Tutto pagato? Le mezze verità di Tridico

Ogni promessa è debito, anche se già si sa che è difficile da mantenere e rischia di diventare una mezza bugia (o verità). È il risultato, scontato, della dichiarazione del presidente dell’Inps Pasquale Tridico sul pagamento della cassa integrazione. A inizio settimana, ha promesso a Repubblica che “entro venerdì 12 giugno i soldi arriveranno a tutti”. Ieri, sempre in un’intervista, Tridico ha comunicato che i pagamenti sono arrivati a 419.670 lavoratori che per l’Istituto di previdenza rappresentano il totale dei beneficiari ancora a secco. Tutto risolto? Mica tanto. I numeri, spietati, raccontano altro: la “vera” platea in attesa della cassa integrazione nelle sue diverse tipologie (ordinaria, straordinaria e in deroga) è il doppio di quella considerata dall’Inps, cioè circa 830 mila persone. Quindi a tutt’oggi ci sono 410 mila lavoratori esclusi da qualunque aiuto, perché l’Inps non ne conosce i dati o perché quei dati sono sbagliati o ancora perché potrebbero non aver diritto ai soldi. Una discrepanza che va spiegata.

I numeri. I beneficiari potenziali della Cig con causale “Covid-19” per i mesi di marzo e aprile sono 8,4 milioni. Mentre al 4 giugno (gli ultimi dati pubblicati dall’Inps) i lavoratori effettivamente raggiunti erano 7,5 milioni, ma per 4,3 milioni di loro si tratta di un assegno del 40% anticipato dall’azienda. Anche a loro, quindi, l’Inps deve dei soldi. Si dice a luglio, forse ad agosto. I ritardi sono innegabili, così come ci sono 2.549 società “congelate”: avrebbero richiesto la cassa integrazione illegalmente.

Il meccanismo. Il presidente Tridico ha ammesso che il più grande ostacolo della cassa integrazione non è tanto la mole di lavoro, ma la stessa procedura su cui si è incastrato il meccanismo del pagamento che passa – dopo una sorta di “prenotazione” – per l’invio di un modello (Sr41), in cui le aziende devono scrivere il numero dei lavoratori effettivamente in cassa e il loro Iban. Ci sono stati migliaia di errori nella compilazione. Così l’Inps prima è stato costretto a correggere i dati, perdendo tempo, e poi ha deciso di depennarli dal calcolo per far quadrare i conti che ora gli consentono di affermare di aver rispettato la promessa.

Gli esclusi. Anche se il presidente Tridico si dice soddisfatto, ci sono fino a 410mila lavoratori invisibili agli occhi dell’Inps solo perché hanno la sfortuna di rientrare in un meccanismo infernale. Per i consulenti del lavoro la colpa è anche delle Regioni che non hanno ancora inviato all’Inps la documentazione, ma ci sono pure aziende che hanno richiesto la Cig in deroga, mentre avrebbero dovuto fare domanda per quella ordinaria o quelle che avrebbero dovuto rivolgersi ai propri fondi e, invece, hanno bussato all’Inps. Errori difficili da giustificare agli occhi di chi ora non può neanche aggrapparsi a una promessa, visto che l’Inps non è in grado di sapere entro quando si sbloccheranno questi pagamenti fantasma.

Cig finita in estate: il nodo dei soldi per allungarla

Forse Roberto Gualtieri avrà modo di pentirsi di quel “nessuno perderà il lavoro” pronunciato a marzo e non solo perché è una frase falsa già oggi (solo in aprile gli occupati sono calati di 274 mila unità), ma soprattutto perché il peggio deve ancora venire. Finora, ed è una scelta razionale, il governo ha puntato a salvaguardare il lavoro soprattutto con due provvedimenti: la Cassa integrazione con causale “Covid-19”, concessa praticamente a chiunque, e il blocco dei licenziamenti che scadrà, salvo rinnovi, il 17 agosto. L’idea è, sostanzialmente, aspettare e vedere come vanno le cose.

Qual è il problema? L’intensità del tracollo è stata letteralmente senza precedenti e la ripresa non pare al momento istantanea. Nel solo mese di aprile, com’è noto, sono state autorizzate lo stesso numero di ore di cassa integrazione dell’intero annus horribilis 2009 (il Pil crollò del 5,3%). Il decreto Rilancio ha poi esteso la Cig “Covid” per altre 9 settimane portando il totale a 18: le prime 14 settimane da “consumare” subito e le ultime quattro a partire da settembre. Ora però, così hanno annunciato i ministri dell’Economia e del Lavoro Gualtieri e Catalfo, il governo pensa di correggersi e “anticipare le ulteriori 4 settimane previste”.

Chi ha iniziato la cassa a marzo, infatti, ha già esaurito i tre mesi e mezzo autorizzati finora (ammesso e non concesso che i soldi siano arrivati): altre quattro settimane sono una boccata d’ossigeno, ma non risolvono il problema. Tradotto: spegnere un Paese è facile, riaccenderlo no e moltissime imprese avranno finito la Cig tra agosto e settembre. Senza un ulteriore rinnovo, sarà impossibile anche mantenere in vigore il blocco dei licenziamenti: “Senza cassa è a rischio di incostituzionalità”, ha già avvertito ieri sul Sole 24 Ore, il giornale di Confindustria, Riccardo Del Punta, ordinario di Diritto del lavoro a Firenze.

Insomma, il rischio è che in autunno la crisi si scarichi sull’occupazione in misura anche maggiore di quanto avrà fatto nel frattempo (precari, lavoratori a termine, in nero e stagionali sono già oggi abbandonati alla tempesta). Per dare un’idea della misura del fenomeno: congelato per quanto possibile il livello degli occupati via Cig e blocco dei licenziamenti, l’Istat ha calcolato che il crollo delle ore lavorate ad aprile corrisponde a un milione e mezzo di “unità di lavoro equivalenti”, diciamo di occupati a tempo pieno. Un milione e mezzo su un totale di 24,1 milioni stimato nel primo trimestre 2020: un crollo di oltre il 6% in un amen, una cosa mai vista. A fine maggio Bankitalia ha provato a fare un suo conto in teste, cioè su quanti rischiano il posto di lavoro: quasi 900mila è la risposta che va considerata tenendo presente che – seppur si tratti di stime e medie – parliamo di centinaia di migliaia di persone, di vite, di famiglie.

Insomma, servirà allungare questa forma di cassa integrazione generalizzata, anche col rischio – che assumiamo come un dato di fatto – che qualcuno, pur non avendone bisogno, se ne approfitti per abbassare il costo del lavoro. Al ministero del Tesoro aspettano di capire solo quale sarà il cosiddetto “tiraggio” di questi mesi, cioè quanta cassa sarà effettivamente usata rispetto alle “prenotazioni” iniziali (il picco del 2009 fu quasi il 70%, stavolta si rischia di andare sopra).

Solo coi dati finali si potrà fare una stima sensata per l’autunno: certo non saremo ai 12 miliardi al mese del lockdown, ma il costo rischia di essere alto, specie dopo due decreti che hanno impiegato 70 miliardi in deficit e tenendo conto che serviranno più risorse anche sui sussidi di disoccupazione. Com’è noto il governo Conte è intenzionato a usare per finanziare il comparto lavoro i prestiti del fondo europeo “Sure”. Problema: non è affatto pronto e probabilmente non sarà della dimensione annunciata (100 miliardi).

Il meccanismo prevede infatti che gli Stati versino garanzie (3 miliardi per l’Italia) che poi il fondo userà per raccogliere altri soldi sul mercato: ci vorranno mesi e nel 2020 si partirà con cifre basse, senza contare che gli importi totali potrebbero essere modesti se gli Stati non interessati a “Sure” non verseranno le loro garanzie (l’Italia vorrebbe 20 miliardi, potrebbe doversi accontentare di molto meno). Tradotto: l’annunciata ulteriore “manovrina” rischia di non essere tanto “ina” e di doversi concentrare soprattutto sull’emergenza lavoro, sperando che quel che serve sia solo qualche mese di tempo.

Nell’istituto dei “pestaggi” scoppia la rivolta. Feriti 8 agenti

Il carcere di Santa Maria Capua Vetere è nel caos. Prima l’indagine sui presunti pestaggi del 6 aprile ai detenuti del reparto Nilo, con 44 avvisi notificati l’11 giugno agli agenti di polizia penitenziaria mentre prendevano servizio. Poi le proteste degli agenti saliti sui tetti per lamentarsi dell’umiliazione subita, e l’arrivo dell’ex ministro Matteo Salvini che ha espresso loro totale e incondizionata solidarietà. E come se non bastasse, venerdì sera c’è stata una rivolta dei detenuti. Alcuni di loro, definiti “problematici” – con precedenti per episodi di violenza e di intemperanza – hanno dato fuoco a una cella, e portati in infermeria si sono scagliati addosso ai poliziotti. Il bilancio finale sarà di otto agenti feriti. La rivolta, che dall’infermeria si era allargata al reparto Danubio messo a soqquadro da decine di prigionieri, si è sedata nel pomeriggio di ieri dopo che il capo del Dap Bernardo Petralia aveva avviato accertamenti urgenti, inviando sul posto i suoi uomini più fidati: il vice capo del Dap Roberto Tartaglia e il provveditore delle carceri campane Antonio Fullone. Con loro c’era il procuratore aggiunto di Santa Maria Capua Vetere, Alessandro Milita. Petralia ha chiesto alla direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap di disporre l’immediato trasferimento fuori dalla regione dei detenuti coinvolti nei disordini

Ma la tensione tra gli agenti penitenziari si taglia col coltello. Una cinquantina di loro sono usciti dal carcere per manifestare in divisa. Altri si sono rifiutati di prestare servizio, spaventati dai fatti degli ultimi giorni. “L’incriminazione principale è la presunta tortura… se sono indagati per tortura non possono entrare (durante la rivolta, ndr) altrimenti rischiano di aggravare la loro posizione a livello giudiziario”, “stanotte sono stati torturati nostri colleghi, presi a sprangate e feriti con le lamette. I torturati siamo noi e non loro”, ha detto Vincenzo Palmieri, sindacalista dell’Osapp.

La situazione esplosiva del carcere casertano è diventata oggetto di scontro politico. Da Forza Italia, Fdi e Lega piovono attacchi ai pm che hanno indagato gli agenti e a Bonafede, ministro di un “governo assente”. Lui risponde: “Strumentalizzazioni vergognose”.

“La gestione allegra fa male a tutti, anche ai detenuti”

Rendere più rigoroso il regime carcerario di alta sicurezza. Negli anni si è andato allentando, con celle lasciate aperte. Ora i responsabili del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, vogliono tornare a un regime più severo. Tra i detenuti coinvolti c’è anche Antonio Papalia, uomo della ’ndrangheta impiantata in Lombardia, che Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica a Catanzaro, conosce bene.

Procuratore, è d’accordo con questo cambiamento?

Se c’è una distinzione tra altra sicurezza e media sicurezza nelle carceri italiane, c’è un motivo. L’alta sicurezza è solo un gradino più sotto del carcere duro regolato dal 41 bis. Vi sono reclusi mafiosi che sono gregari e non promotori e altri criminali pericolosi, che hanno commesso reati gravi. Se il ministro ha in programma il ripristino delle regole, ben fa, sono d’accordo. E ben fa la nuova gestione del Dap.

Non c’è il rischio di comprimere i diritti dei carcerati e di far venire meno la funzione rieducatrice della pena?

Ma no, lasciare le celle aperte non c’entra nulla con la finalità rieducativa della pena. Al contrario, il fatto che fino a oggi non siano state seguite le regole, per rendere più aperta la detenzione, è un messaggio diseducativo ai detenuti. Una gestione allegra, a maglie larghe del carcere, in violazione dell’ordinamento penitenziario, è un incentivo alla non osservanza delle regole. Se chi è preposto al controllo non osserva le regole, è un pessimo educatore, dà un pessimo messaggio alla popolazione carceraria.

È un periodo complicato per le carceri italiane. Ci sono state le rivolte, poi le scarcerazioni durante il periodo di lockdown, molte polemiche, qualche cambio ai vertici del Dap, ora il rientro in cella di alcuni dei detenuti che erano stati mandati agli arresti domiciliari. Che cosa sta succedendo?

Per anni molti degli addetti ai lavori hanno fatto finta di non vedere e non sentire. Le rivolte sono state possibili anche perché le celle erano aperte, anche nei reparti di alta sicurezza. In questi sono reclusi non i capi, ma gli esecutori, che hanno una normale ammirazione nei confronti dei capi e sono garzoni e strumenti dei capi. Le rivolte nelle carceri sono state possibili e così devastanti proprio per le celle aperte e la promiscuità praticata negli istituti.

È stato un momento di disorientamento che ora lo Stato sta superando o la crisi della gestione carceraria continua?

Se siamo ancora al punto di discutere se chiudere o no le celle, vuol dire che siamo ancora in un momento di confusione. Ma vedo che qualche correzione si sta apportando. Io penso che la strada giusta sarebbe quella di porre, finalmente, il problema della nuova edilizia carceraria. È arrivato il momento di avviare la costruzione di nuove carceri. Nella fase post-coronavirus si stanno mettendo a disposizione molte risorse per l’economia, per le infrastrutture. Ci sono soldi che ieri non c’erano: ebbene, è questo il momento per costruire quattro nuove carceri in Italia, distribuite tra nord, centro e sud, per 20 mila posti. Sarebbe la fine del sovraffollamento carcerario. Potremmo cogliere ora l’occasione per risolvere il problema per i prossimi 20-30 anni. Basta un solo progetto da replicare quattro volte in quattro luoghi geografici diversi. Pensi che a New York c’è un carcere con 18 mila posti, a Miami di 7 mila. Sto indicando un esempio d’infrastruttura, non un regime carcerario, quello americano, da assumere come modello. In Italia abbiamo tanti piccoli istituti da 100, 150 posti, con costi fissi altissimi e pochi detenuti. Dovremmo costruire strutture più grandi ed efficienti, sempre garantendo la finalità rieducativa della pena. Risolveremmo il problema del sovraffollamento che sta tanto a cuore all’Europa, che si ricorda dell’Italia per il sovraffollamento, ma non per contrastare adeguatamente le organizzazioni mafiose presenti fuori dall’Italia. Dovremmo adottare per i detenuti lo stesso metodo di recupero che si usa per i tossicodipendenti, con ore di lavoro e sedute di psicoterapia. Invece in tante carceri italiane i detenuti stanno otto ore davanti al televisore.

Carceri, l’alta sicureIzza è a porte aperte

La lettera chiede ai direttori delle carceri di “regolarizzare” le sezioni dell’Alta sicurezza dei penitenziari. Perché le celle stanno aperte oltre le ore consentite e le regole vigenti per i mafiosi e i terroristi detenuti non sono rispettate. La lettera, visionata dal Fatto, è stata spedita il 4 giugno scorso dal direttore del settore Alta Sicurezza delle carceri italiane, Caterina Malagoli, già magistrato antimafia in Sicilia, entrata al Dap nel 2018 e dal febbraio 2019 Direttrice dell’Ufficio V del Dap. La dottoressa è la responsabile di un circuito che conta 10 mila detenuti circa. Ci sono gli ex 41 bis (AS1) i terroristi (AS2) e i membri delle organizzazioni criminali (As3). Per fare qualche esempio, Massimo Carminati quando è uscito dal 41 bis (non essendo stato condannato per associazione mafiosa ma semplice) è entrato nel circuito. A Padova in As1 c’è Antonio Papalia, classe 1954, boss della ’ndrangheta nel Nord Italia. A Frosinone c’è il boss della mafia catanese Giuseppe Mangion, classe 1959; a Benevento c’è il boss di Misilmeri Salvatore Sciarabba, classe 1950. Dopo le rivolte di marzo per il Covid e le centinaia di scarcerazioni da parte dei magistrati, dopo il terremoto ai vertici del Dap con le dimissioni di maggio del capo del Dap Francesco Basentini e del Direttore trattamento detenuti Giulio Romano, si scopre un altro elemento di preoccupazione sulla tenuta del sistema carcerario.

La dottoressa Malagoli il 22 gennaio 2020 aveva chiesto ai direttori delle carceri quali fossero le modalità di custodia dei detenuti di Alta Sicurezza. Dopo i mesi del coronavirus, il 4 giugno scorso la direttrice torna alla carica: “Dai riscontri pervenuti si evince che ben 13 istituti penitenziari attuano la ‘custodia aperta’ nelle sezioni in Alta Sicurezza: Ancona, Benevento Bologna, Civitavecchia, Frosinone, Lanciano, Larino, Latina, Padova, Piacenza, Roma Rebibbia Femminile, San Gimignano (una sezione dedicata al Polo Scolastico) e Tempio Pausania”.

Il punto, secondo la Malagoli, è che nulla di tutto ciò sarebbe stato autorizzato: “Rispetto ai 13 istituti, agli atti dell’ufficio risulta essere autorizzata in via sperimentale solo una Direzione ad adottare tale modalità custodiale”, cioè Tempio Pausania.

La situazione sembra uscita dal controllo: “In alcuni casi si è appurata l’attuazione della custodia chiusa, ma con la possibilità da parte dei detenuti di muoversi liberamente ambito corridoio della sezione”. Malagoli nella lettera evidenzia “che la circolare n. 3663-6113 del 23 ottobre 2015 esclude per ovvi motivi legati alla particolare tipologia dei detenuti ascritti al circuito Alta Sicurezza ‘la possibilità di adottare la custodia aperta presso le sezioni dedicate al circuito dell’alta sicurezza’”. La circolare del 2015 aveva previsto condizioni che secondo la Malagoli non sono rispettate perché “Eventuali eccezioni per prevedere l’attuazione della custodia aperta anche in alcune sezioni istituite presso le Case di reclusione dotate di circuito AS, dovranno essere portate all’attenzione della competente Direzione generale detenuti e trattamento, corredate da un progetto dettagliato che dia conto dell’osservazione preliminare effettuata per ciascun detenuto e dei contenuti e modalità concrete che si intendono adottare per successive valutazioni”.

La circolare del 2015 effettivamente già permetteva ai detenuti di alta sicurezza di star fuori dalla cella per 8 ore ogni giorno. La novità è che in 13 carceri i detenuti As1 usciti dal regime 41 bis, i terroristi dell’As2 e i criminali dell’As3 possono stare fuori cella anche più di 8 ore al giorno.

Il Direttore del Dap, Santi Consolo, nella sua circolare del 2015, perseguiva il “graduale superamento del criterio di perimetrazione della vita penitenziaria all’interno della camera di pernottamento” e aggiungeva che “la possibilità di permanere al di fuori della camera di pernottamento per un minimo di otto ore, dal punto di vista delle aspettative europee, è auspicata, sebbene non vi sia disposizione normativa cogente in tal senso”.

Già cinque anni fa, Consolo enunciava quindi l’apertura: “il tempo minimo da trascorrere fuori dalle camere detentive sia pari almeno a 8 ore giornaliere, salva l’esistenza di particolari esigenze di sicurezza che comportino necessarie restrizioni, quali l’applicazione del regime di sorveglianza particolare, dell’isolamento, in caso di sussistenza di specifici rischi di evasione o turbativa della sicurezza dell’istituto, ecc.”. Anche nella ‘custodia chiusa’ quindi i detenuti possono stare fuori dalla cella per almeno 8 ore. “Questo implica – proseguiva la vecchia circolare – che la custodia aperta debba prevedere necessariamente una permanenza all’esterno delle camere significativamente maggiore ma, soprattutto, il fatto che la quotidianità e i contenuti trattamentali dovranno svolgersi all’esterno della sezione, in luoghi comuni appositamente strutturati”.

La politica di apertura delle celle era stata avviata già nella gestione del Direttore del Dap precedente, Giovanni Tamburino, e si è solo consolidata con la circolare suddetta del 2015 che ha sistematizzato le precedenti disposizioni. Questa politica di apertura delle sezioni, compresa l’alta sicurezza, secondo alcuni è però stata la causa dell’aumento degli ‘eventi critici’, cioè risse, violenze e danneggiamenti, all’interno delle carceri e potrebbe avere favorito anche le rivolte di marzo scorso.

La cosiddetta “sorveglianza dinamica” è stata introdotta nel 2013 anche per ovviare agli spazi ristretti delle celle italiane. Questo sistema è in vigore anche all’estero però la struttura fisica dei penitenziari italiani e la scarsità di agenti della Polizia Penitenziaria ha prodotto una degenerazione del sistema nella sua applicazione. Nelle carceri italiane si è tradotta in una sorta di cessione del controllo ai detenuti. Gli agenti della Polizia Penitenziaria spesso escono e lasciano le sezioni di fatto in mano ai detenuti. La Polizia penitenziaria vigila solo con la video-sorveglianza da fuori.

Ora la dottoressa Malagoli ha scoperto che in 13 istituti anche nell’Alta Sicurezza i detenuti stanno fuori dalla cella oltre le 8 ore in regime di “custodia aperta”. La dirigente nella lettera del 4 giugno ricorda ai direttori delle carceri e ai provveditori che “si deve evitare che i detenuti permangano all’ozio costretti a stazionare nei corridoi delle sezioni”. La lettera si conclude con un auspicio: “si chiede ai Direttori degli Istituti penitenziari di adeguare e regolarizzare le modalità custodiali nelle sezioni dedicate al circuito dell’Alta Sicurezza nel rispetto delle disposizioni contenute nella circolare 3663 -6113 del 23 ottobre 2015”.

Causa, effetto e colpa: il percorso obbligato della giustizia penale

La pandemia che ha flagellato il nostro Paese e gran parte del mondo si può raccontare in vari modi. Ma c’è una verità assoluta e indiscutibile. Ed è il tremendo dolore causato. Testimoniato da un interminabile elenco di persone morte soffrendo. Ma anche dal dolore dei familiari: uomini e donne che ancora oggi pagano il prezzo di quei lutti vivendo un tormento dell’anima che non lascia respiro. Al di là di tale unica verità, domina l’incertezza. Per mesi siamo stati invasi da un esercito di virologi epidemiologi scienziati e specialisti vari con logaritmi al seguito. Un’epidemia nell’epidemia, che ha indotto un intelligente burlone a inventarsi sui social una sorta di album “Panini” con le figurine dei protagonisti dello “spettacolo”. Oltretutto, spesso in conflitto fra loro, ciascuno a difendere tesi dileggiate dagli altri.

All’inizio per qualcuno si trattava di una banale influenza, mentre per altri era la nuova peste. Ancora oggi c’è chi sostiene che il virus è ormai innocuo, ma la tesi è bollata da alcuni come irresponsabile. In sostanza, una sola certezza: per molti profili – anche di decisivo rilievo – il virus è sconosciuto o indecifrabile. Di qui perplessità e confusione che di certo non facilitano il compito della Procura di Bergamo cui tocca accertare – in prima istanza – se vi siano state o meno responsabilità penali nella “catena” di fatti, scelte e decisioni cui seguirono gli effetti disastrosi che sappiamo. Il quadro poi è complicato dalla molteplicità degli “anelli” che direttamente o indirettamente hanno o possono aver contribuito a formare tale catena: premier e ministri; amministratori regionali e locali; associazioni di categoria; Cts (Comitato tecnico scientifico); Iss (Istituto superiore di sanità); Oms (Organizzazione mondiale della sanità); responsabili del servizio sanitario; Rsa (Residenze sanitarie assistenziali); unità di crisi con possibili sovrapposizioni di confini fra le varie competenze.

Ora, come si sa, la responsabilità penale è personale e vincolata alla verifica della sussistenza di due parametri fondamentali: colpa e nesso di causalità fra condotta ed evento. Colpa significa “imprudenza, negligenza o imperizia”. Per escludere quest’ultima si ricorre ai tecnici (solo Trump può permettersi di farne a meno…), ma se si sentono tutti i tecnici e poi si decide tempestivamente di conseguenza, ecco che la configurabilità di “imprudenza o negligenza” si fa tutt’altro che semplice, anche in presenza di scelte che si rivelano sbagliate. E le difficoltà aumentano quando si tratta di dimostrare il nesso di causalità, posto che il virus – lo ripetiamo – per molti importanti profili è sconosciuto o indecifrabile, caratteristica che essendo confermata persino dal “conflitto” fra gli “specialisti” si potrebbe addirittura definire ontologica. E poi: la colpa e il nesso di causalità, se non proprio oltre ogni possibile dubbio (requisito richiesto per la fase del giudizio), devono essere provati in modo convincente e sicuro già nelle indagini preliminari.

Resta fermo che ricostruire i meccanismi delle scelte fatte a tutti i livelli è di fondamentale importanza per una comunità civile che voglia seriamente elaborare il lutto di una tragedia così epocale. Ma oltre alla responsabilità penale ce ne sono altre (avesse mai ragione Davigo?) di carattere morale, politico, amministrativo. Accertabili con Commissioni d’inchiesta parlamentari o regionali. Basta volerlo, impegnandosi però a trarne insegnamenti concreti. Non come avvenne per la Commissione Anselmi sulla P2: un’immensa fatica per raccogliere una montagna di dati significativi, poi accantonati come se nulla fosse mai successo.

Roma ha un problema: non si trova il paziente 1

Lo stanno cercando ovunque, anche in Rai. Ma il “paziente zero” del nuovo focolaio romano non si trova. Oltre 5.000 persone già testate, 109 casi scoperti (compresi 5 deceduti) e un’indagine epidemiologica che torna indietro fino al 1° maggio. L’istituto San Raffaele Pisana è un grosso problema. Sanitario e politico, perché la struttura è il fiore all’occhiello dell’azienda di famiglia del potente deputato di Forza Italia, Antonio Angelucci. E, come se non bastasse, ad alimentare lo scontro c’è stato anche un altro mini-cluster nel quartiere storico della Garbatella: un palazzo occupato da famiglie straniere in piazza Pecile, con 9 infetti fra i 107 dimoranti. Il risultato è che il famigerato “R” – rapporto fra tamponi positivi ed effettuati – del Lazio si avvicina a indici da lockdown, un’onta statistica per una regione tenutasi lontana dai (grossi) guai per buona parte dell’emergenza.

L’Irccs Pisana è tra i più importanti centri di riabilitazione del Lazio. Ogni giorno vi arrivano, anche solo per una visita, centinaia di persone da tutto il Centro Italia. Secondo la Regione Lazio, a portare il Covid-19 nella struttura è stato un dipendente del San Raffaele. La clinica, invece, sostiene che il virus sia arrivato “a bordo” di un paziente dimesso da qualche ospedale romano. Fatto sta che da una settimana la Asl Roma 3 ha richiamato migliaia di persone: familiari, conviventi, parenti e amici di tutte le persone che hanno varcato almeno una volta l’ingresso della clinica di Roma ovest negli ultimi 45 giorni. Migliaia di persone. Tanto che da lunedì il traffico intorno ai laboratori drive-in al Portuense e a Casal Bernocchi è congestionato. La media di pazienti positivi riconducibile al cluster è di circa 20 al giorno, distribuiti in tutta la Regione. Ne sono derivati dei mini-cluster, fra cui uno, delicato, al Policlinico Umberto I. Ieri i nuovi positivi erano 5, di cui 2 tecnici Rai a Saxa Rubra: sanificati i locali e “tamponate” 70 persone.

Il tema, come detto, è (anche) politico. L’assessore alla Salute Alessio D’Amato, è tutt’altro che tenero con l’azienda che fa capo all’editore di Libero e Il Tempo, che in tutto il Lazio gestisce ben 13 cliniche incassando centinaia di milioni di euro ogni anno. Ad aprile, dopo una relazione choc della Asl, ha avviato una procedura di revoca dell’accreditamento alla Rsa Rocca di Papa, iter che si concluderà a metà luglio. Il gruppo, per tutta risposta, ha annunciato licenziamenti e smesso di pagare gli stipendi. E la Lega ha attaccato D’Amato accusandolo di “bullismo”. Lui non le ha mandate a dire, sciorinando i 345 casi e 36 decessi fin qui registrati in 4 strutture (Cassino, Monte Compatri, Rocca di Papa e Pisana) su cui indagano le Procure di Roma e Velletri. “Finirà che da ora in poi tutti i positivi che troveranno sarà colpa nostra”, si sfogano dal San Raffaele, mentre l’Esercito impedisce l’ingresso e l’uscita dalla struttura. E meno male, perché il secondo giro di tamponi su operatori sanitari e pazienti presenti nell’ospedale ha fatto registrare altri 16 casi positivi non emersi la prima volta.

Caso a parte il mini-cluster della Garbatella. Una famiglia uruguaiana trovata positiva venerdì, altre 4 persone ieri: 9 infetti sui 107 esaminati. Il “paziente 1” è un bimbo, ma la Asl non sa come abbia contratto il virus. L’edificio, un palazzo occupato nel 2013 dai movimenti per la casa, è stato isolato. I contatti dei positivi sono stati abbastanza limitati. In serata la comunicazione dell’Unità di crisi Lazio: “Il cluster a Garbatella è chiuso. Non ci sono più casi positivi” Ma la natura dell’occupazione ha scatenato la polemica: “Abbiamo denunciato tre volte la situazione in commissione municipale”, attacca il capogruppo della Lega, Maurizio Politi, chiedendo l’intervento della sindaca Raggi. “Continueremo a sostenere la nostra comunità affinché nessuno resti da solo”, replica il presidente del Municipio VIII Amedeo Ciaccheri.

Speranza: “Vaccino entro l’anno” Garattini: “Non ci sono certezze”

Fine della sperimentazione entro l’autunno, 400 milioni di dosi destinate a “tutta la popolazione europea”, le prime entro la fine del 2020. Nella corsa al vaccino anti-SarsCov2, l’annuncio di Roberto Speranza fa risuonare nel pieno degli Stati generali l’upgrade del progetto di Astrazeneca, sviluppato con l’Università di Oxford e alla cui produzione concorre l’italiana Irbm. Una fornitura prevista dal contratto firmato con il colosso anglo-svedese e nata in seno alla Inclusive Vaccines Alliance con Germania, Francia e Olanda, che fa dire al premier Giuseppe Conte che “all’Italia oggi è riconosciuto di essere tra i primi Paesi a dare una risposta adeguata” alla pandemia di Covid-19.

“Bene, è quello che avevamo auspicato, cioè che si raggiungesse un accordo il prima possibile in modo da avere il prodotto disponibile e non dover passare in coda a tutti gli altri Paesi”, commenta Silvio Garattini. Ma sui verbi coniugati al modo indicativo il presidente dell’Istituto Mario Negri, decano dei farmacologi italiani, lascia aperta la porta al dubbio: “Il problema è quello di sapere se il vaccino funzionerà e quando le dosi saranno effettivamente pronte. A quanto dicono da oltreoceano, Moderna negli Stati Uniti avrebbe già avviato la produzione del suo prodotto avendo già iniziato la sperimentazione su 30 mila pazienti volontari sani, con il rischio di buttare tutto a mare se poi il farmaco non risultasse attivo”. È l’effetto della corsa in cui i colossi del farmaco si sono lanciati: “Le multinazionali si arrischiano a produrre, anche se non hanno la certezza che quello che stanno producendo poi funzioni. Questo perché hanno ricevuto molti sostegni economici dai governi”, prosegue Garattini. La società statunitense ha firmato un contratto da 483 milioni di dollari con la Biomedical Advanced Research and Development Authority division (Barda), agenzia del Dipartimento della salute di Washington, che finanzia anche Astrazeneca con altri 1,2 miliardi. Il governo Usa ha poi investito 456 milioni sul candidato prodotto dalla Johnson & Johnson e altri 30 li ha destinati alla francese Sanofi. Una potenza di fuoco, quella Usa, cui la Commissione Ue intende rispondere con il lancio “la settimana prossima” di una strategi, che prevede finanziamenti per le aziende con stabilimenti nel continente in cambio forniture “veloci” e “adeguate” ai cittadini europei, ha spiegato venerdì la commissaria Stella Kyriakides. Un programma da 2,4 miliardi che, spiegano fonti del ministero della Salute, non ha a che vedere con l’accordo annunciato ieri da Speranza. Lo scopo: non restare indietro. “Il fatto di avere alle spalle fondi pubblici contempera il rischio di produrre al buio e ritrovarsi con un vaccino inattivo”, prosegue il professore.

La stessa Astrazeneca ha specificato ieri, nel pieno del tripudio che ha accompagnato l’annuncio, che il prodotto “potrebbe non funzionare”. “Certo, la possibilità esiste – spiega Garattini –. Stiamo avanzando verso l’obiettivo, ma c’è un grande rischio che il vaccino non possa essere usato o perché la risposta immunitaria risulta insufficiente o perché si manifestano effetti tossici. Finché non ci saranno dati su cui ragionare non avremo certezze”.

Gli annunci intanto si susseguono: l’11 giugno J&J ha comunicato un’accelerazione nella sperimentazione del suo Ad26.COV2-S (il cui avvio, previsto per settembre, è atteso ora per luglio) per “provvedere alla fornitura a livello mondiale di più di un miliardo di dosi entro fine 2021”. Quarantott’ore dopo è arrivata la risposta di Astrazeneca: ieri il capo della divisione italiana Lorenzo Wittum ha parlato di un impegno per “assicurare di 2 miliardi di dosi su scala globale”. “È una sfida che non si gioca solo sul terreno della scienza – conclude Garattini –. Uno degli aspetti fondamentali di questa corsa è il valore delle azioni in Borsa. Le multinazionali non sono enti di beneficenza”.

In attesa del vaccino, in Italia prosegue la circolazione del virus. Ieri la Protezione civile ha comunicato 346 nuovi contagi (contro i 393 di venerdì, che portano il totale a 236.651. La colonna rossa è stata aggiornata con altri 55 decessi e conta orma 34.301 vittime. Dei 25 comunicati dalla Regione Lazio, però, solo due sono riferiti alle ultime 24 ore, i restanti 23 risalgono a marzo e aprile. Dei 55 totali ben 23 arrivano dalla Lombardia, che rimane osservata speciale in questa Fase 2.

Ferrara (M5S): “Mai più armi a questi Paesi”

Chiuso il capitolo delle due fregate Fremm di Fincantieri vendute all’Egitto, resta la scia di veleni nel governo. Oltre ai genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio, che parlano amareggiati di “tradimento dello Stato”, le tensioni si spostano nella maggioranza: il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il M5S adesso spingono per cambiare la legge 185 del 1990 che regola le esportazioni di armi all’estero in senso più restrittivo per non ritrovarsi di fronte a un caso “Fregate bis”, mentre la parte del Pd che fa riferimento al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, non ci sta e accusa i grillini di agire in base “all’emotività”.

E questo è solo l’ultimo scontro tra i giallorosa che, sulla vendita di armi, va avanti da settimane. Almeno da fine aprile, quando 50 senatori 5 Stelle avevano deciso di presentare un’interrogazione a Guerini chiedendo una moratoria per 12 mesi delle spese per gli F35 (1,5 miliardi) reindirizzandole ai corpi sanitari dell’esercito e di “rinegoziare e ridimensionare il programma”. Ma il ministro atlantista, dopo quasi due mesi, non ha mai risposto e non ha intenzione di farlo. Non è un segnale solo di mancato galateo istituzionale, ma politico: “Il Pd non vuole tagliare gli F-35”, dicono irritati dal M5S. Poi è arrivato il via libera del governo alla vendita delle due fregate all’Egitto per 1,2 miliardi. Con fibrillazioni anche interne ai partiti di maggioranza: i deputati grillini vicini a Roberto Fico hanno presentato un’interrogazione al ministro Di Maio perché dia spiegazioni in aula, mentre lunedì Matteo Orfini presenterà un ordine del giorno in direzione Pd chiedendo di stoppare le forniture militari all’Egitto.

E allora i pentastellati hanno rimesso sul tavolo il disegno di legge a prima firma Gianluca Ferrara che era già stato inserito a settembre nel programma del governo Conte II. La proposta di legge arrivata in Commissione a febbraio va in questa direzione, con tre obiettivi: colmare i “buchi” normativi vietando, la vendita di armi ai Paesi con conflitti interni (come lo Yemen), a quelli che violano i diritti umani (tra cui Egitto e Arabia Saudita) e creare un fondo per riconvertire parte dell’industria militare a uso civile. La proposta però è ferma al palo in commissione: manca l’accordo politico. Il M5S spinge per dare un segnale sul caso Regeni, mentre il ministro Guerini da quell’orecchio sembra non sentirci. “C’è un problema normativo se la legge attuale consente forniture di armi all’Egitto che, oltre al coinvolgimento nella guerra in Yemen e indirettamente in Libia, è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani nei confronti del popolo egiziano e di un cittadino italiano, torturato e ucciso – dice Ferrara al Fatto – Siamo preoccupati e stupiti per le resistenze che la nostra riforma sta incontrando da parte del ministro Guerini”. Dal Pd replicano che per i 20 elicotteri AW149 venduti da Leonardo alla marina egiziana durante il governo gialloverde i grillini non avevano mosso foglia (“si indignano sempre dopo”, dice una fonte dem) e sul tema della nuova norma ci pensa Alessandro Alfieri, capogruppo in commissione Esteri e molto vicino al titolare della Difesa, a frenare: “Quella attuale è una legge equilibrata – spiega – possiamo rivederla aumentando la trasparenza, ma l’impianto regge”. Secondo Alfieri, inoltre, fare affari con l’Egitto e chiedere “verità e giustizia” sul caso Regeni non sono in contraddizione: “Con quel Paese abbiamo una cooperazione culturale, economica ed energetica di lunga data, se ce ne andiamo non avremo verità né cooperazione. Anzi, bisogna far leva su quella cooperazione per chiedere giustizia”.

Per Giulio solo false indignazioni. E la nostra “realpolitik” è inutile

Le lacrime di coccodrillo versate in omaggio ai genitori di Giulio Regeni dai nostri ministri, subito dopo aver approvato all’unanimità la fornitura di armi all’Egitto, invano cercano di nascondere una scelta disonorevole di natura più generale: la retrocessione dei diritti umani a variabile subordinata nella gerarchia delle scelte governative.

Risuonano definitive le parole pronunciate a Propaganda live da Claudio e Paola Regeni: “Dopo quattro anni e mezzo di menzogne e depistaggi, siamo stati traditi dal fuoco amico, non dall’Egitto”. Colgono perfettamente il clima di falsa indignazione dei giornali che in prima pagina protestano, come si conviene, ma nelle pagine economiche coprono di lodi le nostre aziende, da Fincantieri a Leonardo, che incassano commesse miliardarie da regimi dittatoriali e guerrafondai, garantendo l’occupazione dei loro dipendenti. Con l’aggiunta di un pizzico di rassegnazione, tra pietas e convenienza, come ha scritto ieri Corrado Augias: “L’Italia non ha un peso tale da poter premere molto più di quanto non abbia fatto”. Dunque… È proprio vero che il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare.

Da Franceschini a Fassino, da Crimi a Di Maio, gli esponenti della coalizione giallorossa fingono di credere che il rafforzamento della nostra capacità persuasiva nei confronti di al Sisi passerebbe dal rispetto degli impegni presi in campo economico e strategico. Non detta, c’è dietro l’idea che quando si governa l’idealismo debba cedere il passo al pragmatismo. Sarebbe questo il destino delle piccole potenze come la nostra.

Ma guardiamoci alle spalle: quali sarebbero i risultati conseguiti dalla realpolitik all’italiana, con l’Egitto e non solo? Sul caso Regeni, quale progresso avremmo ottenuto dal 2017, quando il nostro ambasciatore è tornato al Cairo? Abbiamo rinnovato il Memorandum con la Libia con la promessa d’inserirvi clausole di tutela dei diritti umani. Qualcuno le ha viste? La nostra influenza a Tripoli si è rafforzata o indebolita? E il nostro controllo sui flussi migratori ne ha forse beneficiato? Sempre convinti che Minniti avesse ragione?

C’è un altro retropensiero non dichiarabile che detta le priorità della politica governativa: la convinzione che agli italiani dei diritti umani gliene importi poco o nulla, perché hanno prima da pensare ai guai loro. A maggior ragione dopo l’epidemia Covid. Un plauso al Papa quando dice “ci siamo illusi di rimanere sani in un mondo malato”, e poi avanti come prima anche di fronte alle guerre e alle migrazioni. Tanto, a protestare resteranno sempre e solo Avvenire, manifesto e le solite firme di Saviano, Manconi, Verdelli.

Si spiega così che la modifica dei decreti Sicurezza di Salvini a più di un anno dall’insediamento del nuovo governo resti oggetto di schermaglia tra le forze della coalizione. E il riconoscimento della cittadinanza ai giovani immigrati che hanno studiato in Italia sia relegato nel dimenticatoio. Ma anche questo si è rivelato puntualmente un calcolo sbagliato. La retrocessione dei diritti umani a lusso che non ci potremmo permettere nutre, anziché sedare, la propaganda della destra.

Fingere disagio e versare lacrime di coccodrillo dopo ogni cedimento, spergiurando che d’ora in poi ci faremo rispettare, è una tecnica meschina con cui otteniamo il solo risultato di indebolire la nostra credibilità e la nostra forza negoziale. Mi ricorda un vecchio proverbio genovese: Sciùscià e sciorbì no se peu. Soffiare e succhiare non si può.