Discriminati i guariti delle prime ondate Vaccinati: addio Dad

Niente più restrizioni per i vaccinati, neanche in zona rossa, Green pass con durata illimitata per chi ha completato il ciclo vaccinale ma anche per chi ha fatto solo due dosi di vaccino ed è guarito dal Covid (in quest’ordine, non in caso di infezione prima delle vaccinazioni o tra la prima e la seconda), quarantena a scuola da 10 a 5 giorni e solo per i non vaccinati, didattica a distanza che scatta da cinque casi in su per nidi, materne ed elementari, stranieri che potranno accedere ad alberghi e ristoranti anche se hanno solo il pass base. Il decreto con le nuove norme entrerà in vigore il giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, dunque nelle prossime ore, in modo che lunedì sia già pienamente operativo. Sullo smart working restano vigenti i provvedimenti attuali, nessuna modifica.

Scuola. Dimezzata la durata della Dad, che passa da 10 a 5 giorni in tutte le scuole di ogni ordine e grado e rimarrà solo per i non vaccinati, ad eccezione della fascia 0-6 anni, nella quale non è autorizzata la vaccinazione. La differenza, dunque, è che negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia, tutti i bambini rimarranno a casa quando in classe ci sono 5 o più casi di positività al Covid e non più alla presenza di un caso come avviene oggi. Alle elementari, medie e superiori, invece, la didattica a distanza scatterà solo per i non vaccinati: alle primarie, così come per la fascia 0-6, dal quinto caso in su, alle secondarie dal secondo in poi. Chi resta in classe e ha più di sei anni dovrà utilizzare le mascherine Ffp2 mentre a nidi e infanzia ad usare le Ffp2 saranno obbligati i docenti. Il decreto introduce un’ulteriore novità, i tamponi “fai da te” per scuole dell’infanzia ed elementari. Fino a 4 casi, infatti, si rimane tutti in classe, ma se un bambino dovesse mostrare sintomi del virus, dovrà sottoporsi ad un tampone, molecolare, antigenico oppure “autosomministrato”. In caso quest’ultimo desse esito negativo, per rientrare in classe basterà l’autocertificazione. Chi, invece, va in quarantena, in ogni ordine e grado d’istruzione, per tornare a scuola dovrà fare un tampone antigenico o molecolare e non avrà bisogno del certificato medico.

Zone rosse. Le fasce di colore rimarranno ma anche in quelle regioni che dovessero finire in rosso non ci saranno più divieti per chi ha completato il ciclo vaccinale, come già avviene di fatto in zona gialla e arancione. Le restrizioni rimarranno solo per i no vax.

Green pass. Dopo aver ridotto la durata del certificato da 9 a 6 mesi, a differenza di quel che accade nel resto d’Europa, il governo torna sui suoi passi per risolvere un problema che si sarebbe posto a metà marzo quando migliaia di italiani, poiché hanno fatto il booster a metà settembre e non essendo autorizzata la quarta dose, si sarebbero veduti scadere il Green pass e non avrebbero potuto accedere ad attività e servizi pur avendo rispettato le indicazioni del governo. La bozza del decreto prevede dunque che, per chi ha completato il ciclo vaccinale e anche per chi si è contagiato ed è guarito dopo essersi vaccinato, non viceversa, il pass ha validità “senza necessità di ulteriori dosi di richiamo”. Dunque, illimitata. Per chi, invece, si è contagiato dopo la prima dose, il certificato varrà 6 mesi.

Turismo. Fino a oggi gli stranieri potevano entrare in Italia con il pass base ma non alloggiare in hotel o mangiare al ristorante o accedere a tutte quelle attività per le quali è previsto il pass rafforzato, che all’estero non esiste. Dall’entrata in vigore del provvedimento, chi è vaccinato e guarito da meno di 6 mesi, potrà accedervi con il pass base. Chi invece ha un certificato di guarigione o vaccinale da più di sei mesi, compresi quelli ottenuti con Sputnik o con altri vaccini non autorizzati dall’Italia, dovrà mostrare l’esito negativo di un tampone effettuato 48 ore prima se antigenico o 72 se molecolare. Tampone che non è obbligatorio se si è guariti dopo aver completato il ciclo di vaccinazione.

“Italia più aperta”: Draghi tenta il rilancio, Salvini boccia la linea

Per Mario Draghi doveva essere il Consiglio dei ministri del rilancio dopo la delusione del Quirinale e i gelidi saluti della prima riunione dell’esecutivo, lunedì. Ma si è trasformato nella prima trappola per il suo governo dopo la rielezione di Sergio Mattarella che proprio oggi giurerà davanti alle Camere invocando l’unità nazionale. La Lega, che dopo la disfatta del Colle deve dare prova di esistere, però provoca la prima scossa: i tre ministri del Carroccio non hanno votato il decreto Covid in dissenso sulle norme sulla scuola che prevedono la didattica a distanza solo per i bambini non vaccinati, già dalla scuola primaria. “Una discriminazione” dicono in serata Giancarlo Giorgetti (assente), Erika Stefani e Massimo Garavaglia che non hanno partecipato al voto. Era già successo il sei ottobre sulla delega fiscale dopo la batosta della Lega alle elezioni comunali. Una mossa, assicurano da via Bellerio, su una norma specifica e che non prefigura un’uscita dal governo. Ma la spaccatura di ieri fa irritare gli alleati: dal Pd definiscono quello della Lega “un atto preoccupante” che rischia “di aumentare l’instabilità e la confusione nel Paese”.

Eppure, quello di ieri è stato il Cdm in cui il premier Draghi si è intestato le riaperture dell’Italia, nonostante i 118 mila casi e i 395 morti. Aprendo la riunione, il presidente del Consiglio ha annunciato un “calendario per il superamento delle restrizioni”: “Nelle prossime settimane – ha detto – andiamo avanti con il percorso di riapertura, i dati sulle vaccinazioni sono molto incoraggianti. Vogliamo un’Italia sempre più aperta, soprattutto per i nostri ragazzi”. Poi il premier ha annunciato la cancellazione delle restrizioni in zona rossa, l’estensione della durata del green pass dopo la terza dose e le nuove norme sulla scuola venendo incontro “alle esigenze delle famiglie”, limitando la dad e “semplificando le norme”. Tutte decisioni che andrebbero incontro alle richieste della Lega e dei suoi governatori, tant’è che da via Bellerio apprezzano “le riaperture” e alcune norme come l’apertura ai turisti stranieri vaccinati con Sputnik. Ma sulla scuola, non si passa.

Nel pomeriggio Matteo Salvini incontra Giorgetti al Mise e, dopo aver sentito i governatori, impone la linea: se il decreto rimane così non lo votiamo. Il ministro, che sabato aveva minacciato le dimissioni proprio chiedendo di evitare litigi nell’esecutivo, non si presenta né in cabina di regia né in Cdm: il motivo ufficiale è la partecipazione a un tavolo “delicatissimo” sulla questione Intel, ma nella Lega si sparge presto la voce che il titolare dello Sviluppo Economico non voglia contribuire a destabilizzare il governo. Ieri mattina ha incontrato Draghi che gli ha ribadito la necessità che rimanga nel governo. Così in cabina di regia ci va il ministro del Turismo Massimo Garavaglia a presentare le perplessità della Lega. Quando il testo arriva in Cdm, mezz’ora dopo l’inizio, la norma sulla scuola non è cambiata. “Presidente, non possiamo votarla – dice Garavaglia – il 70% dei bambini delle scuole elementari non è vaccinato, sarebbe discriminatorio”.

Draghi, però, non si smuove: “Capisco i dubbi, le difficoltà e gli scrupoli – risponde a Garavaglia quasi a voler comprendere la motivazione elettorale dell’astensione – ma questo è”. La campagna di logoramento di Salvini nell’ultimo anno di legislatura è iniziata ed è rivolta soprattutto ai due esponenti del governo di cui aveva già chiesto la testa durante le consultazioni quirinalizie: Luciana Lamorgese e soprattutto Roberto Speranza. “Non gli da remo tregua” dice un esponente di peso della Lega. La guerriglia di Salvini nelle prossime ore andrà avanti su bollette (dopo aver chiesto un intervento da 30 miliardi, ieri si è presentato al Mef con 5), riforma del catasto (la Lega fa muro) e “no” a nuovi sbarchi. “Così però non si va avanti” allarga le braccia Giorgetti in serata

Grazie, Mario

Per capire il dopo-Quirinale bisogna assolutamente conoscere due personaggi. Uno è Parisina di Non ci resta che piangere, che ringrazia Mario (lo scioperato personaggio di Massimo Troisi) per tutto ciò che pensa, dice e fa Saverio (l’attivissimo Roberto Benigni). Il quale, all’ennesimo “Grazie Mario!”, sbotta: “Chissà perché a me non mi nomina mai”. L’altro è Stanislao Moulinsky, il diabolico trasformista nemico di Nick Carter, capace di travestirsi da qualunque cosa – fanciulla, cassaforte, cavallo, dirigibile, Babbo Natale, mummia egizia – senza farsi riconoscere. Ora, dite la verità: anche voi pensavate che al Colle fosse rimasto Mattarella, anziché il favoritissimo anzi certissimo Draghi. Ci siamo cascati anche noi, con la stampa estera che dà il premier trombato, umiliato e indebolito. Poi però abbiamo letto quella italiana, che ci capisce. “Draghi sblocca lo stallo al posto dei partiti” (Messaggero). “È tornato Draghi”, “Detta scadenze”, “La ricreazione è finita. È di nuovo il momento di Draghi”, “‘Carezze’ e compiti a casa: non accetterà altri strappi”, “Volta pagina”, (Rep). “Governo più forte”, “Draghi spinge i ministri e ringrazia Mattarella”, “Pressing di Draghi”, “Riparte come un orologio svizzero… Un ministro sottovoce lo paragona a Re Artù” (Corriere). “Draghi incalza i ministri”, “Spinge sulle riforme” (Messaggero). “Draghi accelera le riforme” (Foglio), “Il Paese è salvo, il governo anche. E Draghi, recuperando una funzione terza, può tornare a fare Draghi” (De Angelis, La7). “L’Italia locomotiva d’Europa. Draghi (più forte) riparte da qui” (Fusani, Riformista). “Draghi guadagna terreno” (manifesto). “Così la rielezione offrirà uno scudo a Draghi” (Stampa). “Il draghicidio è fallito, ora la svolta” (Sorgi, Stampa). “No, il draghicidio non c’è stato” (Foglio).

Dunque il Mattarella bis è un’illusione ottica. Non solo ha vinto Draghi, ma è pure più bello e superbo che pria. Sennò la povera Belloni non si sarebbe mai fatta quella “photo inopportunity” con Di Maio per giurare eterna fedeltà ai draghiani dopo la squalificante candidatura per mano dei reprobi Conte, Salvini e Meloni; o, se l’avesse fatta, non sarebbe più il capo del Dis. E il Cdm, se ci fosse ancora SuperMario a spingere, svoltare, accelerare, pressare, incalzare, non sarebbe finito nell’ultima tragica farsa di ieri. Del resto il renziano Davide Serra ci aveva avvertiti: senza Draghi al Colle, “altro che caro bollette, ci spengono direttamente la luce”. E abbiamo controllato: la luce c’è ancora. Chi si cela allora dietro le sembianze dell’uomo canuto che riporta gli scatoloni al Quirinale? Semplice: Stanislao Draghinsky in uno dei suoi più riusciti travestimenti. Ci eravate cascati, eh? Grazie, Mario.

“Quest’anno il Festival è una botta emotiva mai sentita. E temo la mia cover dei Pooh”

“Quest’incubo ci ha fatti diventare tutti più piccoli”, sospira Fabrizio Moro. Così, al settimo Sanremo, si augura che “il Festival sia una vera ripartenza. Ho suonato dal vivo rispettando ogni limitazione, anche di fronte a trecento persone. L’Ariston pieno sarà una botta emotiva mai provata”. Tocca a lui, dopo una vigilia in cui “una delle poche cose buone è stata l’assenza di lungaggini durante le prove. Canti e via in albergo. Però mi mancano le confidenze nel backstage coi colleghi”. Vada come vada: stasera proporrà una ballata delle sue migliori, Sei tu (colonna sonora del film Ghiaccio), protetto dal braccialetto portafortuna donatogli dalla figlioletta Anita. “Mi ha chiesto a chi fosse dedicata: anche a tua mamma, ho risposto. Ai tuoi bambini devi dire la verità: chi hai amato resta sempre dentro di te. Con i ficcanaso invece la butto in caciara”, ride.

È un buon momento, per l’inquieto Fabrizio. “Sento che l’epoca nera che ci avvolge sta lentamente sfumando. Oggi la rivoluzione è stare tranquilli. Abbiamo bisogno di quiete. Se in tv alzano la voce cambio canale. È una devastazione psicologica per l’umanità. E io non sono nessuno per dire chi ha ragione, nella guerra pro e contro il sistema”. Anche per questo, la sua proposta sanremese è una dedica d’amore, come gran parte dell’Ep La mia voce, dove l’episodio vibrante (una protesta contro chi ‘vuole dire la sua nascosto dentro uno schermo’) è quello che dà il titolo al “mezzo disco” in uscita. Non ne può più del caos. “Ho esposto fin troppo rabbia e debolezze. I sentimenti, a questo punto, sono l’unica cosa che mi riallinea con la vita. Nella versione vinile dell’Ep mi riapproprio anche di pezzi scritti tempo addietro per due amiche: I pensieri di Zo per Fiorella Mannoia e La mia felicità per Emma. Li lasciai andare con gioia: ora li riporto sotto la luce”. E l’altra metà dell’album? “Arriverà in autunno: sarà sperimentale, quasi elettropunk. Ho valutato di portare qui in gara La mia voce, ma renderà meglio nei concerti rock. In tv devi suggerire”. Però occhio alla cover di venerdì. Uomini soli. “Temo il giudizio di Facchinetti: con la band ho studiato un arrangiamento quasi dance con un finale alla Muse. Brano mitico, lo suonavo nei matrimoni, diventerà un mio cavallo di battaglia”. Dopo il ring di Sanremo, dal 7 al 9 febbraio Moro si godrà nei cinema il debutto da regista con Ghiaccio, storia di un pugile di periferia in cui c’è molto di lui: “I critici lo hanno già valutato con favore. E io ho smesso di prendere gocce contro l’insonnia”.

Addio Tito Stagno, occhi e voce che ci hanno regalato la Luna

Era facile essere amico di Tito Stagno. In un serraglio di giovani cronisti di una professione nuova, la televisione, tutti erano disposti a tutto e ognuno era sicuro di essere più bravo degli altri.

C’era una divisione in due gruppi non riconosciuta e mai discussa. Alcuni venivano da università in cui si stavano specializzando in qualcosa (di solito di tipo letterario o filosofico) altri dal giornalismo alle prime armi, o dall’armata Brancaleone del cinema romano.

Stagno, che aveva su quasi tutti il privilegio strettamente televisivo del “good looking” (il ragazzo da film seguito con attenzione fin troppo pronta e gentile dalle segretarie di produzione) si teneva fuori. Come schieramento non usava né lo sport né la cultura alta, che non erano il suo mondo, era gentile in un suo modo simpatico, senza enfasi e senza esibizioni.

Non ti buttava addosso come una ossessione il suo mondo, lo spazio, e i viaggi spaziali, il suo sogno. E se quello non era l’argomento, ascoltava come se altri discorsi lo interessassero, e la cagnolina Sputnik, compagna di volo astrale con “l’eroe” russo Gagarin, non fosse il suo pensiero fisso.

Qui si situano, prima dell’esibizione di bravura della famosa notte dell’allunaggio, i suoi due punti di destino gentile che ricambia la sua naturale gentilezza. Il primo era che, a differenza di molti che coltivano passioni esclusive, Tito Stagno di spazio sapeva molto. Il secondo che, a differenza di molte storie e casi della vita, Stagno, redattore gradevole ma senza mansioni precise, aveva trovato presto un direttore di telegiornale che molto prima del viaggio sulla Luna, sapeva di avere bisogno di un redattore esperto sul mondo fuori dalla Terra.

E così è accaduto che il direttore Fabiani esigesse dal redattore Stagno di addentrarsi di più nel “suo” spazio, di saperne di più, e di essere in grado di affrontare eventi improvvisi fuori dell’orbita terrestre.

Anche ai nostri occhi Stagno è cominciato ad apparire e ad essere un esperto a cui si andava a chiedere una notizia o una precisazione. Non era, come molti di noi erano o pretendevano di essere, l’esperto di arte, di cinema o di culture lontane. Era l’esperto della Luna, molto prima della Luna.

Erano gli anni magici in cui la Rai aveva negli Usa il miglior giornalista esperto del nuovo mondo. Era Ruggero Orlando, il mitico, coltissimo reporter che in ogni collegamento da New York (due volte al giorno) riusciva a spingere l’attenzione italiana fino in fondo alle storie americane e anche il contrario, a raccontare l’America secondo le attese italiane (cinema, personaggi, nuova Italia della tecnologia e dell’arte, vecchia Italia di una immensa immigrazione).

La “Notte della Luna” (come molti di noi ancora la ricordano) i due nostri eroi erano faccia a faccia, Tito Stagno da Roma, Ruggero Orlando da New York (che lui chiamava Nuova York). Il “grande incidente” è ancora ricordato da moltissimi italiani, o è stato tramandato dagli spettatori di allora.

Io ero seduto al di là di un grande tavolo, di fronte a Tito Stagno, nel caso fosse stato necessario un inimmaginabile intervento dall’Italia. L’incidente invece si è verificato non fra il vettore terrestre e la Luna, e non fra gli spazi celesti dei due mondi, ma fra Tito Stagno e Orlando. “Ha toccato” ha gridato con entusiasmo Stagno quando si è sentito a Roma un rumore secco fra due corpi duri. “Non ha toccato” ha detto con impeto Ruggero Orlando che aveva gli auricolari della Nasa. E per un brevissimo tempo c’è stata una doppia verità sull’allunaggio e una forte tensione fra i due personaggi dell’evento mai prima accaduto al mondo.

Quando si è scoperto che entrambi avevano ragione, date le due fonti diverse del feedback, il mondo era già fra l’attonito e il festoso. E da allora l’incredibile evento non si è più ripetuto.

Ma noi (non solo gli amici e i compagni di lavoro di Tito Stagno) abbiamo continuato a tenerci e a onorare il nostro eroe. Che resta il nostro eroe persino se un giorno un no-vax improvvisamente colto riuscisse a provare che l’allunaggio non c’è mai stato.

Battaglia di canne a Sanremo

Zitti e buoni mai. Sanremo ricomincia dalla fine: i ragazzi d’oro del Festival sono tornati dove tutto è iniziato, un anno fa. I Måneskin – scortati sul palco da un Amadeus commosso in apertura di puntata – sono reduci da un anno che è una favola in musica: 6 dischi di diamante, 133 platino, pranzi con Chris Martin e birre con Ed Sheeran, e poi il palco del Saturday Night Live, il concerto dei Rolling stones a Las Vegas… “Abbiamo dovuto spostare le date italiane ed europee del tour, siamo amareggiati”, hanno detto all’amato mentore. Ma una buona notizia c’è: “Il 9 luglio sarà una grandissima festa per noi, torneremo a suonare a Roma, in un posto bellissimo, il più bello del mondo”. Tutti al Circo Massimo, e stavolta forse saranno tre milioni veri.

È la serata dei campioni: from Australian Open with love c’è Matteo Berrettini, c’è il Fiore più desiderato (“L’anno prossimo conduce Figliuolo” e poi fa partire un coro per Mattarella) e in gara due super big: Massimo Ranieri e Gianni Morandi. Sull’affaire Morandi, che per sbaglio aveva diffuso un frammento del brano in gara, si è tornati nella conferenza stampa del mattino, anche perché Rettore lunedì avrebbe accennato il motivo della sua canzone a La vita in diretta. Non è che la diffusione di frammenti di brani sui social – devono essere inediti e inauditi – impone una revisione del regolamento? “Quelli di Fedez lo scorso anno e di Morandi ora sono stati due errori: sfido chiunque a cantare le loro canzoni dopo quei filmati. Mi sembra una crudeltà e vale anche se fosse accaduto a un ragazzo sconosciuto”, puntualizza Amadeus. Il direttore di Rai1 Stefano Coletta però va oltre, e un po’ troppo: “Io avrei salvato Morandi anche se avesse pubblicato più secondi. I social inducono molte riflessioni, ma gli ultimi casi non sono stati un salvataggio. Per Gianni non avrei valutato un’altra opzione”. E però così – orwellianamente, come direbbe lui che cita Freud e parla come Gadda – sembra che qualcuno sia più uguale. Naturalmente della cosa si accorge l’occhiuto Codacons che accusa i due direttori di “disprezzare il regolamento”.

Ma a tenere banco davvero è la battaglia di canne: il battesimo è segnato da una polemica vecchia come le guerre puniche, ovvero droghe leggere legali sì o no. Protagonista Ornella Muti, conduttrice della prima serata, sul palco con un monologo sul cinema, che in mattinata ha tentato di far fronte alle domande dei giornalisti con esiti rivedibili. “Non vado in giro per l’Ariston a distribuire canne”, ha provato a scherzare. “Difendo la cannabis legale, nient’altro che questo”, ha sottolineato l’attrice, da tempo impegnata nella battaglia per la cannabis terapeutica. Non meno di due giorni fa però ha postato una foto in cui indossava un ciondolo con il simbolo della marijuana. Sul referendum per la legalizzazione la sua posizione è Let it be, ma anche no: “È un tema più difficile da gestire. Sono una mamma, sono una nonna mi rendo conto dei pericoli. Forse sarebbe il caso di legalizzarla, considerando che in giro ci sono droghe molto più pericolose e ragazzini che vanno in coma etilico”. Giustamente respinte con perdite le domande di geopolitica sul conflitto Russia-Ucraina (la madre della Muti era russa) e meno giustamente quelle sul contenzioso legale con il Teatro di Pordenone, a cui l’attrice dovrebbe ancora dei soldi per una vicenda di dieci anni fa, quando non aveva onorato un impegno di lavoro con l’ente friulano.

Non proprio stupefacenti le indignate reazioni dei destri. Matteo Salvini, che immaginavamo in ben altre faccende affaccendato, su Facebook trova il tempo per diffondere una lapidaria massima “la droga è morte”; Fratelli d’Italia, all’opposizione anche del Festival, minaccia interrogazioni sulle dichiarazioni erbivore della Muti e se la prende pure con Roberto Saviano, ospite domani sera per ricordare i trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. Lo scrittore reo di “mitopoiesi” (ma che vi siete fumati?) è accusato di “lucrare” sulla mafia, lui però verrà a titolo gratuito: “È a Falcone e Borsellino che dobbiamo la nostra capacità di guardare in modo radicalmente diverso alla sintassi del potere”. Fine delle polemiche, almeno per il primo giorno. Da oggi si fa sul serio con i risultati degli ascolti: la Rai si aspetta moltissimo, oltre il 50 per cento di share, e ci sono ottime possibilità che succeda.

Speriamo nel fattore-Goggia, poi snowboard e pattinaggio

A Pyeongchang furono 10 medaglie, di cui tre ori. Per l’Italia che arriva dalla sbornia di Tokyo, l’obiettivo è finire ancora in doppia cifra e possibilmente migliorare. Tanto passa da Sofia Goggia, che doveva essere portabandiera e invece forse non sarà nemmeno in gara, infortunata alla vigilia e in dubbio fino all’ultimo. Le alternative nello sci, al femminile con Brignone e magari dagli slalomisti maschili, non mancano. E ancora: l’eterna Arianna Fontana, Michela Moioli nello snowboard, Dorothea Wierer nel biathlon, il pattinaggio. Più o meno gli stessi nomi di quattro anni fa. Poi bisognerà pensare al rinnovamento e a Milano-Cortina.

 

Olimpiadi stile Squid Game: bunker, contagi e… Malagò

Sono i Giochi Olimpici, ma sembrano Squid Game: già arrivare ai nastri di partenza è un’impresa, vince innanzitutto chi non si contagia, poi si pensa alle medaglie. Ne sa qualcosa il nostro Giovanni Malagò, beccato positivo all’arrivo e chiuso in isolamento, come altri dirigenti e atleti di tutto il mondo. Benvenuti alle Olimpiadi invernali 2022, che potrebbero essere a Pechino, come su Marte o sulla Luna, tanto i suoi protagonisti la “città proibita” (letteralmente) la vedranno solo dal finestrino. Dentro, letti intelligenti, automi che friggono patatine, impianti avveniristici. Fuori, cancelli e reti metalliche, che le puoi addobbare quanto vuoi con cinque cerchi, mascotte e amenità varie, ma restano pur sempre inquietanti recinzioni. Per separare gli atleti dagli abitanti, le Olimpiadi dalla Cina.

Mr. coni il virus, i controlli e la cortina con zero tifosi

Venerdì 4 febbraio inizia la 24esima edizione delle Olimpiadi invernali. La seconda in epoca Covid, dopo Tokyo 2021. Se in Giappone erano stati i Giochi della bolla, qui siamo nel bunker: zero contatti con l’esterno, poche informazioni, niente tifosi (spettatori solo su “invito”), un intero evento rinchiuso in una cortina, non solo mediatica. Succede quando si portano i cinque cerchi in una dittatura che deve respingere accuse di violazione dei diritti umani e resistere al boicottaggio Usa, per giunta in piena pandemia: combo letale per lo spirito olimpico. Ma d’altra parte l’atmosfera festosa non si respirava già da un pezzo: le ultime edizioni, Sochi e Pyeongchang, ai confini del mondo, erano state un monumento al gigantismo. Per una serie di combinazioni, Pechino, prima città della storia a ospitare i Giochi invernali dopo quelli estivi nel 2008, non sarà troppo diversa, eppure unica, a suo modo.

In Cina sono attesi in 5.500 tra atleti e dirigenti da 86 nazioni diverse, per chi ce la fa. Nel Paese che ha dato il via alla pandemia e ora ha deciso di combatterla con la strategia Covid-zero, arrivare è un’impresa: bisogna evitare ogni possibilità di contagio, compilare per due settimane un formulario con la propria temperatura, sostenere due test molecolari prima della partenza, ottenere un Qr code che sblocca il biglietto. Una volta in aereo è quasi fatta. C’è ancora una piccola possibilità di essere bloccati all’arrivo, risultando positivi al tampone a cui si viene sottoposti in Cina . È remota, ma i Pcr cinesi sono settati con una sensibilità maggiore (già ridotta perché si rischiavano troppi “falsi positivi” e una moria di atleti), e poi gli infermieri ci vanno giù pesante con i tamponi, roba da sangue alle narici. Il tasso degli sfortunati che partono negativi e arrivano positivi è di circa l’1,5%: fra questi, il n. 1 dello sport italiano Malagò. Si era accomodato nell’albergo riservato ai membri Cio, l’hanno svegliato alle 7 del mattino per informarlo della brutta notizia e portarlo in un Covid-hotel, da cui non uscirà fino a quando non si sarà negativizzato.

 

Atleti reclusi le navette non fanno fermate

Per tutti, queste strane Olimpiadi sono a metà fra festa e penitenza. Gli atleti sono un po’ protagonisti, un po’ prigionieri. Gli organizzatori l’hanno chiamato “circuito chiuso”: la verità è che si tratta di una vera e propria forma di reclusione, con tanto di fil di ferro intorno a ogni venue olimpica, sorveglianza, sanificatori ovunque. La Cina, che dichiara una cinquantina di casi al giorno in tutto il Paese, nel “circuito olimpico” ne ha già scovati 200. L’Olimpiade deve restare separata da Pechino, per tutelare l’evento ma soprattutto chi lo ospita. Qualcosa del genere si era già visto a Tokyo, ma con maglie più larghe e clima rilassato. Qui i partecipanti ai Giochi non possono mettere piede in città: ci si muove solo con apposite navette nel tragitto hotel-centro stampa-impianto gara, senza fermate. Ma, come dicono i puristi, alle Olimpiadi si va per gareggiare non per turismo.

Per il resto, negli hotel e nel villaggio non è che si stia male: camere ampie e confortevoli, arredi robusti (altro che i letti “anti-sesso” di Tokyo, fatti in cartone e pronti a collassare al primo amplesso: a Pechino si dorme su materassi tecnologici), impianti moderni e suggestivi. La splendida pista di snowboard richiama la grande muraglia cinese. Il governo non ha badato a spese, e del resto di cifre nemmeno si parla più in Cina: quelli che dovevano essere i Giochi più economici della storia magari finiranno per essere i più costosi (si parla di un budget di quasi 40 miliardi di dollari).

 

Censura quali immagini saranno trasmesse?

Le Olimpiadi 2022 iniziano avvolte in un manto di neve e quasi di mistero. Informazioni poche, comunicazioni rarefatte. In entrambi i sensi. Nessuno ha messo piede in Cina da quando è scoppiata la pandemia, atleti e addetti ai lavori sono arrivati all’appuntamento della vita al buio. Le strutture, i ritiri, persino i percorsi: stanno scoprendo tutto ora e questo non potrà non avere conseguenze sulle gare, un terno a lotto. In attesa delle immagini ufficiali (Discovery, la tv olimpica, ha assicurato che non ci saranno censure ma “l’attenzione deve rimanere sugli atleti”), in Occidente comincia a filtrare qualche video: come promesso al Cio, ai partecipanti è concesso di navigare liberamente su internet e utilizzare i social che nel Paese sono bloccati, da Facebook a Whatsapp, ma solo se connessi alla rete wi-fi della manifestazione o tramite una sim cinese fornita dall’organizzazione, per chi si fida. Distinguere la realtà dalla propaganda, le vittorie dalle sconfitte, non sarà facile.

Morto Zamparini, ex patron del Palermo

È stato protagonista del calcio di Serie A da presidente del Venezia e del Palermo. Maurizio Zamparini è morto in una clinica in provincia di Ravenna. L’imprenditore, 80 anni, era stato ricoverato a Natale a Udine per una peritonite. Poi era tornato a casa, ma le sue condizioni si erano aggravate. Alla fine degli anni ‘80 aveva rilevato il Venezia, portandolo dalla Serie C2 alla A. Nel 2002 aveva acquistato il Palermo, riuscendo a riportarlo nella massima serie dopo 31 anni di assenza per poi raggiungere anche la qualificazione in Coppa Uefa e in Europa League e una finale di Coppa Italia nel 2011. Lanciò giocatori del calibro di Cavani, Amauri e Dybala.

Dal Pino lascia la guida della Lega Serie A. Riparte l’assalto di Lotito alla presidenza

In piena emergenza Covid, mentre i bilanci saltano e i club implorano aiuti di Stato, la Serie A si ritrova pure senza presidente. Paolo Dal Pino si è dimesso: ufficialmente perché si trasferisce negli Usa, dove lavora (per la telco Telit). La tempistica però non può essere casuale, con lo scontro in corso tra la FederCalcio e la Lega che non vuole adeguarsi alla nuova regola delle votazioni a maggioranza semplice. La fronda è guidata da Claudio Lotito, nemico giurato del n.1 della Figc Gabriele Gravina, di cui proprio Dal Pino era il principale alleato. Non è un caso che nella sua lettera di congedo abbia ringraziato quasi solo Gravina. Adesso il suo addio lascia scoperta una poltrona pesante e rischia di stravolgere gli equilibri del pallone, se l’ala lotitiana dovesse davvero riuscire a far eleggere un suo candidato e togliere l’appoggio al presidente federale. Gravina, che già guarda con terrore allo spareggio dell’Italia a marzo (senza Mondiali il terremoto sarebbe inevitabile), ha già chiesto alla Lega di convocare subito elezioni.