Zoom stacca la spina ai dissidenti

All’appuntamento su Zoom per ricordare la strage di piazza Tienanmen avrebbero partecipato la madre di un manifestante ucciso, un dissidente di Pechino che, per aver partecipato a quei giorni di protesta, ha trascorso 17 anni in carcere, e alcuni leader degli studenti dell’epoca. Era tutto pronto, ma la piattaforma per i video incontri ha staccato la spina. Dopo la censura del Dragone rispetto all’anniversario del massacro – ancora oggi non si conosce il numero dei morti – e il divieto di manifestare a Hong Kong – divieto poi in parte ignorato il 4 giugno, con un raduno a Victoria Park – ai dissidenti è toccato subire anche la censura su Zoom. Una delle piattaforme più utilizzate per le videoconferenze, che ha avuto gran successo in periodo di lockdown, ha giocato un brutto scherzo agli attivisti; la vicenda è stata raccontata dal South China Morning Post, e la stessa compagnia ha ammesso di aver sospeso, e poi riattivato l’account, di un gruppo che negli Stati Uniti aveva organizzato il 31 maggio un evento in ricordo del 4 giugno 1989; all’incontro si erano iscritte 250 persone, alcune delle quali anche dalla Cina, sfidando le imposizioni di Pechino. Zhou Fengsuo, presidente di Humanitarian China, ha ribadito al giornale di Hong Kong che per la prima volta tante figure legate al movimento pro democrazia del 1989 avrebbero potuto riunirsi e confrontarsi su quello che accadde, e su come la Cina oggi utilizzi ancora strumenti di pressione, come nell’ex colonia britannica. L’offensiva non ha riguardato solo l’appuntamento dei vecchi attivisti di piazza Tienanmen; altre due vicende, molto simili, sono state raccontate daI Washington Post: il 22 maggio dopo 30 minuti dall’inizio di un collegamento con Jimmy Sham, dissidente di Hong Kong, la linea è stata interrotta, e il 3 giugno è stato disattivato un account dove era in corso un’altra commemorazione di Tienanmen con la partecipazione di circa 200 persone. Laconico il commento della piattaforma rispetto agli articoli dei due giornali: “Ci dispiace che alcuni recenti incontri con partecipanti sia all’interno che all’esterno della Cina siano stati colpiti in negativo e che siano state interrotte conversazioni importanti. Non abbiamo il potere di modificare le leggi dei governi contrarie alla libertà di espressione. Tuttavia Zoom si impegna a modificare i propri processi per proteggere ulteriormente gli utenti da coloro che desiderano bloccare le loro comunicazioni”. Che vi sia la necessità di trovare un modo per tenere vivo il dissenso quando in pericolo vi sono libertà individuali e di espressione lo confermano indirettamente le cifre fornite dalla polizia di Hong Kong dopo un anno di contestazioni sulla legge che avrebbe permesso l’estradizione verso Pechino: tra il 9 giugno 2019 e il 31 maggio 2020 sono state arrestate 8.986 persone.

Trump riparte da Tulsa: dove i neri furono trucidati

La notte tra il 31 maggio e il 1° giugno 1921, migliaia di bianchi furibondi devastarono, incendiarono, saccheggiarono un quartiere nero di Tulsa, in Oklahoma: Greenwood, chiamato “Black Wall Street”, era a quei tempi abitato dalla più vasta comunità afro-americana dell’Unione. Il bilancio – accertato poi dagli storici – fu di circa 300 morti, centinaia di feriti, oltre 6000 residenti arrestati, 35 isolati distrutti. Le prime stime ufficiali censirono 39 vittime. Ci sono voluti 80 anni perché, nel 2001, un rapporto ufficiale accertasse la verità storica sulla strage di Tulsa. Tutto era cominciato, nella settimana del Memorial Day, dal sospetto che un nero avesse violentato, in ascensore, un’adolescente bianca e dal tentativo di linciaggio del presunto colpevole. La furia della folla non trovò un freno nella polizia. Ora, Donald Trump, che ha fretta di lasciarsi alle spalle i capitoli coronavirus e razzismo, da cui esce con un pesante ritardo nei sondaggi sul suo rivale Joe Biden, vuole riprendere campagna e comizi e ha deciso di ripartire proprio da Tulsa, fra una settimana, il 19 giugno; seguiranno poi meeting in Florida, Arizona e North Carolina. Non è chiaro se la scelta di Tulsa sia una provocazione verso i neri, dopo due settimane di proteste per l’uccisione di George Floyd a opera della polizia a Minneapolis, il 25 maggio, nel Memorial Day, o nasca da una mancanza di sensibilità per la storia.

La composizione della popolazione della città ancora risente dei fatti del 1921: i neri sono oggi meno del 16%, poco più dei latinos; i bianchi oltre il 60%; i nativi il 5%, anche se tutta la toponomastica viene dalla tribù dei Creek che vi s’insediò nella prima metà del XIX Secolo. Pretenziosamente soprannominata “capitale mondiale del petrolio” nella prima metà del Novecento, Tulsa è oggi la seconda città dell’Oklahoma per abitanti – 403 mila residenti, quasi un milione nell’area metropolitana – e una delle 50 più grandi dell’Unione. E solo di recente ha “fatto i conti” con il suo tragico passato, che per decenni aveva quasi cancellato. La scelta di Trump di lanciare qui la fase “post pandemia” della sua campagna rischia di riaccendere memorie e tensioni, quando si sono appena attenuate le manifestazioni anti-razziste per l’uccisione di Floyd. Con una decisione inedita, i repubblicani hanno sdoppiato la loro convention: ce ne sarà una a fine agosto a Charlotte, in North Carolina, come già previsto, ma in scala ridotta, appena 366 delegati invece delle consuete migliaia, per rispettare le norme anti-coronavirus imposte dal governatore dello Stato, il democratico Roy Cooper. Trump farà però il discorso d’accettazione della nomination, senza restrizioni di sorta, a Jacksonville, in Florida. Lunedì, emissari repubblicani hanno compiuto un sopralluogo in città e nei dintorni per verificare se vi possano alloggiare le circa 50 mila persone attese. La Florida è uno degli Stati in bilico di Usa 2020.

Cattivo perdente, il presidente fa chiedere dai suoi legali alla Cnn di ritirare l’ultimo sondaggio, che lo dà 14 punti dietro il democratico Joe Biden nelle intenzioni di voto dell’elettorato. L’emittente ha respinto la richiesta. L’atteggiamento di Trump induce Biden ad affermare in un talk show che “questo presidente tenterà di rubare le elezioni”, esprimendo preoccupazioni per l’equità del processo. L’ex vice di Obama teme addirittura che il magnate si rifiuti di lasciare la Casa Bianca, se sconfitto, ma è pronto a farlo scortare fuori dai militari se necessario. Biden non era mai stato così duro nei confronti di Trump, anche se ad aprile aveva già manifestato il timore che il magnate avrebbe cercato “un modo di rinviare le elezioni”. L’accelerazione della campagna da parte del presidente non tiene conto dei dati della John Hopkins University: il numero dei contagi ha superato i due milioni e quello dei decessi i 113 mila, con i casi in aumento in 21 dei 50 Stati.

Amazon, Ibm e Microsoft: niente software alla polizia

La prima è stata Ibm: si è imposta uno stop alla fornitura della tecnologia di riconoscimento facciale alla polizia americana per scopi di sorveglianza. Ieri Amazon ha fatto lo stesso decidendo di vietargli l’uso del suo software “Rekognition” per un anno. La soluzione del gigante dell’e-commerce potrebbe infatti essere in dotazione a molti distretti americani (il numero non è stato specificato) e la scelta arriva in risposta alle preoccupazioni di chi teme che possa essere utilizzata per identificare i manifestanti e gli attivisti scesi in strada per sostenere il movimento Black Lives Matter. Inoltre, si tratta anche di una iniziativa coerente con il sostegno che lo stesso fondatore Jeff Bezos (nella foto) aveva dato al movimento. Rekognition non è una novità: fa parte di Amazon Web Services, la divisione di cloud computing del colosso di Seattle. È stata lanciata nel 2016 e pur nascendo come un servizio per aiutare nell’analisi delle immagini online o nel rilevamento di elementi, scene e volti, in sostanza sfrutta l’apprendimento automatico per confrontare rapidamente un’immagine acquisita e cercare una corrispondenza nei database, che possono anche essere composti da foto prese online. “Stiamo spingendo per normative governative più rigorose sull’uso etico delle tecnologie di riconoscimento facciale e il Congresso sembra pronto a raccogliere la sfida – ha commentato la multinazionale – Speriamo che questa moratoria di un anno possa dare al Congresso tempo sufficiente per attuare le regole appropriate e siamo pronti a fornire aiuto se richiesto”. È stata la scelta più naturale per Amazon. Oltre le posizioni d’idee, le criticità verso la tecnologia sono molteplici e si sarebbe potuta trovare presto in un vortice di polemiche. In giornata è poi arrivata l’adesione anche di Microsoft: niente riconoscimento alle forze dell’ordine.

Il riconoscimento facciale da parte delle forze dell’ordine è infatti una pratica da molti ritenuta opinabile per quanto riguarda i diritti umani e soprattutto in assenza di un vero dibattito sulla sua applicazione e la sua etica. Più nello specifico, poi, questa tecnologia ha mostrato molti limiti nel riconoscimento delle persone di colore. Uno studio realizzato da una ricercatrice del Mit Media Lab ha mostrato ad esempio come il riconoscimento degli uomini e delle donne con la pelle bianca sia più preciso rispetto a quelli con la pelle scura. Meglio non rischiare, insomma. E aderire a una giusta causa.

Benalla: basta pugni, meglio la sicurezza artificiale

È tornato Alexandre Benalla. È Mediapart a darci notizie dell’enfant terrible della “macronia”, che avevamo lasciato alle prese con diversi guai giudiziari. Il giornale d’inchiesta online ha ritrovato l’ex pupillo di Emmanuel Macron, finito in disgrazia, mentre si sta ritagliando un posto di primo piano nel settore dell’intelligenza artificiale, grazie ad amicizie altolocate, mai troppo lontane dall’Eliseo. Chi è Benalla? Il suo nome era finito sui giornali di tutto il mondo nel luglio 2018, quando il sito di Le Monde aveva pubblicato un video in cui si vedeva lo stretto collaboratore del presidente Macron, giovanissimo responsabile della sicurezza per l’Eliseo, all’epoca 26 anni, mentre picchiava dei manifestanti durante il corteo del primo maggio, a Parigi. Portava la fascia al braccio da poliziotto senza essere della polizia. Si seppe poi che all’Eliseo tutti erano al corrente di quell’episodio, ma nessuna inchiesta era stata aperta e Benalla era stato solo sospeso per un breve periodo.

La vicenda sarebbe rimasta segreta se non fosse stato per quel video girato con uno smartphone e circolato sui social prima di essere ripreso da Le Monde due mesi e mezzo dopo i fatti. Solo nel pieno dello scandalo, monsieur sécurité fu licenziato. Uno scandalo che l’Eliseo avrebbe volentieri evitato e che rappresentò un primo colpo duro alla popolarità di Macron, arrivato all’Eliseo poco più di un anno prima, poi intaccata da altri fatti, le proteste dei Gilet gialli, gli scioperi e più di recente dalla gestione della crisi del Covid-19.

Tra alti e bassi, la popolarità del presidente non si è mai davvero ripresa e, anche in sondaggi recenti, resta al di sotto del 40%. Come ricorda Mediapart, su Benalla pesano ancora diverse procedure giudiziarie, tra cui quella per violenza, legata ai fatti del primo maggio. Ora, con la sua società Comya Group, avrebbe cominciato a collaborare con XXII, giovane start-up francese basata a Suresnes, presso Parigi, specializzata nel settore dell’intelligenza artificiale. XXII lavora tra gli altri con Airbus, Aéroports de Paris ed enti locali “in vista di sviluppare delle safe cities – scrive Mediapart –, delle reti urbane per la sicurezza basate sul riconoscimento facciale”.

L’aggancio sarebbe stato Romain Chantemargue, ex assistente parlamentare di Joachim Son-Forget, deputato fino al 2018 di LaRem, il partito di Macron. Mediapart racconta che in un primo tempo Chantemargue avrebbe proposto a William Ekdin, patron di XXII, di incontrare Macron in persona, ma che alla fine l’incontro si è fatto, il 26 maggio, con Benalla. Il giornale ricorda che, dopo lo scandalo, la Commissione di deontologia della funzione pubblica aveva vietato all’ex braccio destro del presidente di stringere un qualunque tipo di rapporto lavorativo con i servizi dello Stato francese.

Un divieto di tre anni che vale fino al primo agosto 2021 “ma che non è oggetto di nessun tipo di controllo sistematico”. A Mediapart Benalla assicura di rispettare “pienamente” le regole: “Non ho più nessun legame con l’Eliseo”, aggiunge. Invece per William Ekdin incontrare Benalla era interessante proprio perché “non è così lontano dall’Eliseo”. Due anni dopo Macron non riesce ancora a scrollarsi di dosso il Benallagate che, rivelazione dopo rivelazione, si era trasformato in un tentacolare scandalo di Stato. Diverse figure vicine al presidente, compreso il suo direttore di gabinetto, Patrick Strzoda, e il segretario generale dell’Eliseo, Alexis Kohler, erano stati convocati nell’ambito dell’inchiesta. Resta ancora il mistero sulla cassaforte con le armi mai trovata dagli inquirenti durante le perquisizioni della casa dell’ex uomo di fiducia di Macron. E resta il mistero anche su come Benalla abbia potuto usare i suoi passaporti diplomatici per viaggi d’affari all’estero anche dopo aver lasciato l’Eliseo.

Dopo settimane di silenzio, Macron era dovuto intervenire: “Il solo responsabile sono io”. Ora Benalla è persino il protagonista di un fumetto, scritto dagli stessi giornalisti di Le Monde che fecero lo scoop.

Leggi in lockdown: riscatti, infermieri e smartworking

Avvertite il senatore di Forza Italia Massimo Mallegni che vorrebbe tornare al 1977 e vedere finalmente ripristinare le feste di San Giuseppe, dell’Ascensione, del Corpus Domini e pure dei Santi Pietro e Paolo su tutto il territorio nazionale. Solo pochi banchi lo dividono da Iunio Valerio Romano del Movimento 5 Stelle. Ma la distanza è più che mai siderale: pure lui durante il lockdown imposto dalla tragica emergenza da coronavirus si è dato da fare. Ma per vergare una proposta che va in direzione opposta: cambiare la Costituzione per farla somigliare a quella francese in modo che l’Italia non sia più solo una Repubblica democratica fondata sul lavoro, ma pure espressamente laica. Una svolta, anche se ogni cambiamento può trasformarsi in un campo minato. Ne sa qualcosa Gian Mario Fragomeli del Pd, che pochi giorni dopo il 25 aprile ha depositato alla Camera un disegno di legge che per Giorgia Meloni e i suoi Fratelli d’Italia è peggio di una bestemmia: istituzionalizzare “Bella Ciao” e farlo eseguire durante la Festa della Liberazione dal momento che, almeno a sentir lui, è divenuto “espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della nostra Repubblica ed è quindi patrimonio di tutte le forze democratiche”.

Insomma durante l’emergenza i parlamentari si sono sbizzarriti anche se ora bisogna trovare i numeri per quagliare e trasformare proposte e desideri in legge. Da questo punto di vista l’Istituzione della giornata per celebrare l’impegno dei camici bianchi sul fronte del coronavirus è già a buon punto: manca solo l’ok della Camera dopo che il Senato l’ha approvata in un batter d’occhi, anche se con strascichi polemici. Perché la proposta, essendo ad alto tasso di popolarità, ha scatenato una mezza faida sulla sua primogenitura: la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati ci ha messo il cappello con buona pace della sua collega di partito Urania Papatheu, che raccogliendo l’appello del regista Ferzan Ozpetek, per prima a Palazzo Madama aveva proposto il 20 febbraio come data simbolo del sacrificio degli operatori sanitari italiani. Ma l’accelerazione ha messo in fuori gioco soprattutto Montecitorio dove l’altro forzista, Giorgio Mulè, aveva bruciato davvero tutti sui tempi. Ma tant’è: ormai al Senato hanno fatto prima.

Ma se la tempistica fa litigare, figurarsi quando le proposte, diciamo così, sono divisive. Non sfugge a nessuno quale sia l’idea di fondo di Riccardo Molinari della Lega che chiede di istituire una commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza da parte del governo: trasformarla in una clava politica per Giuseppe Conte e i suoi ministri. Altre iniziative hanno invece fatto storcere il naso alle Regioni: ai governatori, specie quelli più impegnati sull’autonomia, è venuta l’orticaria solo all’idea che in Costituzione venga inserita la clausola di supremazia statale. Venuta in mente ad esempio a Dario Parrini del Pd anche di fronte allo spettacolo offerto da chi tra gli amministratori locali pretendeva di andare in ordine sparso sulla tempistica della riapertura dopo la quarantena.

L’emergenza non è ancora finita ma oltre alle ferite ci ha già regalato alcune eredità: regole di sicurezza e soprattutto nuovi strumenti, come Immuni, il sistema di tracciamento che segnala con chi veniamo in contatto. Cosimo Maria Ferri di Italia Viva, uno dei protagonisti delle chat del Palamara-Gate, ne ha intuito immediatamente le potenzialità: sua una proposta di legge per garantire la riservatezza anche per le app scaricate sul telefonino. E che dire dello smartworking? Sabrina Ricciardi del M5S chiede al governo di codificare finalmente il diritto alla disconnessione, anche alla luce degli studi più recenti in materia di lavoro: perché è un fatto che il cosiddetto lavoro agile sfuma la differenza tra tempi di vita e tempi di ufficio se è vero che negli Stati Uniti è più il tempo che si dedica a controllare le mail che quello dedicato alle ferie. Argomento insomma delicatissimo. Ma niente a confronto di un altro tema che pure ha stimolato l’iniziativa dei parlamentari in quarantena: la liberazione della cooperante Silvia Romano è stata obiettivamente l’unica buona notizia di quei giorni bui. Ma se la gioia è stata pressoché unanime, dalle parti di Forza Italia si chiede di cambiare registro: per il senatore Andrea Cangini per esempio è il caso che chi parte per aiutare gli ultimi a casa loro ci pensi due volte se si tratta di paesi a rischio. Ma soprattutto che metta in conto di dover pagare il riscatto di tasca propria in caso di rapimento.

Nicola Gratteri in Antimafia: “Csm, la madre delle riforme”

Potrà essere celebrato a Catanzaro il maxiprocesso “Rinascita-Scott”, nato dall’inchiesta del procuratore Nicola Gratteri. Lo ha detto ieri lo stesso magistrato alla Commissione parlamentare antimafia. Era stato il presidente Nicola Morra a convocarlo tre giorni fa, appena letto delle sue lamentele per la mancata individuazione, da parte del ministero della Giustizia, di un’aula bunker per ospitare 600 persone circa. Ma l’sos di Gratteri ha fatto muovere anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Due giorni fa – ha raccontato all’Antimafia Gratteri – ho avuto un incontro con il ministro, gli ho premesso che ricordavo bene quando aveva raccomandato ai suoi collaboratori di stare vicini alla procura di Catanzaro, ma gli ho detto che, invece, non ci hanno ascoltato: dal discorso dell’aula bunker”, posto un anno e mezzo fa, “al problema della sezione di polizia giudiziaria, a Catanzaro abbiamo 18 ufficiali in meno, fino alle questioni della macchina blindata (appena risolta, ndr) e delle piante organiche”. Gratteri ha aggiunto che Bonafede “dispiaciuto, ha convocato i suoi collaboratori. Nelle ultime 48 ore al ministero è successo il finimondo”. Per Gratteri, la tendostruttura va bene nell’immediato ma l’obiettivo è avere un’ aula bunker . La soluzione c’è: “Dietro al Tribunale dei minori c’è un campo di calcio e una struttura del Dap” mai utilizzati. Il procuratore, su domande dell’Antimafia, parlando dello scandalo nomine dei magistrati, si è schierato con chi vuole il sorteggio per eleggere i consiglieri del Csm, metodo non previsto dalla bozza di riforma Bonafede, per il no del Pd e dell’Anm. “Quella del Csm è la mamma delle riforme, bisogna creare un sistema tale, ha detto Gratteri, per cui le correnti abbiano meno poteri. Prevedere collegi come per il Parlamento europeo, per macro aree. Si eliminano i magistrati con arretrati spaventosi, con procedimenti penali e disciplinari e poi si sceglie a sorteggio”.

“33 mila euro al conferenziere Renzi”. Sospetti di Bankitalia, Firenze indaga

Tutto sarebbe partito da una segnalazione di operazione sospetta inviata l’8 aprile scorso da un istituto di credito italiano e diretta all’Ufficio anti-riciclaggio della Banca d’Italia (Uif): l’Sos riguarda un bonifico da 75.000 euro indirizzato alla “Carlo Torino e associati” dalla Salt venture Group Llc, la società statunitense di comunicazione e marketing di Anthony Scaramucci, ex manager di Goldman Sachs e per soli dieci giorni capo della comunicazione di Donald Trump alla Casa Bianca. Una parte di quei soldi è finita (lecitamente) poi a Matteo Renzi per la sua partecipazione a una conferenza organizzata da Salt: con ogni probabilità quella che si è tenuta ad Abu Dhabi dal 9 all’11 dicembre scorso a cui ha partecipato anche l’ex ministro delle Finanze britannico Phillip Hammond e l’ex capo di gabinetto di Trump, John Kelly, per parlare di “futuro dell’economia globale, delle nuove opportunità di investimenti, energia, geopolitica e di tecnologia finanziaria”.

Dalla segnalazione dell’Uif su Carlo Torino – rivelata ieri da La Verità – è nata un’inchiesta della Procura di Firenze. L’indagine è emersa dopo l’acquisizione di documenti da parte degli investigatori in un istituto bancario di cui sono clienti Carlo Torino, il fratello Flavio e il padre Antonio. Secondo la segnalazione della banca riportata dal quotidiano, i tre sono “interessati dal procedimento penale 1836 del 2020 modello 21 (con indagati, ndr)” della Procura di Firenze. L’attenzione è caduta dunque sui 75 mila euro pagati dalla Salt Venture e finiti sui conti della Carlo Torino e associati. “Tale provvista – si legge nella segnalazione sospetta riportata da La Verità – risulta in seguito parzialmente utilizzata tramite la disposizione di due bonifici per complessivi 33.000 euro circa a favore del senatore Matteo Renzi, noto politico italiano”. E ancora, riferendosi all’accordo: “In sede di adeguata verifica di tale operatività, il signor Carlo Torino ci fornisce copia dell’accordo tra la società Carlo Torino e associati, per conto di Matteo Renzi, e la Salt Venture Group Llc tramite il quale si disciplina la partecipazione del senatore a un congresso organizzato a dicembre a Dubai dalla Salt Venture Group Llc. In aggiunta risultano rassegnate altresì copie delle fatture emesse dalle parti interessate”. L’intervento di Renzi alla conferenza di Scaramucci avviene il 10 dicembre, in un panel sul “futuro dell’Europa”, con l’ex cancelliere dello scacchiere di Theresa May, moderato dall’editorialista del Financial Times Gideon Rachman.

Violenze in carcere, indagati 44 agenti in Campania

Nelle 12 pagine dell’esposto dell’associazione Antigone c’è una storia che, se vera, spalanca la vista sull’orrore: detenuti del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) denudati, picchiati, insultati, manganellati e rasati a zero dalla polizia penitenziaria in tenuta antisommossa come rappresaglia per una rivolta nata dall’emergenza covid.

I fatti sarebbero accaduti il 6 aprile, in seguito a una protesta dei detenuti (la “battitura” delle sbarre delle celle) scatenata per ottenere mascherine e gel disinfettante, dopo che si era sparsa la notizia della positività di un recluso (ed altri tre se ne registreranno nei giorni successivi). Proprio quel giorno, poco prima, c’era stato un incontro col magistrato di sorveglianza.

Per avviare verifiche sulla fondatezza o meno dell’esposto, nato dalle storie raccolte da familiari dei detenuti e dalle foto allegate – tra le quali spicca quella postata dal garante Pietro Ioia, ritrae la schiena di una persona scarcerata il 9 aprile, sulla spalla sinistra c’è un livido gigantesco (foto) – la procura ha indagato 44 agenti di polizia penitenziaria e si riserva di compiere ulteriori accertamenti sui medici che, secondo la denuncia, avrebbero occultato le lesioni nei referti.

I reati contestati dai pm a vario titolo spaziano dalla tortura alla violenza privata e all’abuso di autorità. I carabinieri hanno notificato gli avvisi di garanzia all’interno del carcere e questo ha provocato la protesta degli agenti penitenziari, “offesi – scrive il Sippe, il sindacato di categoria – perché perquisiti e trattati male davanti ai familiari dei detenuti”. In soccorso degli indagati è arrivato di corsa a Santa Maria Capua Vetere l’ex ministro Matteo Salvini. “Sono venuto qui – ha detto il leghista – perché non si possono indagare e perquisire come delinquenti 44 servitori dello Stato”.

Nunzia l’ingrata: sferza la magistratura in tv. Ma non apprezza il suo “lungo” processo

Nella sua nuova vita da opinionista dell’intero scibile dagli schermi di Non è l’Arena su La 7, Nunzia De Girolamo non lesina avventurose e zoppicanti critiche sui temi della magistratura. Non ne ricordiamo, però, (ma forse ci sbagliamo), di riguardanti la scarsa produttività delle toghe o la eccessiva durata dei processi. Vorremmo segnalargliene uno particolarmente lento. È in corso a Benevento per fatti accaduti nel 2012, scoperti nel 2013, e finiti sui giornali nel gennaio del 2014. Riguardavano indebite pressioni di una deputata di Forza Italia sul management dell’Asl, convocato periodicamente per impartire direttive di lottizzazione politica della sanità pubblica (registrate di nascosto). L’ex deputata si dimise da ministro. L’accusa è associazione a delinquere, ma in sei anni non solo non c’è una sentenza di primo grado, ma nemmeno le conclusioni di accusa e difesa. Tra marzo e giugno tre rinvii per emergenza Covid. L’ultimo ieri al 17 settembre. Chi è l’ex ministra? Nunzia De Girolamo. Non è l’Arena, ma nemmeno una omonimia: è proprio lei.

Mail Box

 

Fiera, il mio padiglione a bassa intensità

Egregio Direttore, sono il dottor Giuseppe Torgano e voglio innanzitutto ringraziarla per aver pubblicato lunedì, nell’articolo “Gli ultimi tre pazienti”, il mio progetto di trasformazione del padiglione Fiera in una struttura a bassa intensità. Devo fare due precisazioni: 1) il mio progetto è stato redatto il 6 maggio scorso da me, non da un pool di medici del Policlinico, e affidato a Michele Usuelli. 2) Quel progetto l’ho presentato al prof. Gori che lo trovò molto interessante: ho visto con piacere che nell’articolo ha condiviso le mie idee.

Giuseppe Torgano

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo “Banche: milioni già spesi, ma ai truffati neppure 1 euro”, a firma di Carlo Tecce e Paola Zanca sul Fatto di martedì, si fa presente che: 1) il termine previsto dalla legge scade il 18 giugno: le proroghe sono dovute alla necessità di affrontare l’emergenza Covid-19 e sono state concesse a seguito di istanze in tal senso, rappresentate direttamente dalle associazioni dei risparmiatori; 2) l’erogazione degli indennizzi dovrà tener conto della scadenza per la presentazione delle istanze e della definizione del piano di riparto. Rispetto alle previsioni originarie, è stata introdotta la possibilità di erogare un anticipo nel limite massimo del 40 per cento dell’importo dell’indennizzo, deliberato dalla Commissione tecnica e in attesa della definizione del piano di riparto. La procedura risulta regolarmente in corso ed è conforme alle prescrizioni normative. Altresì, si fa presente che la procedura per l’integrazione dell’indennizzo forfettario erogato dal Fondo interbancario di tutela dei depositi, per la perdita subita sugli strumenti finanziari subordinati emessi dalle quattro banche in liquidazione, è stata celere in quanto impiantata su una struttura già esistente. Il Fondo indennizzo risparmiatori, invece, è stato creato ex novo ed è preposto all’erogazione di circa 1,5 miliardi di euro, un importo notevolmente maggiore, senza precedenti, e per una platea di beneficiari più ampia.

Segreteria Sottosegretario Alessio Mattia Villarosa

 

Ospitiamo volentieri la richiesta di rettifica dell’onorevole sottosegretario Villarosa, non chiamato in causa, anche se non rettifica alcunché. Come correttamente riportato da noi e gentilmente ripetuto dall’onorevole sottosegretario, a oggi nessun truffato dalle banche è stato rimborsato e nessuna pratica è stata conclusa da Consap. Ma se son rose, fioriranno.

C. T. e Pa. Za.

 

In relazione all’articolo di Beppe Scienza del 1° giugno – “Strumenti finanziari: il lato oscuro degli Etf” –, ci teniamo a segnalare alcune informazioni non corrette. L’articolo restituisce degli Etf un ritratto deformato, definendoli uno strumento “di gran moda”, (solo il 2 per cento degli investitori italiani vi investe) e sostenuto “per non danneggiare chi ci guadagna, con assenze di garanzie e costi raddoppiati”. Nel caso specifico dei titoli di Stato, l’Etf è una “scatola” regolamentata dalla Ue che contiene centinaia di titoli di Paesi, scadenze e rendimenti diversi, permettendo la massima diversificazione a costi minimi. Comprando solo singoli Btp, l’investitore si fa carico di un concentrato di rischio Italia, mentre investendo in un Etf riesce a ridurre i rischi con la diversificazione. Nel caso di default dell’Italia (ipotesi remota ma per legge possibile), l’investitore in Btp riporterebbe perdite decisamente maggiori rispetto al possessore di quote di Etf. Inoltre il fallimento della società che emette l’Etf non è un problema per l’investitore, che rimane il proprietario degli asset finanziari anche in caso di default. L’articolo si chiude inoltre con una frase particolarmente grave sull’affidabilità dei consulenti finanziari “cosiddetti indipendenti che subappaltano ad altri la scelta dei titoli”: il ruolo del consulente finanziario è quello di permettere al cliente di accedere ai rendimenti dati dai mercati attraverso gli strumenti meno costosi e più efficienti. Comprando Etf non si subappalta la scelta, ma si consegnano i rendimenti del mercato: né un centesimo di più né di meno. Soluzione che nel lungo termine, dati alla mano, permette rendimenti superiori a costi inferiori rispetto alla grande maggioranza di gestori attivi.

Alessandro Moretti e Danilo Zanni, Io Investo

 

Con piacere rispondo ai due consulenti finanziari, fornendo informazioni che saranno utili per consigliare bene i loro clienti. Primo, sui titoli di Stato italiani, tedeschi, francesi, Usa ecc. si può diversificare facilmente anche senza gli Etf, grazie ai tagli piccolissimi, anche sotto i 1.000 o 2.000 euro. Secondo, i rischi non attengono al fallimento dell’emittente, ma alla cattiva gestione e malversazione, come scritto nell’articolo. Terzo, con gli Etf non si conseguono i rendimenti del mercato, ma meno. Anche 40 o 50 centesimi di punti percentuali in meno, a causa delle commissioni. Aggiungo che con gli Etf, e in generale i fondi comuni, capita di pagare mediamente anziché il 26 per cento anche oltre il 50 per cento di imposte sui guadagni.

B. Sc.