Liguria bloccata. I sindaci: facciamo causa ad Aspi

Liguria paralizzata: autostrade chiuse, code interminabili. Intanto i sindaci propongono di chiedere i danni ad Aspi, mentre il governatore Giovanni Toti chiede che a risarcire la regione sia il governo.

Il disastro delle autostrade liguri dura da mesi. Anni. Da quel tragico 14 agosto 2018 in cui crollò il Morandi. Dall’estate scorsa tutte le direttrici che collegano la regione con Lombardia, Francia e Toscana sono un rosario di cantieri e code interminabili. Ma ieri è arrivata la tempesta perfetta: gli affannosi lavori per rimettere in sesto una rete che va a pezzi hanno portato in mattinata alla chiusura del tratto autostradale tra Genova Aeroporto e Genova Prà. Risultato: chilometri di coda anche in città. Nel pomeriggio replica in direzione opposta. Ed ecco che un gruppo di sindaci dell’entroterra ha scritto una lettera al ministero: bisogna chiedere i danni ad Aspi. In direzione opposta va il presidente Giovanni Toti (centrodestra): “Il ministero intervenga o lo metteremo in mora e chiederemo i danni al governo. Non c’è mai stato un ministero dei Trasporti così incapace. Più che la revoca della concessione ad Aspi, revocherei il Mit”. Il caso diventa politico; dall’opposizione giallorosa si ricorda che proprio Toti è sempre stato cauto negli attacchi ad Autostrade quando si discuteva di revoca e che 15 giorni dopo il crollo del Morandi si fece fotografare accanto all’allora ad del gruppo, Giovanni Castellucci, che illustrava un progetto per il nuovo ponte.

Intanto la Procura di Genova ha iscritto nel registro degli indagati dieci tra tecnici e dirigenti di Spea, società del gruppo Atlantia che si occupava delle verifiche di sicurezza per Autostrade. Sono accusati di falso in relazione ai report di sicurezza. L’inchiesta è partita dopo il crollo di parte della volta della galleria Berté (A26) avvenuto il 30 dicembre scorso.

Gli anarchici incendiari del car sharing

La bomba alla caserma dei carabinieri di San Giovanni a Roma e alla libreria di Casapound di Firenze, le car sharing Enjoy incendiate, le mura del carcere di La Spezia imbrattate. Il gruppo anarco-insurrezionalista, con base logistica al centro sociale romano Bencivenga Occupato, era pronto a “riorganizzare il movimento anarchico”, intrecciando rapporti con gruppi esteri, con atti eversivi per “colpire l’organizzazione democratica dello Stato”. Nell’operazione “Bialystok” dei Ros, sono finiti in arresto 7 anarchici, tra i 30 e 40 anni, accusati di associazione con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico, atto di terrorismo con ordigni micidiali ed esplosivi e altri reati. Tra loro Pierloreto Fallanca detto Paska, Roberto Cropo fermato a Saint Etienne (Francia), e due donne: Flavia Di Giannantonio e Francesca Cerrone, arrestata ad Almeria (Spagna).

Intitolato a Santiago Maldonado, militante argentino trovato morto dopo le manifestazioni a difesa del popolo mapuche, la cellula romana fonda la sua ideologia sui testi di Alfredo Cospito, leader della Federazione Anarchica Informale (FAI) e Fronte Rivoluzionario Internazionale (FRI)., detenuto a Ferrara per aver gambizzato a Genova nel 2012 Roberto Adinolfi, ad dell’Ansaldo nucleare. Il programma del gruppo è il testo clandestino Dire e sedire, poi integrato con “riflessioni”, scritto da Cropo per “rilanciare la solidarietà agli anarchici fiorentini e agli altri gruppi oggetto di repressione”.

Oltre alla bomba a San Giovanni e le car sharing incendiate perché “Eni uccide e inquina”, il gruppo piazzò anche una bomba alla libreria fiorentina “II Bargello” legata a Casapound, oltre a manifesti con frasi “bombe alle questure”, “bomboni a Casapound” e “morte allo Stato e ai suoi servitori” diffusi a Torino, La Spezia e Teramo, che incitano all’uso di armi da guerra e bottiglie molotov.

Calcio, il positivo sarà come un infortunato: no a quarantena di squadra in caso di Covid

Si gioca, finalmente. Soprattutto si giocherà. Non solo per il fischio d’inizio di ieri, la semifinale di Coppa Italia fra Juventus e Milan, un sospiro di sollievo a tre mesi di distanza dall’ultima partita. La vera vittoria è fuori dal campo: la revisione della quarantena obbligatoria per l’intera squadra, l’incubo del pallone che teme di partire e rifermarsi al primo contagiato. Il Comitato tecnico scientifico ha aperto alle richieste che Figc e Lega avanzano da settimane, il modello “alla tedesca”: l’isolamento resta ma le partite continueranno, grazie a controlli più serrati per garantire che scendano in campo solo giocatori “sani”.

Adesso il campionato pare davvero in salvo. Non per i playoff, nemmeno per il famigerato algoritmo della Figc: anche dopo la decisione ufficiale di riprendere i tornei, la partita è sempre stata quella sulla quarantena. Da una parte la foga del calcio, terrorizzato dalla prospettiva di un nuovo stop (bastava un infetto per far saltare tutto). Dall’altra la prudenza degli scienziati, ma anche la strategia politica del governo e del ministro Spadafora, per nulla disposto a fare sconti al pallone. Dopo settimane di tensione, le buone relazioni del presidente Gravina e il miglioramento della curva epidemiologica dovrebbero permettere la svolta.

In realtà, la vera e propria quarantena non è sparita del tutto. Se verrà trovato un positivo, l’intera squadra dovrà comunque essere isolata, cambierà il protocollo. Prima il gruppo poteva continuare ad allenarsi in una struttura dedicata, ma non uscire, e quindi nemmeno giocare. Adesso sarà isolato l’infetto, il resto della squadra si chiuderà in ritiro, ma senza fermare l’attività: la quarantena si interromperà solo per la partita, prima della quale tutti i giocatori saranno sottoposti a tampone. Le squadre sarebbero virtualmente “negativizzate”, così da scongiurare il rischio di contagio durante il match.

Non tutti gli ostacoli sono superati. Innanzitutto manca il via libera formale del governo. Restano alcune difficoltà tecniche: la necessità di effettuare in massa test che diano risultati affidabili nel giro di poche ore (e che devono ancora essere validati dal ministero della Salute); serve un ente terzo che garantisca i controlli. Standard sempre più alti, buoni per la Serie A, chissà se anche per B e C. Poi ci sono altre variabili, imponderabili, il rischio che un focolaio colpisca una o più squadre: allora sarebbe difficile pretendere che siano semplici infortunati. Ma a questo punto il calcio può riprendere e sperare davvero di arrivare in fondo, assegnare sul campo e non a tavolino scudetto e retrocessioni: potrà fermarlo soltanto una nuova escalation di contagi, non solo nel pallone. Questo non se lo augura nessuno.

Il Mondo di mezzo secondo la Cassazione: “Criminali semplici”, ma con la città in mano

Il “Mondo di mezzo” di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non era Mafia Capitale, ma un sistema criminale dedito alla corruzione capillare cui si era adattato il Comune di Roma. Si legge nelle motivazioni della Cassazione, depositate a 8 mesi dalla sentenza con la quale ha confermato le condanne escludendo per l’ex boss della banda della Magliana, l’ex ras delle cooperative Buzzi e per altri imputati, l’aggravante mafiosa, riconosciuta dalla Corte d’appello, che aveva dato ragione alla Procura. La Cassazione la pensa in sostanza come i giudici di primo grado che avevano inflitto condanne più alte che in appello senza però riconoscere il 416 bis. Scrive la Cassazione: “Senza negare che sul territorio di Roma possano esistere fenomeni criminali mafiosi, i risultati probatori hanno portato a negare l’esistenza” di un’associazione mafiosa. È emerso “un sistema gravemente inquinato, non dalla paura, ma dal mercimonio della pubblica funzione”. La realtà è che “una parte dell’amministrazione comunale si è di fatto consegnata agli interessi del gruppo criminale”.

Mancano le richieste e più test del sangue: così calano i tamponi

“Potremmo farne fino a 9.500 al giorno, ma le richieste arrivano a 3-4mila”. Roberto Testi, direttore della struttura complessa di Medicina legale della Asl di Torino, è uno dei membri dell’unità di crisi Covid-19 della Regione Piemonte. “Oggi facciamo tamponi più mirati – spiega – perché facciamo grandi campagne di sierologico. Quando una persona risulta positiva, allora si fa il test sull’Rna”, prosegue. Le analisi che stabiliscono se un individuo ha sviluppato gli anticorpi al SarsCov2 prendono il posto di quelle che amplificano l’acido ribonucleico del virus presente nelle secrezioni nasofaringee. Che, a differenza delle prime, hanno una valenza diagnostica e sono lo strumento indicato dal ministero per affrontare la Fase 2. Ma che secondo la Fondazione Gimbe, in Italia sono scese dai 265 mila tra il 17 e il 24 maggio ai 234 mila della settimana successiva, per poi calare ancora a 193 mila tra il 1° e il 7 giugno (-17,6%). Una tendenza confermata dall’ultimo Instant Report dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari della Cattolica: rispetto alla settimana scorsa il tasso per 100mila abitanti è passato da 7 a 5,90.

I motivi del calo, proprio mentre il sistema di monitoraggio messo a punto da ministero e Istituto Superiore di Sanità prevede che le Regioni aumentino la loro capacità di individuare nuovi focolai, sono diversi. La prima è che gli accessi negli ospedali sono crollati: “A marzo avevamo 50 ingressi al giorno in pronto soccorso e i nostri laboratori analizzavano fino a 600 campioni – spiegano dal San Matteo di Pavia – oggi non arriviamo a dieci. Di conseguenza è diminuito anche il numero dei test”. La regola è sempre la stessa, quella fissata all’inizio dell’emergenza: il tampone va fatto solo a coloro che del Covid-19 presentano i sintomi. Poiché però ben presto si era capito che anche gli asintomatici sono contagiosi e che i focolai andavano soffocati subito soprattutto negli ospedali, il 3 aprile il ministero stabiliva che tra i casi da analizzare in via prioritaria rientravano anche gli “operatori sanitari esposti a maggior rischio”, quelli “dei servizi pubblici essenziali sintomatici e asintomatici, delle Rsa e altre strutture residenziali per anziani”.

“Il tampone a medici e infermieri? Nella disorganizzazione, ma li stanno facendo – spiega Guido Marinoni, presidente dell’Ordine di medici di Bergamo – In alcuni casi però viene fatto prima il test sierologico”. “A maggio, con la campagna avviata dalla Regione, i dipendenti di ospedali e Ats della Lombardia sono stati sottoposti al prelievo del sangue – conferma Stefano Magnone, segretario di Anaao Assomed – e poi ai positivi è stato fatto il tampone”. Lo stesso a Brescia: tutti i dipendenti degli Spedali Civili hanno fatto il test degli anticorpi. Che viene utilizzato dall’Ats anche per il contact tracing, il monitoraggio dei contagi sul territorio: dal 23 aprile, si legge sul sito dell’azienda, i test sono stati fatti a “contatti di casi positivi posti in isolamento fiduciario, identificati dalla Ats (…), senza sintomi da almeno 14 giorni, che non hanno effettuato tampone” e alle “persone sintomatiche, con quadri simil-influenzali, segnalati ad Ats dal Medico di Medicina Generale o Pediatra di Libera Scelta, senza sintomi da almeno 14 giorni”. Non così il Piemonte: “No, noi per ricostruire le catene di contagio usiamo il tampone”, spiega Testi.

“A quelli di noi che erano sintomatici il test è stato fatto – racconta Paola Pedrini, segretaria regionale della Fimmg, i medici di famiglia – nel weekend del 16 maggio, poi, a Bergamo in quanto area più colpita la Regione ha fatto una campagna di tamponi per gli asintomatici, anche pediatri e guardia medica”. E nel resto della Lombardia? “La delibera 3114 del 7 maggio prevedrebbe un controllo costante tramite sierologici e tamponi a intervalli regolari. Ma non abbiamo visto nulla, se non nella Val Seriana”. I medici di famiglia, che nella prima fase dell’epidemia sono stati in prima linea senza protezioni né direttive chiare, sono stati dimenticati. Ancora una volta: “Le attenzioni sono state per gli ospedalieri, come sempre”.

“Aspetto, ma sto con Zangrillo: clinicamente il Covid è sparito”

Sull’indagine della Procura di Bergamo, che ieri ha sentito il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla mancata chiusura di Alzano Lombardo e Nembro nella Bergamasca ai primi di marzo, dice che mancano i dati: “Non sappiamo ancora quando è entrato il virus in Italia, com’era la situazione a fine febbraio-inizio marzo. Massimo Galli del Sacco di Milano dice che è entrato al più tardi nell’ultima decade di gennaio dalla Germania, a Genova dicono che i donatori di sangue presentavano anticorpi del Covid-19 già da fine dicembre”, osserva Pierpaolo Sileri, viceministro M5s della Salute, unico medico del governo. “Ad Alzano Lombardo e Nembro c’è stato un aumento ma quando? Era in corso da tempo, sembrerebbe, a giudicare dal numero dei morti. Non si può dire che effetto avrebbe avuto quella chiusura. E poi bisogna chiarire chi avesse il potere di chiudere: ce l’hanno tutti, governo e amministrazioni periferiche, fino ai sindaci”.

Non è corretto dire che spettava al governo come ha detto il governatore Attilio Fontana.

Lo potevano fare anche loro. Anche Giulio Gallera l’ha detto.

Ma l’ha scoperto dopo.

Le norme sono tante, troppe. E con il senno di poi è facile.

Codogno, gli altri Comuni del Lodigiano e Vo’ Euganeo in Veneto erano stati chiusi il 23 febbraio.

Nel Lodigiano i 10 Comuni facevano 50 mila abitanti e si pensava di poter contenere lì i focolai; le aree della Val Seriana interessano 250 mila persone: il virus già circolava altrove. Di Alzano e Nembro ho sentito parlare il 3 marzo, poi la valutazione è maturata il 5 e siamo andati verso la chiusura di tutta la Lombardia. È come oggi: il cluster del San Raffaele a Roma conta 97 positivi, l’istituto è diventato zona rossa e ci sono altri positivi, collegati, a Montopoli in Sabina (Rieti), che sono stati quarantenati. Se la situazione fosse fuori controllo dovresti fare un’altra zona rossa a Montopoli, ma se accadesse in un’area più ampia dovresti chiudere la provincia o la Regione.

L’ordine di circondare i Comuni della Bergamasca venne dato e poi annullato per telefono dal Viminale. Cos’è successo nel frattempo?

Non lo so. Né ho mai saputo di pressioni di Confindustria e imprenditori.

L’Iss ha cambiato idea?

Non mi risulta.

Il monitoraggio dice che le cose vanno bene. Però la Fondazione Gimbe dice che calano i tamponi e ci sono ritardi delle Regioni. C’è da preoccuparsi?

La comunicazione dei dati da parte delle Regioni va migliorata ma è già migliorata, i tamponi vanno aumentati. Però la fine del lockdown risale a tre settimane fa, i movimenti fra le Regioni al 3: aspettiamo 7-10 giorni. Fin qui la situazione è sotto controllo. Come dice Alberto Zangrillo del San Raffaele il virus clinicamente non c’è più, circola ma poco.

Non era un “liberi tutti” un po’ fuorviante?

Ha parlato di evidenza clinica, gli ospedali si sono svuotati. Non ha detto ‘toglietevi le mascherine’.

Perché pochi tamponi?

Carenza di reagenti, carenze nell’individuazione dei contatti. Però i numeri restano esigui. Fondamentale è anche l’applicazione Immuni, non fa l’indagine epidemiologica, ma aiuta a rintracciare i contatti. Quando è successo a me li ho rintracciati perché erano pochi. Ora puoi infettare uno che non conosci che era vicino a te sull’autobus o in pizzeria o guidava il taxi che hai preso.

La Lombardia è sotto accusa, lei però ha detto che non esiste un caso Lombardia.

Non esiste oggi. Se mi dicono ‘impediamo ai lombardi di andare altrove perché hanno troppi casi’, io dico no. Ovunque può esserci diffusione del virus. La differenza è il tempo di reazione. Il servizio territoriale, benché rafforzato in alcune Regioni, resta fragile.

Bisogna rinazionalizzare?

No, ma occorre centralizzare, come l’epidemia dimostra, la prevenzione. E rafforzare le strutture del ministero che controllano la periferia, in primis Agenas. Meno consulenze esterne e più risorse dello Stato.

Il ministero della Salute in difesa: “Circolazione del virus rilevante”

L’epidemia di Covid-19 non è finita. Ieri la Protezione civile ha dato notizia di 393 nuovi contagi, in aumento dai 379 di giovedì, che portano il totale a 236.305. A oltre un mese dalle prime riaperture del 4 maggio e a quasi 4 settimane dalla fine del lockdown scattata il 18, “in alcune parti del paese la circolazione” del virus SarsCov2 “è ancora rilevante”. Nonostante la curva epidemica continui a flettere verso il basso, i dati dell’ultimo monitoraggio realizzato da ministero della Salute e Istituto Superiore di Sanità lasciano accesi diversi campanelli di allarme.

“Complessivamente il quadro generale dell’impatto dell’infezione in Italia rimane a bassa criticità”, è la lettura fatta dai due enti sui dati relativi alla settimana 1-7 giugno, tuttavia “persistono in alcune realtà regionali un numero di nuovi casi segnalati ogni settimana elevati, seppur in diminuzione”. L’area che preoccupa di più resta la Lombardia il cui assessorato al Welfare ieri ha comunicato altri 272 casi, pari al 69,2% dell’aumento registrato in Italia. Sono lombarde anche 31 delle 56 vittime registrate nelle ultime 24 ore, che portano il totale nazionale a quota 34.223. In realtà, in “quasi tutta la penisola sono stati diagnosticati nuovi casi di infezione nella settimana di monitoraggio” e ciò evidenzia come l’epidemia in Italia di Covid-19 “non sia ancora conclusa”. Molte di queste persone, inoltre, “verosimilmente hanno contratto l’infezione 2-3 settimane prima, ovvero tra la prima e seconda fase di riapertura (cioè tra l’11 e il 25 maggio)”, ha spiegato ieri l’Istituto Superiore di Sanità.

Le regioni monitorate sono tutte con l’indice di trasmissibilità Rt sotto la soglia allarme di 1. In testa con zero contagi resta la Basilicata e in coda c’è la Puglia con un Rt a 0,94 contro lo 0,78 della settimana 25-31 maggio, seguita dal Lazio a 0,93 (0,75) e la Lombardia con lo 0,9 (0,91).

Per Gianni Rezza, direttore generale del Dipartimento della prevenzione di Lungotevere Ripa, la situazione epidemiologica “continua a migliorare e l’incidenza di Covid è in diminuzione pressoché in tutte le regioni”: “Naturalmente – aggiunge a mo’ di avvertimento – non si può escludere l’occorrenza di possibili focolai”. Come accaduto a Roma, dove si allarga il cluster individuato al San Raffaele Pisana. Dei 27 casi rilevati ieri, ben 22 sono riferibili al focolaio dell’istituto di riabilitazione che raggiunge così numeri consistenti: 99 pazienti positivi e 5 decessi, 2 dei quali nelle ultime 24 ore. Sul caso resta alta l’attenzione e l’indagine epidemiologica avviata dalla Regione punta anche all’esecuzione del doppio tampone: dei 22 nuovi casi riferiti al focolaio, 16 derivano dai test di controllo effettuati su operatori e pazienti in un primo momento risultati negativi. La ricerca andrà a ritroso a partire dal primo maggio e gli ospiti infetti sono stati tutti trasferiti. Nella Capitale, poi, è sotto la lente anche un palazzo occupato nel quartiere della Garbatella dove un’intera famiglia è risultata positiva.

L’AntiRazzismo demolitore

Anche Indro Montanelli è finito nel tritacarne della guerra alle statue, battaglia del movimento anti razzista Black Lives Matter, nato nel 2013 ma che ha ripreso fiato di recente dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Le manifestazioni contro il razzismo il 7 giugno scorso hanno preso una deriva architettonica con l’abbattimento, a Bristol in Gran Bretagna, della statua di Edward Colston, eretta nel 1895. Benefattore della città e finanziatore di opere pubbliche, Colston era però un commerciante di schiavi. Da quel giorno numerose altre statue di razzisti o presunti tali sono state abbattute o sfregiate in giro per il mondo, comprese alcune di Cristoforo Colombo e una di Winston Churchill. La vicenda è arrivata pure a Milano, con la richiesta del movimento dei Sentinelli di rimuovere la statua di Indro Montanelli all’interno degli omonimi giardini. Il motivo? “Montanelli era razzista. Fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di 12 anni perché gli facesse da schiava sessuale”, si legge nella richiesta al sindaco Beppe Sala, che si è detto contrario. La questione ha subito incendiato gli animi dell’opinione pubblica. “Giù le mani da Montanelli!”, hanno detto in molti, specialmente a destra, ma pure a sinistra. Con numerose prese di posizione anche nel mondo del giornalismo. “Nessuno tolga Montanelli dai suoi giardini”, ha scritto Beppe Severgnini sul Corriere. La storia è nota. Nel 1935 Montanelli, 26enne fascista, parte per il fronte africano e in Etiopia sposa una ragazza eritrea (di nome Destà), un’abitudine di molti soldati, che rimase con lui nel suo soggiorno in Africa.

Fu anticonformista e mai servo: fece errori, ma si scusò

Lungi da me l’idea di tendere una trappola a Gad Lerner: solo la curiosità di capire perché ritenga Montanelli un sopravvalutato. Curiosità ampiamente soddisfatta da questo suo articolo. Forse gli parrà strano, ma io non verserei una lacrima se la statua di Indro in bronzo ai giardini di piazza Cavour a Milano, che io trovo piuttosto bruttarella, sparisse. Credo che, se fosse vivo, lui stesso ne chiederebbe la rimozione. Ma non per i motivi “etici” sbandierati dai Sentinelli e dall’Arci, che lo incolpano di essere stato figlio del suo tempo. Bensì per motivi estetici, che per lui contavano molto più dell’etica: credevo che tutto sognasse, Montanelli, fuorché di essere ricordato con un monumento giallo simil-ottone che da lontano ricorda un grande trombone. Allergico ai pennacchi, ai galloni, alle cariche, alle onorificenze, alla retorica e al reducismo, aveva rifiutato ben più di una statua: la nomina a senatore a vita offerta da Cossiga nel 1991, la direzione del Corriere della Sera offerta da Gianni Agnelli nel 1992 e da Paolo Mieli nel ’94, la direzione de La Stampa offerta dall’Avvocato nel ’96.

Lerner lo considera un “disinvolto arci-italiano” e “apparente anticonformista” specialista della “fronda”, cioè nell’opposizione di sua maestà. Io, per come l’ho conosciuto, penso invece che fosse un anti-italiano e un anticonformista vero e ben poco disinvolto: cambiava sempre idea solo quando non gli conveniva, ritrovandosi in minoranza e rischiando parecchio, anche la pelle. L’unica sua disinvoltura era nell’arte del racconto, che lui imbellettava con dettagli falsi ma verosimili per rendere i suoi ritratti e i suoi reportage più veri. Ma nella vita e nelle scelte politiche – sempre dettate da fattori caratteriali, anzi umorali, più che ideologici – fu l’esatto opposto del frondeur paraculo. Cresciuto dentro il fascismo (era nato nel 1909 e la marcia su Roma lo colse tredicenne), subì il fascino di Mussolini (“più che fascista, ero mussoliniano”) e ne guarì proprio quando il regime toccò l’apice del successo e del consenso, cioè con la conquista dell’“Impero” in Africa Orientale, cui aveva preso parte come volontario e che aveva abbagliato persino due antifascisti come Benedetto Croce e Luigi Albertini, i quali nel 1935 avevano portato l’“oro alla Patria” con le loro medagliette d’oro di senatori.

L’orgia di retorica su quell’impresa e su quella seguente in Spagna gli instillarono i primi dubbi, allontanandolo da quel regime che intanto aveva allontanato lui. Nel 1937 la sua cronaca per il Messaggero sulla battaglia di Santander, in controtendenza con le celebrazioni ufficiali delle epiche gesta delle truppe italiane (“una lunga passeggiata con un solo nemico: il caldo”), gli valse l’espulsione dal Partito e dunque dall’albo dei giornalisti, costringendolo a espatriare in Estonia. Nel 1943, ricercato dai repubblichini e dalle Ss come complice del golpe bianco del 25 luglio, si diede alla macchia e collaborò con i partigiani di Giustizia e Libertà e con l’ufficio stampa del Cln.

Nel febbraio ’44, mentre tentava di intrupparsi in una brigata partigiana in Val d’Ossola, fu arrestato dai tedeschi e rinchiuso nelle segrete del carcere di Gallarate. E lì, anziché rivendicare la sua lunga militanza fascista, mise a verbale dinanzi alle Ss: “Non appartengo più al Pnf e mi considero in guerra con voi”. Fu condannato a morte e trasferito a San Vittore, da dove evase il 1° agosto grazie a un fascista doppiogiochista avvicinato da sua madre Maddalena. Fuggì in Svizzera e lì fece una sgradevole esperienza con gli antifascisti fuorusciti. Che lo consideravano ancora un mezzo fascista. Così nacque uno dei suoi primi e migliori libri: Qui non riposano. E anche la sua idiosincrasia per la retorica antifascista, specie in bocca a chi era stato fascista fino al 25 luglio 1943 o addirittura fino al 25 aprile 1945 e, diversamente da lui, fingeva di non esserlo mai stato. Un sentimento che, unito all’indole bastiancontraria, lo portò a minimizzare il suo antifascismo per enfatizzare l’ipocrisia di chi negava (tutti gli storici, prima di De Felice) il consenso al Regime.

Rompendo e denunciando il nuovo conformismo antifascista, Indro si sentì politicamente “apolide”, “straniero in patria”. Così come nel 1956, ai tempi della rivolta d’Ungheria, quando fu attaccato sia da destra sia da sinistra per aver scritto la verità: i rivoltosi non erano anticomunisti, ma comunisti che sognavano un socialismo diverso, riformista, autonomo dall’Urss. Come alla fine degli anni 50, quando sul giornale dell’establishment, il suo Corrierone, smascherò le collusioni fra il presidente Gronchi e l’Eni di Mattei (“l’incorruttibile corruttore”). Come negli anni 70, quando respinse le tentazioni golpiste e autoritarie della destra eversiva, ma anche la corsa sul carro dei vincitori del nuovo conformismo progressista che dominava l’intellighenzia, e fondò il Giornale per cantare fuori dal coro, sfidando anche le P38 delle Br, che lo gambizzarono proprio ai Giardini Cavour (Corriere e Stampa riuscirono a non nominare Montanelli nei titoli in prima pagina). Come negli anni 80, quando prese di petto il conformismofilo-Craxi, compare del suo editore Silvio B. E come negli anni 90, quando – unico intellettuale liberalconservatore con Sartori – si mise di traverso sulla strada delle magnifiche sorti e progressive del berlusconismo trionfante, lasciando il Giornale per fondare la Voce e poi continuando la battaglia sul Corriere fino alla morte nel 2001.

Certo, in 92 anni, commise diversi errori. Alcuni li ricorda Lerner, altri ne potrei aggiungere io (le lettere paragolpiste all’ambasciatrice americana Boothe Luce nei primi anni 50, in piena guerra fredda; la cantonata su Valpreda in piazza Fontana; l’incapacità di cogliere la svolta antimafia di Falcone e Borsellino). Ma, anche quando sbagliava, lo faceva in proprio, mai per conto terzi. Ne pagava le conseguenze. E sapeva chiedere scusa. Come quando ammise, alla luce dei documenti esibiti dallo storico Angelo Del Boca, ciò che aveva sempre negato per la sua esperienza sul campo: le armi chimiche italiane in Abissinia. Perché non era servo di nessuna ideologia e di nessun padrone. Se Gad ora scrive su un giornale senza padroni, un po’ lo deve anche a lui.

Scriveva da Dio, però non rinnegò la camicia nera

Cercherò di non cadere nella trappola che il mio nuovo direttore, Marco Travaglio, oggi mi tende, chiedendomi di motivare perché considero Indro Montanelli “oggetto di venerazione sproporzionata alla sua biografia”. Ma non tirerò indietro la mano.
Mi è dispiaciuto, infatti, che i Sentinelli e l’Arci abbiano proposto la rimozione della (bella) statua a lui dedicata nei Giardini Pubblici milanesi, non solo perché la rimozione dei monumenti è una maniera sbrigativa di fare i conti con la storia, ma anche perché ci avrei scommesso che il loro annuncio di boicottaggio avrebbe contribuito ad alimentare l’eccessiva venerazione di cui Montanelli gode.

Devo proprio cominciare dalle ovvietà? Va bene. Non ho difficoltà a riconoscerne lo straordinario talento giornalistico e la prosa sopraffina. Del resto, considero anche Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline uno dei più grandi libri del Novecento, senza che ciò mi induca a benevolenza per le idee del suo autore.

Attenzione. Non sto attribuendo a Montanelli il marchio d’infamia che resterà impresso sull’opera di Céline. C’è una bella differenza. Montanelli ha interpretato magistralmente, e disinvoltamente, il mutare dello spirito dei tempi del secolo italiano che ha vissuto, senza mai aderirvi in profondità. Semmai riuscendo sempre a non lasciarsene compromettere.

Gli concedo perfino che la vicenda riesumata in questi giorni della dodicenne etiope comprata come moglie, appartiene anch’essa a consuetudini odiose ma considerate normali all’epoca. Per completezza dovremmo aggiungere che nel 1958 Montanelli scrisse articoli di fuoco contro la legge Merlin che chiudeva le case d’appuntamento. C’è un filo di continuità: lui è appartenuto a una mentalità maschile dominante che concepiva le donne come oggetti di piacere comprabili. Era un brillante conservatore libertino, affezionato ai privilegi connessi al rango che si era conquistato col talento e con l’astuzia.

Se possiamo indicarlo tra i massimi esponenti della categoria degli “arci-italiani”, a mio parere è soprattutto per la disinvoltura mostrata nel drammatico passaggio dal fascismo alla democrazia. Nonostante il suo apparente profilo anticonformista, ha saputo intuire come pochi altri l’ostilità provata da tanti connazionali nei confronti di coloro che avevano impugnato le armi contro il fascismo, nel tentativo di riscattare il disonore dell’Italia. Credo abbiano ragione Sandro Gerbi e Raffaele Liucci quando rintracciano nei suoi libri di storia la base della sottocultura anti-antifascista che avrebbe fatto molti proseliti. La sua abilità è stata di non rinnegare l’adesione al fascismo, ma di minimizzarla, fornendo del regime una caricatura tutto sommato benevola, funzionale al bisogno di autoassoluzione da tanti condiviso.

Da frondista, ha sposato il fastidio dei più nei confronti del coraggio degli intransigenti. Quando poi la guerra fredda ha alimentato un blocco anticomunista che non guardava tanto per il sottile e reclutava al suo interno anche personaggi che liberali non lo erano affatto, Montanelli ne è diventato il paladino. Vero è che nel 1994 ha rotto coraggiosamente con Berlusconi che entrava in politica, ma nel 1981 aveva tollerato senza imbarazzo di ritrovarsi nel suo Giornale un editore iscritto alla loggia P2. E se lo è tenuto per tredici anni.

Scriveva da Dio, acuto, ironico e signorile. Figuriamoci se non ho apprezzato, nei suoi ultimi anni, la rivendicazione di una destra perbene contro una gran parte dello stesso pubblico che aveva allevato, disposto a ripudiarlo pur di osannare il Cavaliere che gli prometteva un nuovo ventennio italiano. Ha saputo scegliere di stare in minoranza, e perfino di dialogare con la sinistra che aveva sempre combattuto. Tra i suoi allievi, ha scelto Marco Travaglio e Peter Gomez, non certo Antonio Tajani e Livio Caputo. Gliene sia reso merito, e venga senz’altro riconosciuto come un maestro di giornalismo di fronte a cui siamo piccini.

Ma io continuo a preferirgli Giorgio Bocca. Anche lui da ragazzo era stato fascista. Ma poi è salito in montagna con lo sten.