Dal Sacher al cinema ritrovato: è tutto un festival

Riaprono sale e arene, e a festeggiare sono subito i festival estivi. Con il via libera ministeriale dei cinema il 15 giugno, ecco elencarsi le kermesse che finalmente tornano “fisiche” abbandonando gradualmente (e parzialmente) la virtualità dello streaming. In ordine cronologico, a partire da luglio, alzeranno il sipario il francese Rendez-vous – en plein air – edizione speciale (1-6/7) nell’arena romana del Nuovo Sacher di Nanni Moretti, il Castiglione Cinema – RdC incontra (3-4/7) a Castiglione del Lago, il Magna Graecia Film Festival (1-8/8) a Catanzaro, la 56ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro (22-29/8) e – quasi contemporaneamente – la 34ma volta del bolognese Il Cinema Ritrovato (25-31/8). Il tutto per confluire nell’evento più atteso di tutti, l’ancora “misteriosa” 77ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica veneziana che il Lido ospiterà dal 2 al 12 settembre. Con un autunno che – salvo recrudescenze virali – dovrebbe vedere la Capitale protagonista con il suo doppio appuntamento: la 15ma Festa del Cinema di Roma (15-25/10) e il 18° (comple)anno di Alice nella Città, la vetrina festivaliera dedicata alle giovani generazioni, entrambe tenute negli spazi dell’Auditorium Parco della Musica. Anche i premi cinematografici torneranno ad essere consegnati di persona, dai Nastri d’Argento che si terranno a Roma il 6/7 a La Valigia dell’Attore il cui riconoscimento intitolato a GM Volonté andrà a Pierfrancesco Favino (27/7- 1/8) nello splendido scenario de La Maddalena.

Viaggio al termine della notte (alieni compresi)

Ci sono ancora le sorprese, belle. The Vast of Night, esordio alla regia del trentottenne americano Andrew Patterson, lo è: dopo essere stato rifiutato da 18 festival (un giorno dovremmo parlare di chi seleziona i selezionatori…), ha vinto il premio del pubblico allo Slamdance, ha ottenuto altri riconoscimenti in mezzo mondo, è approdato alla scorsa Festa del Cinema di Roma, il 15 maggio ha trovato un icastico debutto nei drive-in statunitensi, dal 29 maggio è disponibile su Amazon.

Patterson, che co-firma la sceneggiatura sotto lo pseudonimo di James Montague, ha partorito l’idea durante il liceo, quando faceva il proiezionista e metteva su carta potenziali soggetti: “1950s black and white, New Mexico, Ufo landing”.

Protagonisti sono due adolescenti: il dj della radio locale Wotw (acronimo smaccato di War of the Worlds…) Everett Sloan (Jake Horowitz, metà fighetto, metà nerd, perfetto) e la centralinista Fay Crocker (Sierra McCormick, giusta). Il direttore della fotografia cileno e figlio d’arte Miguel Ioann Littin Menz ne illumina stupendamente la notte nella finzionale cittadina di Cayuga, New Mexico: tutti o quasi i 492 abitanti sono assorbiti da una partita di basket a scuola, non Fay ed Everett che tra switchboard e radio si imbattono in un segnale acustico misterioso.

Un ascoltatore, tale Billy (Bruce Davis), lo ricollega al suo passato militare e top secret, e l’origine aliena è corroborata da una concittadina forse stordita o forse no, Mabel Blanche (Gail Cronauer): i nostri indagano, tallonati – o mollati – da piani non sequenza, ma fascinosamente consequenziali.

Il voltaggio è poetico, il viaggio al termine della notte umanissimo, più adolescente che adolescenziale, più ultraterreno che extraterrestre. E la matrice cinefila, derivativa però smarcata, debitrice però saputella: Ai confini della realtà – il film è attribuito a uno show tv che scopiazza proprio Twlight Zone – trova il primo Stephen Soderbergh, Michael Mann si mischia con John Sayles, se vi piacciono i paragoni facili potete tirar fuori gli Incontri ravvicinati di Steven Spileberg, J.J. Abrams e Matt Reeves, mentre Patterson annovera Tutti gli uomini del presidente e Richard Linklater.

Eppure, l’opera prima, girata in tre settimane e costata appena 700 mila dollari, non fa del visibile, dunque del già visto, il suo centro: la dimensione acustica, dalla radio al centralino al registratore portatile, è preminente, e arriverà più volte lo schermo nero a ricordarcelo.

La natura sci-fi, il correlativo oggettivo low-fi, è in aperta e singolar tenzone con la visione totale, totalizzante e totalitaria del cinema, di molto cinema e non solo fantascientifico, oggi: qui si sente, presente e, al più, dissente, l’occhio vuole la sua parte, ma l’orecchio può, di più. Per questo quel che vediamo nel finale ce lo saremmo volentieri risparmiato: per definizione, l’immensità (vast) tracima lo sguardo. Almeno, quello umano. Da vedere, e ancor più sentire, nella vastità della notte.

 

Allan Poe, “maiale di genio” tra alcol, oppio e poesia

Caso clinico, necrofilo, ossessivo, sadomasochista, secondo i suoi contemporanei e i successivi studi freudiani; un uomo affetto da una solitudine inesplicabile, orfano per tutta la vita, perciò costretto a costruirsi da capo nell’arte, secondo gli studi più recenti.

Oggi Teresa Campi riscrive La vera storia di Edgar Allan Poe (Odoya), un’appassionata ricerca documentale attorno alla vita breve (ed eterna) di un genio, un bambino che assiste al capezzale la madre morente di tubercolosi, dentro una stanza rossa da cui in definitiva non uscirà mai, se non attraverso gli occasionali squarci aperti dalla sua intelligenza fosforescente.

È la scena primigenia, dopo che David Poe, papà di Edgar, pessimo attore e alcolista, si è dato alla fuga dopo una vita di fallimenti; dal trauma originale della morte della madre, un’attricetta giunta a Baltimora da Londra, si dipana una biografia a strappi, piena di spine: l’orfano viene adottato dagli Allan, famiglia di commercianti in tabacchi. Adolescente, sperimenta il disamore: la freddezza del patrigno è tale da indurlo alla fuga a Boston, dove vive come un mendicante. Tenta la carriera militare, accumula debiti, indossa sempre lo stesso cappotto nero. Riesce ad accedere all’università, in Virginia, dove scopre lo stordimento dato da una miscela di alcol e miele. Il cosmo si allontana da lui: “Esiliato dalla terra ferma, confuso fra la folla, Edgar confida nell’energia dell’Universo”, scrive l’autrice. È quella energia che lo condurrà dal vagabondaggio allucinato alla scrittura.

Approda a New York con un baule di manoscritti e il pus che gli esce da un orecchio per un’infezione. Si avvicina al mondo dei giornali, dove inaugura un nuovo genere di critica letteraria: le sue stroncature scottano (“443 pagine di pura idiozia”, scrive di un certo Theodore Fay, intoccabile totem del tempo), versa il vetriolo su romanzi osannati (“è il libro più stupido del mondo”), “pulisce”, da chirurgo spirituale, persino Voltaire, Dante, Seneca. Si fa odiare da tutti: i meno astiosi lo chiamano “scellerato di talento”, “scandaloso mostro del mondo letterario”, “maiale di genio”. Per Emerson, poeta della natura mistica, è semplicemente “un clown”.

Forsennatamente scrive. Elegge i suoi codici: il grottesco, il parodico, il lirico, il perturbante. Primo nella storia del mondo (ma Baudelaire dall’altra parte dell’oceano sta accordando le sue antenne sulle stesse vibrazioni), scopre l’inconscio, la rete di intuizioni psichiche e illuminazioni che costituisce la potenza poetica.

La letteratura pionieristica americana glorifica l’individuo e la conquista degli spazi ampi, delle praterie; Poe invece scava negli spazi angusti, guarda nelle soffitte, insegue i demoni nei labirinti, scruta l’occhio della morte nei flutti neri e nella morsa dei ghiacci che secondo un suo personaggio collegano i poli della Terra. Scrive “storie in cui l’orrore si insinua nel quotidiano”, scopre la solitudine dell’uomo della folla, intaglia magie liriche e matematiche, come Ligeia, la donna dalla pelle d’avorio che è “l’irradiazione di un sogno d’oppio”. Vende Berenice, il racconto di una morta a cui l’amante estirpa i denti per amarla oltre la morte, per 5 dollari.

È sempre povero. Sposa l’amata cugina 13enne, Virginia, che morirà giovanissima, ricacciandolo nella stanza rossa. La bara viene caricata sul tavolo di lavoro di Edgar. Precisa e emozionante è la cronaca che Campi fa della morte di Poe, quel giorno di ottobre del 1849, dopo esser stato rinvenuto su un marciapiede di Baltimora: morirà agonizzando e pronunciando ripetutamente la parola “Reynolds”, il nome, nota Campi, del geologo Jeremiah Reynolds, teorizzatore della connessione fra i due poli attraverso un foro di ghiaccio che percorreva il pianeta nella sua Storia di Arthur Gordon Pym. Solo quattro persone accompagneranno il suo feretro.

Dopo 5 anni di guerra, la strage del Covid-19: “È inutile scappare”

Sono oltre 250 mila i civili morti in Yemen nei cinque anni di guerra che ha devastato il Paese dal 2015, appena ridotta d’intensità allo scoppiare dell’epidemia di Covid-19. Centinaia di migliaia di persone sono state ridotte alla fame e portate nei campi profughi. Ora è qui che malattie endemiche, malnutrizione e sovraffollamento probabilmente faranno di loro le vittime predestinate del Covid-19. Vittime che potrebbero raggiungere e superare la somma di quelle cadute sotto le bombe. Nel cimitero di Aden, sede del potere del governo riconosciuto dall’Onu, le ruspe scavano centinaia di tombe al giorno: i morti quotidiani arrivano quasi a 1.000 già, uccisi dall’epidemia che non lascia scampo in un sistema sanitario inesistente: 60 posti letto in ospedale per 800mila abitanti e 18 ventilatori. Secondo Medici Senza Frontiere, i malati non vengono neanche trasportati in ospedale, non ci sarebbe ossigeno per tutti. Al cimitero non si piange già più, tanta è la paura della pandemia e il senso di liberazione di vedere allontanarsi il rischio di contagio.

A rendere difficile qualsiasi soluzione è la mancanza di denaro: i fondi per le cure mediche di Aden delle Nazioni Unite sono finiti nel deficit di circa 1 miliardo per il solo 2020, dopo cinque anni di conflitto che hanno sconvolto la nazione rendendo la metà della popolazione dipendente dagli aiuti per la sopravvivenza. “Ciò significa la chiusura della metà degli ospedali – ha spiegato alla Cnn Lise Grande, a capo delle operazioni umanitarie dell’Onu in Yemen – e avverrà proprio nelle prossime settimane”, quando il Covid potrebbe espandersi senza freni. Intanto fuori dalla città, continuano i combattimenti tra i separatisti meridionali e il governo, aggravando le conseguenze della guerra quinquennale in corso tra ribelli Houthi nel nord e la coalizione sostenuta dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti nel sud. Tuttavia, “il Covid è peggio della guerra”, confessa Mokhtar Ahmed, uno dei profughi arrivato tre anni fa nel campo di Aden alla Cnn, “dai bombardamenti puoi scappare, mentre con il coronavirus non importa dove tu vada, ti troverà”.

Poliziotti contro Castaner: “Non è più il capo dei flic”

Diverse decine di poliziotti, chi a piedi chi sulle auto, sono partiti dall’Arco di Trionfo ieri mattina, colorando di fumogeni blu gli Champs-Élysées, direzione place Beauvau, sede del ministero dell’Interno, proprio di fronte all’Eliseo, per andare a dire sotto alle finestre del ministro Castaner e del presidente Macron che la “polizia non è razzista”. La fronda delle divise sale sulla scia delle manifestazioni contro le violenze della polizia che, anche in Francia, si moltiplicano dall’omicidio di George Floyd, l’afroamericano morto sotto il ginocchio di un poliziotto a Minneapolis. Anche oggi nuovi cortei (vietati, ma tollerati) sono attesi a Parigi, Bordeaux, Marsiglia. La Francia ha anche i suoi George Floyd. Tra questi, Adama Traoré, 24 anni, di colore, morto dopo essere stato immobilizzato a terra da due gendarmi nella banlieue di Parigi.

I fatti risalgono al luglio 2016 e da allora Assa Traoré, la sorella di Adama, si batte perché venga fatta giustizia. Assa è diventata una figura simbolo della lotta anti razzista in Francia e la sua causa, più forte ora sulla scia del Black Lives Matter mondiale, ha riunito oltre 20 mila persone il 2 giugno davanti al tribunale di Parigi. In piena crisi sanitaria, la mobilitazione aveva preso di sorpresa le autorità, che temono soprattutto nuove insurrezioni nelle banlieue dove il clima durante il recente lockdown si è fatto più esplosivo. Il ministro Castaner ha dunque ritenuto che fosse meglio intervenire per placare le proteste, ma da allora il governo si ritrova al centro di due fuochi, la rabbia degli anti razzisti da un lato e quella dei poliziotti dall’altro. Castaner ha infatti promesso che ogni “sospetto fondato” di razzismo da parte di un poliziotto sarebbe stato sanzionato. “Inaccettabile” per i sindacati perché anche i poliziotti come tutti, dicono, hanno diritto alla presunzione d’innocenza e un sospetto non basta a fare un colpevole. Castaner ha anche annunciato di voler vietare la tecnica di arresto detta “per soffocamento”, che consiste nel bloccare un individuo per il collo e premere col braccio sulla trachea. Tecnica indispensabile invece per i sindacati di polizia nel caso in cui l’agente si ritrovi a dover fermare un individuo più forte di lui. I poliziotti si sarebbero aspettati da Castaner almeno una parola di sostegno contro le accuse, generalizzate, di razzismo: “La polizia non è razzista, è repubblicana. Non sceglie il colore della delinquenza e salva vite qualunque sia il colore della pelle”, ha detto Fabien Vanhemelrych del sindacato Alliance. Castaner “non è più il primo flic di Francia”, ha aggiunto Yves Lefebre di Unité SGP Police.

Un sindacato ha lanciato una forma di protesta inedita, lo “sciopero dei fermi”, chiedendo ai colleghi di non procedere più ad arresti rischiosi. Il giorno prima gruppi di agenti si erano radunati davanti ai commissariati di diverse città e avevano gettato le manette per terra. Non è la prima volta che i poliziotti francesi si mobilitano per difendere il loro lavoro e la loro immagine, intaccata dai video di fermi violenti, talvolta con esito tragico, che circolano sul web. Altre volte le vittime sono state loro. Nell’ottobre 2016 alcuni poliziotti erano rimasti gravemente ustionati nell’incendio dei loro veicoli causato da una molotov lanciata da delinquenti di banlieue. Ne era nato il movimento dei “policiers en colère”. Prima presi di mira dai terroristi, poi in prima linea contro i casseurs sugli Champs-Élysées a margine dei cortei dei Gilet gialli, i poliziotti “arrabbiati” erano riusciti ad ottenere da Castaner più mezzi e un aumento degli stipendi. Ma ora la frattura con il ministro sembra più profonda. Neanche i francesi gli danno fiducia. Stando ad un sondaggio Odoxa, il 65% di loro ritiene che Castaner non sia all’altezza della situazione. Anche l’opinione sulla polizia però peggiora. Per lo stesso studio, se il 76% dice di avere in generale una “buona opinione” della polizia (contro l’84% nel 2015), il 65% pensa che i poliziotti discriminino le persone di colore. E la percentuale sale al 79% tra i giovani.

I Fratelli Musulmani grazie a Erdogan puntano al Maghreb

Con la riconquista di Tahruna, dove sono state scoperte fosse comuni e decine di corpi di civili uccisi dai mercenari di Haftar, e l’avanzata in corso verso Sirte, l’esercito del governo di Accordo Nazionale Libico (GNA, con sede a Tripoli) del premier Fayez al-Sarraj sta completando l’operazione battezzata “Sentieri della vittoria”. L’obiettivo dell’offensiva è riprendere non solo la città costiera, ma anche la base aerea di Jufra e altre città orientali e centrali. Recuperare Sirte potrebbe consentire all’esercito del GNA di avere la strada spianata verso oriente, dove ci sono i ricchi giacimenti petroliferi dell’ex “scatolone di sabbia” e prenderne via via il controllo. Questo sul campo.

Allargando lo sguardo all’intero scacchiere geopolitico, risulta chiaro che la vittoria di Fayez al -Sarraj è dovuta allo strenuo sostegno del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il Sultano, dall’inizio dell’anno, ha aumentato progressivamente l’invio di addestratori militari, droni, armi pesanti e gruppi di miliziani siriani finanziati dalla organizzazione sunnita Fratellanza Musulmana – con a capo lo stesso Erdogan, oggi suo massimo esponente e portavoce – finora impegnati a combattere contro il presidente Bashar Assad di religione alawita (confessione vicina allo sciismo). A causa dell’attuale situazione di stallo in Siria, e grazie al ritrovato sostegno della Nato e dell’Amministrazione Trump in ambito libico, Erdogan, ossia la Fratellanza Musulmana, sta di fatto prendendo il controllo di tutto il Maghreb. In questo sforzo, la Turchia, in grave crisi economica e valutaria da due anni, può contare finanziariamente sull’altro Stato dell’area medio orientale controllato dalla Fratellanza attraverso la ricchissima famiglia reale degli sceicchi al-Thani: il Qatar. Gli sceicchi di Doha ed Erdogan sono molto attivi anche in Sahel e nella Tunisia post “Primavera araba” – che fu manipolata dalla Fratellanza così come quella in Libia, in Yemen, Egitto e Siria – dove stanno costruendo complessi abitativi per i meno abbienti. Del resto la Fratellanza, fin dalla sua nascita in Egitto, ha cercato di trovare il consenso nelle fasce più emarginate e povere della società offrendo quei sussidi, servizi e strutture negati dai dittatori di turno. La cavalcata della Fratellanza nelle terre africane dell’ex Impero ottomano è ripartita dodici anni fa proprio in seguito all’accrescersi della popolarità di Erdogan. Già nel suo secondo mandato di primo ministro, il Sultano si era assicurato il Corno d’Africa, diventando il garante dei futuri governi “fratelli” di Mogadiscio appoggiati in chiave anti al Qaeda anche dagli Stati Uniti ai tempi di Obama. Del resto, fu proprio Obama a ri-sdoganare la Fratellanza con il suo debutto estero al Cairo, che in seguito alla caduta di Mubarak avrebbe visto la prima vittoria alle elezioni presidenziali del rais Fratello, Morsi, poi deposto dall’allora generale al Sisi, oggi presidente egiziano e arcinemico della Fratellanza e, di conseguenza, di Ankara.

Intanto Fratello Erdogan si considera anche Sultano di Tunisi dove il presidente della Camera, Rashid Ghannouchi, vola al suo cospetto ogni volta che deve prendere una decisione cruciale. A tentare di contrastare l’espansione dei fratelli islamici “moderati” rimangono l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, a cui Erdogan ha risposto, con l’arroganza di chi si crede già il vincitore, di essere contrario al tavolo negoziale per il cessate il fuoco permanente lanciato dal Cairo, che ha ottenuto il sostegno anche dall’Italia, pur essendo Roma alleata e sostenitrice di Sarraj. In questo contesto, secondo molti osservatori internazionali, l’Italia rischia non solo di uscire di scena, ma anche di perderci molto in termini economici a causa della oggi più probabile implementazione dell’accordo bilaterale stipulato mesi fa tra Erdogan e Sarraj sull’ampliamento delle proprie rispettive piattaforme marine (il sottosuolo marino), rubandone di fatto un pezzo alla Grecia, così da poterle rendere confinanti, guarda caso, proprio in prossimità della zona costiera libica orientale dove si innalzano le fiamme dei pozzi petroliferi, tra cui quelli gestiti dall’Eni. La Turchia, come l’Italia, non possiede risorse energetiche naturali. Ma lo “Stato Transnazionale” della Fratellanza sì, grazie al Qatar e ora molto probabilmente, per merito di Erdogan, ne avrà anche in Libia.

Legge anti-caporalato, il grande flop: nelle baraccopoli si continua a morire

Il senegalese Mohammed Ben Ali è morto a 37 anni per un incendio nel ghetto di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia. È la quarta persona nell’ultimo anno e mezzo a perdere la vita in quei territori e in quel modo. Ha passato gli ultimi mesi a raccogliere ortaggi, ma era “in nero” e con un permesso per richiesta d’asilo in scadenza. Si sentiva invisibile. Pochi mesi fa, sulla pista di un ex aeroporto militare che oggi ospita le baraccopoli abusive, aveva incontrato i sindacalisti. “Voleva fare causa, perché faceva più ore di quelle pur irregolarmente”, racconta Daniele Iacovelli della Flai Cgil. Ma la paura ha preso il sopravvento. Tra i documenti ritrovati tra le macerie del rogo c’è la sua richiesta d’asilo. Il sindacalista dell’Usb Aboubakar Soumahoro l’ha pubblicata scrivendo che “Mohammed Ben Ali era una delle vittime dei decreti (in)sicurezza in vigore e uno dei tanti esclusi da questa finta regolarizzazione”. Facciamo il punto.

Il protocollo. Gli alloggi abusivi continuano a uccidere. Oltre un anno fa è partita la demolizione, ma non si è conclusa. Anche dopo lo smantellamento, le capanne vengono ricostruite perché le raccolte non aspettano che si dia un senso a quanto scritto, nel novembre 2016, nella legge anti-caporalato. Tanto sbandierata da chi l’ha approvata – il governo Renzi – quanto dimenticata. A febbraio 2020 sembrava esserci la svolta, con l’approvazione di un piano triennale di interventi. Anche quello è ancora sulla carta. Intanto le imprese si lamentano della carenza di manodopera e di una sanatoria che, tra mille paletti, esclude la maggior parte della platea di braccianti irregolari.

La rete. Tra le priorità riportate nel piano di febbraio, l’attivazione delle Reti del lavoro agricolo di qualità in tutte le province. “Andava realizzato prima dell’estate – spiega il segretario nazionale della Uila Stefano Mantegazza – ma nella maggior parte delle province ancora non è stata costituita”. E là dove c’è non funziona: “Qui a Foggia – dice Iacovelli della Flai – la cabina di regia non viene convocata”. La rete è un elenco delle aziende sane, ma finora si sono iscritte in poche, meno del 2% nella provincia pugliese. “Le imprese dicono che, se lo fanno, si vedono aumentare i controlli”, fa notare Paolo Frascella della Fai Cisl. Per questo il piano proponeva “misure incentivanti”. “Pur essendo un sindacato – ricorda Mantegazza – abbiamo proposto uno sconto di 1 euro per ogni giornata lavorativa alle aziende iscritte. Non si è mosso nulla anche lì”.

Gli alloggi. L’intervento più grosso doveva essere la creazione di alloggi a norma per togliere dai ghetti i braccianti stagionali. A livello nazionale bisognava definire i “livelli essenziali di prestazione”, poi la palla sarebbe passata agli enti locali per la fase operativa. “In Puglia – spiega Frascella – la Regione ha aperto un cemtro a Nardò e uno a San Severo, ma non basta”. “A Rignano hanno dato moduli abitativi a chi ha perso la casa nell’incendio, a Borgo Mezzanone hanno fatto arrivare l’acqua. Interventi legati all’emergenza, mai una soluzione definitiva”, denuncia la Flai.

Le aste. L’altro grande tema sono le aste al doppio ribasso operate dalla grande distribuzione. Un sistema che costringe i produttori onesti a subire la concorrenza sleale di chi risparmia sul costo del lavoro con lo sfruttamento. Il piano spingeva per approvare della legge che vieta questa pratica. È impantanata in Senato. È un altro provvedimento, pur cruciale nella lotta al caporalato, per il quale la ministra Teresa Bellanova non ha minacciato di far cadere il governo.

Rogo Thyssen: “Per i manager tedeschi il carcere è inevitabile”

“I condannati della Thyssen andranno in carcere: è questione di giorni. Non sono ammissibili pene alternative, l’esecuzione è imminente”. Lo dichiara il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, dopo aver ricevuto da Eurojust (l’agenzia europea per la cooperazione tra gli Stati in materia di giustizia penale) una comunicazione relativa all’esecuzione delle pene di Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz, i due manager tedeschi condannati per la strage in cui, nelle acciaierie di Torino, persero la vita nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2007 Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino e Antonio Schiavone. Erano gli operai della Linea 5. Il fuoco li avvolse all’improvviso. I loro volti, immortalati in foto ingrandite, sono rimasti appesi ai cancelli del Palagiustizia di Torino per quasi l’intera durata dei processi. Oggi, quando forse dopo 13 anni si avvicina il momento della giustizia, i familiari sono stanchi. La rabbia c’è ancora.

“Li vogliamo davvero in galera, troppe volte ce lo hanno detto ma sono rimasti liberi”, dice Rosina Platì, mamma di Giuseppe De Masi, che aggiunge: “La giustizia che volevamo noi non è questa, ce la darà solo Dio”. Prova a spiegare il sentimento di un’amarezza che permane Antonio Boccuzzi, l’ex operaio superstite. “È stato fatto un passo avanti – premette – ma questa notizia non lenisce la delusione. È inaccettabile che la Germania esegua soltanto adesso una sentenza che in Italia è diventata definitiva 4 anni fa e che possa ridurre le pene. L’ex amministratore delegato Espenhahn, colui che ha più responsabilità di tutti, è stato condannato a 16 anni in primo grado e in via definitiva a 9 anni e 8 mesi in Italia. Ma ne sconterà solo 5 in Germania, perché là è il massimo della pena per l’omicidio colposo”. Il procuratore generale Saluzzo, dopo la sentenza della Cassazione, che risale al 2016, ha chiesto periodicamente aggiornamenti sullo stato dell’arte del procedimento a Eurojust. L’ultima comunicazione è di due sere fa. “Ci garantiscono – rassicura – che per l’esecuzione è questione di giorni. E che i manager tedeschi non potranno chiedere pene alternative. È una possibilità che in Germania esiste ma solo dopo aver scontato due terzi della pena”.

Qualche mese fa era scoppiata una polemica circa l’eventualità che i manager potessero beneficiare di misure che non fossero il carcere. Ipotesi che pare sfumata. Inoltre, come sottolinea Saluzzo, non c’è la possibilità di un ulteriore ricorso. “Il Tribunale di Essen – chiarisce il procuratore generale – ha riconosciuto l’efficacia della sentenza torinese. Le motivazioni della Corte tedesca parlano di un’esecuzione senza condizioni. I dirigenti tedeschi andranno certamente in carcere”. I manager tedeschi sono stati condannati in via definitiva in Italia il 13 maggio 2016 per omicidio colposo, incendio doloso e omissione di misure antinfortunistiche.

La Bat-Casellati sull’elicottero con la reliquia del Santo Patrono

Agenzia di stampa, prima riga: “Sant’Antonio: Casellati in visita a Padova per festa patrono”. Sotto, i giornalisti lo chiamano catenaccio: “Salirà su elicottero esercito che trasporta reliquia”. Dentro si precisa che l’elicottero decollerà da un aeroporto locale, allora per prudenza Casellati non farà trasbordo in quota. Sempre fu devota, Maria Elisabetta Alberti in Casellati: in epoca meno istituzionale e più battagliera di San Silvio Berlusconi, martire dei tribunali, vittima di “ingiustizia da colpo di Stato”, in pandemia di Sant’Antonio da Padova. Oggi il presidente del Senato, che con i colleghi forzisti era pronta a “scatenare l’inferno” per onorare proprio San Silvio, dall’alto del cielo potrà benedire Padova, la sua città, con la reliquia accanto e le autorità ecclesiastiche attorno. Ora che l’inferno scatenato è soltanto un ricordo nel curriculum, la seconda carica dello Stato potrà consegnare i diplomi dell’ordine al merito della Repubblica, “compreso quello per Rosario Rizzuto, rettore dell’università di Padova”, si precisa. Che strano, citare un diploma tra i tanti. Sarà che Casellati è particolarmente attenta all’attività universitaria di Padova e più di una volta ha inaugurato l’anno accademico. Facezie. Neanche sette anni fa, Casellati abbandonava sdegnata uno studio televisivo perché non sopportava le critiche a San Silvio, adesso rappresenta lo Stato e pure la venerazione di Sant’Antonio. Questo per dire che le vie del Signore sono infinite, soprattutto se si può andare contromano.

Altro che picasso: il cubista è Floris

Complice il virus, Giovanni Floris ha inaugurato la sua fase cubista. Ci sono tre tipi di talk: la diretta, la registrata precotta e la registrata camuffata da diretta; ligio ai precetti picassiani, Floris li emulsiona, scompone i temi e manteca gli ospiti in successione frattale, ora in studio, ora in collegamento. Al tocco del telecomando appare Virginia Raggi, ma è un attimo, forse un’illusione, poi la sindaca si trasforma nel ministro Speranza, mentre nell’altra metà dello schermo avanza Salvini. Da qui in avanti tutto è possibile: Salvini conteso da quattro direttori (Athos Giannini, Aramis Fontana, D’Artagnan Sallusti, Porthos Molinari), Enrico Letta e Floris vis-à-vis, seduti sulle rustiche panche, l’immunologa Gallavotti si collega, le Sardine spiegano a Bersani perché si sono stufate della politica (ma allora vanno in tv perché gli piace?), il sondaggista Pagnoncelli sonda, Gallavotti si ricollega, a notte fonda appare il viceministro Sileri ma è un attimo, poi si trasforma nella Raggi… All’occhio profano sembra che Floris passi senza sosta di palo in frasca, ma deve esserci una logica profonda, nascosta, come nel Cubismo. Tutto sta a trovarla.