Giorno del Ricordo: “I partigiani di Tito come i nazisti”

La locandina rammenta la guerra fredda. Ecco i partigiani jugoslavi di Tito raffigurati come nazisti: belve nere che incombono su un gruppo di italiani di Istria e Dalmazia. L’illustrazione è stata scelta dall’assessore Maurizio Marrone (FdI), della Regione Piemonte, per la Giornata del Ricordo del 10 febbraio. Foibe, dunque. Con il solito copione dell’uso politico e del travisamento della Storia.

Pd, gruppi di sinistra, l’Anpi (ex partigiani), contestano il manifesto. Il fatto curioso è che la locandina, spiega Paolo Borgna, presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Torino (Istoreto), è stata presa da un graphic novel voluto dallo stesso Istoreto e da altri enti nel 2019. Quando ne “fu proposta dall’assessore Marrone una riedizione – prosegue Borgna -, fu concordemente respinta dagli enti e dagli autori che l’avevano promossa, contrari all’uso strumentale, ravvisabile nelle nuove pagine introduttive”. Pagine, infatti, “inquinate dall’utilizzo nella prefazione di concetti errati (genocidio, pulizia etnica) propri della polemica politica indifferente alle ragioni degli Esuli e allo studio degli spostamenti forzati di popolazione”. Conclude Borgna: “Dire che gli infoibamenti del ‘45 non furono pulizia etnica non significa essere ‘negazionisti’. Gli uomini e le donne uccisi e gettati nelle foibe non lo furono in quanto italiani ma essenzialmente per motivi di preventiva epurazione politica; in quanto ritenuti (a torto o a ragione, non importa) collaborazionisti del regime fascista o comunque potenziali nemici nel nuovo ordine”.

A parlare per primi di foibe, d’altro canto, furono i fascisti. Ovvero il gerarca e ministro Giuseppe Cobolli Gigli, che nel 1927 sostenne la necessità della pulizia etnica contro gli slavi. Al ministro piaceva questa canzone: “La musa istriana ha chiamato Foiba il degno posto di sepoltura per chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese le caratteristiche nazionali dell’Istria”.

Fake news, l’osservatorio Ue ha legami con Facebook&C.

La Commissione europea si dichiara paladina della lotta alle fake news online, ma per farla si affida a esperti finanziati dalle stesse piattaforme che spesso sono accusate di alimentare la disinformazione. È il caso dell’Osservatorio europeo dei media digitali (European Digital Media Observatory – EDMO), fondato dalla Commissione a giugno 2020, con sede a Firenze, di cui fanno parte un ex dirigente di Facebook e varie organizzazioni sponsorizzate da Google. Undici persone sulle 25 che lavorano all’osservatorio hanno legami con i giganti del web, buona parte studiosi e giornalisti non collegati direttamente a piattaforme come Facebook e Google, ma i cui datori di lavoro ricevono finanziamenti o sono pagati da esse, che oltretutto hanno firmato un codice di buona condotta imposto dall’esecutivo europeo.

Richard Allan, ad esempio, è un membro del consiglio di amministrazione di EDMO ed è stato capo lobbista di Facebook in Europa tra il 2009 e il 2019. Come riportato da Investigate Europe, al tempo faceva pressione sugli esperti dell’Ue per evitare regolamenti europei troppo stringenti nei confronti delle piattaforme. Lord Allan fa anche parte del Parlamento britannico ed è alleato politico di Nick Clegg, ex leader dei liberali britannici, oggi vicepresidente di Facebook.

La seconda in odore di conflitto d’interessi è invece Madeleine de Cock Buning, direttrice del comitato consultivo di EDMO e attuale vicepresidente delle politiche pubbliche di Netflix. La piattaforma di streaming globale non ha ancora firmato il codice Ue per le buone pratiche. “Tra chi controlla non dovrebbero esserci persone che hanno legami con chi deve essere controllato – spiega Monique Goyens, direttrice del BEUC, un’unione di 46 associazioni europee di consumatori –. Il passaggio di Richard Allan da Facebook a EDMO è stato veloce, un tipico caso di revolving doors (porte girevoli)”.

“Gli esperti che hanno legami con il settore non possono dirsi indipendenti – aggiunge Vicky Cann, di Corporate Europe Observatory, una ONG per la trasparenza –. Chi lavora o riceve finanziamenti dal settore tecnologico non dovrebbe far parte di un’organizzazione come EDMO. Qui ci sono seri conflitti di interessi.”

Alcune di queste connessioni non sono un segreto per il gruppo europeo delle autorità di controllo nazionali, ERGA: “Siamo a conoscenza dei legami e delle persone coinvolte – spiega Lubos Kuklis a capo dell’unità disinformazione in ERGA –. Per conoscerli, i finanziamenti delle piattaforme devono essere trasparenti”. Sally Reynolds, un membro non pagato del consiglio consultivo di EDMO, ha un punto di vista diverso – crede che sia normale che ci siano profili come questi. “Non vogliamo esperti di ittica a parlare di disinformazione – dice Reynolds, esperta di educazione mediatica – Forse non hanno palesi conflitti d’interessi, ma potrebbero avere opinioni e da loro ci aspettiamo, appunto, opinioni”. In una dichiarazione inviata a Investigate Europe, EDMO garantisce che i membri del suo consiglio, come Allan, rappresentano la diversità degli stakeholder. L’osservatorio ha aggiunto che il suo statuto stabilisce misure contro potenziali conflitti d’interessi. Allan e de Cock Buning non hanno voluto commentare

Finanziato con soldi europei (2,5 milioni per il centro e 11 milioni per gli hub regionali sparsi nel continente), il progetto prevede una partnership con università e fact-checker. L’Edmo siede infatti in un consorzio guidato dall’European University Institute (EUI) di Firenze, insieme al Centro tecnologico di Atene (Athens Technology Center) in Grecia (che ha ricevuto donazioni da Google nel 2016 e nel 2019), l’Università di Aarhus in Danimarca (che attualmente sta conducendo nove progetti finanziati da Google e Facebook) e la testata italiana di fact-checking Pagella Politica, che ha Facebook tra i principali clienti. L’Osservatorio e i suoi hub collaborano con almeno otto tra università e istituti che accettano donazioni dai firmatari del codice di condotta e la rete di fact-checker conta diciotto canali che ricevono denaro dalle piattaforme (ad esempio attraverso i loro giornali) soprattutto con la Digital News Initiative di Google. Oltretutto, l’Osservatorio lavorerà direttamente con Google, dovendo selezionare i beneficiari dei 25 milioni di euro del Fondo europeo per i media e l’informazione il cui solo donatore è, appunto, Google. “Sta diventando molto difficile trovare studiosi non finanziati dalle piattaforme” conclude la direttrice del Beuc, Goyens.

L’esecutivo europeo, invece, difende le sue scelte: “La battaglia contro la disinformazione non avviene nel vuoto, deve essere uno sforzo condiviso tra molti stakeholder. Per questo le piattaforme cooperano con ifact-checker e i ricercatori e sostengono il loro lavoro”.

Che le piattaforme online non siano solo traghettatori di notizie ma abbiano spesso un’agenda politica è emerso spesso in passato. Brooke Binkowski, ex impiegata di Facebook, ha raccontato a Investigate Europe che “è stata assunta una squadra per infangare il magnate George Soros che aveva criticato Facebook, diffondendo materiale contro la sua Fondazione, Open Society (il capo operativo di Fb, Sheryl Sandberg ha ammesso di dirigere un gruppo per indagare sugli interessi finanziari di Soros, nda) e contenuti antisemiti”. Inoltre i controllori come lei ricevevano tutti pagine diverse da analizzare, non c’era trasparenza su come venissero smistati, decideva la dirigenza. E venivano pagati per ogni fake news trovata: un modo forse non proprio indipendente di lottare contro le stesse.

A ogni modo, il codice di condotta adottato a Bruxelles nel 2018 si è rivelato uno strumento blando: incoraggia le piattaforme a farsi carico di progetti sulla disinformazione, è volontario e autoregolamentato. Ora, a Berlyamont si lavora a una nuova versione con maggiori vincoli per i fact-checker : sarà presentata a marzo.

 

“Se il Cremlino attacca, armeremo 400 mila volontari”

Ha lasciato l’esercito con il grado di generale maggiore e oggi Oleksandr Polishchuk è il viceministro della Difesa; il suo compito è sovraintendere a tutte le forniture di armi inviate in Ucraina.

Qual è la situazione alla frontiera?

Con la scusa delle esercitazioni militari la Russia sta costruendo strutture militari lungo tutto il confine, anche in Bielorussia. Hanno ammassato 120 mila militari, saranno 130 mila entro metà mese.

L’invasione è ancora una possibilità?

Militarmente c’è un alto rischio di aggressione. Stiamo preparando tutte le misure per fronteggiarla. Abbiamo approvato una legge di ‘difesa territoriale’ grazie alla quale i privati cittadini si possono armare per difendere il paese.

Parla dei paramilitari?

La Russia ha un esercito di oltre 900 mila effettivi. I militari ucraini sono 204 mila, più altri 11 mila che verranno reclutati quest’anno. Ma abbiamo oltre 400 mila veterani e civili pronti a rispondere alla Russia. I gruppi di difesa territoriale sono autonomi, aiutati e riforniti dal mio ministero.

È un deterrente sufficiente per fermare la Russia?

Per capire la reale minaccia bisogna considerare il tipo di armi a disposizione. La Russia ha una grande flotta aerea. I piloti si sono addestrati per anni in Siria. Possono colpire con qualsiasi condizione meteorologica.

Di cosa avreste bisogno per fronteggiare un attacco?

Non vogliamo solo aiuti militari. Apprezziamo molto l’appoggio politico e diplomatico che stiamo ricevendo. Inoltre ci possono essere azioni che fatte senza cedere nulla a noi, per esempio la presenza della Nato nel Mar Nero. Delle navi militari possono essere un importante deterrente contro la Russia.

Continuate a ricevere armamenti?

Certo, dagli Usa e da altri alleati. Adesso siamo in attesa di un sistema missilistico antiaereo portatile. Ce lo stanno inviando i paesi baltici. Al tempo stesso arrivano aiuti logistici o sanitari: come ospedali da campo. E le nostre industrie stanno sviluppando la propria tecnologia militare.

La Germania vi ha mandato 5.000 elmetti. Troppo poco?

Non critico nessuno. Ogni Stato decide chi e come aiutare. Certo ci sono delle scelte che ci stanno danneggiando. Per esempio un membro della Nato ha posto il veto su forniture militari che l’Ucraina ha già pagato. Tra queste ci sono i sistemi anti drone. A gennaio due volte un drone arrivato dal lato nemico ha lanciato delle granate. Ci sono stati dei feriti, due gravi.

Far parte della Nato per voi è veramente così importante?

Nella nostra Costituzione c’è scritto che faremo parte della Nato. Ma l’impressione che l’Ucraina voglia diventare membro solo per difendersi dalla Russia è completamente sbagliata. È il contrario. Siamo noi che dopo otto anni di guerra con Mosca possiamo insegnare all’Occidente la nostra esperienza.

Draghi chiama Putin e cerca di salvare il gas per l’Italia

L’Italia farà la sua parte, aveva garantito il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, riferendosi al contributo italiano a un’eventuale azione militare della Nato contro la Russia in Ucraina. La sua parte, ieri, l’Italia l’ha fatta con la telefonata di Mario Draghi a Vladimir Putin in cui il presidente del Consiglio ha “sottolineato l’importanza di adoperarsi per una de-escalation delle tensioni alla luce delle gravi conseguenze che avrebbe un inasprimento della crisi”.

“Sono stati concordati – prosegue la nota ufficiale – un impegno comune per una soluzione sostenibile e durevole della crisi e l’esigenza di ricostruire un clima di fiducia”.

Draghi ha quindi ribadito il termine che gli Stati Uniti hanno introdotto fin dal discorso di Joe Biden: de-escalation. Addolcito, però, dal verbo “adoperarsi”. Che è più morbido della “esortazione a una immediata de-escalation” ribadita ancora ieri dal Segretario di Stato, Antony Blinken, e sideralmente distante dal “pericolo imminente” e dalla “pistola puntata alla testa”, i termini cui si è riferito il premier inglese Boris Johnson sbarcato a Kiev per solidarizzare sul campo con l’Ucraina assalita.

Ma i termini del colloquio si colgono meglio ascoltando la versione russa: “Putin ha illustrato a Draghi le richieste avanzate agli Usa e alla Nato in materia di garanzie di sicurezza”, spiegano le fonti del Cremlino aggiungendo che Mosca “continuerà a garantire forniture stabili di gas all’Italia”.

Si conferma quindi la situazione, che ha un po’ inquietato gli Stati Uniti, di una Europa che si confronta con Mosca con sfumature diverse. Dal quadro manca la Germania, il Paese forse più lontano dalle aspettative statunitensi, e la Francia con Emmanuel Macron che potrebbe incontrarsi con Putin nei prossimi giorni. Si coglie però chiaramente la posizione dell’Italia che, in un quadro di rigoroso filo atlantismo (con Draghi come potrebbe essere altrimenti?) non dismette i rapporti cordiali con la Russia. In ballo, come si è visto, il gas e le forniture di energia – che coprono il 40% del nostro fabbisogno – e il tema delle relazioni bilaterali che ha interessato l’incontro tra un nutrito gruppo di imprese italiane e lo stesso Putin avvenuto lo scorso 25 gennaio. Gli scambi bilaterali con Mosca ammontano a oltre 20 miliardi l’anno, ed erano stati duramente colpiti dalle sanzioni del 2014, quelle conseguenti alla Crimea.

Le imprese italiane, capitanate da nomi quali Marco Tronchetti-Provera, amministratore delegato di Pirelli, Francesco Starace, ceo di Enel, Guido Barilla, presidente del gruppo alimentare di famiglia, Andrea Orcel, ceo di Unicredit, e Gabriele Galateri, presidente delle Assicurazioni Generali, si erano concentrate proprio sul prezzo dell’energia, vincolo che condiziona non poco la politica estera italiana a differenza, ad esempio, di quella inglese.

Ieri Johnson ha portato la solidarietà all’Ucraina andando direttamente a Kiev insieme al premier polacco Mateusz Morawiecki e sembra che oggi avrà una conversazione telefonica con Putin. Il quale, invece, ha ricevuto la solidarietà del premier ungherese Viktor Orbán, e ha poi preso la parola sull’Ucraina per la prima volta da dicembre: “Gli Usa e gli alleati hanno ignorato le richieste della Russia”, dice Putin, cioè la preoccupazione di un’espansione della Nato in Ucraina e la contrarietà al dispiegamento di truppe e armi vicino al confine russo. “Qualcuno ha pensato a cosa accadrebbe se l’Ucraina nella Nato decidesse di riprendere con la forza la Crimea? Dovremmo fare la guerra con la Nato?” si è chiesto il presidente russo.

Ma tutte queste sono schermaglie dietro alle quali va avanti una complessa trattativa. La Russia smentisce di aver risposto alle richieste statunitensi e di aver inviato per iscritto solo una richiesta di chiarimenti.

Blinken ha invece avuto un colloquio telefonico con il suo omologo russo, Serghei Lavrov in cui ha ribadito di voler “perseguire la via diplomatica”. E in questa direzione va l’invito dello stesso Blinken, dell’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, del Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e dello stesso Blinken, a continuare le discussioni in ambito Osce, cioè nell’organizzazione che, comprendendo anche la Federazione russa, è più adatta a trovare soluzioni condivise. Si continua a trattare.

“Vice Media” ripudia il regime, ma poi organizza il mega-festival

Da Ryad hanno ricevuto 20 milioni di dollari per mettere in piedi un evento culturale, ma volevano incassarli in silenzio. Il colosso Vice, nato come bastione della contro-cultura giornalistica e divenuto oggi una delle aziende di comunicazione più mastodontiche presenti sul mercato internazionale, ha organizzato segretamente il festival di musica Azimuth per l’Arabia Saudita del principe MbS, Mohammad bin Salman: su di lui, sebbene non vi sia mai stata una accusa mossa da un tribunale, pesa la fine violenta del giornalista dissidente Jamal Kashoggi, avvenuto nel consolato di Istanbul, in Turchia, nel 2018. L’assassinio è stato condannato da tutte le testate internazionali, Vice compresa: la compagnia americana aveva annunciato pubblicamente che avrebbe bloccato contratti e contatti con l’Arabia Saudita. Dopo tre anni la loro indignazione è finita e l’azienda ha accettato il contratto per organizzare l’Azimuth, ma ha fatto di tutto per tenere il suo nome lontano dall’evento, scrive il britannico Guardian: “Agli appaltatori che hanno lavorato al festival musicale, organizzato tramite l’agenzia di marketing di Vice, Virtue, è stato chiesto di firmare accordi di non divulgazione”, mentre il nome di Vice “non è apparso nel materiale reso pubblico”. A riferirlo al quotidiano di Londra sono stati gli stessi impiegati “preoccupati dal coinvolgimento dell’azienda” con la casa reale saudita. Le uniche spiegazioni che hanno ricevuto dai vertici sono state “dichiarazioni vuote e scuse patetiche”. Il festival, “dove la Storia incontra la Cultura” – scrive l’organizzazione saudita sul suo account social ufficiale – Azymuth ambisce a riunire tra le dune del deserto saudita tutti gli artisti più famosi del Medio Oriente – con ospiti occidentali – proprio nel luogo toccato, secoli fa, da carovanieri che percorrevano la rotta commerciale della via dell’incenso, ad Al-‘Ula, nella regione di Medina. All’inizio d dell’anno nella capitale è stata aperta una sede dell’ufficio creativo del media Usa. Quando la notizia del coinvolgimento di Vice non è stata più segreta, l’alibi del giornale nato come organo di informazione dei giovani è stato la gioventù stessa: “Vice è sempre stato incentrato sulla creatività e la cultura per i giovani in ogni angolo del mondo e nella regione saudita due terzi della popolazione ha meno di 35 anni”.

Il Mali caccia la Francia. Via l’ambasciatore Meyer

Bamako ha dato 72 ore di tempo all’ambasciatore di Francia, Joël Meyer, per lasciare il Paese. In Mali il diplomatico è diventato persona non grata da quando il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, il 27 gennaio, ha accusato il governo golpista “illegittimo” di Assim Goïta di “prendere misure irresponsabili”. Parole giudicate “ostili e scandalose”. Le Drian si riferiva al fatto che Bamako, in un comunicato del 25, aveva intimato alla Danimarca di ritirare i suoi soldati presenti in Mali nell’ambito della task force europea “Takuba”, che lotta nella regione contro i jihadisti, perché il loro dispiegamento non sarebbe stato autorizzato dall’esecutivo. Il 27, il portavoce del governo maliano, il colonnello Abdoulaye Maïga, aveva poi accusato la ministra francese della Difesa, Florence Parly, di “ingerenza negli affari interni” del Mali e, ricordando un celebre verso di Alfred de Vigny – “solo il silenzio è grande, tutto il resto è debolezza” –, l’aveva pregata in sostanza di tenere la bocca chiusa. Lunedì Parigi ha “preso atto” e richiamato il suo ambasciatore.

È l’ultimo episodio che segna una nuova escalation nella crisi diplomatica tra Parigi e Bamako, iniziata con il doppio golpe guidato dal colonnello Assimi Goïta, che nel 2020 aveva portato al rovesciamento del presidente Keïta e nel 2021 alla destituzione del presidente ad interim Bah N’Daw. Crisi che ora coinvolge anche i 14 paesi europei che dal marzo 2020 sono impegnati in Mali al fianco della Francia nella lotta contro i jihadisti, compresa l’Italia. L’ex potenza coloniale è presente militarmente dal 2013 nel Sahel, regione tra Mali, Niger e Burkina Faso, con la missione “Barkhane”, un contingente di più di cinquemila uomini, impegnati contro i terroristi di al Qaeda nel Maghreb Islamico. Una missione sempre più impopolare in Francia, che non solo non ha permesso di stabilizzare politicamente il Mali, ma ha anche causato la morte di 53 soldati francesi, l’ultimo il 22 gennaio, ucciso in un attacco a Gao. A luglio, Parigi ha annunciato un graduale e parziale ritiro dal Sahel per favorire l’alleanza europea Takuba, 900 uomini tra cui anche 200 soldati italiani, già operativi nell’addestramento dei militari maliani e nel supporto medico della coalizione. Ed è a questo punto che la situazione si è degradata ancora di più. A fine anno, il governo provvisorio del Mali, che aveva assicurato regolari elezioni a febbraio, ha annunciato di voler estendere la fase di transizione fino al 2026.

Una proposta “inaccettabile” anche per la Cedeao, la comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, che ha approvato dure sanzioni contro il Mali. Il 20 dicembre Macron avrebbe dovuto incontrare Goïta a Bamako, ma il viaggio è stato annullato, ufficialmente per la crisi sanitaria. Inoltre, a mano a mano che Parigi si ritira, è Mosca ad avanzare nel Sahel. Nella regione sarebbero presenti circa 400 mercenari del gruppo Wagner, organizzazione che fa capo a Prigozin, conosciuto come lo “chef di Putin” che consentono a Mosca di allargare la propria influenza in Africa occidentale prendendo il posto della Francia come già in Africa centrale. I media francesi mostrano immagini amatoriali di blindati russi che dall’aeroporto di Bamako si starebbero spostando verso il centro-nord del Paese. L’avvicinamento a Mosca pone il dilemma sulla di Takuba nella regione. Il 13 gennaio, al termine di un summit informale dei ministri degli Esteri europei, a Brest, in Francia, Josep Borrell, capo della diplomazia Ue, aveva confermato di voler portare avanti la missione militare in Mali “ma non ad ogni costo”. La Svezia ha annunciato che ritirerà il suo contingente. “Continueremo a lottare contro il terrorismo nel Sahel”, ha assicurato ieri il portavoce del governo francese, Gabriel Attal. Parigi e i suoi alleati europei si danno fino a “metà febbraio” per “adattare” il dispositivo militare nella regione. Dopo l’espulsione del diplomatico francese, l’Ue fa blocco intorno a Parigi: per Borrell è una azione che può “isolare ancora di più il Mali”. Un ex ambasciatore francese a Bamako, Nicolas Normand, relativizza la crisi. L’espulsione di Meyer, ha detto Normand a France Info, “è una misura forte, ma simbolica”: “Il Mali ha precisato che conserva le sue relazioni diplomatiche e la cooperazione con la Francia. È interesse dei due Paesi – spiega – trovare un accordo nella lotta al terrorismo. Non sappiamo se il Mali vuole che Barkhane resti, ma non ne ha chiesto il ritiro”.

Egitto, Zaki resta nel limbo: processo aggiornato al 6 aprile

La svoltanon è arrivata. Il tribunale speciale di Mansoura ha deciso di aggiornare al 6 aprile il processo a Patrik Zaki. A comunicarlo è stato lo stesso attivista egiziano, che rischia di finire in carcere per 5 anni. Il rinvio dell’udienza di più di due mesi “significa prolungare questa situazione di limbo, di incertezza e di sofferenza di Patrick”, ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. “Questi 2 mesi e 5 giorni non devono essere fatti trascorrere nel disinteresse, auspichiamo che l’attenzione del governo che da dicembre era già alta continui a essere alta”.

Breivik resta in carcere “Può ancora uccidere”

Il tribunale distrettuale di Telemark, in Norvegia, ha stabilito all’unanimità che Anders Behring Breivik deve restare in carcere. Secondo i giudici, Breivik non è cambiato da quando nel 2011 uccise 77 persone a Oslo e sull’isola di Utoya, quindi la sua richiesta di libertà condizionale è stata respinta. La sua visione della società e ideologia sono le stesse di allora, hanno detto i giudici descrivendo l’estremista di destra. “L’accusato sembra ovviamente disturbato e con un mondo di pensieri difficile da penetrare”, hanno sottolineato, mentre non mostra alcun rimorso. Non si può stabilire, poi, che non sarebbe violento, il rischio che lo sia è “reale”.

MailBox

 

A questo punto, Casellati dovrebbe dimettersi

Dopo la débâcle elettorale, con l’individuazione certa dei gruppi parlamentari che non l’hanno votata, la Casellati potrebbe non garantire l’imparzialità dello svolgimento dei lavori senatoriali, e quindi dovrebbe dimettersi, o meglio: dovrebbe essere sfiduciata e rimossa dal seggio di seconda carica dello Stato.

Giancarlo Falducci

Se avesse una dignità, sì.

M. Trav.

 

Ma Letta jr. aveva dato il suo ok alla n.1 del Dis?

Caro Travaglio, leggo da anni con passione il suo giornale, che mi dà sempre informazioni veritiere. Mi sono però sorpreso leggendo, in prima pagina, che “Letta dice sì a Conte e Salvini su Belloni, poi la stronca”. I fatti però, stando alle dichiarazioni successive dei diretti interessati, non sono andati proprio così. Dopo l’accordo fra i tre leader sulla Belloni, nel tardo pomeriggio Letta aveva iniziato a contattare la sua base per l’approvazione: ma improvvisamente, prima Salvini (intorno alle 19) e poi Conte (mezz’ora dopo) hanno fatto uscire il nome, e solo a quel punto Letta ha bloccato l’ok. Non è una differenza da poco, e che una ennesima pirlata del genere l’abbia fatta Salvini, non c’è da stupirsi: Conte però è stato molto scorretto. E da lei, caro Travaglio, questo travisamento dei fatti non me lo aspettavo proprio.

Gaetano Nicolosi

No, caro Gaetano: il primo a parlare di “una presidente” donna è stato proprio Letta a Sky Tg24.

M. Trav.

 

I delusi per la mancata elezione del Migliore

Il grande sconfitto di queste elezioni è Draghi (ma non si può dire). Pensavo che a votarlo dovessero essere i giornalisti osannanti delle grande testate nazionali, meno il Fatto, con il beneplacito di Brunetta, Giorgetti e Di Maio, ma avendo contro Berlusconi, Conte e Salvini, cioè chi veramente decideva come indirizzare i voti. È stato stupefacente vedere lo sgomento durante le dirette televisive di tanti giornalisti che non vedevano Draghi salire nei pronostici. Una citazione particolare per la nuova direttrice del Tg3, che ripeteva che trovava assurdo che non si cogliesse l’occasione di poter avere Draghi per ben sette anni, in caso di elezione al Quirinale. A nessuno veniva in mente che, se si ricopre un incarico istituzionale di altissimo livello come la Presidenza del Consiglio, si rimane in quel ruolo senza scappare, sia pure per ambizioni personali (che vanno accantonate nell’interesse del Paese).

S. Griffo

 

DIRITTO DI REPLICA

Leggiamo con stupore l’articolo firmato da Andrea Debernardi pubblicato il 31 gennaio 2022 dal vostro quotidiano nel quale, commentando il “Documento strategico della mobilità ferroviaria di passeggeri e merci” che il Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili (Mims) ha inviato alle Camere alla fine di dicembre e ha pubblicato sul proprio sito il 5 gennaio, si sostiene che per il Ministero esisterebbero solo le Fs e le grandi opere, dimenticando il Sud. Questa affermazione non corrisponde minimamente alla visione strategica e ai programmi del Mims che ha fatto della cosiddetta “cura del ferro” un punto cruciale della transizione ecologica e per la mobilità sostenibile in tutto il Paese, a partire dalle aree più svantaggiate, come si evince dall’Allegato Infrastrutture al Documento di Economia e Finanza 2021. Forse Debernardi avrebbe dovuto leggere con più attenzione la prima pagina dell’introduzione per scoprire che il Documento è finalizzato (secondo quanto previsto dal decreto-legge 152/2021) a velocizzare la stipula del Contratto di Programma tra il Mims e Rete Ferroviaria Italiana (Rfi), in attuazione di una delle riforme inserite nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Di conseguenza, esso si concentra inevitabilmente sulle attività di Rfi, anche se queste ultime sono inquadrate in una più ampia analisi dello sviluppo del trasporto ferroviario che coinvolge le reti regionali, le interconnessioni con i porti e gli aeroporti, l’integrazione con altre modalità di trasporto, ecc. In conclusione, sarebbe utile una maggiore attenzione nella lettura dei documenti, fermo restando, ovviamente, il diritto di critica.

Ufficio Stampa MIMS

 

C’è da stupirsi dello stupore. Nell’articolo non sostengo affatto che per il ministero esisterebbero solo le Grandi opere, dimenticando il Sud, ma che la scelta ministeriale di puntare unicamente, per il Sud, sulle Grandi opere, sottende una visione molto parziale e costosa, di dubbia efficacia proprio al fine 1) di garantire buoni servizi ferroviari da e per il Mezzogiorno nonché 2) di sostenerne lo sviluppo. L’esperienza di pianificazione strategica delle reti ferroviarie degli altri Paesi europei ha dimostrato da tempo l’importanza di ragionare in primo luogo sui servizi che si vogliono offrire, e soltanto successivamente delle opere infrastrutturali che si rendono necessarie a questo fine. È quanto il ministero aveva cercato di fare con il Def2020; ma a quanto pare l’arrivo dei cospicui finanziamenti del Pnrr ha fatto dimenticare il lavoro iniziato allora.

A. D.

 

I NOSTRI ERRORI

Nel colonnino di ieri a pagina 6, “Mario Monti: ‘Destabilizzati dal premier’”, abbiamo scritto che Monti e Mario Draghi sono stati “entrambi ex banchieri centrali”. In realtà il senatore Monti non ha mai ricoperto il ruolo di banchiere.

Nell’articolo di ieri a pagina 19, dedicato a Pier Paolo Pasolini e a Nicola Chiaromonte, anziché la foto di quest’ultimo abbiamo inserito quella di Gerardo Chiaromonte, dirigente del Partito Comunista Italiano.

Fq

Una donna al Colle. “È la Belloni? È la Cartabia? Rosi Bindi? No, è…”

 

Una donna, finalmente

è salita al Quirinale.

La Cartabia, la Belloni?

Casellati, la Meloni?

La Moratti, Rosi Bindi?

No, nessuna di costoro.

E chi, allora amico mio?

Non tenermi sulle spine.

La conosci? La conosco?

La conosci, la conosco.

È una donna equilibrata,

colta, brava, preparata?

Brava e colta certamente

è poi ricca d’esperienza

ma sull’equilibrio ho dubbi

dubbi forti, motivati.

Sa il diritto, ha svolto ruoli

d’importanza nazionale

ma purtroppo è mattarella

non ho detto squilibrata

e neppur ch’è donna matta

sol che al capo di un Paese

necessario è l’equilibrio

una donna, finalmente

ma perché una mattarella?

Guarente Guarienti