Il Pd si è preso ancora tempo per valutare la candidatura di Ferruccio Sansa alle Regionali in Liguria, dove i dem dovrebbero essere alleati dei 5 Stelle. A complicare le cose, però, potrebbe essere Italia Viva, al momento fuori dai tavoli giallorosa. Ieri la deputata ligure Raffaella Paita, originaria proprio della Liguria, ha proposto al Pd di candidare Elisa Serafini. Si tratta dell’ex assessore della giunta Bucci, a Genova, che si dimise dopo aver ricevuto pressioni per organizzare una mostra, denunciando poi la sua storia come nei giorni scorsi ha raccontato “Il Fatto”. “Leggo di una discussione tutta tra uomini – ha scritto la Paita – che parla di ipotesi di candidature rigorosamente maschili. Non ho ancora capito se esiste o no il documento di intesa tra Pd e M5S. Al Pd voglio lanciare una proposta: perché non cambiate schema e sostenete una donna capace, coraggiosa e moderna come Elisa Serafini?”. La mossa sarebbe una sponda all’ala dei dem liguri dell’ex governatore Burlando, quella che Orlando sta cercando di convincere a convergere su Sansa, giornalista del “Fatto”. Ed è curioso che contro di lui si proponga proprio la Serafini, che il “Fatto” ha sostenuto nelle sue denunce.
“È folle”: tutti giù dal partito di Conte
La musica è finita, gli amici se ne vanno: neanche il tempo di iniziare e il Partito di Conte è già finito. Ma come, la lista del 14 per cento se-solo-si-presentasse, il gruppo in grado di garantire continuità politica al presidente del Consiglio, come può svanire ora che i giornali lo davano per certo? Eppure ieri lo stesso Giuseppe Conte è stato chiaro: “Sarebbe folle dedicare anche solo un minimo di energie a questi pensieri”.
E allora nella non-segreteria del non-partito, ovvero tra quelli che i retroscena indicavano come i teorici del nuovo movimento, c’è un clima a metà tra lo smarrimento di chi era lì a sua insaputa e l’euforia repressa di una festa a sorpresa riuscita male.
Uno come Bruno Tabacci, per esempio, sei volte deputato e tra i pochi superstiti in Parlamento della tradizione Dc, sembrava perfetto come cardinale Richelieu del nuovo partito. Il Giornale lo aveva indicato come tale, lui all’Huffington Post aveva confermato di vedere Conte come “leader”, ma solo “quando si tratterà di andare alle urne”. Oggi, dopo la scomunica al progetto, tiene il profilo basso e aspetta tempi migliori: “Non mi occupo di queste cose, per me ora abbiamo davanti almeno due anni di lavoro intenso. Per me è un discorso chiuso, poi più avanti si vedrà, ma solo a fine legislatura”. Chi invece ostenta lontananza da ogni trama partitica è il centrista Angelo Sanza, democristiano con nel curriculum dieci mandati alla Camera che giura di non aver nostalgia: “Sono tutte cose fantasiose, non stiamo facendo niente. Mi pare che qualcuno voglia alzare un polverone, ma noi di Centro democratico ci limitiamo a sostenere lealmente il governo. Non esistono suggestioni e non è tempo di far partiti”.
Ci si aspetta una sillaba di speranza almeno da Gregorio De Falco, il comandante della Guardia Costiera che esortava Schettino a tornare a bordo (cazzo!), ex Movimento 5 Stelle ora nel Misto, e invece niente, anche lui ha abbandonato la nave del non-partito. Peggio, giura di non esserci mai salito: “Ogni volta mi trovo ad avere a che fare con queste invenzioni. Oltretutto le mie posizioni critiche mal si sposano con questa ipotesi astratta. Non so se Conte voglia fare un partito, dar credito a queste sciocchezze mi sembra un modo per alimentare la telenovela”.
E che dire di Lorenzo Fioramonti, uno che con Conte ha governato (era ministro dell’Istruzione), poi s’è dimesso e poi doveva aderire al suo gruppo: “Ma no, ho vedute così diverse da lui. Se qualcuno ci sta pensando è legittimo, ma credo non si avvicini neanche a me”.
Sic transit gloria mundi, anche di un partito mai nato.
Da Lotito a Ghini e Cirinnà: gran lotteria dell’anti-Raggi
Fioccano, fioccano. Anche se siamo a giugno e a Roma non nevica quasi mai nemmeno d’inverno. Parliamo dei nomi per i candidati a sindaco della Capitale. Le elezioni comunali sono tra poco meno di un anno (maggio o giugno 2021) e, se per mesi è stata calma piatta, nelle ultime settimane si è scatenata la giostra del toto-nomi. Una girandola da far perdere la testa che vede coinvolti politici nazionali e locali, ex premier, presidenti di municipi, europarlamentari, ex ministri, presidenti di squadre di calcio, attori. Di tutto, di più, persino il premier Giuseppe Conte. Per i partiti conquistare il Campidoglio è sempre un segno di forza, ma è anche una grande scocciatura, come ben sa il Pd che nel 2015 impallinò un suo sindaco, Ignazio Marino, democraticamente eletto, con una baruffa rimasta negli annali di “come non si fa politica”, disse lapidario Massimo D’Alema. E lo sa pure il centrodestra, che dopo il disastroso Gianni Alemanno, nella Capitale non ha più toccato palla. Vediamo, dunque, chi si prepara a sfidare Virginia Raggi, che naturalmente vuole ricandidarsi, ma di lei parleremo più avanti.
Nel centrodestra l’ultimo nome è clamoroso: Claudio Lotito. Forte di una candidatura nel 2018 al Senato nelle liste di FI (non passò per pochi voti), qualcuno ha pensato bene di ritirarlo fuori dal cilindro, per poi rimettercelo in tutta fretta. “Così ci votano contro tutti i romanisti…”, deve aver fatto notare qualche sapientone, vista la sproporzione numerica a favore del tifo giallorosso in città. Un’idea meno stupida era forse quella di Franco Frattini. Non certo un genio, maestro di sci prestato alla politica, ma con un suo standing dovuto soprattutto al suo passaggio alla Farnesina. Pare abbia detto di no. Così come ha fatto, fin da subito, Giorgia Meloni, che Matteo Salvini voleva incastrare con una nuova candidatura romana. Forse stavolta Giorgia avrebbe più chance del 2016, quando il centrodestra compì il capolavoro di dividersi, con i berluscones a sostenere Alfio Marchini, e FdI e Lega per la Meloni. Un harakiri, speculare a quello di Marino. Ma è passata un’era geologica e adesso la leader di Fd ha ben altre ambizioni. In sua vece gira il nome di Fabio Rampelli, che gradirebbe assai, ma a Salvini non va e ogni tanto gli butta tra i piedi a mo’ di petardo il nome di Claudio Durigon, che invece è inviso a FdI. S’è parlato, a un certo punto, pure di Luca Barbareschi, che però sa di azzardo puro, come mettere una bomba atomica su un pedalò. Un nome che invece metterebbe i destrorsi d’accordo è quello di Giulia Bongiorno, ma “l’avvocato di Andreotti e Amanda Knox”, come direbbe J-Ax, ha detto no, poi ni, poi boh.
A sinistra, invece, per decidere ci si è dati ai sondaggi, da cui non è uscito granché, perché i nomi non scaldano i cuori. Né Roberto Gualtieri, che non si capisce perché dovrebbe mollare Via XX Settembre, né Roberto Morassut. Ma si è pensato pure a Enrico Letta. “Non m’interessa e non sono romano”, la risposta. Qualcuno ha guardato all’Europa, dove brillano, si fa per dire, le stelle di David Sassoli e Claudio Gentiloni. Er Moviola, ex numero due di Rutelli sindaco, conosce a memoria la macchina amministrativa e forse sarebbe perfetto, ma per ora tace e non acconsente. “Mi candido io!”, è arrivato allora l’attore Massimo Ghini, spiegando poi che “era solo una boutade per dare una sveglia ai partiti”. Poi ci sono quelli che vengono dal territorio.
Il nome più forte è Massimiliano Smeriglio, ex braccio destro di Zingaretti in Regione e ora parlamentare europeo, seguito dai presidenti del I e del III municipio, Sabrina Alfonsi e Giovanni Caudo, che però fuori dal raccordo non li conosce nessuno e forse nemmeno dentro. Da queste parti, poi, ci sarebbe pure Carlo Calenda che molto si schermisce ma in realtà s’offre, il problema è che non lo soffrono gli altri. Qualcuno ha tirato poi in ballo pure il capo della Polizia Franco Gabrielli e il solito Giovanni Malagò. E siamo già a 20 nomi: si punta a battere ogni record se consideriamo che il nome coperto del Pd sarebbe quello di Monica Cirinnà.
Infine c’è la sindaca Virginia Raggi, la cui strada non è priva di ostacoli: c’è l’eterna rivale Roberta Lombardi che non la vuole e Davide Casaleggio che ha escluso “secondi mandati”. Ma c’è pure una competitor interna, Monica Lozzi, presidente del VII municipio. “Potrei candidarmi, ma prima vengono le idee”, ha detto non più di una ventina di giorni fa.
Il Franceschini furioso avvisa “Giuseppi” sui dl Sicurezza
Dario Franceschini non ha perdonato Giuseppe Conte. Il capodelegazione di governo del Pd non riesce a digerire gli Stati generali che inizieranno oggi a Roma, a suo dire una fuga in avanti del presidente del Consiglio. E non avrebbe gradito le indiscrezioni che riferivano di un Pd inerte nel Consiglio dei ministri di giovedì. Per questo ieri ha fatto sapere di aver sollevato nodi in serie nel Cdm.
Di fronte ai ministri ha innanzitutto parlato del caso Regeni, chiedendo che il premier tenga un’iniziativa pubblica per pretendere la verità dall’Egitto sulla morte del giovane ricercatore: anche se l’Italia venderà ugualmente due fregate militari al governo di Al Sisi, e il Pd come il M5S in Consiglio non hanno fatto una piega. Soprattutto, Franceschini ha chiesto di far approvare in fretta, “possibilmente già nel prossimo Cdm”, le modifiche ai decreti sicurezza dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. Con i dem che puntano al ripristino della protezione umanitaria per alcune categorie a rischio, nonché almeno all’attenuazione delle multe per le Ong. Una mina, a poche ore dagli Stati generali. Conte sa che aria tira nel suo governo: e a Franceschini ha promesso una riunione sul tema con i capidelegazione di maggioranza, la prossima settimana. Anche se da qui alla pausa estiva in Parlamento dovranno convertire in legge almeno sette decreti. Ma visto il momento, il premier non poteva fare altro che mostrarsi conciliante. Mentre si è fatto di lato, almeno pubblicamente, l’ex capo dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio. “Luigi non vuole alimentare la tensione” raccontano fonti a lui vicine. Perché ce n’è già abbastanza.
Però non ha nessuna urgenza di discutere dei dl sicurezza, preoccupato anche di non perdere altri consensi verso destra (in direzione Fratelli d’Italia, in primis). Di certo il M5S non ha gradito l’accelerazione dei dem. Tanto che fonti qualificate dicono: “Per i 5Stelle l’unico vero tema all’ordine del giorno è la crisi e il rilancio dell’Italia, tutte le energie devono essere concentrate su questo”. Tradotto, i dl Sicurezza non sono una priorità. Però i dem vogliono andare dritti. Quei decreti vanno cambiati, e di corsa. E Conte dovrà regolarsi.
Quando Sallusti e gli altri strillavano: “Macché chiudere, lasciateci lavorare”
Ora a destra è tutta una ola, un’esultanza sguaiata per l’interrogatorio di Giuseppe Conte. “Il premier in ginocchio dai pm”, titolava ieri Libero: “Giuseppe deve rispondere della mancata zona rossa intorno a Bergamo”. Il Giornale di Sallusti scrive di una “Carta che inguaia il governo”, la dimostrazione che il Viminale non autorizzò i posti di blocco pronti a essere allestiti attorno ai primi focolai bergamaschi. E pure La Verità di Belpietro si esalta: “Conte ha bisogno di un avvocato”.
Sulle responsabilità politiche per la diffusione del virus è legittimo avere un’opinione (possibilmente senza ignorare i fatti). Meno legittimo è avere un’opinione diversa ogni settimana, come i direttori dei quotidiani di area salviniana. Oggi fanno il giro delle tv per dire che la Bergamasca doveva essere chiusa prima. Ma quando era il momento di chiudere, invece, accarezzavano le proteste di Confindustria e dei settori produttivi: quelli che volevano restare aperti a oltranza. E scrivevano questo.
Il Giornale, 28 febbraio. Titolone bold: “Isolato Conte. Il Nord riparte”. Catenaccio: “Riaprono musei e duomo, scuole in forse”. Il virus era arrivato in Italia una settimana prima, il 21 febbraio. Nei giorni successivi erano arrivate le prime chiusure e le zone “gialle” a Milano, Torino, Veneto e mezzo nord. A una settimana dal “paziente zero”, Sallusti si è già stufato. Altro che chiudere: il premier è finalmente lasciato solo in questa idea malsana, il Nord può riaprire. Nel suo editoriale il direttore è assertivo: “Il Paese non è fragile. Chi lo guida invece sì”. La soluzione: “Adesso bisogna velocemente andare oltre e tornare alla piena normalità, che è poi l’unica ricetta per sconfiggere paure irrazionali e falsi allarmismi”. Un vero profeta.
Libero, 28 febbraio. Titolone: “La normalità è vicina” (come no!). Occhiello rosso: “Il virus ci ha stufati: si torni a vivere”. Il pezzo principale è firmato Renato Farina, alias “agente Betulla”: “Non è la peste, è un’influenza”. E ancora: “Non montiamogli la testa a questo Coronavirus. Se ha la corona non è quella del re, e neanche quella del rosario, ma è un pirla di virus qualsiasi”. Due volte profeta. Nella stessa edizione c’è anche un prezioso fondo del direttore Vittorio Feltri, dal titolo: “Quando per paura di avere l’Aids ci si ammazzava”.
Libero, 27 febbraio. Il giorno prima il quotidiano di Feltri aveva una linea ancora più pirotecnica. Titolo: “Virus, ora si esagera”. Occhiello: “Diamoci tutti una calmata”. Catenaccio: “Non possiamo rinunciare a vivere per la paura di morire. I pochi deceduti erano soggetti debilitati, gli altri contagiati guariscono in fretta. Non ha senso penalizzare ogni attività”.
Ricordiamolo: sono gli stessi che oggi dicono che il governo avrebbe dovuto chiudere tutto prima.
La Verità, 27 febbraio. Anche Belpietro attacca il governo che con le prime chiusure e una “dissennata gestione della crisi, provoca danni economici ingenti e ci pone nella incredibile posizione di ‘untori’”.
Libero, 1 marzo. Qui siamo in pieno delirio alcolico. Titolo: “Reclusione continua”. Occhiello: “Il virus è una condanna”. Editoriale di Feltri: “Ma quale crisi? Facciamo finta che sia Ferragosto”.
Il Giornale, 2 marzo. Titolone in prima: “Non c’è più tempo. Fate presto”. Il catenaccio è sull’ “ira degli imprenditori”. Sallusti spiega nell’editoriale: “Pensare di salvare lo Stato e lasciar morire l’economia è pura utopia. Semmai è vero l’inverso. Salviamo a ogni costo commercio e impresa e lo Stato si salverà”.
Libero, 2 marzo. Titolo: “Lasciateci lavorare”. Occhiello: “Pressante richiesta al governo”. Catenaccio: “Dopo i veneti anche i lombardi scendono in piazza per essere liberati da alcune restrizioni. Confindustria e sindacati chiedono a Conte di riprendere l’attività”. Insomma, come diceva Salvini in quei giorni: riaprire, riaprire, riaprire.
Il Giornale, 5 marzo. Titolone: “Sanno solo chiudere”. Ah, ecco. Perché ora dicono il contrario.
47mila contagiati in azienda. A Bergamo si muore di più
Dal 16 al 31 maggio, con la riapertura di bar, ristoranti, parrucchieri e altri negozi, sono continuati ad aumentare i contagi da Covid-19 sul posto di lavoro: 3.623 in più rispetto ai primi 15 giorni di maggio per un totale di 47.022 denunce presentate da febbraio. Mentre i casi mortali sono arrivati a 208 (+37). Dal quarto report sulle infezioni di origine professionale denunciate all’Inail emerge che più della metà dei casi e quasi 6 morti su 10 si collocano nel Nord-Ovest. Ma la Lombardia vale da sola il 35,5% delle denunce e il 45,2% dei decessi con il primato negativo nella provincia di Bergamo (25 morti). Un territorio dove ora si indaga per epidemia colposa, ma che a marzo ha visto il presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti battersi “affinché la parte più produttiva del Paese non chiudesse”.
L’Inail conferma che il personale che opera negli ospedali e nelle residenze socio-assistenziali resta il più a rischio con l’81,6% delle denunce e il 39,3% dei casi mortali. Sono gli infermieri la professione più coinvolta dai contagi, con oltre 4 denunce su 10 (più di tre casi su quattro sono donne) presentate da tutti i “tecnici della salute”. Seguono gli operatori socio-sanitari con il 21,5% (l’81,5% sono donne), i medici con l’11%, gli operatori socio-assistenziali con l’8,3% e il personale non qualificato nei servizi sanitari (ausiliario, portantino, barelliere) con il 4,8%. Il restante personale coinvolto riguarda impiegati amministrativi (2,6%), addetti ai servizi di pulizia (1,8%) e dirigenti sanitari (1,1%).
Non solo camici bianchi tra le vittime. Dal report risultano coinvolti anche i lavoratori dei servizi di vigilanza, pulizia e call center con il 4,2% di denunce presentate. Tra le categorie a rischio anche gli occupati nelle industrie che non hanno mai chiuso: farmaceutiche e alimentari (2,6%). Una discreta quota di queste tragedie ha interessato le fasce più deboli e meno pagate del mondo del lavoro.
Il 71,7% dei contagiati che hanno presentato denuncia all’Inail sono donne, ma il rapporto tra i generi si inverte nei casi mortali. I decessi degli uomini, infatti, sono pari all’82,7% del totale. L’età media dei lavoratori che hanno contratto il virus è di 47 anni per entrambi i sessi, ma sale a 59 anni (57 per le donne e 59 per gli uomini) per i casi mortali. Mentre il 71,2% dei decessi è concentrato nella fascia di età 50-64 anni, seguita da quella over 64 anni (18,3%). La quota dei lavoratori stranieri è pari al 15,6% del totale delle denunce e al 10,1% dei decessi.
Le denunce di infortunio sul lavoro, però, presto potrebbero anche aumentare in modo consistente. Al momento quasi solo il personale sanitario ha avviato le pratiche per l’infortunio sul lavoro, mentre per le altre categorie a rischio c’è una procedura più lunga: devono trasformare la malattia in infortunio.
Conte sentito per 3 ore. Il pm decide sugli “avvisi”
Una giornata di interrogatori con Palazzo Chigi trasformato in sede distaccata della Procura di Bergamo. Come testimoni ieri sono stati sentiti il premier Giuseppe Conte, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e il ministro della Salute, Roberto Speranza. Tutti interrogati dal procuratore facente funzione Maria Cristina Rota che indaga sulla mancata zona rossa tra Alzano e Nembro. Chiuso il giro di colloqui, in serata, quello che è filtrato dalla Procura è questo: le ipotesi di responsabilità sono condivise tra i vari protagonisti. Tradotto: le prossime iscrizioni nel registro degli indagati, se ci saranno, riguarderanno sia il governo sia la Regione Lombardia. L’audizione di Conte è durata tre ore. “Con i pm – ha spiegato – abbiamo ricostruito tutto nei minimi dettagli”. Il premier ha spiegato che il parere del Comitato tecnico scientifico (Cts) sull’apertura della zona rossa non lo ha ricevuto il 3 marzo, ma il 5. In quel momento, spiega, i focolai in Lombardia si erano moltiplicati. Oltre a Bergamo c’erano Crema, Cremona, Pavia, Brescia. Leggendo quella nota su Nembro e Alzano, Conte solleva un dubbio: non è meglio chiudere tutta la Lombardia? La situazione in quelle ore era diversa dai primi giorni con solo due focolai precisi, Codogno e Vo’ Euganeo. La sera del 5, il ministro della Salute Roberto Speranza, anche lui interrogato ieri, chiede un approfondimento al presidente dell’Iss Silvio Brusaferro. La mattina dopo, Conte è nella sede della Protezione civile quando arrivano i dati che confermano la diffusione del Covid oltre i confini bergamaschi. Su questa base i tecnici propendono, come Conte, per una chiusura totale. Cosa messa nero su bianco in un verbale del 7 marzo arrivato a Conte in nottata. Da lì a poche ore il Dpcm firmato dal premier definirà la Lombardia zona rossa.
Dopo Conte, è toccato al ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese. Interrogatorio molto più rapido, nonostante la posizione del capo del Viminale sia quella più delicata rispetto all’invio di forze dell’ordine a Bergamo il 3 marzo. Circa 300 persone. Invio del quale Conte ha detto di non essere mai stato informato, così come il capo del Viminale. La spiegazione data ai pm è questa: la scelta di mandare donne e uomini a Bergamo fu fatta in autonomia dai vari comandi generali per portarsi avanti e non trovarsi impreparati quando fosse arrivato l’ordine di cinturare. Ordine che non arriverà. Al ministro Speranza è stato chiesto del vertice del 3 marzo avvenuto a Milano con la task force regionale. In quelle ore si stava decidendo cosa fare visto che i casi a Bergamo erano in crescita. “Le audizioni si sono svolte in un clima di massima collaborazione istituzionale”, ha commentato il procuratore. Il fascicolo è incardinato a modello 44 cioè con il reato di epidemia colposa ma contro ignoti. Tre i filoni: la zona rossa, i morti nelle Rsa e la mancata chiusura dell’ospedale di Alzano.
Sul tavolo il procuratore ha un’opzione. Se iscriverà lo farà per tutti, rappresentanti del governo e della Regione. Dopodiché però bisognerà capire la competenza territoriale: Bergamo, Milano, Roma e come spiegare il nesso di causalità tra il numero di morti e la mancata zona rossa. Insomma non è facile. Il 29 maggio dopo l’interrogatorio di Attilio Fontana, il magistrato aveva parlato di “scelta governativa”. Ieri ha spiegato: “Io avevo detto che dalle dichiarazioni che avevamo in atto c’era quella in quel momento”. Ci sono, per la Procura, due piani di responsabilità. Quello regionale dato dal fatto che, in base alla legge del 1978, il presidente della Regione può istituire autonomamente una zona rossa. Cosa che Fontana e l’assessore Gallera non hanno fatto.
Ma c’è poi quello che è avvenuto tra il 3 e il 7 marzo, cioè la scelta di inviare a Bergamo 300 unità tra carabinieri, polizia e finanza prima che fosse ufficializzata la zona rossa. Cosa che se pur avvenuta in via autonoma come spiegato da Conte deve, secondo i pm, essere arrivata al Viminale. Anche per questo, a quanto risulta al Fatto, non vi è documentazione che attesti la decisione di procedere. Una catena di comando che si è sviluppata oralmente, ammassando personale e spedendo in borghese carabinieri e poliziotti a fare i sopralluoghi in attesa del semaforo verde mai arrivato. Ma fu solo la zona rossa di Bergamo a far da volano al Covid? Quando fu chiuso il Basso lodigiano, Lodi rimase fuori. Fatto che potrebbe aver allargato il contagio a Milano: 10 mila cittadini di Lodi ogni giorno si spostano nel capoluogo lombardo per lavoro.
Ignis, l’ibrido leggero: convince e non impegna
Mascherine sui volti dei manager Suzuki e dei giornalisti. Saluti col gomito e apparecchi pronti per l’igienizzazione delle vetture dopo ogni prova. È iniziata con questo scenario, alle porte di Torino, la presentazione alla stampa italiana della nuova Ignis Hybrid, che passerà alla storia come prima vettura al centro di un evento “live” ai tempi del coronavirus. La seconda generazione del piccolo suv è disponibile solo ibrida, come tutte le Suzuki (Jimny a parte), e in tempi normali sarebbe perfetta per spopolare nello spurio ruolo di sport utility urbano, ideale per i parcheggi con il suo ridotto raggio di sterzata e divertente pure nell’off-road non estremo. Ma nulla è normale, oggi, ricorda il presidente di Suzuki Italia, Massimo Nalli, sottolineando come le immatricolazioni in Italia siano calate del 50,45% nei primi cinque mesi del 2020, e sollecitando il governo a intervenire con incentivi per tutto il settore auto: “Annunciandolo 5 secondi prima di farlo. Altrimenti la gente, in attesa dell’aiuto pubblico, magari rinvia un acquisto già deciso”. Suzuki arriva da un buon 2019, in cui ha superato il 2 per cento di quota del mercato tricolore, con oltre 38 mila immatricolazioni, e oggi va meno peggio del mercato. Aver puntato sull’ibrido paga: la motorizzazione è di moda e gode (in alcuni casi) di incentivi statali e anche, a macchia di leopardo, di agevolazioni regionali/comunali, dall’esenzione dalla tassa di proprietà all’accesso alle ZTL o al parking gratis tra le strisce blu.
New Ignis, che sarà la best seller Suzuki in Italia, s’è abbellita accentuando il look fuoristradistico con le piastre paracolpi e modificando il muso, ora con la griglia a elementi verticali che la accomuna alle altre Suzuki. Ultraconnessa e dotata dei marchingegni tipici della guida semiautonoma, ha la trazione anteriore o integrale e può avere pure il cambio automatico. Il quattro cilindri 1.200 benzina è coadiuvato da un sistema che fa da alternatore, motorino d’avviamento ed elettrico, alimentato da batterie con amperaggio triplicato. Risultato: più spunto e meno carburante. Consuma infatti il 26,3% in meno della versione benzina andata in pensione e il 10,6% in meno della precedente ibrida. Nella fase di lancio i prezzi partono da 14.500 euro. Nalli vuole vendere 10 mila Ignis quest’anno e 12 mila nel 2021. Pandemia permettendo.
Audi e-tron Sportback, il suv diventa coupé e prende la scossa
Prendi un suv, che magari qualcuno storcerà il naso ma al mercato piace e non tradisce mai. Dagli linee filanti, un tetto rastremato e un profilo modaiolo da coupé. Poi aggiungi elettroni, quattro ruote motrici e ogni possibile diavoleria nell’infotainment e nella sicurezza, condendo il tutto con il sapore agrodolce del lusso. Dove l’agro è senza dubbio il listino, che, complici le batterie, parte da 75.400 euro, ma il dolce è un’esperienza di guida fuori dal comune.
L’ultima arrivata in casa Audi, la e-tron Sportback, va però oltre i riassunti stringati. È lunga 4 metri e 90, ha spazio interno da vendere e presenza esterna imponente ma non invasiva, quasi a richiamare il carattere di una tecnologia, quella elettrica, che fa dell’impatto zero (sull’ambiente, in questo caso) la sua bandiera. E di una strada ben illuminata, la via maestra: i fari a led Digital Matrix riflettono la luce da un milione di specchi microscopici, che cambiano posizione 5.000 volte al secondo. E la notte diventa giorno.
L’aerodinamica, poi, è ispirazione. Nel senso che ogni superficie, visibile e non, è frutto di un compromesso (che vale 45 km di autonomia in più a ogni pieno) tra design in senso stretto e ottimizzazione dei flussi. Compresa la scelta di sostituire gli specchietti laterali con telecamere ad alta definizione, dalle forme molto più affusolate, che proiettano le immagini su schermi piazzati in alto sugli sportelli. Posizione un po’ scomoda, ma ci si abitua.
Dagli schermi sugli sportelli a quelli sulla plancia. Sono due e tattili: quello superiore più grande gestisce l’infotelematica, mentre da quello in basso si regolano climatizzazione e parte della navigazione. Tutto hi-tech, ma intuitivo e tutto sommato semplice da utilizzare. Per non parlare dei sistemi di sicurezza attiva e passiva: sono una messe, e per elencarli tutti ci vorrebbe un trattato.
Ha due motori, la e-tron Sportback. Sono posizionati su ognuno dei due assi, il che garantisce un funzionamento ottimale della sofisticata trazione integrale elettronica: i sensori analizzano continuamente le condizioni del fondo stradale, asfalto e non, e regolano la trazione (come pure le sospensioni) adattando la coppia su ogni singola ruota in 30 millesimi di secondo. Un battito di ciglia.
La versione 55 Quattro, oggetto della nostra prova, ha una potenza di 408 cavalli (la 50 ne ha 313), che consentono uno scatto da 0 a 100 in 5,7 secondi e una velocità di punta che solo l’autolimitazione frena a 200 chilometri orari. Il crescendo è impressionante, come solo la funzione di coppia lineare tipica dei propulsori a batteria sa offrire. Stabilità e tenuta sono convincenti, nonostante una massa imponente, mentre da sottolineare è l’interpretazione del cosiddetto “one pedal feeling”: al rilascio dell’acceleratore, la decelerazione rigenerativa delle batterie non comporta una frenata brusca bensì un rallentamento graduale. A proposito di batterie, infine: l’autonomia sulla 55 è di 440 chilometri, mentre per avere l’80% del pieno ci vuole circa mezz’ora. Una scossa veloce.
Dai Nobel a Belén: Novella2000, cent’anni di dive e letterati
Chissà se Belén Rodríguez sa di avere qualcosa in comune con la scrittrice Grazia Deledda (e no, non è questo il caso di chiedersi – con l’aria di chi lancia un’assai prevedibile boutade – se Belén sappia o meno chi è Grazia Deledda). E chissà se il suo ex-poitornatoacasa-oraforsedinuovoex marito Stefano De Martino sa di avere qualcosa in comune con lo scrittore e drammaturgo Luigi Pirandello (e no, neanche qui è il caso di chiedersi alcunché). Cosa mai sarà, dunque? Un indizio: non è il Premio Nobel per la Letteratura che Grazia e Luigi hanno vinto – rispettivamente nel 1926 e nel 1934 – e che Belén e Stefano a occhio e croce non vinceranno mai, nonostante l’argentina abbia poche settimane addietro dichiarato di aver pronto un libro (un altro, dopo il flop di Bella).
Ma è Novella2000. Eh già: tutti e quattro ci sono finiti in copertina. Pubblicata per la prima volta il 25 giugno 1919, a un anno dalla fine della Grande guerra, Novella nasce quale rivista letteraria (nomen omen), dall’impegnativo sottotitolo: “Fascicolo mensile di novelle dei migliori scrittori italiani”. Sulla scia dei feuilleton francesi, pubblica racconti di Marino Moretti, Salvator Grotta, Ferdinando Paolieri, Luciana Peverelli, Giorgio Scerbanenco, Milly Dandolo, Gabriele D’Annunzio, oltre che Deledda e Pirandello, divenendo quindicinale vista l’ottima accoglienza e poi settimanale.
A leggere cotanti nomi (soprattutto se confrontati alle copertine degli ultimi anni con Salvini sul lettone, Rocco Siffredi e le sue pagelle di eros, o Pamela Prati col suo “sposo fantasma”) sembra di parlare di tutto un altro giornale. Lo stesso Roberto Alessi (attuale direttore) ci ricorda nell’introduzione che la rivista per come la conosciamo nasce nel 1967 quando Enzo Biagi, allora direttore dei periodici Rizzoli, la ribattezza Novella2000 riposizionandola come sfoglio di cronaca rosa. Eppure, ci permettiamo di dissentire. Sin dai suoi esordi, Novella ha infatti in animo il costume che non perderà mai: il racconto delle dive. Cos’altro erano Deledda, D’Annunzio e Pirandello – oltre che i più importanti scrittori del primo 900 – se non tre litigiose dive? Pirandello sente d’esser lui l’autore italiano più internazionale (acclamato nella raffinata Francia, nella colta Germania e fino ai pop Stati Uniti), ma Deledda ha più successo in patria, grazie anche al marito Palmiro che le fa da agente. Pirandello, forse per gelosia del successo professionale e soprattutto famigliare della scrittrice sarda (lui è sposato con la povera Antonietta, una donna instabile di mente), alle spalle nei salotti lo chiama “Grazio Deleddo”, e lo sbeffeggia nel romanzo Suo marito, che Deledda però blocca presso l’editore Treves. Quando poi, Grazia vince il Nobel, Luigi va su tutte le furie: incolpa Mussolini d’aver impedito che andasse a lui per non far ingelosire D’Annunzio, caro amico del duce e da lui stipendiato. Gabriele nel frattempo posa per Novella in una delle sue celebri mosse da seduttore. L’autore de Il Piacere, il Nobel non lo vincerà mai, accusa l’amico Mussolini di gelosia per via del suo carisma e mal sopporta Grazia e Luigi.
E girovagando tra gli anni di questo 900, ecco altre dive sulle pagine di Novella: alcune splendenti ma sfortunate come Grace di Monaco o Lady Diana; altre bellissime e scandalose come Paola Borbone, Sophia Loren, Raffaella Carrà, Sandra Milo. Ma un divo di stile è stato anche l’Avvocato Agnelli, nello sport di certo Fausto Coppi, e nella letteratura del secondo 900 l’irregolare Pasolini. Ma soprattutto dive litigiose: Mina e Iva Zanicchi, star dell’etichetta discografica Ricordi; oppure la Callas e Jacqueline Kennedy, che si scippano di mano quel già sessagenario di Onassis sul suo yatch. Fino ad arrivare agli anni 2000 con influencer vari e mogli di calciatori.
Da come cambiano i personaggi aureolati alla copertina di Novella2000, da sempre irriverente termometro del nostro costume, si modifica pure il concetto di divismo. Ieri era uno status non da tutti, cui si accedeva con una formidabile bellezza, una carriera internazionale, un talento abbacinante e una non indifferente dose di coraggio. Oggi, invece, in questi mala tempora quell’ideale s’è squagliato. Basta una lite in Tv, qualche follower o un cornino per salire sul carrozzone dei famosi. Ma Novella2000 lo sa fin troppo bene: da un lato, infatti, racconta e dall’altro se la ride… da ben cento anni!