De Luca, il manager di tutte le paure

A fine gennaio, Vincenzo De Luca era un uomo politico finito. Scaricato dal Pd che si accingeva ad annunciare l’appoggio a un candidato dei Cinquestelle alla presidenza della Campania, non gli rimanevano che due scelte: presentarsi comunque alle elezioni in rottura con il Pd (e finire amaramente la sua lunga carriera) o accontentarsi di qualche nomina in un ente pubblico.
Gli si attribuiva, nei vari sondaggi, solo il 32% di consensi, con 10 punti di distacco da qualsiasi candidato del centrodestra. De Luca sembrava rappresentare in quel momento tutto ciò che il Pd di Zingaretti non voleva più essere al Sud: un partito del notabilato, alleato con altri notabili, con strategie che si confondevano con quelle della destra sulla sicurezza e sull’immigrazione, senza un’idea decente dello sviluppo della Campania e dell’intero Mezzogiorno. I suoi quattro anni e mezzo di governo erano stati mediocri. E aveva deluso proprio nei settori laddove da oppositore di Bassolino e Caldoro più aveva maramaldeggiato: sui rifiuti, sui trasporti, sulla sanità, sull’uso dei fondi comunitari, sulla velocizzazione della macchina amministrativa. Aveva poi riempito gli enti regionali di fedelissimi salernitani, con un controllo militare su di essi. Unico campo dove stava per mietere un successo era nell’assunzione di 2.175 giovani (ma nei monologhi erano diventati ben 10.000!) un concorsone in cui regalava la formazione professionale a persone che già i Comuni dovevano assumere attribuendosene i meriti, in assoluta continuità con l’idea dell’impiego pubblico come unica “vera fabbrica” del Sud. Da presidente aveva mostrato tutti i limiti che da sindaco di una media città era riuscito a nascondere.
Ma a inizio marzo tutto cambia. De Luca in poco tempo diventa il politico che più beneficia della pandemia. Dalla polvere agli altari. I difetti diventano virtù. Per il Pd l’asse della strategia precedente (il rapporto con i Cinquestelle in Campania) viene sacrificato per osannare colui che è il principale avversario di quell’alleanza. Cosa è successo in questo brevissimo tempo per cambiare il giudizio negativo sulla gestione dei 4 anni e mezzo precedenti? È un caso quello di De Luca da studiare, non solo in politica, ma anche in antropologia, psicanalisi e massmediologia, perché si tratta di una vera e propria bolla mediatica, costruita su di una presunzione di efficienza mai dimostrata. E che però ha funzionato. In Campania, più che altrove, si possono studiare gli effetti che una pandemia può provocare nella formazione del consenso se c’è un cinico investimento sui lati oscuri dell’animo umano e una capacità teatrale di aizzarli e governarli. De Luca si è dimostrato un efficacissimo manager delle paure.
Certo, un evento imprevisto, sconvolgente, può consentire a un amministratore di dimostrare qualità prima appannate. Nel caso di De Luca, il suo è stato un impegno quasi esclusivamente verbale, fatto di dichiarazioni, di prediche televisive, di sfottó agli avversari e di un repertorio di irridente esecrazione per avversari della sua idea di sicurezza collettiva.
In genere sono gli uomini del centrodestra i politici della paura e quelli del centrosinistra a investire sulla speranza. De Luca è il primo leader di centrosinistra a contendere con successo l’investimento di Salvini sulla paura. Ciò ha comportato una produzione di norme in Campania impressionante, per differenziarsi a tutti i costi, smarcandosi ogniqualvolta ciò gli dava visibilità. Alla fine De Luca si è vantato di aver impedito una carneficina con le sue decisioni. Non è un vanto da poco attribuirsi atti eroici in guerra. Si è vantato poi di aver creato una delle sanità più efficienti in Italia, in appena tre mesi! E in terzo luogo di aver predisposto un pacchetto di aiuti economici ai singoli e alle imprese più cospicuo rispetto a qualsiasi altra regione. Ma fu vera gloria? Agli atti non risulta assolutamente che con le sue decisioni De Luca abbia impedito un allargamento del contagio. I poco meno dei 5000 casi registratisi di coronavirus a oggi sono stati dovuti in gran parte alla cattiva gestione di diversi reparti ospedalieri, di case di riposo, a contagi sui luoghi di lavoro e in casa, ma non risulta nessun particolare contagio in feste di laurea, né tra persone che facevano una passeggiata sotto casa o una corsa, e neanche tra i ragazzi tornati dal Nord. E l’andamento dell’infezione nelle altre regioni meridionali ha seguito un percorso similare, ottenendo lì dei risultati addirittura migliori. De Luca è diventato famoso non per quello che ha impedito, ma per quello che ha commentato e per come lo ha commentato. Senza di lui la Campania avrebbe avuto gli stessi risultati. Ha funzionato, in realtà, la distanza geografica dai centri del contagio e soprattutto la decisione di chiudere a casa tutta la popolazione, compresa quella meridionale meno colpita. E c’è stata una dimostrazione straordinaria di civismo dei meridionali. Per quanto riguarda il vantarsi dei tre ospedali prefabbricati anti-covid, nessuno di essi ha avuto finora una qualche funzione nelle cure; la potranno assumere in futuro, ma per ora si deve registrare lo stesso impatto di quello costruito in Fiera a Milano.
Tra gli ex comunisti in questa fase c’è grande consenso nei confronti di De Luca. Sarà il fine che giustifica i mezzi? Resistere all’espansione leghista nel Sud e farla finita con gli odiati De Magistris e Cinquestelle, come molti di loro argomentano? Dal comunismo al familismo, purché vinca “uno di noi”? È proprio questa vicenda a dimostrare che quando il fine viene sacrificato ai mezzi si può arrivare a esiti paradossali: sostenere quello che è più vicino al modello che vuoi combattere. Cioè, per contrastare i leghisti, si sostiene il più leghista degli uomini di governo meridionale.
Ci attendono anni difficili. Avremo drammatici problemi di tenuta economica, e ritorneranno emergenze nel campo dei rifiuti e della sanità, appena la bolla mediatica sarà svanita. La Campania è la terzultima regione per livelli essenziali di assistenza sanitaria, non la prima come De Luca sostiene. Al Nord e in Italia ci lasceranno trastullare con questi record inventati, sicuri che quando si parlerà di cose serie il Sud continuerà a piangere pensando invece di far divertire. Sono compatibili le strategie di alleanze di Zingaretti e il meridionalismo di Provenzano con De Luca alleato di De Mita, Pomicino, Mastella, ex Cosentiniani e varie liste sudiste e di ex fascisti? Questo non è il centrosinistra allargato, ma un trasformismo allungato. È evidente che se rivince De Luca perde il nuovo Pd.

Mail Box

 

La vostra nuova “veste” grafica mi piace molto

Gentilissimo Direttore, vorrei complimentarmi con voi per la nuova edizione del Fatto Quotidiano. Le rubriche e la scelta dei caratteri rendono la lettura più agevole; siete sempre puntuali e liberi, poi, nelle indagini e negli approfondimenti delle news. Mi piace molto la pagina del sabato dedicata ai libri! Continuate così e non ci deluderete. Con affetto.

Raffaella Brignoli

 

Ci voleva davvero Colao per ripartire?

Caro Direttore, c’era bisogno di chiamare il dottor Colao per avere un documento attraverso cui “rilanciare il nostro Paese dopo l’epidemia” con “innovazione, parità di genere, digitalizzazione, inclusione e rivoluzione verde”? Tutti noi sappiamo che per rilanciare l’Italia c’è bisogno di questo, oltre a una buona gestione dei beni comuni come acqua, gas, energia, lavoro, sanità… tutti beni essenziali per i cittadini. Si è tanto criticato Salvini per i condoni ed ecco che Colao parla di condono per il lavoro nero e redditi non dichiarati e proroga le concessioni per le autostrade dimenticando i morti di Genova (concessioni per il gas, l’energia…). Al solito c’è ancora una verità solo italiana: tutto cambia perché nulla cambi, come si legge nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Grazie al premier Conte per la grande intuizione che ha avuto chiamando un signore che è stato l’ad della Vodafone, e quindi di una lobby. Come può conoscere i bisogni primari della gente comune? Che si aspettava di diverso oltre a conservare in Italia la privatizzazione? Mi domando, a 73 anni, quando è che in Italia si avrà un governo che pensi ai comuni mortali, ovvero ai lavoratori e non alle lobby…

Eliodoro Alfano

 

“Zone rosse”: rileggete il decreto del governo!

Caro Direttore, riguardo alla responsabilità sulla “zona rossa” nel bergamasco si ricorda giustamente la legge del 1978, ma si dimentica (inspiegabilmente) il Decreto legge n. 6 emanato dal governo lo scorso 23 febbraio, ossia il giorno immediatamente successivo a quello in cui l’esecutivo ha dichiarato “zone rosse” le aree di Codogno, Casalpusterlengo e Vo’ Euganeo. In questo Dl, intitolato “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica” si legge: “Allo scopo di evitare il diffondersi del Covid-19, nei Comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile a una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio del menzionato virus, le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”. Inoltre, all’articolo 2: “Tra le misure possono essere adottate anche le seguenti: a) divieto di allontanamento dal Comune…; b) divieto di accesso al Comune…; c) sospensione di manifestazioni, di riunioni in luogo pubblico o privato…”. Più chiaro di così!

Paolo Malberti

 

Con l’Innominabile meglio buttarla sul ridere

Caro Marco, visto che sei alla sedicesima querela con Renzi, ti ricordo che ti ho spedito una email con la frase che Renzi ha scritto sulla copertina del libro Matteo il conquistatore. Il suo confessore (che lo conosceva bene) gli diceva: “Dio esiste, ma non sei te: rilassati”. Quando sarai chiamato in tribunale ricordati di citare questa frase: dovrebbe bastare per chiudere il processo in cinque minuti con una grande risata.

Angelo

 

Perché mai dovremmo invidiare la Lombardia?

Con Internet do uno sguardo alle prime pagine dei quotidiani e noto con rabbia che i giornali di B. “si urtano” perché tutta Italia odia la Lombardia: secondo loro, tutti invidiano la Lombardia, ma senza specificare perché. Io credo che i titoli dei “giornaloni” servano solo a coprire le malefatte degli ultimi governatori come Formigoni.

Antonio Perrone

 

Vendere le armi è affare etico, non economico

Caro Direttore, abbiamo bisogno che il governo cambi rotta: via dai business poco etici come quello delle armi e del petrolio! Dobbiamo investire più soldi in energia pulita, medicina, ambiente… Non è solo una questione etica relativa alla verità per Giulio Regeni, ma anche una questione morale nei confronti di tutti i morti innocenti causati dalle nostre armi. Molti considerano la vendita di armi solamente una questione economica, ma allora perché arrestiamo il “povero” mafioso visto che spaccia solo per mantenere la sua “famiglia”? Siamo dei veri ipocriti se vendiamo armi all’Egitto, all’Arabia Saudita e all’Afghanistan.

Claudio Trevisan

 

DIRITTO DI REPLICA

Si precisa che, nel contesto del provvedimento di sequestro della Gip Mendola, il commento “per quanto riprovevoli” che sembra attribuito dall’articolo alle generiche attività dell’Associazione di promozione sociale CasaPound Italia è dal Gip in realtà riferito unicamente a fatti riportati dalla richiesta del pm, che tuttavia lo stesso giudice non ritene sicuramente attribuibili a CasaPound o a suoi militanti.

Avv. D. Di Tullio per CasaPound

“Camici miei”. La querela minacciata da Fontana e la solidarietà dei lettori

Direttore, che guastafeste! Ovvio che Fontana si sia arrabbiato con voi e con Report! Una società ha voluto fare un dono alla Regione e quindi una sorpresa (magari per il compleanno…) al governatore tenendogli tutto nascosto. Non era semplice la cosa, essendo questi donatori suoi familiari vicini e visto che proprio in quel periodo c’era una grande richiesta di quel materiale che poi avrebbero donato. Inoltre, si sono impegnati talmente tanto per nascondergli la sorpresa che hanno anche emesso e inviato le fatture, così da rendere tutto più credibile. Un giorno (forse) si sarebbe accorto della cosa e l’avrebbe ovviamente apprezzata, ma voi adesso avete rovinato tutto… Hanno ragione loro quando dicono che voi siete proprio tristi e cattivi: rovinate anche le sorprese.

Orlando Murray

 

Caro Marco, mi associo alla posizione del signor Daniele Mantovani sulla minacciata querela del presidente della Lombardia Attilio Fontana. Pronto a dare il mio contributo a difesa del Fatto Quotidiano. Però potremo anche… vincere la causa.

Diego Tummarello

 

Buongiorno Travaglio, mi associo alla lettera pubblicata del lettore Daniele Mantovani. Sono pronto a contribuire alle spese per le querele varie. Alla faccia degli innominabili tutti. Un saluto a tutti.

Francesco Collecchia Zanello

 

Caro direttore, domenica in prima pagina avete pubblicato l’ennesimo scandalo in Regione Lombardia sull’appalto (in piena emergenza Covid) dei camici monouso assegnati a un’azienda di proprietà della moglie e del cognato del presidente Attilio Fontana. Lunedì, poi, oltre al suo editoriale, c’era un approfondimento di Barbacetto e Caselli, ma nelle rassegne stampa e nei vari Tg non ho trovato traccia né accenno a questo scandalo… Ma c’è qualche divieto che riguarda la Lombardia di parlare o informare sugli scandali della quale è coinvolta? Oppure il Fatto sta parlando di un altro pianeta?

Luigi Galati

 

Caro Luigi, quel “divieto” si chiama “servilismo” e/o “conflitto di interessi”: i due mali che affliggono la presunta informazione italiana.

Marco Travaglio

Lasciate le scrivanie ai post-giornalisti di “Stampubblica”

“Non combatteva contro la distruzione della materia, ma contro la perdita della memoria”

(da L’albatro” di Simona Lo Iacono –Neri Pozza, 2019 – pag. 61)

 

La smaterializzazione delle notizie, innescata dall’avvento di Internet, ha già provocato negli ultimi anni la svalutazione del lavoro e del prodotto giornalistico. E di conseguenza, la crisi della carta stampata e la riduzione degli organici. Ci mancava ora la smaterializzazione delle scrivanie per dare il colpo di grazia alle redazioni, con tanti saluti al pluralismo e alla libertà d’informazione.

È quello che ha annunciato in pratica il neo-direttore di “Stampubblica” e neo-direttore editoriale del Gruppo Gedi, leggasi Fiat, proponendo un progetto di riorganizzazione del lavoro attraverso le docking station: da queste postazioni i post-giornalisti dovrebbero connettersi a turno con il pc portatile ed entrare nel sistema editoriale del giornale, in modo da abolire le scrivanie individuali e rispettare così il distanziamento imposto dalle norme anti-virus. Già questa sovrapposizione di ruoli e di funzioni, in capo al bis-direttore, la dice lunga sull’impostazione padronale che la nuova proprietà ha voluto imprimere a quello che fu il glorioso Gruppo L’Espresso di Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Dall’epoca di Gutenberg in poi, il direttore responsabile è l’anello di congiunzione di darwiniana memoria fra l’editore e la redazione. Se assume formalmente un “doppio incarico”, rinnega di fatto la sua estrazione giornalistica e rischia di perdere l’autonomia professionale, prestandosi a diventare “la voce del padrone”.

Ma un giornale non è una fabbrica, con gli operai alla catena di montaggio, i turni orari, i premi di produzione. E non è neppure un ufficio, con i funzionari e gli impiegati che un tempo indossavano le “mezze maniche” sopra la giacca per non sporcarsi d’inchiostro e timbravano il cartellino. Un giornale è o dovrebbe essere un luogo di produzione delle notizie, delle idee e delle opinioni. O se vogliamo, un cenacolo all’interno del quale si custodisce il “bene comune” dell’informazione, in forza di quell’articolo 21 della Costituzione che garantisce a tutti i cittadini la libertà di manifestare il proprio pensiero. Non a caso si parla di “corpo redazionale”, per dire un organismo collettivo, un’orchestra, una squadra.

Ora non è detto che sia indispensabile stare seduti a una scrivania per esprimere le proprie opinioni. Si può farlo anche rimanendo in piedi o magari sdraiati sul divano di casa. Ma, se il paragone non appare blasfemo, la scrivania per un giornalista è come l’altare per il sacerdote: la tavola su cui si celebra il rito quotidiano di informare i cittadini, mediando tra le fonti più o meno ufficiali e la comunità dei lettori. Togliere quel supporto e quel rifugio psicologico a un redattore equivale a togliere la conchiglia alla chiocciola.

Nel caso in questione, ciò che più preoccupa non è tanto la smaterializzazione di un mobile da ufficio che spesso funge anche da mini-libreria e archivio personale, quanto la smaterializzazione di un’identità e di una coscienza. Di una storia e di una memoria che appartengono a tutti coloro che lavorano o hanno lavorato in quel giornale, che lo leggono ancora o l’hanno letto in passato. E dietro il paravento del distanziamento sanitario, già s’intravvede per molti il rischio di perdere il posto di lavoro non solo in senso materiale, ma anche in senso intellettuale e professionale.

 

La rivoluzione del Family Act: l’assegno unico e universale

È un cambio culturale radicale quello che il Family Act, disegno di legge col quale il governo si impegna in una serie di misure a favore delle famiglie, porta con sé. Un cambio di passo che i genitori, specie noi madri, aspettavano da anni, forse da decenni.

Si esce finalmente da due tipi di logiche, entrambe nefaste: quella che ha legato il welfare per i figli alla condizione dei genitori, rendendolo così soggettivo e frammentato, come ben racconta l’assurdità degli assegni familiari solo per chi ha un lavoro dipendente. Ma si esce anche dalla logica, imperante negli ultimi anni, dei bonus, vincolati a criteri che finivano per escludere i più. Invece la riforma voluta dalla ministra per le Pari opportunità e la Famiglia Elena Bonetti introduce il tanto atteso assegno unico, universale. Che introduce l’idea che ogni bambino ne abbia diritto, indipendentemente dalla situazione dei genitori e così restituisce dignità a ogni nato (anzi, anche quasi nato, visto che l’assegno partirebbe dal settimo mese di gravidanza). Non solo. Il disegno prevede un congedo di dieci giorni per i neopapà: siamo sempre lontani da quelli dei Paesi scandinavi, ma anche dai pochi oggi previsti.

Altra misura importante riguarda la possibilità di detrarre, anche se solo in parte, le spese per i servizi domestici e le baby sitter. Una scelta da cui tutti hanno da guadagnare: le famiglie, alle quali lo Stato riconosce finalmente le enormi spese sostenute per il lavoro di cura della casa e dei bambini, le collaboratrici e i collaboratori, che potranno cominciare a vivere il loro lavoro non come un oscuro lavoretto ma qualcosa che ha la dignità di un impiego; infine lo Stato, che recupera l’evasione fiscale, grazie alla riemersione di una fetta imponente di lavoro nero. Fa ben sperare anche il rimborso delle rette di nidi e materne, visto che nei servizi per l’infanzia spesso il pubblico è inesistente: una misura che farà crescere l’offerta, specie in zone come il Sud dove è assente, favorendo la cultura della scuola anche per i bambini piccolissimi. Ed è giusto anche che il governo sostenga le famiglie in altri tipi di spese non secondarie, e spesso accessibili solo alle famiglie ricche, come le gite, lo sport, la musica, i corsi di lingua, ma anche musei, teatri e parchi.

E per le madri che lavorano? Si prevede un’indennità di retribuzione al rientro dalla maternità, anche se non è chiaro quali lavoratrici ne potranno usufruire. La retribuzione parziale dei congedi per malattia dei bambini va soprattutto in loro aiuto, così come il fatto, sacrosanto, di agevolare chi ha figli nell’ottenimento dello smart working, specie le donne.

Insomma, il Family Act appare come uno specie di “piano Marshall” per le famiglie, e difficilmente le opposizioni potranno – con che argomenti? – non votarlo. Anche perché l’obiettivo è anche quello di risollevare una natalità in caduta libera, visto che sono previste detrazioni per l’affitto non solo per gli studenti universitari ma anche per le giovani coppie: d’altronde senza figli non c’è futuro, ma neanche chi pagherà le pensioni degli anziani. Si spera solo che i tempi di attuazione non siano troppo lunghi – due gli anni previsti – ma che soprattutto, una volta approvato l’impianto, non si utilizzi poi l’Isee delle famiglie per svuotarlo, riducendo a poche decine di euro l’assegno per quelle di ceto medio, che invece sono quelle che andrebbero più aiutate, perché oggi non raggiunte da nessun sostegno.

E infine una critica: la prossima volta, magari, chiamiamolo in un altro modo. Che l’inglese ci fa rivivere infausti ricordi (vedi il Jobs Act). E soprattutto, se è una legge italiana, perché non usare la nostra lingua?

 

Perugia, il nuovo fronte dello scandalo al Csm

Le smisurate indagini di Perugia, talmente grandiose da produrre oggi l’ineffabile rischio di comprimere (per ragioni non chiaramente comprensibili) la facoltà difensiva di accedere all’intera messe del materiale istruttorio, hanno lasciato sul campo un alto numero di vittime incolpevoli.

In primo luogo, il prestigio del Consiglio superiore della magistratura per fatto colpevole di suoi ben individuati componenti, disinvolti e spregiudicati nei comportamenti, ammiccanti negli illeciti accordi, parziali e favoritistici nei loro disegni, implacabili nelle mire persecutorie anche nei confronti di altri componenti renitenti a piegarsi ai loro voleri. Disastrosi gli effetti agli occhi dei cittadini, letteralmente esterrefatti di fronte agli scenari di onnipotenza correntizia e di complicità tra i vari membri, avvinti in un’unica rete di trame di potere, spesso di ineguagliabile meschinità (si pensi ai concerti e ai complotti anche a livello apicale, addirittura per nomine di rango segretariale del Csm per le quali si sono scatenate guerriglie e vendette inesorabili).

Ma altre vittime il protocollo delle “mediazioni” consiliari (sulla cui attuale scomparsa nessuno potrebbe ragionevolmente scommettere) ha causato irreversibilmente. Si pensi a qualificatissimi ed esperti magistrati aspiranti a uffici direttivi o a uffici di legittimità o equivalenti sacrificati sull’indegno altare dei compromessi trasversali diretti a far conseguire ad altri discutibili vantaggi di carriera. Fondamentali nomine effettuate tra l’estate e l’autunno del 2017 in uffici centrali e periferici, che hanno visto la soccombenza di fior di titolatissimi concorrenti, lasciano, oltre che l’amaro in bocca agli interessati esclusi, irrisolto un interrogativo di salute pubblica. Quale sarebbe stata la direzione di quegli uffici se a essi fossero stati assegnati candidati diversi dai vincenti? Quale sarebbe stata la storia, ad esempio, della criminalità organizzata in territori regionali determinati e del coordinamento nazionale dell’attività d’indagine?

Porre queste domande oggi non significa cercare risposte imponderabili o infondatamente sospettare della capacità dei nominati; implica, tuttavia, che risalti l’irreparabile gravità della distorsione in certi casi verificatasi dell’attività consiliare quale emerge dal procedimento penale perugino nonché la dannosità delle conseguenze su destini individuali e collettivi. Colpe imperdonabili, quindi. Su di esse, e sulle possibili propaggini attuali, che sembrano trovare i presupposti storici nel consociativismo del resiliente passato, non può planare l’oblio. E allora, perché non dare ai soggetti passivi delle manovre consiliari abusive, di ieri e di oggi, una possibilità di riscatto, un risarcimento postumo per il fatto ingiusto altrui, come il prolungamento dell’età pensionabile o la rimessione in termini per i concorsi, da revocare, nei quali sia stato accertato lo sviamento di potere?

È accaduto negli anni scorsi che si sia legislativamente provveduto al mantenimento in servizio ultrattivo per pubblici dipendenti, privati ingiustamente di chance di carriera e per una durata corrispondente alla privazione stessa. Occorrerebbe la riedizione dei procedimenti concorsuali a seguito della dimostrata illiceità/irregolarità dei precedenti e indipendentemente dall’ormai temporalmente inammissibile intervento caducatorio del giudice amministrativo.

Andrebbe restituito agli aventi diritto ciò che è stato loro manipolatoriamente sottratto. Questo impone la restaurazione dei fondamenti morali dell’attività, di ieri e di oggi, del Csm. In questa prospettiva l’imminente nomina del Procuratore capo di Perugia pone il Consiglio di fronte a un’enorme responsabilità: quella di non rafforzare il timore di un esito stabilito aprioristicamente alla stregua di predeterminati, preannunciati e divulgati orientamenti in blocco, ben prima della discussione plenaria e della piena conoscenza di tutti gli atti, di gruppi correntizi. E senza che ancora una volta prevalga l’indirizzo premiale degli indisciplinati scorrimenti da funzioni estranee alla magistratura e contigue alla politica a ruoli giudiziari direttivi.

Insomma, che l’ordine giudiziario non sia ridotto a un circolo Pickwick riservato ai soli affiliati, con esclusione di ogni altro magistrato estraneo a conciliaboli, convivi, consorterie.

 

Ecco il modo migliore di friggere le olive: farsi operare al cervello

 

Donna prepara olive all’ascolana durante operazione al cervello (Ansa, 10 giugno 2020).

 

Olive all’ascolana. Difficoltà: media. Preparazione: 60 min. Cottura: 20 min. Dosi per: 10 persone. Costo: rimborsato dal Ssn. Le olive all’ascolana sono una specialità della gastronomia marchigiana che risale alla fine dell’800. Si utilizzano olive ascolane tenere; carne di manzo, suino e pollo; Parmigiano reggiano; verdure; aromi; e un’équipe neurochirurgica composta da 10 neurochirurghi, neuroanestesisti, infermieri, una psicologa e un tecnico di neurofisiologia.

Preparazi one: tritate le verdure (cipolla, sedano, carota) e fatele rosolare con 3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva. Tagliate a dadini i tre tipi di carne e aggiungeteli al soffritto, mentre l’équipe comincia a prepararvi per il tassello craniale posizionando accessi vascolari, cateteri, monitoraggi. Quando le carni saranno rosolate, salate, aggiungete il vino bianco e fate evaporare a fuoco basso. Intanto, il chirurgo inciderà la cute e il sottocute con il bisturi; una volta esposto l’osso, eseguirà uno o più fori con un trapano; e poi con il craniotomo ritaglierà un lembo osseo, portando alla luce la meninge che riveste il cervello. Togliete il composto dal fuoco, lasciatelo raffreddare, quindi macinatelo (potete utilizzare anche le lame del craniotomo); versate il composto in una ciotola, aggiungete polvere di chiodi di garofano e noce moscata, la scorza grattugiata di mezzo limone, un uovo, il parmigiano grattugiato, la mollica di pane sbriciolata, e impastate bene fino a ottenere un composto morbido e compatto. Lasciatelo riposare per una mezz’oretta, dando il tempo al chirurgo di incidere la meninge, esternare il vostro cervello, ed eseguire il clippaggio dell’aneurisma che vi affligge.

Passate ora a denocciolare le olive: con un bisturi, tagliate a spirale l’oliva, partendo dal picciolo, in modo da ottenere una spirale di polpa ininterrotta. A questo punto riempite le olive con il ripieno avendo cura di ridare loro la forma originaria, che ovviamente sarà un po’ più gonfia. Come un aneurisma. L’intervento volge al termine.

Preparate tre ciotole contenenti, separatamente, farina, uova sbattute e pangrattato. Passate l’aneurisma prima nella farina, poi nell’uovo sbattuto e infine nel pangrattato, e quando sarà pronto lasciatelo riposare al fresco per mezz’ora. Ripetete l’operazione con le olive, in modo da renderle ben croccanti con la frittura in olio extravergine bollente. Mentre le ruotate finché non prendono una colorazione dorata e uniforme, il chirurgo riposizionerà il tassello di cranio rimosso, lo fisserà con placchette di metallo, e spennellerà il tutto con una salamoia di tintura di iodio, semi di finocchio selvatico e erbe locali. Sgocciolate le olive all’ascolana, ponetele su carta assorbente, e alla fine dell’intervento servitele caldissime e croccantissime a tutta l’équipe: se le sono proprio meritate!

Un intervento al cervello è il segreto della buona riuscita delle olive all’ascolana, piatto che viene apparecchiato in occasioni particolari e per ospiti importanti. L’attività svolta dal paziente è scelta in funzione della zona da operare e delle abitudini individuali: a Genova, un paziente è stato operato all’area che sovrintende alla vista mentre guardava su La7 Tiziana Panella, masturbandosi.

 

Laboratori di ricerca, servono controlli

Donald Trump con la sua ipotesi, tutta da confermare, del virus SarsCoV2 sfuggito al laboratorio di Wuhan, ha comunque riportato all’attenzione internazionale la necessità di un’analisi più ampia della biosicurezza dei laboratori nel contesto della sicurezza sanitaria globale. I laboratori di alto livello (come quello di Wuhan) sono necessari per studiare le malattie infettive, ma non si può rischiare che diventino essi stessi fonte di contagio. Il Washington Post ha individuato più di 1.000 incidenti di laboratorio registrati in 25 anni. Il controllo delle misure di sicurezza adottate è molto difficile, visto che non esiste una loro conoscenza completa e si ignora quali lavorino con agenti biologici pericolosi su scala globale. Il problema centrale è che, malgrado la Convenzione sul Disarmo Biologico, non esiste un organismo internazionale formale per la revisione basata sul rischio e il controllo della ricerca nel campo delle malattie infettive.

I regolamenti sanitari dell’Oms forniscono un potenziale veicolo per istituire un meccanismo di registrazione di laboratorio giuridicamente vincolante a livello internazionale. In base a tali regolamenti, i 196 Stati membri dell’Oms sono tenuti a condividere informazioni su eventi biologici che potrebbero costituire una minaccia per altri Stati membri, compresa la notifica entro 24 ore di eventi che possano costituire una “emergenza sanitaria pubblica di preoccupazione internazionale”. Ma come spesso avviene, le regole valgono per chi vuole stare in regola. Tutti gli altri stanno fuori dalle convenzioni e dai controlli. E quei Paesi che le regole le hanno sottoscritte sono spesso negligenti. In Italia i controlli dei laboratori sono pressoché inesistenti. La ricerca che deve essere libera, ma non fuori dal controllo a garanzia della salute pubblica. E gli incidenti li abbiamo avuti. La lezione che ci deriva da questa pandemia è anche una migliore prevenzione attraverso il controllo dei laboratori. Dopo il Covid, dobbiamo.

 

Csm e scarcerazioni “Dl Bonafede: troppo carico sui giudici”

Arrivano critiche dal Csm al decreto anti-scarcerazioni dei mafiosi, per rischio Covid, voluto dal ministro Bonafede. La Sesta commissione ha redatto un parere, in plenum mercoledì per il voto, in cui si dice che “Il sistema di rivalutazioni” delle scarcerazioni “per la serrata tempistica con la quale essi devono intervenire ( entro 15 giorni, ndr) e per la complessità degli accertamenti da svolgere periodicamente (ogni mese, ndr) determinerà un notevole aggravio del lavoro della magistratura di sorveglianza”. Quindi, la Sesta fa proprie le conclusioni della Commissione mista sui problemi della Sorveglianza la quale “ha osservato ‘come la magistratura di sorveglianza, dapprima investita del compito di risolvere il cronico problema del sovraffollamento delle carceri, con il dl che le ha offerto ridotti strumenti/argomenti per valutare i presupposti dell’applicazione di misure alternative’ (in tempo di Covid, fino al 30 giugno, ndr) venga ora investita del compito di offrire una supplenza rispetto al problema del reperimento di strutture interne al circuito penitenziario”. A dire il vero il decreto legge dà il potere al Dap di indicare ai giudici strutture sanitarie del circuito carcerario disponibili. Cosa che sta facendo, come nel caso del boss Bonura e tanti altri, a cui sono stati così revocati i domiciliari.

Indagine sui soldi a Renzi, salta l’evento con Padoan

Se si digita su Google “Pier Carlo Padoan Salt” l’evento è ancora lì tra i primissimi risultati di ricerca: una teleconferenza prevista per il 30 giugno con l’onorevole Pier Carlo Padoan, già ministro dell’Economia, e l’imprenditore Walter Ricciotti, in un dibattito moderato dal padrone di casa, Anthony Scaramucci. Cliccando però sull’anticipazione del link, l’evento scompare: da un paio di giorni sul sito della Salt non c’è più traccia della pagina che descriveva l’appuntamento, rimasto soltanto nella memoria del motore di ricerca (che ci mette un po’ a recepire i cambiamenti all’interno dei siti a cui rimanda). A colpire, però, è che la rimozione sia avvenuta a poche ore dalla notizia dell’indagine aperta a Firenze su un vecchio pagamento della Salt di cui avrebbe beneficiato Matteo Renzi.

Un po’ di ordine. La Salt di cui si parla è la società di Anthony Scaramucci, imprenditore americano per un periodo anche consulente di Donald Trump per la comunicazione. Da anni organizza eventi frequentatissimi dalla diplomazia internazionale, da società lobbistiche, da fondi di investimento e da politici, tutti chiamati per partecipare a dei dibattiti e godersi poi un simile network a disposizione per fare pubbliche relazioni. Gli scorsi anni, per esempio, sono stati invitati tra gli altri Joe Biden (adesso in corsa per la presidenza degli Stati Uniti), Bill Clinton, George W. Bush, Nicolas Sarkozy e Tony Blair, oltre che star internazionali come Al Pacino, Kobe Bryant e Will Smith.

In questi giorni se ne parla perché La Verità ha scoperto che la Procura di Firenze sta indagando su un versamento da 75 mila euro della Salt sui conti di una società – la Carlo Torino e associati – che poi li avrebbe girati a Matteo Renzi. I pm vorrebbero far luce su quella cifra, che potrebbe essere legata alla presenza di Renzi a un evento Salt del dicembre scorso ad Abu Dhabi.

Alla vicenda è del tutto estraneo Pier Carlo Padoan, il cui nome però compariva fino a ieri sul sito di Salt come ospite del dibattito del 30 giugno in riguardo al “Recovery Plan dell’Unione europea”. In queste settimane la società di Scaramucci sta organizzando diversi congressi – come ovvio a distanza – con giornalisti, ex funzionari della Casa Bianca, investitori e politici, dato che l’emergenza coronavirus ha fatto saltare il mega-evento previsto per fine maggio a Las Vegas.

Il giorno dopo la diffusione delle notizie sull’indagine, l’evento è sparito. Padoan nega però ogni ricostruzione che colleghi le sue vicende a quelle di Renzi, assicurando pure di non essere mai stato coinvolto nell’organizzazione del dibattito: “Non si faccia strane storie in testa – ci replica –, ci sono decine di eventi di questo genere e a volte capita che saltino per diverse ragioni. Nello specifico, di questo dibattito non ho neanche traccia sulla mia agenda per il 30 giugno né ricordo nulla al riguardo”. Guai dunque, secondo l’ex ministro, a ipotizzare non solo la sua ospitata alla Salt, ma un eventuale pagamento per presenziare al dibattito: “Io di questa cosa non ne so niente, figurarsi di fantomatici pagamenti. È una storia assolutamente inventata”. Possibile. Nel caso, però, ad avere molta fantasia sarebbe la Salt, in grado di illustrare per diversi giorni sul proprio sito l’anticipazione di un evento con tanto di ospiti, orario e tema del dibattere, senza neanche aver avvisato i protagonisti.