I giallorosa ora fanno pace “La Lega parli a Visegrad”

C’è un pezzo di governo che trasuda soddisfazione e un altro che nasconde il fastidio per la prima giornata degli Stati generali, che appare riuscita. E c’è l’opposizione ufficialmente chiamata da Conte a contribuire al buon esito del negoziato sul Next Generation Eu, intervenendo sugli amici sovranisti dei paesi Visegrad, che governano e si oppongono. “Se ci date una mano, vi riconoscerò il merito”, li sfida il premier.

Conte e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, insieme al ministro della Pa, Fabiana Dadone (che gioca palesemente da comprimaria), appaiono a fine giornata davanti ai giornalisti di fronte al Casino Algardi. Quasi contemporaneamente, Dario Franceschini e Luigi Di Maio escono insieme da un’uscita laterale. Passano il ministro degli Affari europei, Enzo Amendola e quello del Mezzogiorno, Peppe Provenzano. Rimangono ad assistere Stefano Patuanelli (Sviluppo economico) e Nunzia Catalfo (Lavoro). Inizia a piovere, proprio mentre comincia la conferenza stampa: Conte e Gualtieri mostrano soddisfazione, anche se cercano di contenerla. In questa fase, esagerare è un rischio.

Il cielo che si fa grigio in qualche modo contribuisce a rendere il panorama, con la cupola di San Pietro all’orizzonte e i Giardini segreti-capolavoro alle spalle, meno trionfalmente scenografico. Anche se il premier torna a rivendicare il ruolo dell’Italia come “esempio” di intervento nell’emergenza Covid. Quel che s’è capito dalla giornata di ieri è che il nostro Paese sarà una sorta di laboratorio dell’Europa post Covid. Ma anche che il fallimento è dietro l’angolo: “Non sprecheremo neanche un euro”, sottolinea il premier. Perché i vertici europei hanno voluto esprimere sostegno e vicinanza, ma anche raccomandazioni e richieste, in vista delle riforme necessarie ad ottenere i fondi.

E così nessuno nel Pd – che pure aveva avuto da ridire più volte sull’iniziativa – si azzarda alla critica. Ad ascoltare gli interventi in video conferenza, allo stesso tavolo, c’è tutto il governo. Franceschini resta defilato, Amendola interviene per primo pubblicamente a sottolineare l’importanza dell’iniziativa, Gualtieri fa sfoggio di inglese e di rapporti. Al Nazareno commentano parchi che importante è stato pure il contributo dei dem in Europa, Paolo Gentiloni, commissario agli Affari economici e David Sassoli, presidente del Parlamento europeo. Quest’ultimo è entusiasta dell’iniziativa, tanto che avrebbe voluto fosse a porte aperte. Posizione che marca la differenza dal capo delegazione Pd, al quale da sempre è vicino.

Conte sminuisce le “fibrillazioni” nella maggioranza: “Le ho lette sui giornali. In Cdm abbiamo parlato della necessità di modificare i decreti sicurezza: ci stiamo lavorando”. La provocazione, dunque, è per l’opposizione: “Molti Paesi europei di destra contestano il Recovery Fund, alcune forze di opposizione sono molto legate ai governi di Visegrad. Chiedo di lavorare per darci una mano nell’interesse nazionale. Vi riconoscerò pubblicamente questo aiuto se interverrete anche con i partiti con cui avete legami”. I rapporti continuano ad essere tesissimi, l’opposizione ha anche detto no all’invito agli Stati generali. Ma così il premier prova a inchiodarli. Sponda anche per Di Maio, che parla (su Facebook) della necessità di fare una “riforma fiscale” con i fondi dell’Europa. In un primo momento aveva detto “abbassare le tasse”. Ora si corregge, Conte conferma che quella è una priorità. Mentre sulla voluntary disclosure, proposta da Colao, esprime perplessità.

Sulla scena internazionale c’è anche la vendita delle due fregate Fremm all’Egitto alla quale l’intero Cdm ha detto sì, suscitando lo sdegno dei Regeni. “Ogni opinione della famiglia merita rispetto”, ma “meritano rispetto anche gli sforzi del governo italiano per l’accertamento della verità”, chiarisce Conte. Formula abile, che non rimette in discussione nulla della scelta fatta. Comincia a diluviare, per la prima giornata è tutto.

La villa dei desideri: la sdraio di Renzi e le brame di Craxi e B.

Più volte l’Italia s’è fatta e disfatta a villa Pamphilj, parco di quasi duecento ettari di Roma, tra il giardino segreto, il salone a doppia altezza, i dipinti di Paolo Anesi e le gallerie con le sculture classiche della palazzina Algardi, così chiamata in onore dell’architetto che la disegnò nel ‘600 oppure detta Casino del bel respiro per le dolci folate di ponentino.

Il 14 giugno 1984, esattamente trentasei anni prima che qui il premier Giuseppe Conte convocasse gli Stati generali dell’economia, il senatore Carlo Giulio Argan, che fu critico d’arte e sindaco di Roma, si dichiarò pronto alla pugna pur di salvare la palazzina Algardi dalle brame del governo Craxi: “La notizia che villa Pamphilj verrebbe destinata a residenza della Presidenza del Consiglio va ritenuta infondata perché incredibile. Dai tempi di Benito Mussolini a villa Torlonia non mi risulta sia accaduto qualcosa di simile in Europa. Mi auguro che Palazzo Chigi smentisca l’informazione che mi è giunta: è un’offesa alla cultura italiana. Altrimenti mi affretterò a presentare un’interrogazione parlamentare”. Bettino Craxi non confermò, però non smise di frequentare la palazzina Algardi per ricevere ospiti internazionali o segretari di partito.

Elevata a rappresentanza istituzionale e scippata al comune di Roma, da sempre villa Pamphilj è l’agognato rifugio dei presidenti. Non s’è capito mai se per la storia o per altro. La storia affastella le origini nel ‘600 con i nobili Pamphilj e il pontificato di Innocenzo X, al secolo Giovanni Battista Pamphilj; le battaglie risorgimentali contro gli invasori francesi; le tende beduine con le amazzoni piantate da Muammar Gheddafi per accamparsi col presidente Silvio Berlusconi. Più divulgativo della storia, Matteo Renzi ha svelato le ragioni che spingono i presidenti a rintanarsi in villa Pamphilj. Era il 17 marzo 2016, un giorno di prematura primavera mentre il suo governo stava già appassendo.

Nell’altero salone a doppia altezza della palazzina Algardi, Renzi organizzò un pranzo Rai con Antonio Campo Dall’Orto, l’amministratore delegato di Viale Mazzini e Carlo Verdelli, il direttore editoriale della televisione pubblica. Nel suo libro Roma non perdona, Verdelli ha raccontato l’orgoglio di Renzi per la precoce abbronzatura che poteva sfoggiare sul petto. “Visto?”, domandò con la camicia sbottonata nel modo giusto. “E sapete dove l’ho presa? Dietro quel muretto. Quando c’è questo bel sole, mi faccio portare una sdraio e sto lì un’oretta. Tutto ignudo, solo con gli slip. Da questo punto preciso – proseguì – non mi può beccare nessuno, neanche il paparazzo più furbo, manco i droni”. Quanta premura per nascondere una lampada naturale. Il 5 dicembre 2016, all’indomani della sconfitta referendaria e delle immediate dimissioni da Palazzo Chigi, l’associazione che protegge villa Pamphilj dai tempi di Craxi denunciò l’oscena copertura della vista sulla palazzina Algardi con 150 metri di lastre di metallo. Troppo tardi. Da premier Renzi non c’è più tornato.

Invece Berlusconi, appena rieletto nel 2001, andò in sopralluogo per un paio di ore e si complimentò per le opere di ristrutturazione ordinate dai suoi predecessori di centrosinistra, che seguivano quelle del democristiano Ciriaco De Mita e del socialista Bettino Craxi per un ecumenismo politico davvero raro. Dopo il bilaterale con il presidente americano George W. Bush nella palazzina Algardi, Berlusconi trasferì l’ufficio di Chigi nel verde di villa Pamphilj e pare che vi sostò per un periodo limitato anche il lettone regalato dal russo Vladimir Putin, prima di trovare più congrua sistemazione a palazzo Grazioli. Argan non c’era già più in epoca di Silvio. Nell’estate del 1989, dopo decine di cene, feste, vertici, l’onorevole Riccardo Misasi, sottosegretario a Chigi del presidente De Mita, rispose all’ex sindaco che il governo “finalmente aveva formalizzato l’uso della palazzina Algardi”. A ciascuno il proprio uso. C’è chi ha accolto il principe Carlo e lady Diana, chi ha omaggiato il dittatore Gheddafi, chi fa gli Stati generali. E chi si è preso anche la tintarella.

Per Conte è buona la prima, ma Visco gli fa il controcanto

Dal punto di vista del governo “buona la prima”. La prima giornata degli Stati generali ha visto il ministro della Sanità dare la notizia di un possibile vaccino entro l’anno, la presidente della Commissione europea entusiasmare tutti con il suo “l’Europa s’è desta”, il presidente della Ue, Charles Michel, dire che l’Italia ha probabilmente “salvato delle vite” in Europa. Giuseppe Conte non può che dirsi soddisfatto e in questo quadro ha presentato le tre “linee strategiche” per il rilancio dell’Italia: “Modernizzazione del Paese; transizione ecologica; inclusione sociale, territoriale e di genere”.

A fare il controcanto, però, è stato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, l’unico a entrare nel dettaglio dei provvedimenti e con un piano in parte diverso da quello di Conte in cui oltre a modernizzazione della Pubblica amministrazione e beni storico-culturali insiste sull’aumento della produttività del lavoro, riduzione delle tasse ma anche riduzione della spesa pensionistica. E poi un avvertimento professorale esprimendo “il più sincero auspicio che queste consultazioni nazionali possano concludersi con degli atti concreti”. Insomma, poche chiacchiere e datevi da fare. Poco prima aveva auspicato “il maggior consenso possibile” offrendo sponde all’opposizione. E infatti il suo intervento è stato sottolineato con molto vigore da Forza Italia.

I contenuti più precisi del masterplan a cui sta lavorando il governo si dovrebbero avere oggi. L’esecutivo ha la chiara percezione di avere davanti a sé una responsabilità e un’occasione storiche: poter impostare un vero rilancio economico disponendo di risorse mai avute prima. Conte vorrebbe un rinnovamento dell’amministrazione, un grande piano di società sostenibile e, con linguaggio originale, contro le diseguaglianze sociali, compresa quella di genere.

A questa aspirazione gli autorevoli interventi europei hanno dato grande sostegno – “è stata una bella vetrina europea per l’Italia”, dice un alto esponente internazionale – ricordando (con il riflesso del dottor Stranamore) che l’Italia “non deve sprecare” le risorse (Christine Lagarde) o che “deve andare avanti sulla strada delle riforme” (Ursula von der Leyen). Ma senza forzare troppo, tanto che Paolo Gentiloni dice chiaramente che “è finito il tempo delle condizionalità europee”, mentre David Sassoli sottolinea che sul Recovery fund l’unica mediazione possibile è quella della Commissione” (cioè 750 miliardi, non un euro in meno). Ma, non a caso, è ancora Visco a ricordare che i fondi europei non sono gratuiti e che l’Italia ha “un debito pubblico elevato”.

L’avvertimento di fondo, il rischio dei vincoli, è sempre lì che incombe. Per questo il punto delicato – che sicuramente animerà il dibattito con le parti sociali – è dove andranno messe queste risorse. In conferenza stampa serale, Conte, come se rispondesse a Visco, ha riaperto il tema della riforma fiscale cui destinare una parte dei fondi europei (richiesta di Luigi Di Maio). Ma, insieme a Gualtieri, ha fermamente respinto ipotesi di condoni fiscali. Gualtieri, invece, ha insistito soprattutto sulla parola “Investimenti, pubblici e privati”, ma bisognerà vedere quanti, dove, come.

Conte può comunque essere soddisfatto. Con la “mossa” su Visegrad ha spiazzato l’opposizione (vedi articolo a lato) e si è messo ancora una volta al centro del campo di gioco. Ma fino a quando non saranno chiari i fondi europei e soprattutto la tempistica della loro erogazione – ancora ieri il premier ha parlato delle soluzioni “bridge” ammettendo che quest’anno dal Recovery non arriverà un euro – non potrà dirsi tranquillo. La spia rilevatrice è il ministro Gualtieri, che dovendo rispondere alla domanda sulla necessità di un ulteriore scostamento di bilancio l’ha definita “scomoda”. Lo scostamento, che sarà necessario, si vota infatti a maggioranza assoluta “di ciascuna Camera”. Fuori da villa Pamphilj la realtà è anche questa.

La zona marron

Il bello delle statue abbattute perché immortalano personaggi colpevoli di essere vissuti secoli fa in modo diverso dal nostro, è che chi si scaglia contro la riscrittura della storia col senno di poi sta facendo la stessa cosa sulle misure anti-Covid. Ma non dopo secoli: dopo tre mesi. Basta ricordare cosa dicevano a febbraio-marzo politici, giornali e imprenditori di destra contro le zone rosse, gli stessi che ora emettono sentenze di condanna contro il governo. Scambiano i testimoni Conte, Speranza e Lamorgese per indagati “alla sbarra”, anzi per pregiudicati. E sorvolano sulla pm Rota che ha ritrattato l’incauta dichiarazione rilasciata dopo le audizioni di Fontana e Gallera sulle zone rosse spettanti al governo centrale. E ha precisato di aver solo riportato la versione dei due politici lombardi. Cioè una falsa testimonianza, alla luce della legge 883/1978 e del decreto 22.2.2020. Se non ci fossero di mezzo migliaia di morti (molti più di quelli che avremmo avuto se la Regione avesse chiuso la Val Seriana al primo allarme sul suo focolaio di Alzano, anziché riaprire l’ospedale in 3 ore e dormirci su 15 giorni, finché l’Sos fu raccolto dal Cts a Roma il 3 marzo e poi dal governo fra il 5 e il 7, quando ormai tutta la Regione era infetta), il “Senti chi parla” sarebbe uno spasso.

Il Cazzaro Verde intima a Conte di “scusarsi coi parenti e gli amici dei troppi bergamaschi morti”. Lui che il 27 febbraio inguaiava i vertici della Lombardia: “Il Paese affonda, con i governatori leghisti concordiamo che occorre riaprire tutte le attività e tornare alla normalità”. E l’indomani rincarava: “Voglio dire a Conte che il problema non è la zona rossa, ma riaprire subito tutto. Si torni a produrre, a comprare, a sorridere”. Infatti il 29 febbraio l’apposito Gallera proclamò: “Non sono all’ordine del giorno nuove zone rosse, nemmeno ad Alzano e in Val Seriana”. Per fortuna poi la palla passò al governo, che chiuse tutta la Lombardia e altre province, poi l’intero Paese. Alle sparate ciclotimiche del Cazzaro si associavano come un sol uomo il Giornale e Libero, che ora trattano Conte da criminale per aver fatto ciò che non ha mai voluto fare la Lombardia (diversamente da regioni molto meno contagiate, che disposero 46 zone rosse e 70 arancioni in autonomia). Sentite Sallusti News, ieri: “Conte si autoassolve”, “Premier alla sbarra (sic, ndr) uno choc per M5S”, “L’incubo del premier”. È lo stesso house organ che il 28 febbraio esultava: “Isolato Conte. Il Nord riparte. Riaprono musei e duomo” . E Sallusti salmodiava: “Adesso bisogna velocemente tornare alla piena normalità, unica ricetta per sconfiggere paure e falsi allarmismi”. Nostradamus gli faceva una pippa.

Intanto i focolai divampavano in tutta la Lombardia. Ma il 2 marzo la cantatrice calva di Arcore oracolava: “Pensare di salvare lo Stato e far morire l’economia è pura utopia. Salviamo a ogni costo commercio e impresa e lo Stato si salverà”. Il 5 marzo altra apertura memorabile: “Sanno solo chiudere”. Ora vogliono il premier all’ergastolo perché non chiuse quando non volevano loro.
Libero è il consueto angolo del buonumore. Titolo: “Conte torchiato tre ore. La pm non lo assolve” (e come si assolve un testimone?). Editoriale di Annalisa Chirico, quella che fa l’innocentista anche sul mostro di Rostov e voleva riaprire l’Italia ancor prima che chiudesse: “Le vittime non avranno giustizia”. E autorevole analisi di Renato Farina in arte Betulla, che di processi se ne intende avendo patteggiato per concorso in sequestro di persona: “Conte ha voluto i pieni poteri. Fugge le responsabilità. Scarica le sue colpe su chi capita, perfino sugli imprenditori”. È lo stesso virologo della mutua che tre mesi fa fustigava il premier perché prendeva sul serio il virus: “È un pirla di virus qualsiasi”, “non montiamogli la testa” con inutili restrizioni. Era il 27 febbraio e Libero titolava: “Virus, ora si esagera. Non ha senso penalizzare ogni attività”. E il 28: “La normalità è vicina. Il virus ci ha stufati: si torni a vivere”. Cioè a morire. Il 2 marzo, capolavoro feltriano: “Lasciateci lavorare. Dopo i veneti, anche i lombardi scendono in piazza per essere liberati da alcune restrizioni. Confindustria e sindacati chiedono a Conte di riprendere l’attività”. Ora vogliono impalarlo per aver chiuso troppo poco e tardi.
Poi c’è il mondo a parte dei giornaloni, che scrivono tutti lo stesso pezzo. L’idea che un premier faccia il suo dovere di testimoniare senza strillare al complotto o tentare di sottrarsi (come B., Salvini e Napolitano sulla Trattativa) li sgomenta. La scena, normale fra persone perbene, “non è bella” per Claudio Tito di Repubblica; fa “una certa impressione” a Marcello Sorgi della Stampa; ed è “preoccupante” per Massimo Franco del Corriere. Seguono le solite geremiadi sulla “politica debole” (infatti Conte non ha sparato ai pm) e la “supplenza della magistratura”. Tutta colpa dei 5Stelle (e di chi, se no?) che, assicura Tito in un idioma non indoeuropeo, hanno “sistematicamente agito per trattenere la politica nel perimetro ancellare della propaganda e della giustizia sistematica”. Tito aggiunge che il governo è stato “incapace di spiegare all’opinione pubblica o meglio di persuaderla delle scelte compiute”. È lo stesso Tito che sparava sulle conferenze stampa in cui Conte spiegava e persuadeva. Perché i politici sono quello che sono, ma certi giornalisti riescono sempre a essere peggio.

Piketty “socialista” andrebbe letto anche agli Stati generali di Conte

Se si volessero confutare i dati di Thomas Piketty sulla diseguaglianza nella storia dopo la pubblicazione di questo secondo volume di circa 1200 pagine, occorrerebbe fornirsi di un solido apparato tecnico-concettuale. Piketty, che dichiara di proseguire naturalmente i lavori del precedente Il Capitale nel XXI secolo scandaglia epoche storiche, indici statistici, anche se stavolta compie almeno un paio di operazioni supplementari.

La prima è quella di portare al centro dell’analisi il ruolo dell’ideologia. Non nel senso di racconto naturale dell’epoca, alla maniera conservatrice, né nel senso marxiano di “falsa coscienza”, ma piuttosto come la concezione che ogni società si forma della giustizia sociale e dell’economia giusta. In questo senso Piketty può affermare la “fragilità” della ideologia meritocratica che sembra spesso un “modo molto comodo per giustificare qualunque livello di diseguaglianza”.

Nella quantità di dati messi a disposizione del lettore si afferma subito il più evidente: la quota di reddito a disposizione del 10% di popolazione più ricca (di Usa, Europa, Cina, India e Russia) è passata dal 25-35% del 1980 al 35-55% del 2018. Per citare uno degli ispiratori di Piketty, John Rawls, il “velo di ignoranza” sulla reale conformazione del mondo è subito tolto.

La seconda operazione è ambiziosa: Piketty fa una proposta di ampio respiro, una robusta tassazione patrimoniale per finanziare una “dotazione di capitale” ai giovani di 25 anni dall’importo di 120 mila euro e il reddito di base. Piketty lo chiama “socialismo partecipativo”, a cui collegare anche il potere dei lavoratori nelle aziende. In tempi di Stati generali basterebbe anche meno, ma l’idea è affascinante.

 

Capitale e ideologia Thomas Pikett – Pagine: 1.200 – Prezzo: 25 – Editore: La nave di Teseo

 

Previati, pittore “psicofisico” e dimenticato

A più di cent’anni di distanza, siamo costretti a rinverdire (e non purtroppo a sconfessare) il quesito che il grande futurista Umberto Boccioni si poneva riguardo a Gaetano Previati (1852-1920): “Quando finirà questa infame noncuranza, questa vergognosa incoscienza artistica e nazionale verso il più grande artista che l’Italia ha avuto da Tiepolo a oggi?”.

Ferrarese d’origine e formatosi nell’entourage milanese, oggi la sua città gli dedica la generosa esposizione Tra Simbolismo e futurismo. Gaetano Previati (a cura di Chiara Vorrasi, al Castello Estense di Ferrara, fino al 27 dicembre), volta a incorniciarlo quale protagonista di primo piano.

Su Previati grava infatti il destino degli artisti spartiacque, che cioè chiudono un’epoca per aprirne un’altra: con lui si esaurisce la rappresentazione tardo-romantica e si inaugura la pittura cui si chiede di andare oltre al segno per addivenire al simbolo.

È il 1891, e a Milano viene inaugurata la prima Triennale di Brera per tentare di ricostruire il momento del passaggio verso le avanguardie del Novecento. Previati espone il suo capolavoro: Maternità, che ritroviamo felicemente alla mostra di Ferrara. Eseguita con la tecnica divisionista, l’opera raffigura una Madonna che allatta il Bambino circondata dagli angeli. È chiaro che il pittore vuol riscrivere il ruolo della luce quale simbolo della fusione tra uomo e natura.

Un termine poco usato per definire la poetica di Previati è “psicofisica”, eppure calzerebbe a pennello. Mezzo secolo prima di lui, lo psicologo e filosofo tedesco Gustav Theodor Fechner (fondatore della psicofisica, ndr) sosteneva che ogni corpo è dotato di un’anima. Per Fechner, le piante sono entità angelicate. E nel dipinto di Previati, l’abito azzurro della Madonna come pure le ali degli angeli prendono forma dai fiori del prato e dai fili d’erba.

Ma c’è di più: come Fechner afferma che non è la luce a bagnare la natura, ma è la natura a fare “variopingere se medesima dai raggi solari”.

Allo stesso modo, osservando l’ammaliante Nel prato (1889), l’illusorio La Vergine dei gigli (1894), il magnetico Gregge all’alba (1898), la luce in Previati diviene pianta, e questa estrae i colori proprio dalla luce.

La mostra culmina con La Ferrovia del Pacifico (1916), un treno impetuoso che lascia il mondo agricolo e corre verso quello industriale. Previati è alla sera della vita, ma ha ancora la forza di aprire le porte al futurismo.

 

Gaetano Previati A Ferrara, Castello Estense, fino al 27 dicembre

Il circo degli orrori in Pianura padana: caccia spietata ai nove superstiti

Uomini e donne qualunque rapite. E da rieducare per i piccoli mali quotidiani che compiono, come maltrattare gli anziani oppure odiare i propri figli. Dopo il sequestro, ancora sotto l’effetto del narcotico, vengono portati tutti in un capannone sperduto della pianura padana. Lì si risvegliano, senza abiti, in una gabbia da circo. Nel capannone i carrozzoni sono vari e alcuni stanno da soli, altri no. Si forma un eco-sistema alla Grande Fratello dove accanto alla lotta per la sopravvivenza trovano posto bugie, rancori e rivalità, seppur a distanza, nella maggior parte dei casi. Se si sbaglia, si rimane senza cibo e con le feci in gabbia.

Paola Barbato con Vengo a prenderti chiude la trilogia iniziata con Io so chi sei (2018) e proseguita con Zoo (2019). Il primo libro si conclude proprio con la liberazione dei rapiti dai carrozzoni. Ma il mistero non finisce ché una delle sequestratrici, una donna che si chiama Alessandra, a un certo punto della storia si è rinchiusa in una gabbia ed è stata scambiata per una vittima, riuscendo infine a scappare. Così il terzo volume racconta la nuova caccia alle persone liberate, in tutto nove. La trama origina da una banale scomparsa, a Firenze. La brava e bella Lena, che lavora in hotel, non trova più il fidanzato Saverio, irrequieto animalista con la passione delle droghe. La versione ufficiale: suicidio nell’Arno. Poi però Lena riceve sms e foto del fidanzato prigioniero ancora vivo. Uno strano poliziotto, un gigante di nome Francesco, le fa da angelo custode. A frequentarla ci sono pure Alessandra e Lucio, che in realtà sono i due folli rapitori come si scopre alla fine del primo thriller. Il terzo riparte appunto da Alessandra e il ritmo è frenetico e il pathos notevole. Il finale non è scontato. Anzi. In ogni caso Io vengo a prenderti si può compulsare anche senza aver letto gli altri due.

 

Vengo a prenderti Paola Barbato – Pagine: 463 – Prezzo: 18,50 – Editore: Piemme

Barnes, sopra al fuoco c’è ‘Il pedante in cucina’

Ecco spiegato perché io non faccio mai caso ai tempi di preparazione previsti che certe ricette hanno la cortesia di includere. Anche se calcolati su un multiplo consistente dei minuti necessari a un cuoco professionista, peccano sempre di ottimismo. Ho l’impressione che gli autori di libri di cucina non riescano a immaginare il tempo che un lettore impiega a tenere sollevato un cucchiaio tremolante, mentre si domanda se la descrizione del contenuto si avvicini di più a “colmo” o ad “abbondante”, o quanto ne impieghi a trascurare la parola “eccesso” in un’istruzione come “eliminate il grasso in eccesso”. Di recente mi sono ritrovato a meditare sulla frase “lasciate i fagioli in ammollo per tutta la notte o mentre siete al lavoro”, chiedendomi seriamente se volesse intendere che un’opzione fosse migliore dell’altra: possibile che l’autore insinuasse che i legumi, lasciati tranquilli nelle ore notturne, ingrossino meglio di quelli esposti alla luce e ai rumori del giorno?

Se lo domanda Julian Barnes ne Il pedante in cucina (Einaudi).

E ancora.

“… In questo momento potreste sentirvi un po’ avviliti”. Non è forse una delle frasi più incoraggianti e a misura di pedante che un cuoco abbia mai scritto? “Potreste sentirvi un po’ avviliti”. Chissà, magari oltre al tempo di cottura e al numero delle porzioni, le ricette dovrebbero includere anche un indice di probabilità di avvilimento.

Momentaneamente sostituita la dittatura dei cuochi a favore della supremazia dei virologi, Barnes dà sfogo alle sue domande, frustrazioni, perplessità, invettive, riflessioni covate da tempo, prodigi tra i fornelli e ribellione a dogmi culinari costruiti negli anni, attraverso padelle bruciate e tradizioni familiari. Non è un romanzo, non è un saggio, non è un manuale di cucina (nonostante la minuziosa descrizione di come si preparano le carote alla Vichy) e neanche un agglomerato scomposto di suggestioni: Il pedante in cucina è la capacità di un grande scrittore di annusare la quotidianità, quella più comune, e puntellare le reali o presunte certezze, ribaltare quelle acquisite, piazzare qua e là dei punti interrogativi, spesso ironici, e spogliarci di sorrisi compiaciuti o bronci da sconfitti. E così, a differenza della scienza acquisita tra i fornelli televisivi, con Barnes si può tornare al concetto di “tutto è relativo”: i tempi lo sono, i contesti lo sono, i gusti lo sono, i vegetali lo sono, e soprattutto le persone, lo sono. Tutto questo viene soffritto da una gran penna e da una fama acquisita, ingredienti fondamentali per finire sugli scaffali con un testo così; un po’ come anni fa è accaduto a David Foster Wallace, quando scriveva capolavori tipo Il tennis come esperienza religiosa o Una cosa divertente che non farò mai più . Ma solo sotto certi aspetti. Per il resto Il pedante rientra più nella categoria “libro da regalare” (e non fondamentale), perché divertente in alcuni passaggi, con perle da sottolineare e riproporre durante una cena conviviale; ha una bella copertina e un aspetto di austera eleganza, della serie: “Se non lo capisci la colpa è tua”. Ma senza cadere nell’avvilimento, proprio come suggerisce Barnes.

 

Il pedante in cucina Julian Barnes – Pagine: 120 – Prezzo: 14 – Editore Einaudi

“Dispatches from Elsewhere”: il caotico e surreale lavoro di Segel

Che sia una serie bizzarra lo si capisce subito. Dispatches from Elsewhere (su Amazon Prime Video dal 15 giugno) comincia con il primo piano di un uomo, su sfondo arancione, che guarda fisso in camera e rimane in silenzio per 23 lunghi secondi. Meglio mettersi l’anima in pace: per capire dove si va a parare bisognerà attendere almeno quattro episodi. Dispatches from Elsewhere è la nuova creatura di Jason Segel, famoso per il ruolo di Marshall nella sitcom How I Met You Mother: oltre che interpretare il protagonista, Segel ha scritto e girato alcuni episodi. Di che si tratta? Domanda difficile. Peter è un informatico che conduce una vita banale e ripetitiva. Un giorno s’imbatte nel volantino del Jejune Institute, una misteriosa società che promette di guidare alla scoperta del proprio vero potenziale. Ma Peter non ha nemmeno il tempo di capire di cosa si tratti perché un altro gruppo, l’Elsewhere Society, lo convince a scappare e a impegnarsi in missioni senza senso tipo ballare sotto la pioggia. Le prime puntate seguono la ricerca di una certa Clara da parte di Peter e dei suoi compagni di avventura Simone, Fredwynn e Janice. Come se non ci fosse già abbastanza confusione, la storia è raccontata da Octavio, l’uomo su fondo arancione della prima sequenza nonché il fondatore del Jejune Institute: un narratore che si definisce affidabile pur ammettendo di aver mentito. La serie, ha spiegato Jason Segel, “è quanto di più vicino a Il Mago di Oz avrei potuto immaginare. Quattro personaggi vanno alla ricerca di una ragazza scomparsa e mentre lo fanno cercano anche loro stessi, il senso di comunità e una certa magia che avevano smarrito”. Dispatches from Elsewhere è basata su The Institute, documentario che racconta un gioco di realtà alternativa ideato nel 2008 a San Francisco, che in tre anni coinvolse più di 10.000 persone. Volutamente caotica e surreale, è però una serie coinvolgente che affascinerà tutti quelli che non hanno l’ansia di capire cosa sta succedendo sullo schermo.

 

La gente è “Normal”. Ma l’amore no

Normal People, il secondo romanzo della 29enne irlandese Sally Rooney, ha venduto centinaia di migliaia di copie in tutto il mondo. E in due anni è già diventato una serie tv. S’intitola Normal People, come il libro, e nei Paesi dov’è già uscita ha raccolto elogi pressoché unanimi: una cosa davvero inusuale per una serie tratta da un romanzo. In Italia arriverà nel giro di qualche settimana su Starzplay, piattaforma disponibile su Apple Tv e ora anche su Rakuten Tv.

La serie è ambientata in Irlanda: la prima parte in una cittadina della contea di Sligo, la seconda a Dublino. Segue la tormentatissima storia d’amore fra due ragazzi che affrontano il passaggio dal liceo all’università. Ma non ha niente a che vedere con i teen drama a cui siamo abituati. Alcuni temi sono simili, come il bullismo e la difficoltà di trovare e accettare il proprio ruolo all’interno della scuola (e della società). Ma in Normal People vengono affrontati con uno sguardo e una profondità che la rendono un prodotto molto diverso da serie come Tredici o Euphoria.

Marianne e Connell sono compagni di classe. Le loro vite sono agli antipodi: lei è cresciuta in una famiglia ricca, con una madre assente e anaffettiva, lui in una famiglia povera, con una madre che ha cercato di non fargli mancare niente. Anche il loro approccio alla vita è opposto. Marianne si ribella contro i professori, non ha amici e deve fare i conti con l’ostilità di compagni; Connell, invece, è la star della squadra di calcio gaelico della scuola, piace a tutti e ha un ostinato bisogno di continuare a piacere a tutti.

Lorraine, la madre di Connell, fa le pulizie a casa di Marianne. Un giorno il ragazzo la va a prendere e finisce per baciare Marianne. Passa poco tempo e finiscono a letto insieme. Si sono innamorati quasi per sbaglio, loro che sembrano non avere niente in comune. Ma è solo la superficie: Connell e Marianne condividono la stessa insicurezza, lo stesso senso di inadeguatezza, un vuoto che riescono a riempire solo quando sono insieme. Le differenze però rimangono. Connell non vuole che gli amici sappiano di Marianne e invita un’altra al ballo di fine anno. Lei la prende malissimo.

Qualche mese dopo, le vite dei due ragazzi sono ribaltate. Marianne si è ambientata perfettamente al Trinity College di Dublino, mentre Connell, così abituato alla vita di provincia, non riesce a entrare nella nuova realtà. La serie continua a seguire i due protagonisti che si prendono e si mollano, hanno altri fidanzati, vanno in crisi, vivono esperienze all’estero, cercano di trovare un senso nel loro rapporto. Una storia tutto sommato normale, che diventa speciale per la precisione quasi chirurgica con cui vengono affrontate le emozioni e per una narrazione che rimane efficace dall’inizio alla fine. In Normal People c’è anche molto sesso (subito dopo l’uscita su Pornhub era comparso un video di 22 minuti che condensava le scene hot). I rapporti fra Connell e Marianne sono rappresentati in maniera esplicita e sincera: ma non c’è alcuna morbosità, semmai la passione fra due ragazzi che quando sono insieme riescono ad abbandonarsi. I 12 episodi da 30 minuti ciascuno sono prodotti da Hulu e Bbc. Alla sceneggiatura ha collaborato Sally Rooney, il regista è Lenny Abrahamson (Room) mentre i protagonisti sono interpretati dai bravissimi Paul Mescal e Daisy Edgar-Jones.

 

Normal People In onda sulla piattaforma Starzplay