Calcio. Oggi si riparte con la Coppa Italia: vietato baciarsi e starnutire

 

Allenamenti distanziati, doccia a turni, ingresso in campo separati dall’altra squadra, interviste con mascherina e distanti metri, vietato abbracciarsi per un gol, ma quando il difensore deve marcare l’attaccante deve stare a un metro?

Giancarlo Calderoni

 

Stasera con Juventus-Milandi Coppa Italia il Circo del Pallone riapre i suoi tendoni e sì, lei ha ragione, prepariamoci a vederne delle belle. E anche se l’ordinanza del governatore d’Abruzzo Marco Marsilio, quella che vieta la marcatura a uomo e i contrasti (un po’ come se in Formula 1 vietassero i sorpassi), impedisce ai giocatori di riprendere fiato, magari dopo una corsa in contropiede di 70 metri, seduti o accasciati sul prato, e proibisce di starnutire e di soffiarsi il naso se non ricorrendo all’uso di un fazzoletto da recuperare a bordo campo (fa già ridere così), anche se l’ordinanza del governatore Marsilio non sarà adottata in Serie A, prepariamoci ad assistere a uno sport che ben poco ha a che fare con quello che conoscevamo.

Al di là dell’entrata in campo con distanziamento fisico e del divieto di baci, abbracci e capriole dopo un gol, già pietoso di suo, i calciatori giocheranno pieni di paure: quella di contagiarsi in primis, poi quella di farsi male (dopo 90 giorni di blocco ricominciano con una preparazione affrettata e affrontando una partita ogni 3 giorni) e ancora, visto che i contagiati sono assai più di quelli resi noti, con l’incognita di non sapere quali tracce il Covid abbia lasciato nel loro fisico chiamato a sforzi estremi per le temperature e per il carattere decisivo delle partite, determinanti per decidere titoli, piazzamenti, retrocessioni.

Poiché il pericolo è che ci scappi il morto, o che ci si vada vicino, la Figc ha autorizzato l’aumento delle sostituzioni da 3 a 5; vedremo così un calcio-basket obbrobrioso con una squadra che comincia la partita e un’altra che la finisce e con tanti saluti al concetto di sfida ad armi pari: perché un conto è chiamarsi Juventus o Inter e far entrare elementi del calibro di Dybala, Pjanic o Douglas Costa, Godin, Erikssen o Sanchez, un conto è chiamarsi Brescia e far entrare Semprini, Mangraviti e Andrenacci. Il 30 giugno, poi, ci saranno giocatori in scadenza di contratto o a fine prestito che smetteranno e altri che continueranno fino al 2 di agosto nella più totale e selvaggia irregolarità. Il tutto in cattedrali nel deserto. Buongiorno tristezza.

Paolo Ziliani

Senza futuro non c’è memoria

Perché studiare la storia? Nel 1967 il dottor Stephenson chiuse in una gabbia, al cui soffitto era appesa una banana, 5 scimmie; sotto la banana, una scala. La scimmia che provò a salire la scala per afferrare il frutto fu “punita” con un getto d’acqua ghiacciata; e insieme furono colpite anche le altre scimmie, restate a terra. E ogni volta che una si avvicinava alla scala, i getti d’acqua colpivano tutte le scimmie.

Quando Stephenson si accorse che tutte avevano imparato la “lezione”, sostituì una scimmia con un’altra all’oscuro delle dinamiche della gabbia. Il primate naturalmente tentò più volte di raggiungere la banana, ma le altre la bloccarono sempre, prima che il getto d’acqua punitivo la colpisse. La scimmia così desistette dal suo proposito. Via via tutte le scimmie furono sostituite, fino a che in gabbia vi furono solo bestie mai annaffiate, consapevoli del divieto ma senza saperne il motivo. Ecco perché studiare la storia, si potrebbe concludere: per non finire come le scimmie di questo esperimento. Giusto, no?

Ma se controlliamo le fonti di questo esperimento, vediamo che non fu come lo si racconta: non ci fu nessuna scala e nessuna banana, i getti erano d’aria e non d’acqua, le scimmie venivano addestrate a non manipolare un oggetto (non una banana) singolarmente, e poi veniva introdotto un animale ignaro dei getti d’aria, procedendo a coppie dello stesso sesso. Lasciamo perdere i discorsi sulla validità o meno dell’esperimento: in ogni caso, la sua fama ci insegna l’importanza di controllare le fonti storiche, e di non dare patenti di verità a quel che si trova in giro perché funzionale al nostro pensiero. È vero, si deve studiare la storia, ma anche stare attenti alla sua falsificazione.

Un esempio lampante, che per troppi lampante non è, riguarda il caso delle foibe, perché si tratta di evitare falsi storici (interessati, ma resistentissimi). Secondo l’Enciclopedia Treccani “le foibe vennero largamente utilizzate durante la Seconda guerra mondiale e nel dopoguerra per liberarsi dei corpi di coloro che erano caduti a causa degli scontri tra nazifascisti e partigiani, e soprattutto occultare le vittime delle ondate di violenza di massa scatenate a due riprese […] da parte del movimento di liberazione sloveno e delle strutture del nuovo Stato jugoslavo creato da Tito”. La destra, in Italia, si è gettata di slancio sul tema, con una doppia equazione basata su una matematica valoriale assai creativa quanto ingannevole e interessata: 1) i partigiani jugoslavi che hanno ucciso gli italiani (fascisti e civili) sono innanzitutto partigiani = i partigiani italiani hanno anche commesso stragi di civili italiani e 2) i fascisti hanno commesso crimini ma anche i partigiani lo hanno fatto = crimini fascisti e crimini partigiani sono equiparabili. L’immagine più famosa che accompagna i pezzi sui giornali nell’anniversario delle vittime delle foibe offre cinque fucilati di schiena che attendono la scarica che li ucciderà.

Foto di grande effetto ma che ritrae invece l’uccisione di cinque ostaggi sloveni da parte delle truppe italiane durante l’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943). Studiare la storia serve anche a questo: a non dare falsa testimonianza.

Dico cose scontate se ricordo che la fine del lavoro in fabbrica, di un lavoro in cui si sta uniti e ci si può confrontare, la sopravvenuta flessibilità e la precarietà del lavoro, la caduta delle grandi ideologie hanno portato a una perdita anche degli ideali che le avevano generate, a un grande individualismo, in cui – penso ai giovani – si lotta per poter lavorare, sempre in cerca di un contratto che scade. Questa vita così instabile ha come ricaduta l’impossibilità di fare progetti, nella propria vita privata e nella vita collettiva.

Perfino il volontariato o l’impegno più serio di una parte cattolica si riduce a lenire, a riparare, ma non a costruire, a proiettarsi in un futuro migliore. Tutto questo produce un’altra conseguenza che rovescia paradossalmente l’adagio dei miei tempi: “Senza memoria non c’è futuro”. Credo che si debba dire che “senza futuro non c’è memoria”, perché la necessità del sopravvivere, l’impossibilità di programmare, il dovere di vivere ognuno per sé, hanno atrofizzato il senso di una continuità con le persone che ci hanno preceduto e tolto necessariamente al passato la sua spinta ideale e modellizzante, il senso che essere uomini e donne significhi essere eredi, eredi consapevoli del passato.

A tale situazione difficile hanno dato un potente aiuto – in senso negativo – le riforme scolastiche che si sono susseguite da Berlinguer a oggi. Son sempre più messe in secondo piano le Antichità greca e romana, sempre più si sente dire come siano per pochi e quasi inutili la conoscenza del greco e del latino, per non parlare del Medioevo, anzi, dei “secoli bui” del Medioevo (anche se il vero buio è di chi li chiama così, evidentemente non conoscendoli), con una scuola ridotta a un ruolo ancillare dell’impresa (basti dire “la scuola lavoro”!), prontissima a formare manodopera a basso costo. La scuola non è più il ruolo della cultura ma dell’impresa: un termine che mostra l’abisso di incultura o il cinismo di chi l’ha formulato. I frutti avvelenati già si vedono: i ragazzi del ricco Nord-Est che hanno lasciato la scuola per un immediato guadagno sono in difficoltà con il lavoro, perché si trovano in concorrenza con la mano d’opera più a buon mercato degli immigrati, non sapendo progettare, ma solo “stare al pezzo”. Le persone qualificate invece, trovando difficilmente lavoro in un’Italia sempre più incapace di programmare il proprio futuro, in molti casi prendono la via dell’estero (più che del “problema” dell’immigrazione, si dovrebbe infatti parlare di quello dell’“emigrazione” dei nostri giovani, dopo aver studiato).

Le varie riforme della scuola tendono anche a privare gli studenti dello studio del passato per renderli incapaci di riflettere e di capire. Indebolire lo studio della storia, della sua importanza, non equivale forse a pensare che la civiltà si possa trasmettere senza rapporto di filiazione, che si possa spezzettare il tempo e lo spazio in isole artificiali, privi di collegamenti e di vista d’insieme? Ma Venezia non sarebbe stata Venezia se non fosse stata un arcipelago. In Italia, le città mostrano ognuna la propria storia ben visibile in palazzi, piazze, monumenti, chiese (e poi nei musei), traboccando di riferimenti del passato e opere d’arte. Renderne problematica, acritica, la comprensione vuol dire condannare i nostri giovani all’apatia, alla mancanza di curiosità intellettuale, modificare, in senso negativo, il modo di percepire la realtà. Senza un legame consapevole e attivo verso il proprio passato, la storia diventa voce muta, lo spessore della vita umana si assottiglia, come se l’umanità non avesse mai imparato a scrivere ma si limitasse a ripetere, una generazione dopo l’altra, mirabili atti senza memoria, senza consapevolezza di sé rispetto agli altri, di sé, rispetto ai compagni che l’hanno preceduto e lo seguiranno.

 

Da Chiara Frugoni, “Come e perché studiare la storia” in Arsenio Frugoni, “La storia coscienza di civiltà”, con uno scritto di Chiara Frugoni, Brescia, Scholé, 2020, figure 14, euro 10.

 

La grande lotta agli ignavi farà rivivere la poesia

Il tribunale dell’incidente diplomatico è sempre aperto e anche quello del politicamente corretto e quello della privacy. Difficile che uno possa scrivere davvero la verità della sua vita. Abbiamo costruito una finzione sempre più sterile che chiamiamo umanità, lasciando le cose vere ai piccioni, alle zanzare, ai cavalli. Quest’anno al mio paese nessuno ha il giallo squillante delle ginestre. Sembrano tutti verniciati ancora dai giorni di febbraio, anche se siamo a giugno. Bisogna insorgere contro noi stessi, bisogna farlo con coraggio. Confessare che la noia ci sta bruciando fino in fondo, resta disponibile alla vita solo qualcosa che si trova negli ultimi respiri: i grandi affanni, gli incidenti, i tradimenti, la vigliaccheria improvvisa. L’umanità si è ridotta al mormorio di se stessa, pernottiamo nella nostra stanchezza, abbiamo il volo delle quaglie, non ci tocca la gola la luce dell’alba, non ci colpisce il cuore l’arrivo della sera. Per tornare intensi bisogna per prima cosa dichiarare che siamo diventati scialbi ripetenti, che non sappiamo più portare novità nelle nostre vite e in quelle degli altri. L’istinto ha ancora qualche guizzo in chi fa lavori pesanti, in chi non custodisce i suoi averi e i suoi saperi. Io non provo più nessuna simpatia, nessuna clemenza per i furbi, per gli agiati col bordo lamentoso, per i sindacalisti della normalità, per i fanatici dell’ovvio. Io credo ai malati terminali, ai pazzi per amore, credo alle prime fiamme del giorno, ai misteri che viaggiano nelle radici degli alberi. Credo a chi ha fame di corpi, a chi parla dalla sua carne. La lotta è tra i sensuali e gli opinionisti, tra chi fiorisce nei suoi gesti e chi sputa nella sua bocca le parole e i pensieri dell’attualità. Bisogna scegliere da che parte stare: da una parte il piccolo incanto della poesia, dall’altra i rassegnati del benessere, i carpentieri dell’ipocrisia.

Stati generali una passerella? È bene avere opinioni informate

Passerella. Quand’anche gli Stati Generali risultassero “soltanto” una passerella per “singole menti brillanti”, per Colao e i componenti della sua commissione, per imprenditori e sindacati (anche in ordine inverso), per ministri, politici e altri invitati, non meritano di essere criticati pregiudizialmente. Potrebbero comunque risultare utili da una pluralità di punti di vista. Infatti, come disse il compagno Presidente Mao Tse-tung, vero esperto di passarelle (vedi la Rivoluzione Culturale Proletaria), “le idee camminano sulle gambe degli uomini” (mi affretto ad aggiungere “e delle donne”). Per chi crede che il pluralismo e il conflitto sono il sale della politica (e della democrazia, sì, anche di quella liberale), più sono le opinioni meglio informate è probabile che saranno le decisioni. I critici sostengono che sappiamo già tutto. Ho molti dubbi esistenziali su coloro che sanno già “tutto”, e ne diffido. Ritengo, invece, che Conte abbia fatto bene a volere questo format di produzione di idee, anche, se riuscirà a orientarlo, con qualche elemento di spettacolarità. Non ho dubbi sul fatto che gli piaccia esporsi, ma qui sta correndo il rischio che la presenza di troppe personalità produca qualche stecca. Probabilmente la regia dovrebbe far sapere e imporre a tutti gli intervenuti di non procedere a “racconti” più o meno edificanti, ma di andare al sodo: individuare le priorità, suggerire le soluzioni, magari accompagnandole con tempi di attuazione, costi e profitti. Penso di avere capito che, da sola, l’Italia non ce la farà e che avrà bisogno di tutti i fondi che le istituzioni europee metteranno a disposizione (e hanno già in parte stanziato). Lo faranno privilegiando la trasformazione “verde” dell’economia e la digitalizzazione in tutte le sue varianti, gli investimenti in ricerca e quelli nelle infrastrutture e, grazie al Mes, senza condizionalità, le spese sanitarie dirette e indirette (qui la fantasia degli operatori ha un grande spazio sul quale esercitarsi). Sarà, dunque, opportuno che le soluzioni proposte si collochino nel solco europeo anche perché dalle raccomandazioni europee si potranno trarre indicazioni utilissime. Senza la passerella le elaborazioni sarebbero finite direttamente sul tavolo dei singoli ministri e dei burocrati che, nel frattempo, tutti critichiamo in maniera tanto convinta quanto generica, ma la cui legittima difesa mi piacerebbe molto ascoltare. Ce ne sarà qualcuno invitato a “passerellare” o vogliono mantenersi tutti nell’ombra? Avendo aperto il canale di comunicazione con il governo con una frase accomodante: “Conte è finito, Bisogna andare presto alle elezioni”, le opposizioni hanno poi deciso che non parteciperanno poiché Villa Pamphily non è una sede istituzionale. Loro, è noto da tempo, anche, talvolta, con qualche scivolatina populista, sono austeri difensori delle istituzioni e della loro autonomia. In particolare, Giorgia Meloni ha seccamente annunciato che il confronto deve avvenire nella sede costituzionalmente più appropriata: il Parlamento. Comunque, il confronto lì arriverà quando il governo dovrà chiedere l’approvazione per legge e/o per decreto dei provvedimenti che conterranno le proposte emerse dagli Stati Generali. Però, non posso resistere dal ricordare a Meloni, Salvini e Tajani, nonché ai professoroni del “sì”, che criticano il governo per non avere convocato abbastanza spesso il Parlamento, che la soluzione esiste, quasi ready made. Sta nell’articolo 62 della Costituzione che stabilisce che “ciascuna Camera può essere convocata in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente o del Presidente della Repubblica o di un terzo dei suoi componenti”. Gli Stati Generali offrivano/offrono la possibilità di un’anteprima che servirebbe a “limare” anche le proposte concrete delle opposizioni che, evidentemente, non credono nel confronto.

Come il Covid-19, si sta propagando il virus degli imbecilli

Come il Covid, il virus degli ultraimbecilli ha un ceppo antico ma ha recentemente subìto, causa salto di specie, uno sviluppo impetuoso che si propaga globalmente per emulazione e non per starnuti (ma, soprattutto, il vaccino è sconosciuto). “Un cretino con dei lampi di imbecillità”, diceva Gabriele D’Annunzio di Filippo Tommaso Marinetti quando appunto l’imbecille era considerato con un certo spasso un tipo tutto sommato innocuo e non contagioso (se non addirittura un esempio particolare di genio). Oggi invece abbiamo i “Black lives matter” che in nome di un anti-razzismo imbecille abbattono la statua di Cristoforo Colombo (Richmond) e imbrattano l’effige di Winston Churchill (Londra) in quanto simboli di una cultura “colonialista”. Con i loro degni emuli che ottengono la cancellazione di Via col vento dalla piattaforma streaming: film ritenuto veicolo di “pregiudizi etnici e razziali, sbagliati”. Non ci dilungheremo sul significato del termine imbecille che tuttavia non va brandito come insulto ma adoperato come constatazione di comportamenti utilmente insensati. Anzi, “non appropriati”, per usare la definizione cara alla sinistra del politicamente corretto, protagonista a Milano di una pretesa quanto mai imbecille: cambiare l’intitolazione dei giardini dedicati a Indro Montanelli e rimuovere la statua del giornalista che si trova nello stesso parco. Lo ha chiesto al sindaco Giuseppe Sala e al Consiglio comunale l’associazione “I Sentinelli”, che si definisce “antifascista” (e con l’adesione dell’Arci), riesumando un episodio raccontato più volte dallo stesso Montanelli quando nel 1935, a ventisei anni sottotenente in Abissinia si era sposato con una bambina eritrea di dodici anni secondo le usanze locali. L’assurdità delle richiesta sentinellesca non ha bisogno di ulteriori spiegazioni e precisazioni poiché l’avanzata ultraimbecille trova il terreno più propizio all’espansione quando riesce a far parlare di se, e a suscitare discussioni e polemiche imponendo temi irragionevoli e scriteriati. Sotto questo aspetto l’imbecillità risulta essere spesso una maschera grottesca dietro la quale si nascondono entità tutt’altro che stupide, desiderose di imporsi all’attenzione del pubblico e impegnate a macinare followers. Come nell’invasione dei baccelli extraterrestri del famoso film anni ‘50, l’odierna cultura ultraimbecille punta a sottomettere personaggi e istituzioni che nel timore di subire critiche e contestazioni (e dunque perdere elettori e clienti) si consegnano mani e piedi alla logica dell’idiozia. Come il sindaco di Boston, Marty Walsh che dopo l’affondamento del monumento al navigatore genovese invece di chiamare la polizia dichiara contrito: “Metteremo la statua di Colombo in magazzino mentre dibatteremo sul significato storico di questi incidenti”. O come la piattaforma “Hbo Max” che promette il ritorno in catalogo del capolavoro di Clark Gable e Vivien Leigh ma abbinato a una “discussione sul contesto storico”. La trattazione di sì vasto argomento ci consente solo un fuggevole accenno agli ultraimbecilli inconsapevoli, presenti soprattutto nel campo della destra. Come i terrapiattisti, i no vax e i pappalardi complottisti convinti che il coronavirus si diffonda attraverso la rete telefono-dati 5G. Una domanda infine: gli ultraimbecilli possono avere una qualche utilità? Risponde una citazione di Jean de La Bruyère: “Al mondo non ci sono che due modi per fare carriera: o grazie alla propria ingegnosità o grazie all’imbecillità altrui”. Esempio: l’autobiografia di Woody Allen A proposito di niente. Splendido libro rifiutato da eserciti di editori (Amazon in testa) perché terrorizzati dalle campagne terroristiche dell’imbecille collettivo, basate sulla menzogna del regista stupratore e molestatore delle figlie. E che pubblicato in Italia da “La nave di Teseo” risulta da settimane in testa alle classifiche dei più venduti.

La Pira, Guala, i “corsari”: la Dc migliore (e umana)

Nella Dc non sono sempre stati “piccoli, storti e malfatti” come si diceva illo tempore giocando sui cognomi di alcuni notabili del partito; anzi, la stessa diede all’Italia fior di statisti e anche di manager (uno fra tutti Enrico Mattei) che segnarono in modo particolare i difficili anni della ricostruzione post-bellica. Di due di questi personaggi e del clima generale in cui operarono parla oggi un prezioso libro di memorie: Giorgio La Pira e Filiberto Guala visti da vicino (Ancora, pagg. 176, euro 17,50) di Luigi Beretta Anguissola.

Il libro è fatto di memorie, pensieri e note raccolti e antologizzati (si trattava in origine di migliaia di pagine) a cura del figlio dell’autore, Alberto Beretta Anguissola, noto francesista, professore all’università di Viterbo. Luigi Beretta conobbe intimamente sia Giorgio La Pira sia Filiberto Guala. Il primo visse a lungo in casa Beretta accolto su sollecitazione del Cardinale Dalla Costa quand’era appena giunto a Firenze per studi. In questa famiglia allargata, dove aveva molto peso il sentimento religioso, La Pira visse per molti anni fino a quando divenne il più famoso sindaco di Firenze (due mandati), conosciuto in tutto il mondo per le sue iniziative per la pace, il dialogo tra le nazioni e l’aiuto ai poveri.

Di formazione profondamente religiosa era anche Filiberto Guala, come del resto molti di quegli uomini che incontratisi nel movimento dei laureati cattolici, allora “guidato” da Montini, divennero poi politici e manager, ma che durante il fascismo erano dediti per lo più, come appunto Guala, a opere di carità cattolica, la sola attività sociale di ispirazione religiosa che non era vietata dal regime… come fu a lungo l’Azione Cattolica.

Guala fu per molto tempo impegnato nelle conferenze di San Vincenzo e nella Caritas; si preparò così, oltre che laureandosi in Ingegneria al politecnico di Torino, a diventare un manager e organizzatore della assistenza ai bisognosi. Quando la Dc assunse il potere con Fanfani ministro del Lavoro, Guala fu messo a capo di un grande piano di costruzione case per i lavoratori, l’Ina Casa, che condusse per 7 anni, nel corso dei quali Ina Casa costruì 350.000 alloggi – popolari ma dignitosi e con la collaborazione di noti urbanisti e architetti – che furono assegnati “a riscatto” in modo tale che le famiglie assegnatarie ne potessero diventare proprietarie dietro pagamento ventennale di un affitto di 2.000 lire. Un grande progetto che incise pesantemente sul mercato delle case e soprattutto mobilitò molta manodopera, dando notevole impulso all’economia italiana.

Guala fu chiamato a ripetere l’esperienza d’innovatore con la nascente televisione, sulle rovine dell’ex Eiar, l’ente radiofonico fascista. Si trattava non solo di costruire le infrastruttura (antenne, centri di produzione, ripetitori etc.) ma anche, e soprattutto, di inventare i contenuti e il palinsesto dei programmi. Guala, di quell’ente tutto da fare, divenne amministratore delegato nel 1950 e lanciò subito concorsi per programmisti e giornalisti televisivi, necessari perché allora la scarsa programmazione televisiva (limitata a una sola rete e con orari ridotti) era tutta nelle mani di persone provenienti dalla radio, dal teatro, dal varietà o dal giornalismo.

Qui mi scuso di dover aprire una parentesi di memorialistica personale. Dai concorsi e dai susseguenti corsi di formazione che Guala organizzò nel 1950-54 vennero fuori i cosiddetti “corsari di Guala”: tra questi c’ero anch’io, accanto a Furio Colombo, Umberto Eco, Fabiano Fabiani e tanti altri che hanno fatto la (buona) storia della Tv italiana.

Chi ha vissuto quegli anni della Rai di Guala non dimentica il clima di intensità e di impegno che la stessa figura e personalità di Guala suscitavano, il suo entusiasmo, che pochi di noi legavano, come avremmo saputo dopo, alla sua religiosità personale ispirata da La Pira.

Grazie anche a Guala noi “corsari” producemmo un settimanale per giovani (Orizzonte) e potei intervistare Danilo Dolci, Luciano Gallino etc. fino a condurre inchieste sulle nostre città (Controviaggio in Italia, con Michele Straniero). Stagione intensissima, e breve.

Dopo un cambio del vertice della Dc Guala fu messo da parte e si avviò presto a realizzare la propria vocazione monastica, divenendo trappista nell’Abbazia delle Frattocchie a Roma. Ma “quelli eran giorni”, come canterebbe con la sua bellissima voce Dalida; erano uomini esemplari, altro che “piccoli, storti e malfatti”… pieni di passione civile e religiosa, ricchi di senso dello Stato. Oggi ci restano alcuni politici che brandiscono il rosario per allontanare gli emigrati…

Una task force per tutti i gusti, dal brodo di giuggiole alle tette

La task force riunita dalla ministra Lucia Azzolina a metà marzo per aiutarla a capire che fare della scuola durante l’emergenza pandemia era formata da 123 membri. Ne faceva parte anche mia zia, cui va il merito dell’input decisivo (“Chiudete tutto”) dopo appena 10 secondi di riunione. Gli altri 122 membri, con un alacre lavorio di copia-incolla dal web, hanno poi trascorso i due mesi successivi ad assemblare il documento di 5.000 pagine che spiega il perché e il percome della chiusura, e a prosciugare 75 barilotti di birra alla spina. Ovviamente nessuno ha letto quel documento, altrimenti si sarebbero accorti che, da pag. 11 a pag. 4.999, è un manuale sui quattro modi di spillare la birra: anglo-scozzese (un colpo con poca spuma), belga-olandese (un colpo con tracimazione e taglio della spuma), gaelico-irlandese (due colpi con effetto cascata), alpino-tedesca (tre colpi in sette minuti con cappello finale di spuma). Mi stupisco dei cronisti del Fatto, ai quali la cosa non sarebbe dovuta sfuggire. La struttura è stata quindi smantellata, e la Azzolina ne ha subito creata un’altra, questa volta solo con mia zia. Avete presente la boiata che ha gettato nel panico le famiglie, sulle classi divise a metà, le lezioni nel fine settimana, e il proseguimento dell’insegnamento via web? Mia zia non c’entra.

La ministra della Famiglia, Elena Bonetti, che era con la ministra Azzolina in un sexy-shop a comprare delle manette pelose con piume Marabù, ha quindi cooptato mia zia per la propria task force. La squadra, composta da 20 donne, doveva “elaborare azioni, strategie e politiche a favore della tutela e della promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nel quadro del contrasto alle conseguenze dell’emergenza epidemiologica”. Un lavoro di un anno, come minimo; ma, alla prima riunione, mia zia ha fatto notare che di quello si sta già occupando l’Osservatorio nazionale sull’infanzia e l’adolescenza (50 membri), dunque la task force aveva già finito. Allora la ministra Bonetti, per non sprecare una task force, ha chiesto ad altri ministri se gliene serviva una. No: ne avevano già più di tre a testa. E ce n’erano per tutti i gusti: una task force per studiare gli effetti afrodisiaci dei diamanti; un’altra sul brodo di giuggiole; un’altra sul busillis; un’altra sul latte alle ginocchia; un’altra su come praticare la respirazione bocca a bocca senza restare coinvolti sentimentalmente; un’altra sullo sguazzo nell’andazzo del cazzo; un’altra su sette ragazze e altre due; un’altra sulla prima impressione; un’altra sulle tette delle donne che fanno jogging lungo la battigia; un’altra su Renzi e come prenderlo a schiaffi; e una task-force sull’utilità o meno di quella stessa task-force.

Mi piacerebbe essere Putin. Innanzitutto perché nemici e oppositori gli muoiono di polonio o gli volano dalla finestra, un superpotere che saprei come usare con certi stronzi che dico io. Non devi per forza morirli, ma aiuta. E prova a tagliare la strada a Putin con la tua Skoda, per vedere di nascosto l’effetto che fa! Poi vorrei essere Putin perché coi vecchi marchingegni del Kgb puoi prenderci Netflix gratis. Soprattutto, le mie giornate non sarebbero mai noiose (top-model ucraine, vodka). L’unica scocciatura? Dover rispondere alle telefonate di Salvini. Telefona Berlusconi? Sono a judo.

L’imprenditore non ha divani: i media e l’odio per il povero

Qualche imprenditore prova a fare il furbo con la cassa integrazione. C’è sempre qualche furbo, dirà – fatalista – il lettore. Vero, ma vorremmo qui sottolineare cosa mancherà nel dibattito su questa notizia. Mancherà il divano e s’intende qui non il mobile, ma il suo valore metaforico. Pensate al reddito di cittadinanza, ai suoi furbetti e, anzi, pure a quelli che furbetti non sono: preferiscono, appunto, stare sul divano invece di lavorare, coccolati dalla politica assistenzialista e, ça va sans dire, clientelare. Per gli imprenditori, diciamo, ai media manca il divano, l’oggetto mentale che nasconde l’odio per i poveri a cui da qualche decennio educano la società.

L’odio non per la povertà, ma per il povero, giudicato di fatto responsabile della sua posizione: il reale è razionale e la disuguaglianza alla fine è solo l’esplicarsi nel mondo del “merito”, l’equivoco concettuale che dovrebbe indorare la pillola dell’esistenza a chi, pur sopravvivendo col naso appena fuori dall’acqua in fabbrica o in una redazione, è convinto di essere tra i salvati. D’altronde pure a Rosso Malpelo è concesso, se non altro, di prendersela con l’asino.

Al merito, e all’apparato psico-ideologico che si porta dietro, è appaltato il compito di trasformare in dato di natura una realtà creata da scelte politiche. Non si invoca qui una clava metaforica equivalente per l’impreditore (figura ormai sacra nel discorso pubblico), ma quel po’ di critica culturale ancora possibile: chi vende “merito”, vende la razionalità del mercato e una comoda scusa per i suoi fallimenti (c’è poca meritocrazia…). Sono i poveri il loro problema e il residuo spirito di solidarietà e giustizia che ispirano all’umanità, almeno di quella che non tira il divano addosso a chi stende la mano.

Zona Rossa: Roma e la faccia di Fontana

Con l’inizio dell’inchiesta sulla mancata zona rossa in val Seriana è finita ufficialmente la fase della mascherina obbligatoria in pubblico. Permanendo l’obbligo “nei luoghi chiusi”, da oggi i titolari della cronaca politica possono togliersela davanti a noi spettatori per tornare ad avere la faccia che si meritano, mostrare la faccia, o come si dice oggi nei saloni di ogni parrucchiere: “metterci la faccia”.

E dunque il titolare della faccia di Attilio Fontana, che è pur sempre il presidente della Regione Lombardia può dire al magistrato e in pubblico che “le zone rosse della val Seriana poteva deciderle in via esclusiva il governo”, non lui. Ignorare che la legge dell’anno 1978 dica il contrario, e insieme lagnarsi di avere scarsa autonomia, anzi le mani legate, “per colpa di Roma centralista”. Così i morti da Covid che forse si potevano evitare, vanno in carico a Roma e non all’autonoma Lombardia.

Allo stesso modo Maria Cristina Rota, titolare dell’inchiesta appena iniziata può già concluderla in pubblico, dicendo che “a quel che ci risulta” la zona rossa “avrebbe dovuto deciderla il governo”. Che è un ottimo modo per accorciare i tempi delle inchieste, cominciando dalla fine.

“Millennium” e le aziende che piangono e prendono

Incentivi a fondo perduto, contributi all’export, agevolazioni fiscali e contributive, sostegni alla produzione. Sono solo alcuni degli strumenti pubblici che portano denaro nelle casse degli industriali italiani. Un fiume di denaro difficile da quantificare con precisione e che, nella migliore delle ipotesi, supera di quasi tre volte il budget stanziato a favore del reddito di cittadinanza. Ciononostante, Confindustria continua a battere cassa e il suo presidente, Carlo Bonomi, critica le misure del governo a sostegno dei redditi delle fasce più deboli della popolazione. E chiede insistentemente che tutto lo sforzo pubblico sia concentrato sul sistema produttivo. Ma la formula di Bonomi e della Confindustria può davvero salvare il Paese dalla peggiore crisi dal Dopoguerra? Ha un suo fondamento economico o serve solo a tirare l’acqua al mulino di imprenditori italiani, storicamente troppo dipendenti dalla mano pubblica?

Le risposte nell’inchiesta di copertina di Fq Millennium, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da domani con un numero dedicato a economia e aiuti pubblici nella crisi del Covid-19, e con un inedito ritratto proprio del presidente Bonomi. Un viaggio che parte dal sistema degli incentivi statali, ne indaga il funzionamento e le distorsioni per arrivare fino alle possibili opzioni di rilancio del Paese. E ripercorre diversi casi di scuola della storia industriale italiana, i vizi del capitalismo nostrano, mai diventato realmente autonomo, i dubbi degli economisti sull’idea che finanziare solo le imprese possa evitare una dura recessione. E poi ancora il timore degli esperti e del governo che un crollo della domanda delle famiglie possa mettere le basi per una spirale recessiva senza precedenti.

Tutte legittime perplessità che emergono mentre il Paese arranca dopo lo choc psicologico ed economico del lockdown. Con la povertà che avanza, la disoccupazione in deciso aumento e la forbice fra benestanti e poveri che si allarga inesorabilmente in uno scenario di per sé estremamente fragile: già prima dell’emergenza sanitaria, l’Italia registrava oltre 1,8 milioni di famiglie in condizioni di povertà assoluta (il 7% del totale) per un numero complessivo di 5 milioni di individui, cioè l’8,4% della popolazione (Istat 2018).

In questo contesto, i fondi che arriveranno dall’Europa, anche sotto forma di prestito, dovranno essere ben spesi per svecchiare l’Italia, rilanciare il sistema produttivo secondo un piano d’azione ben preciso, come suggerisce l’economista Giorgio La Malfa, intrvistato dal mensile, richiamando alla mente il Piano Marshall.

Dovranno però essere utilizzati anche per mantenere lo stato sociale e garantire il benessere dei cittadini, magari prendendo spunto da quello che accade all’altro capo dell’Oceano, dove la liberalissima America di Trump non solo sta intervenendo a favore delle aziende, ma ha anche versato denaro direttamente nei conti correnti della classe media, nell’intento di sostenere la domanda interna ed evitare che i consumi nazionali calino drasticamente e le merci restino sugli scaffali e nelle vetrine. Non certo per populismo, ma con un progetto coordinato fra tutte le forze del Paese, industriali inclusi. Perché “da una situazione come quella attuale si esce non facendo la guerra a chi prende più soldi, ma cercando di avere una posizione lungimirante – spiega Ugo Marani, professore di economia all’Università L’Orientale di Napoli – Cosa che raramente Confindustria ha fatto sull’economia italiana”.