sia tecnica (ascoltarsi) sia morale (non distruttiva) per scuotere la condizione di blocco che è diventata una situazione stabile, e non è solo, come si ama dire, la conseguenza dell’immenso contagio. La ragione è che un numero troppo grande di leader mediocri inchioda le porte piuttosto che aprirle. C’è speranza? Il fatto è che tutti, chi vuole il meglio e chi vuole il peggio, si ispirano agli stessi comandamenti, che non sono incoraggianti. Eccoli:
1 – Non ti puoi fidare di nessuno, alleati o nemici. Se sanno quello che pensi o progetti, sei finito.
2 – Non ti puoi confidare con nessuno, se non vuoi diventare subito pubblico passatempo.
3 – Non puoi contare sugli esperti. Sono tecnici, dunque disprezzano i politici, disprezzano i committenti e si dividono in gruppi, scuole e credenze diverse, pronte a combattersi a sangue nei momenti in cui servirebbe essere incoraggiati da credibili e non tragiche previsioni.
4 – Una volta aperti gli “Stati generali degli Stati generali” non si può permettere che qualcuno decida la conclusione. La forza di ciascuno è troppo poca, ma quella unita di chi si oppone al progetto di qualcuno è grandissima.
5 – Il niente è sempre vincente.
6 – Poiché niente è certo e nessuno può essere portatore di verità, la prima cosa da fare è verificare il contrario della affermazione o proposta che si presenta come vincente. Di sicuro rovesciare una proposta, per quanto avvincente, è un modo di mettersi al sicuro contro l’inganno.
7 – Se qualcuno, nella vasta platea degli “Stati generali degli Stati generali” sembra avere le qualità di leader, va respinto subito perché è chiaro che vuole impossessarsi del gioco.
8 – Diffida dei deboli, nella grande pianura degli Stati generali. Non hanno niente da perdere.
9 – Diffida dei forti, nella stessa assemblea. Sanno sempre come vincere.
10 – Diffida della scienza. È una religione di dogmi e prescrizioni assolute, senza il papa e senza alcuna infallibilità.
Confrontate con la notizia sulla vita italiana, sia contagio, sia lavoro, sia inventario dei pezzi infranti di Repubblica che giacciono nello spazio inerte che dovrebbe rivivere e “ripartire”, risulta che le regole indicate per “gli Stati generali degli Stati generali” sono scrupolosamente osservate. E non portano bene.
Storiacce di terroristi (e di manganelli) nel carcere della stasi
Dalle Memorie apocrife di Henry Kissinger. Un gruppuscolo delle Revolutionäre Zellen (RZ), l’organizzazione terroristica della Germania occidentale che faceva concorrenza alla RAF, aveva la base segreta in una fabbrica abbandonata alla periferia di Berlino ovest. All’insaputa degli altri otto membri, il gruppo era stato creato da un agente dei servizi segreti della Repubblica Federale Tedesca (nome di copertura: Benno Heckler), e si occupava di guerriglia urbana e volantinaggio nelle fabbriche, per esortare gli operai alla lotta anti-imperialista e alla de-nazificazione del Paese. (Adenauer, il primo cancelliere della Germania Ovest, aveva avuto nel suo staff Hans Globke, già segretario della cancelleria nazista; la coalizione di governo Spd-Cdu, alla fine degli anni 60, ebbe come cancelliere Kurt Kiesinger, ex-membro del partito nazista.)
Lo scopo nascosto, da me suggerito ai vertici, era agganciare la Stasi, il servizio segreto della Germania Est (Ddr) che finanziava e dava supporto logistico ai terroristi di estrema sinistra, non solo tedeschi; e infiltrarla. Benno inviava dispacci periodici al suo capo, l’unico a conoscere la sua vera identità. Un giorno gli telefonò, euforizzato: “Capo, ha saputo? Il deputato Ingo Gurkha avuto un infarto in aula mentre stava inveendo contro i gruppi terroristici che mettono a soqquadro il Paese! Stava citando il nostro attentato di tre giorni fa ai grandi magazzini, le scale mobili a tutta velocità! La Stasi adesso non potrà non farsi viva. “Fu il suo unico errore: la Dieta, in memoria di Gurk, quella mattina aveva promulgato in due e due quattro una legge che autorizzava la polizia ad ascoltare le telefonate di chiunque. Arrestati, Benno e i suoi compagni furono condannati a 100 anni di lavori forzati. Li avevano scambiati per i capi dell’intera organizzazione! Venne addirittura costruita la replica esatta di un galeone infestato dalle pantegane, dove avrebbero trascorso il resto dei loro giorni remando in tondo nel Baltico. I difensori fecero ricorso in Cassazione, quattro giudici lo respinsero; ma il quinto, un omosessuale corrotto dalla Stasi, continuava a dissentire, sicché gli altri dovettero percuoterlo coi loro martelletti fino alla persuasione completa. Dal carcere, Benno scrisse al capo. Aveva completato la missione, ed era pronto per una bella vacanza: dunque, che lo tirasse fuori da lì. Non ebbe risposta. L’avrebbero rinchiuso nel galeone a vita! Preso dal panico, mandò un telegramma. La sua innocenza sfolgorava, ma il capo era l’unico a sapere come stavano le cose. Le ore passavano: niente. C’era da impazzire! Le sue dita si serrarono alle sbarre quando chiamò il secondino con un urlo. Crash! E mentre commentava con il mutismo la manganellata stimolante ricevuta nei preziosi, sentì dei passi: stavano entrando nuovi carcerati. Si stropicciò gli occhi, mise a fuoco, non poteva crederci. Fra i prigionieri c’era il suo capo; che, al vederlo, fece spallucce, egli disse: “Abigeato.”
Ma, la sera stessa, il capo testimoniava in suo favore, e “Benno” tornava in libertà. Come aveva pianificato: perché era davvero il capo dell’organizzazione! Ne avevo avuto il sospetto? Sì, ma non ci avevo voluto credere.
Morale: se ti senti inculato di un centimetro, lo sei già di parecchi metri.
Mail box
La radio di Confindustria e il passo falso sul Fatto
Stamattina, su Radio24, Paolo Mieli commentava gli Stati generali indetti dal presidente Conte. Ne parlava come di un’inutile passerella (e vabbè, è una libera opinione) ma, facendo riferimento alle interviste al premier pubblicate da vari quotidiani (tra cui il Fatto) ha sottolineato che “la novità è che, oltre ad aver chiamato alcuni giornalisti dei più importanti quotidiani italiani, Conte ha chiamato anche il Fatto”. Poi, forse accortosi di aver sminuito un giornale con un numero sempre crescente di lettori, ha chiosato a mezza bocca: “… il Fatto che è comunque un giornale nazionale”. Ora ci tenevo a dire che io, quando sento parlare in questi termini sulla radio di Confindustria del quotidiano che leggo tutti i giorni, sono ancor più felice e convinto di essere un abbonato.
Gianluca Caporlingua
Basta con la concessione ad Autostrade
Cosa aspetta il governo dei tanti auspicati cambiamenti a revocare la concessione di Autostrade ad Atlantia? Quella struttura, pagata e strapagata mille volte con denaro pubblico, doveva diventare gratuita ad ammortamento avvenuto. Invece, beffa delle beffe, è stata mantenuta a pagamento per cui per farne uso si deve elargire un obolo a un privato cittadino. Veramente assurdo! Il paradosso è indigeribile. È come se per abitare nella propria casa si dovesse pagare l’affitto a qualcuno. Perché il ministro del Lavori pubblici del tempo, Di Pietro, tace? Perché tace il capo del governo di allora? Non sentono il dovere di dare spiegazioni? Perché questo silenzio? Ci sono state delle vittime. Sono opportunità come questa che il governo Conte dovrebbe accogliere per dimostrare la volontà di effettuare veri cambiamenti e rimediare ai gravissimi errori del passato. Quale credibilità può avere un governo che non è in grado di gestire i beni del proprio paese e tutelare gli interessi della comunità che lo ha eletto, preferendo privilegiare quelli di alcuni privati?
(Ps. Diamo un aiuto alle edicole proponendo che presso di esse si possano vendere mascherine, disinfettanti e guanti)
Ernesto Ghisoni
Il fascino di Conte e le doti della Meloni
Gentile signor Marco Travaglio, mi permetto di fare del gossip politico. Il centrosinistra si gode il potere, ma i suoi scalpitano per averne maggior porzione, controllati da quel furbacchione del premier che lo assicura loro, ma avendo capito l’antifona, li tiene a freno conservando per sé il meglio. Non posso non ammirare la grande abilità, che ha rivelato, nel farsi gli affari suoi. Formidabile incassatore nessuno lo scuote. Utilizza anche il suo indiscutibile fascino maschile in campo internazionale, con l’aggraziata, ma un po’ troppo matura, Von der Leyen che mi par di cogliere a rimirarlo con occhi non proprio da politica. Difficile però contendere con la Paladino che, giovane e figlia di tanta madre, mette in mostra una notevole bellezza, anche se, personalmente, le scopro una certa aria da pecorella smarrita che le sottrae charme. Tante doti e doni della vita suscitano inevitabilmente grande invidia, in particolare da parte del predestinato Renzi, e lo tengono costantemente in bilico. Tuttavia non vedo granché bene il centrodestra che vive un difficoltoso ménage à trois, un trouple costituito da Salvini che, orbo dei suoi migranti, arranca, la Meloni che, con la tenacia tutta femminile d’ottenere ciò vuole, s’è creata a sua spese un inatteso spazio e Berlusconi che, ormai incapace di maggiori obiettivi, s’è messo a fare il padre nobile, indispettendo gli alleati. Comunque, la mia preferita resta Giorgia tanto per debolezza verso il gentil sesso, quanto per amor di conterraneità.
Ps. M’è piaciuto beccare il tanto lodato Zaia che, preso da foga antigovernativa, si è inventato il superlativo assolutissimo: “Questo paese sta scrivendo una delle più pessime pagine di storia”.
Giampiero Bonazzi
Trump mette tra i nemici gli antifascisti
Se per caso vi fosse sfuggito un particolare per me assai significativo, Donald Trump cita tra i nemici da combattere gli antifascisti (li chiama “antifa”) e non come eravamo abituati a sentire sin dal 1945, i comunisti.
Giorgio Luzzatto
Grazie al Fatto, mi sento vicina a voi
Caro direttore, inutile le dica di essere una giornale dipendente del Fatto, le mando questa email solo per associarmi all’idea del sig. Mantovani di essere a voi vicina in qualsiasi modo lo riterrà opportuno.
Rossella Paolini
Il colpevole silenzio con i Regeni
“È il fuoco amico che ci fa male. Abbiamo fiducia in Fico: ci ha ribadito che sta con noi e chi ha chiesto come stiamo. È l’unico uomo di Stato che ci ha chiamato, perché ha pensato che noi possiamo anche stare male”.
Paolo e Claudia Regeni, in collegamento con “Propaganda Live”
Sappiano gli “uomini di Stato” che ha turbato anche noi il “fuoco amico” che ha ferito i genitori di Giulio Regeni, dopo la vendita dell’Italia al governo egiziano del generale al-Sisi di due navi da guerra per il valore di 1,2 miliardi dollari. Noi, come tutti coloro che venerdì sera li hanno visti e sentiti su La7 esprimere un giudizio durissimo sulle decisioni del governo italiano. Senza venire meno a quella grande dignità dimostrata dal 3 febbraio 2016, quando il corpo martoriato del figlio fu rinvenuto al Cairo, in un fosso non lontano dalla prigione dei servizi segreti egiziani. Sull’evidenza di questa triste (e forse necessaria) ragione di Stato, che non impedisce di fare affari con un regime che, nella migliore delle ipotesi, non ha fatto altro che dare copertura agli assassini di un giovane uomo di 28 anni, ci sarebbe davvero poco da aggiungere. Preferiamo soffermarci sulla telefonata del presidente della Camera, Roberto Fico, che ha sentito il bisogno di chiedere alla famiglia Regeni come stavano, “pensando che anche noi possiamo stare male”. Sì, perché esiste il “caso Regeni” (espressione “odiosa e distaccata”, ha scritto giustamente “il manifesto”) con mille implicazioni politiche, giuridiche, economiche, morali e di rapporti internazionali. E poi esistono Claudia e Paolo, e tutte le persone che volevano bene a quel figlio così generoso e brillante. Claudia e Paolo con le loro ferite che niente e nessuno potrà mai rimarginare. E sulle quali in questi anni è stato versato continuamente del sale. Senza nulla togliere alle persone e alle istituzioni che hanno cercato di fare ciò che potevano fare. Per arrivare a quella invocata verità (che ormai è sotto gli occhi di tutti), e a quella giustizia (che appare sempre più irraggiungibile). Le due parole, verità e giustizia, stampate sul manifesto giallo con il ritratto sorridente di Giulio Regeni. Per carità, qui non intendiamo dare lezioni a nessuno. Soprattutto se e quando coloro che hanno responsabilità di governo sono costretti a soppesare determinate scelte, ancorché impietose. Senza dimenticare che sull’altro piatto della bilancia c’è il lavoro di migliaia di operai e un’azienda pubblica come Fincantieri che sulle commesse, anche quelle politicamente inopportune, basa presente e futuro. La domanda è un’altra. Come mai il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e un esponente di primo piano dei 5Stelle come Alessandro Di Battista (parliamo delle figure più autorevoli del Movimento che di parole sulla morte di Giulio ne ha spese tante), non hanno ancora trovato il tempo per chiamare Claudio e Paola Regeni (pronti a prenderne atto con favore se, nel frattempo, lo avessero fatto come lo ha già fatto Roberto Fico)? Magari soltanto per spiegare una scelta difficile? O per chiedere semplicemente: come state? Sapendo che stanno molto male.
Antonio Padellaro
Il re solo e la rivoluzione in arrivo
Ma se sono tutti così assatanati, così rancorosi contro Giuseppe Conte – il Re Solo, il Re sòla, lo Sciocco, il Pasticcione, il Vanesio, eccetera – vuol dire che i soldi dall’Europa stanno davvero per arrivare. Non i decimali dei vecchi tempi quando si litigava per lo scostamento del disavanzo dal 2 al 2,5, ma 173 miliardi di euro tondi, più o meno dieci punti di Pil, che fanno brillare gli occhi e le dentature dei capitani coraggiosi che di soldi da masticare non ne hanno mai abbastanza.
Non si spiega altrimenti l’accanimento di giornali insospettabili e d’abitudine quietamente filogovernativi come il Corriere che per la novantanovesima volta in una settimana tira fuori la storia che intitolare la conferenza di villa Pamphilj “Stati generali”, portò malissimo a Luigi XVI, per via della ghigliottina che gli rapinò la testa, sotto le nuvole nere di place de la Concorde. Insistere sull’assonanza suona sempre di più come un auspicio. Come la lieta speranza della testa reale che rotolerà a breve, per sostituirla con una più fidata, e finalmente buttarsi sul malloppo. Fatto salvo il collo di Conte, il loro astio è un’ottima notizia per la piccola Rivoluzione che ci aspetta.
Rfi blocca i treni: in strada 20mila camion “pericolosi”
Nei prossimi mesi del 2020 sulle strade italiane si riverseranno 20mila tir carichi di merci pericolose (esplosive, infiammabili, tossiche, etc.) in più rispetto a quelli circolati nel 2019. Il calcolo è stato fatto da Fercargo, associazione che raggruppa le imprese ferroviarie operanti nel settore merci ad eccezione di Mercitalia, a valle di una direttiva di Rfi di fine aprile.
Il gestore della rete ferroviaria ha deciso che con effetto immediato su nessuna tratta potranno circolare più treni di merci pericolose di quanti hanno viaggiato nel 2018. Un limite raggiunto a metà maggio già su 7 direttrici (fra cui Pavia-Sannazzaro, dove l’Eni ha una delle maggiori raffinerie), da cui l’invito di Rfi alle imprese “a rimodulare i traffici già programmati” e a “proporre altre soluzioni” per ridurre i treni. La ricostruzione di Fercargo si basa su rilevazioni Istat e dati delle imprese. Nel 2018 in Italia sono circolati su strada 8,4 miliardi di tonnellate per chilometro (grandezza che tiene conto anche della distanza percorsa) di merci pericolose e 1,4 miliardi su ferrovia, corrispondenti a 6 milioni di tonnellate di merci. L’anno successivo, spiega Fercargo, sono stati 6,5 milioni. I dati 2019 in tonnellate per km non sono disponibili, ma la stima dell’associazione è che il surplus si tradurrà in almeno 250 milioni di tonnellate per km che passeranno dalla rotaia alla gomma: appunto 20mila camion in più. Un grave colpo, naturalmente, al business dei ferrovieri, anche perché la restrizione interviene su contratti in essere. Ma anche uno schiaffo alle direttive europee che spingono al trasferimento modale inverso e un “aumento del rischio complessivo, date le limitazioni del trasporto pubblico di passeggeri legate al coronavirus e il conseguente incremento della mobilità privata”. Rfi ha accettato di posporre a metà giugno l’entrata in vigore e di risentire gli operatori, ma minimizza: “L’incremento nel 2019 rispetto al 2018 di merci pericolose circolate è praticamente nullo”. Il paradosso è che il nuovo tetto origina proprio da una questione di sicurezza.
A esito del confronto con ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e Consiglio Superiore dei Lavori pubblici sul nuovo attraversamento di Novi Ligure della Genova-Torino legato ai lavori del Terzo Valico, spiega Rfi nella comunicazione alle imprese ferroviarie, “l’approccio conservativo” della limitazione di traffico risulta “l’unico gestionalmente possibile, tenuto conto della mancanza di specifici riferimenti di legge e di indicazioni da parte dei soggetti istituzionali competenti”.
Non esistendo cioè “limiti di accettabilità (del rischio, nda) fissati dal normatore nazionale o europeo”, Rfi ha fatto una scelta ultraprudenziale. E poi, memore dei procedimenti giudiziari che ne hanno coinvolto i vertici per sinistri come quello di Viareggio o di Pioltello, l’ha estesa a tutta la rete affinché non gliene venga in futuro contestata la mancata applicazione altrove. “L’attuale impianto normativo s’impernia sull’assunto erroneo che sui binari possa esistere il rischio zero”, spiega Fabio Croccolo direttore di Ansfisa, l’agenzia (in gestazione) creata dopo l’incidente del Morandi da Danilo Toninelli per vigilare sulla sicurezza di strade e ferrovie. “Inoltre, retaggio anche di un codice penale ottantenne, sulla rotaia la responsabilità del gestore è illimitata, laddove sulla strada viene quasi tutto scaricato sull’autista del mezzo, rarissimamente coinvolgendo concessionari o progettisti dell’infrastruttura”, aggiunge Croccolo. Per il quale la soluzione a simili aporie “non può venire da un organo tecnico. Dev’essere il legislatore a fissare livelli accettabili di rischio e regole precise per i gestori di qualsiasi infrastruttura, rispettate le quali non può esserne invocata la responsabilità illimitata”.