Chi ha avuto cosa: ecco il punto sugli aiuti pubblici

Il presidente, Pasquale Tridico, ha promesso nei giorni scorsi che entro oggi l’Inps avrebbe pagato tutta la cassa integrazione a chi ne ha diritto. Per sapere se ha mantenuto la parola ci vorrà qualche giorno, intanto possiamo fare un punto su come sta andando con gli aiuti decisi dal governo durante l’emergenza Covid-19.

Cig. La promesso di Tridico è difficile da mantenere e il motivo è nei numeri. Senza perderci nei dettagli tecnici (che pure contano), la platea teorica della cassa integrazione sia ordinaria che in deroga che via assegno Fis è pari a 8,4 milioni di lavoratori: al 4 giugno (dati Inps) una qualche forma di denaro è arrivata a 7,5 milioni di persone, ma per 4,3 milioni si tratta di assegni anticipati dall’azienda (la discrepanza tra platea teorica e numeri finali può essere dovuta al meccanismo di erogazione della Cig, che inizia con una sorta di prenotazione che va poi confermata).

600 euro. È il bonus destinato inizialmente agli autonomi e poi a molte altre categorie. Inps ha sostenuto a fine maggio di aver già pagato 3,9 milioni di domande su circa 4,8 milioni arrivate all’istituto per la rata di marzo (le 840mila domande mancanti sono in gran parte respinte, ma non si sa cosa ne è stato delle altre, che comunque sono decine, se non centinaia di migliaia). Il bonus è stato poi confermato automaticamente per aprile (ma a maggio inoltrato) ed era previsto salire a 1.000 euro il mese scorso ma solo per 1,1 milioni di autonomi al massimo (i 3 milioni del commercio o dell’artigianato finiscono in un altro capitolo).

Rem. È il reddito d’emergenza per chi non era coperto da nessun altro sussidio: si va dai 400 euro per le persone sole fino a un massimo di 800 euro (dipende dai familiari a carico). Contenuto nel “dl Rilancio” sta arrivando a emergenza finita: la platea stimata dal governo è di 870mila nuclei familiari (2 milioni di persone) interessati. A ieri mattina le domande arrivate erano “solo” 270mila ed erano andati in pagamento i primi 67mila assegni.

Bonus badanti.A maggio è stato istituito un bonus da 500 euro per due mesi (aprile e maggio) per i lavoratori domestici con contratti di lavoro superiori alle 10 ore settimanali, ma non conviventi. Le richieste sono state 160mila finora, ma sono aperte da neanche due settimane: i pagamenti sono stati pochi.

Bonus baby sitter. Nella fase del lockdown sono stati erogati 270mila congedi parentali straordinari (su una platea stimata in 1,7 milioni) e circa 160mila bonus da 600 euro: sono state da poco riaperte le domande per la nuova tranche da 1.200 euro massimo che riguarda sia le baby sitter che i centri estivi per l’infanzia.

Prestiti alle Pmi.Le domande arrivate al Fondo di garanzia a fine maggio – ha spiegato ieri Banca d’Italia in Parlamento – sono circa 800mila per un controvalore di 50 miliardi di euro. Di queste domande la stragrande maggioranza, 724mila, sono per prestiti sotto i 25mila euro (quelli garantiti al 100% dallo Stato e che dovrebbero essere concessi velocemente): in realtà, dice Bankitalia che ha anche mandato una lettera agli istituti più lenti, la percentuale delle domande evase è al 61% (ma, piccola consolazione, era attorno al 30 ad aprile). Piccolo problema: secondo il Sole 24 Ore a questo ritmo, il Fondo di garanzia avrà finito i soldi stanziati entro la fine di giugno.

Aiuti a fondo perduto. Riguardano sempre le Pmi e riguardano il ristoro diretto del 20% delle perdite di fatturato che le spese per le bollette e gli affitti: niente è ancora arrivato, però, visto che le domande si aprono la settimana prossima.

Grandi imprese. I prestiti garantiti all’80% da Sace per le imprese sopra 1,5 miliardi di fatturato sono in via di lavorazione: in tutto si parla di 250 società per un importo di oltre 18 miliardi di euro (serve, però, anche il via libera del ministero dell’Economia). Sotto quella soglia, sempre Sace fornisce la “garanzia Italia”, partita da pochi giorni: a martedì erano arrivate 61 richieste per 540 milioni di prestiti.

I furbetti della cassa: 2600 irregolari (più di tutto il 2019)

Certo fa meno impressione e dunque meno notizia per la grande stampa, dei “furbetti del reddito di cittadinanza”. Ma nella crisi Covid c’è stato anche un “assalto” dei furbetti, per così dire, delle aziende, ad accaparrarsi gli ammortizzatori sociali senza averne diritto. Il quadro è desolante in termini assoluti, seppure contenuto se si considera l’emergenza: in soli due mesi e mezzo l’Inps ha trovato 2.549 aziende che hanno fatto richiesta della Cassa integrazione illegalmente. Il dato è quasi equivalente a quello dell’intero 2019 (2400). Peraltro, solo rispetto all’inizio settimana, i casi del 2020 sono aumentati di 300 unità.

Questi numeri sono contenuti in un report dell’Inps inviato al ministero del Lavoro che lo ha richiesto dopo la polemica innescata dalle parole del presidente dell’istituto Pasquale Tridico, che in un’intervista aveva spiegato come, dopo lo scoppio dell’emergenza Covid, alcune aziende grazie alla Cig non abbiano riaperto “per pigrizia o per opportunismo”. L’uscita ha provocato una sollevazione di Confindustria. Il Sole 24 Ore ha fulminato Tridico con tanto di editoriale sull’eterno “spirito anti-industriale” che sarebbe “il male oscuro del Paese”. Il presidente dell’Inps ha poi corretto il tiro, ma resta il fatto che i numeri restituiscono un’immagine non edificante di certa classe imprenditoriale.

Solo per la Cig in ogni sua forma (ordinaria, straordinaria, in deroga) il governo ha stanziato nel solo decreto “Cura Italia” di marzo 2,3 miliardi. L’assalto dei furbetti era prevedibile: di norma tutti gli ammortizzatori sociali hanno dei requisiti minimi per essere fruiti, stavolta invece l’unico requisito era che il lavoratore fosse in servizio prima del 17 marzo, data del decreto.

Il servizio anti-frodi dell’Inps ha scovato di tutto: hanno fatto richiesta di Cig aziende inesistenti in settori incompatibili con il lockdown e/o presentato migliaia di assunzioni retroattive per far risultare in servizio prima del 17 marzo parenti, amici o soggetti che non lavoravano realmente nell’azienda. Su quasi 2600 società irregolari, il record spetta all’area metropolitana di Napoli (348), seguita dalla Sicilia (333) e dal Lazio (264), ma i numeri sono alti anche in Emilia Romagna (196) e Lombardia (163). “L’assalto è stato impressionante, è come se i furbetti di un anno si fossero concentrati in due mesi”, raccontano dall’istituto. Anche perché la crisi ha fatto esplodere le ore di Cig richiesta: 860 milioni solo ad aprile contro le 260 milioni di tutto il 2019.

Ad ogni modo, le aziende sospette erano molte di più, circa 15 mila. Sono quelle identificate dal sistema “Frozen” in uso all’Inps, che, appunto, congela l’erogazione della Cig se l’azienda supera alcune soglie di allarme. Poi tocca alle sedi territoriali verificare le anomalie. Da qui la scrematura a 2600, numero destinato a salire. Dentro c’è di tutto: un’agenzia di pompe funebri calabrese che subito dopo il lockdown (il 9 marzo, ndr) aveva assunto 30 persone subito messe in Cig; un’altra che è stata costituita due giorni dopo la “chiusura” e in poche ore ha assunto una trentina di cittadini del Bangladesh; diversi stabilimenti balneari che hanno assunto come bagnini, i parenti del proprietario e persino il consulente del lavoro. Formalmente i dipendenti oggetto di richiesta fittizia di Cig sono circa 10mila, ma il numero vero è più alto perché in molti casi l’Inps non ha neanche accettato la domanda. Tutto considerato, il danno evitato è stato di un centinaio di milioni.

Numeri di fronte ai quali impallidiscono i 599 furbetti del reddito di cittadinanza scovati dall’ispettorato del lavoro nel 2019. I settori con più aziende irregolari sul fronte Cig sono edilizia, ristorazione, balneazione, cioè quelli che durante il lockdown dovevano restare chiusi e invece assumevano retroattivamente. L’Inps ha trovato anche 1.200 Co.co.co assunti solo per beneficiare del’indennità da 600 euro. E questo senza contare i casi in cui i lavoratori in Cig hanno continuato a lavorare in nero o in smart working. Non possono essere rilevati da “Frozen”, ma l’Inps ha deciso di attivare controlli ad hoc.

L’App Immuni è sicura, però non a prova di (bravi) hacker

Forse non tutti lo sanno, ma l’Italia ha una eccellenza nel campo della cyber sicurezza: è il Cini, il Consorzio interuniversitario nazionale per l’informatica (costituito da 47 Università pubbliche e più di 1.300 docenti) da cui arriva un lavoro di analisi e approfondimento su “Immuni”, l’app di tracciamento dei sospetti positivi di Covid, e il contact tracing in generale. È equilibrata, riconosce l’utilità delle applicazioni usate nel mondo ma ne rileva anche i punti deboli. Niente preconcetti: le vulnerabilità rilevate non sono alla portata di tutti e spesso sono le stesse a cui ci espongono altri software. Il ruolo di Immuni, però, è rilevante: senza un sistema efficace e rapido di tamponi e test sierologici, manomissioni dell’app possono bloccare migliaia di persone.

Per ogni tipo di sistema, spiegano gli autori del testo, esistono rischi. Da un lato, i possibili usi impropri dei dati da parte del governo o delle aziende che gestiscono l’applicazione; dall’altro, la difficoltà di qualsiasi tecnologia a resistere ad attacchi informatici o manuali anche a basso livello tecnologico. “Per questa ragione – raccomandano – è necessaria la massima trasparenza delle decisioni e delle modalità operative” che “permette una verifica da parte di esperti indipendenti e l’individuazione di debolezze”.

È possibile ad esempio, che in un’ area geografica vengano disseminati strumenti per raccogliere i codici prodotti dagli smartphone dei passanti (quelli che servono per poi verificare un eventuale contatto tra le app) e che, in un secondo momento, vengano associati a informazioni di contesto, come video e foto di quei luoghi. Il punto debole è il momento in cui il contatto risultato positivo smette di essere anonimo: quando si capisce a chi corrisponde uno dei codici sarà semplice associare tra loro le informazioni raccolte. Ma c’è un rischio ancora maggiore: “In questo scenario, la vittima potrà essere anche tracciata negli spostamenti nell’arco della finestra temporale di contagio”. Altro punto “critico” è il passaggio che collega i server dei servizi sanitari locali dove il contagiato sarà trovato positivo, e il server centrale da cui viene sbloccato “spinta” la notifica ai suoi contatti. Si raccomanda quindi che il sistema sia “progettato con specifica attenzione nei confronti della minaccia in questione”.

Un attacco particolarmente efficace (e a suo modo paradossale) è riguarda invece la creazione di falsi positivi. “Se è vero che gli pseudonimi (i codici associati al telefono, ndr) di un individuo vengono raccolti dagli smartphone presenti in prossimità – si legge – tali pseudonimi potrebbero essere a loro volta inoltrati, anche successivamente, ad altri smartphone, impersonificando, quindi, i proprietari dei suddetti identificativi e generando, di conseguenza, falsi contatti”.

Le persone crederanno quindi di essere state in contatto con un positivo e si metteranno in quarantena, anche se non è vero. Ci sono poi i problemi legati al bluetooth, la tecnologia che l’app sfrutta per far connettere gli smartphone: resta la miglior soluzione per garantire la privacy, ma tenerlo sempre attivo può rendere vulnerabili. “Non è un protocollo particolarmente robusto (sono state recentemente segnalate almeno una decina di vulnerabilità)”. Gli attacchi possibili, da vicino, vanno dai più semplici a quelli più critici come l’innesto di software malevoli per esfiltrare dati. In pratica, è come se ci fosse un canale sempre aperto da cui si può provare a entrare nei telefoni.

C’è infine incertezza sulle onde elettromagnetiche, il segnale che può essere influenzato da molti fattori e potenziato o ridotto con i giusti strumenti. Unendo la capacità di intercettare grandi quantità di dati e quella di tener traccia temporale dei propri contatti, si mette ad esempio in piedi un attacco molto banale sfruttando, si legge, “una caratteristica di alcune app, tra cui Immuni, che auspicabilmente verrà rimossa, che nel segnalare un contatto a rischio ne fornisce un riferimento temporale, dando la possibilità a un utente che ha tenuto rigorosamente traccia dei propri contatti di rompere l’anonimato”.

Il Carroccio “d’oro” supera tutti: 11,5 milioni di euro nel 2018-2019

L’elenco delle donazioni ai partiti contabilizzate dalla Camera dei Deputati è il miglior osservatorio per analizzare l’incrocio tra mondo imprenditoriale e politica. Un elenco di nomi e cifre da leggere con attenzione. Transparency international, sezione italiana, ha elaborato i dati degli ultimi due anni, pubblicando grafici e dettagli delle transazioni su un sito dedicato (transparency.it/soldiepolitica). Il sistema permette di filtrare i risultati per gruppi politici, anno e tipologia dei donatori, ottenendo i dettagli dei singoli movimenti.

I flussi più importanti riguardano gli anni elettorali, quando il reperimento di fondi per le organizzazioni politiche e per i singoli candidati può fare la differenza nelle urne. I finanziamenti da parte delle imprese aumenta in maniera esponenziale. Nel 2018 il saldo a favore dei partiti è stato di 23,4 milioni di euro. In questa cifra sono conteggiati tutti i bonifici, dai versamenti – spesso cospicui – degli eletti a favore dei gruppi di appartenenza, fino alle elargizioni liberali da parte di aziende.

Tendenze Boom nell’anno elettorale, poi si scende. La cifra cala, poi, vistosamente quando le elezioni politiche sono lontane. Nel 2019 sono stati raccolti 9,3 milioni di euro, meno della metà rispetto all’anno delle elezioni per il parlamento.

I partiti che maggiormente ricevono contribuiti dalle imprese appartengono al centrodestra, con in cima la Lega, seguita da Forza Italia. Nel biennio 2018-2019 il partito di Matteo Salvini ha ricevuto complessivamente circa 11,5 milioni di euro, includendo i versamenti arrivati da gruppi politici collegati (ad esempio la “Lega Nord” ha versato al gruppo parlamentare “Lega-Salvini premier” quasi 500 mila euro nel 2018) e le donazioni degli eletti. Il Partito democratico, per avere un termine di paragone, ha incassato poco meno di 7 milioni di euro nello stesso periodo, Forza Italia poco più di 6,3 milioni, Fratelli d’Italia 2,3 milioni di euro. Per quanto riguarda il Movimento 5 stelle le cifre negli elenchi ufficiali della tesoreria dei Deputati sono molto più basse e, nella lista dei donatori senza una carica politica, spicca solo il nome di Giuseppe Grillo, con un versamento di 54 mila euro per le elezioni europee del 2014.

L’onorevole barricato e il no sui 49 milioni

I magistrati di Genova che indagano sui famosi 49 milioni della Lega, possono aspettare. Anzi di più: devono addirittura difendersi. Da circa tre mesi hanno chiesto alla Camera l’autorizzazione a perquisire l’azienda di grafica del deputato del Carroccio Fabio Massimo Boniardi che si sospetta possa aver svolto un ruolo nel presunto riciclaggio di parte del tesoro dei rimborsi elettorali non dovuti e poi spariti nel nulla. Ma a sorpresa adesso saranno proprio loro a dover rispondere alla richiesta di chiarimenti di Montecitorio dopo che Boniardi ha sostenuto che la loro condotta è stata tutt’altro che impeccabile. Di fronte alla Giunta di Montecitorio che deve decidere se dare semaforo verde agli inquirenti liguri ha messo nero su bianco un fatto nuovo: la perquisizione in realtà ci sarebbe già stata e ha violato le sue prerogative. Ma non è tutto. Perché ha pure insinuato il dubbio che la Procura ligure abbia agito con altri obiettivi: non certo di verificare l’esistenza o meno di alcune fatture per manifesti e volantini commissionati dal Carroccio alla sua azienda. Ma per ficcare il naso sul altre faccende, mettendo le mani sulle sua carte istituzionali oltre che sul suo pc, alla ricerca di altri spunti per inguaiare lui e il partito di Salvini. Con un’ingerenza che, sempre a detta di Boniardi, travalicherebbe il decreto di perquisizione dei locali dell’azienda che il deputato ha eletto come domicilio: inviolabile dato che è parlamentare.

Ma riavvolgiamo il nastro. Quando nel 2017 il tribunale di Genova aveva ordinato il sequestro dei conti della Lega dopo la condanna di Umberto Bossi e del tesoriere Francesco Belsito per il fattaccio dei 49 milioni aveva trovato solo gli spicci: in tutto 3,1 milioni. Da allora i magistrati si sono messi a dare la caccia al tesoro scomparso passando ai raggi x tutta una serie di movimenti sospetti. Da ultimo, a dicembre, la Procura di Genova ha indagato l’assessore regionale della Lega Stefano Bruno Galli nella sua qualità di presidente dell’Associazione Maroni Presidente: sono convinti che “vi sia fondato motivo di ritenere che somme di denaro costituenti proventi di reato commessi da Bossi e Belsito possano essere state oggetto di riciclaggio da parte di Galli”. E in particolare che la somma di 450 mila euro, proveniente da tali reati, sia stata erogata come contributo da Lega Nord all’Associazione in questione. E da questa corrisposta a due srl, della galassia leghista, la Nembro e la Boniardi Grafiche “a pagamento di fatture per operazioni in tutto o in parte inesistenti”. Per poi rientrate nelle casse della Lega sotto forma di erogazione liberale da parte dell’Associazione Maroni Presidente.

A mettere gli inquirenti sulla pista di Galli, Boniardi & C. un super testimone, l’ex consigliere regionale eletto con “Maroni Presidente”, Marco Tizzoni che aveva chiesto inutilmente lumi a Galli sui rendiconti delle spese: anche per i manifesti per il referendum sull’autonomia del 2017 affidati alla Boniardi Grafiche ma che il suo gruppo non aveva commissionato e che nessuno aveva mai visto affissi in Lombardia. Il 10 dicembre dello scorso anno gli agenti della Finanza si sono dunque presentati di buon mattino nell’azienda di Boniardi. Ma hanno dovuto girare i tacchi dopo che ha opposto l’immunità parlamentare facendo notare che il suo ufficio e il suo computer sono “luoghi istituzionali, riconoscibili da contrassegni del Parlamento della Repubblica e soprattutto sono luoghi dove si svolge attività politica”. Insomma per Boniardi si è trattato di una azione persecutoria, almeno stando a quanto ha rappresentato di fronte alla Giunta per le autorizzazioni a procedere di Montecitorio. Ma c’è di più. Perché il leghista ha pure accusato gli inquirenti di aver agito illegittimamente puntando sull’effetto sorpresa quando lui era pronto a collaborare mettendo a disposizione le fatture e mostrando persino i manifesti fantasma. Tutto inutile perché, a suo dire, i magistrati di Genova in realtà sarebbero a caccia di prove per formulare “un’ipotesi investigativa non ancora elaborata”.

100mila euro alla Lega da un conto in rosso

Ha la voce dimessa al telefono Paolo Cosenza. Imprenditore campano, membro di una delle famiglie più potenti di Pozzuoli, è il principale finanziatore, per il 2019, della Lega per Salvini Premier. Centomila euro, in un’unica tranche, pagati un anno fa. Trovarlo non è stato facile, il telefono aziendale per giorni squillava a vuoto, la sede appariva introvabile, l’unico contatto attivo è la Pec della sua azienda: “Adesso l’ufficio è praticamente un box di cantiere itinerante, perché sto facendo un cantiere che… insomma… non mi consente più di avere una sede fissa. Mi sono ridimensionato tantissimo”, esordisce. La sua società, la Coseco srl, ha effettivamente avuto un crollo negli affari, passando da un fatturato di 635 mila euro nel 2017 ad appena 45 euro nel 2018. Una crisi che ha messo a rischio la stessa esistenza dell’impresa. E gli ultimi due anni sono stati disastrosi per i conti, spiega: “Ho avuto una brutta esperienza con un socio, che continua ad andare avanti non so in quale maniera, con espedienti, quindi l’ho dovuto cacciare dalla società, mi ha fatto perdere soldi”. Una questione di un prestito infruttifero da 600 mila euro, “mai restituito”.

 

“Buco” e cemento quanto vale l’area ex Ansaldo

Eppure pochi giorni prima di discutere un bilancio con una perdita secca sull’utile di più di 340 mila euro, la Coseco diretta da Cosenza decide di fare un bonifico record alla Lega, piazzandosi tra i primi posti dei donatori della politica nazionale, allo stesso livello di holding molto note. Il motivo? “Un investimento, è stato un investimento”, spiega l’imprenditore. Meglio finanziare la politica che l’impresa, in fondo. Per capire la portata della cifra basta scorrere l’elenco dei donatori che, negli anni passati, hanno versato 100 mila euro ai partiti italiani: si va dai figli di Silvio Berlusconi a Ennio Doris, dalla Moby spa al gruppo Angelucci, passando per Fedele Confalonieri. Un parterre niente male per lo sconosciuto imprenditore napoletano. Pozzuoli, la città da dove sono partiti i soldi diretti ai conti nazionali della Lega, è un comune da quasi 90 mila abitanti della area metropolitana di Napoli. Sta nel cuore dell’area flegrea, che vuol dire il paradiso del mare e l’inferno della deindustrializzazione, con una pesante eredità economica e ambientale. Confina con Bagnoli, già polo della siderurgia italiana che ha lasciato un’area enorme da bonificare. A Pozzuoli la classe imprenditoriale, in buona parte composta da costruttori, ha un sogno nel cassetto. Si chiama Waterfront, un megaprogetto per il recupero dell’area ex Ansaldo, di fronte allo splendido mare del golfo, pensato dal più noto imprenditore della zona, Livio Cosenza, morto qualche anno fa.

Può essere una opportunità, ma potrebbe diventare un vero incubo, con una colata di cemento e appartamenti. Dipende, come sempre, dall’indirizzo delle amministrazioni pubbliche. L’area interessata dal progetto confina con la sede produttiva dalla Prysmian Power Link, multinazionale specializzata in cavi sottomarini, che ha ereditato lo stabilimento dalla Pirelli. Lo scorso anno un gruppo di associazioni, sindacati e partiti di Pozzuoli (tra questi articolo 1, il Movimento 5 stelle, Potere al popolo) ha presentato un appello per rivedere l’intero progetto, evitando la nascita fronte mare di nuovi insediamenti residenziali. Per Paolo Cosenza – legato da parentele e passate cariche sociali con il gruppo omonimo, proprietario dell’area destinata al Waterfront, oggi gestito dall’ex deputata del Pdl Giulia Cosenza, figlia di Livio – la politica vuol dire “investire nel futuro”. Non idealmente, ma in cash: “Perché ho finanziato la Lega? Confidavo e confido che possa fare qualcosa sul territorio – spiega al Fatto Quotidiano – c’erano una serie di cose e di programmi che mi interessavano. Ci tenevo, insomma, a farne parte”. Come si suol dire, era bene essere della partita. “Sono in un momento in cui sto investendo tantissimo, più che recependo e quindi spero in una serie di progetti per il territorio”, commenta.

 

Affari & famiglia. I progetti e “l’attenzione dei politici”

E ha ben chiaro quali siano i progetti interessanti, i dossier per i quali vale la pena spendere tanti soldi in momento di crisi per finanziare la politica: “Ce ne sono un paio, può essere il Waterfront, la zona artigianale, insomma, ci sono dei progetti che si spera ottengano l’attenzione dei politici. Speriamo, in Italia andiamo avanti a speranze”.

E per sperare si è rivolto al partito che cantava, fino a pochi anni fa, i cori contro i napoletani. Segno di una Lega, ormai nazionale, che sta penetrando prepotentemente nel meridione. Paolo Cosenza ci tiene a dire di non essere un militante leghista: “Io sono negato in politica, perché sono un utopista”, spiega. Quella donazione per una cifra pari a più del doppio del suo ultimo fatturato presentato in Camera di commercio sono tutti soldi suoi, assicura. “Se Salvini mi ha ringraziato? No, ma io non ci tengo, io guardo sempre sul locale, io ho una azienda che investe molto sul territorio”.

I rapporti, sostiene, li avrebbe avuti solo con i dirigenti locali del partito. Di nomi, però, non ne vuole fare: “No, meglio di no… poi ci vediamo da vicino, insomma… Ripeto, io conosco qualcuno qua a Pozzuoli, ma adesso per telefono, non mi sembra il caso”.

 

Il consigliere “avrà visto i vertici centrali”

Una versione, questa, che però viene nettamente smentita da Mario Cutolo, consigliere leghista a Pozzuoli e responsabile del partito per i comuni della provincia di Napoli: “Cosenza, che conosco bene, non ha rapporti con la Lega locale, la Lega locale sono io e quindi lo saprei. L’incontro sicuramente Paolo lo avrà fatto con i vertici centrali, io sono una realtà periferica, non lo ha fatto con me”.

Cutolo assicura di non conoscere “i termini della donazione” inviata dalla Coseco: “Sicuramente da grande imprenditore qual è sarà stata fatta ai più alti livelli. Ma io non conosco i termini e le condizioni della donazione. La famiglia Cosenza è impegnata nel favorire lo sviluppo, ma non conosco l’accordo con la Lega”, spiega al Fatto Quotidiano. Dagli uffici nazionali del partito di Matteo Salvini preferiscono non commentare, salvo il rituale “è tutto in ordine, è tutto regolare, sono soldi messi in bilancio”. E ci mancherebbe.

Paolo Cosenza alla fine decide di non andare oltre nel racconto, “Meglio se non ci vediamo, mi scusi”, spiega al telefono. Per poi aggiungere: “Forse tutti questi soldi investiti, bruciati… forse era meglio se me ne andavo a fare un viaggio per il mondo”. Per ora sogna il Waterfront di Pozzuoli dal box di un cantiere.

Gestione Covid, la Lega affossa la Commissione in Piemonte

La Lega affonda la commissione di inchiesta sull’emergenza Covid-19 in Piemonte. Non vuole che venga approfondita la gestione della sanità in una delle regioni più colpite dal coronavirus. Mercoledì in Consiglio regionale era atteso il voto definitiva dopo giornate di confronti, ma il Carroccio si è tirato indietro.

Ci sarà una sottocommissione, un gruppo di lavoro all’interno della commissione Sanità senza poteri di indagine e guidato da un leghista. “Risalgono appena a questa mattina (mercoledì per chi legge, ndr) le dichiarazioni del presidente del gruppo della Lega, Alberto Preioni, secondo il quale non si sarebbero sottratti alla creazione di questo importante strumento di lavoro”, ha rimarcato Raffaele Gallo, capogruppo Pd.

A far cambiare idea sarebbe stato il presidente del Piemonte, Alberto Cirio, e il suo assessore alla Sanità, il leghista Luigi Icardi. “Se la maggioranza pensa che le responsabilità arrivino dal passato, usi la commissione per evidenziarlo. Altrimenti vuole dire che non è così tranquilla e forse ha qualcosa da nascondere”, ha aggiunto il presidente del gruppo M5s Sean Sacco. “Maggioranza e giunta non hanno nulla da nascondere ed è fuori luogo continuare a parlare di un caso Piemonte che non esiste”, ha risposto il capogruppo della Lega, Alberto Preioni. “Il caso Piemonte è noto a tutti, tranne che a Lega e soci”, ha replicato Marco Grimaldi (Leu).

Chiusura in Valseriana. La catena di comando che non ha funzionato

L’indagine della procura di Bergamo sulla mancata zona rossa tra Alzano e Nembro oggi entra nel vivo con gli interrogatori del premier Giuseppe Conte, del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e del ministro della Salute Roberto Speranza. Come per il governatore Attilio Fontana, il procuratore Rota punta a capire quale è stata la catena di comando che ha portato a ipotizzare la zona rossa e poi a tornare indietro. Già giorni fa, il magistrato aveva spiegato che fu “una scelta governativa”. Posizione maturata non a margine dell’incontro con Fontana, ma dopo aver sentito in via informale le forze dell’ordine. Secondo la ricostruzione che il Fatto ha potuto fare sentendo fonti qualificate tutto parte dal Viminale tra fine febbraio e inizio marzo dopo un confronto con Regione Lombardia. Si punta sulla zona rossa. È un’ipotesi operativa e tale resterà. A quel punto il Viminale contatta i comandi generali di Finanza e Carabinieri per inviare 300 persone. Che arriveranno il 3 marzo. La polizia invia da Padova il reparto mobile con un ordine di servizio messo nero su bianco. La catena di comando resta tutta orale, tradotto: telefonate. Si arriva così alla periferia e cioè alla Questura di Bergamo e al Comando provinciale. Entrambi si attivano per i sopralluoghi. Si identificano 20 check point per chiudere i comuni di Nembro e Alzano. A quel punto tutto resta in stand by. Si attende il semaforo verde. Solo così il Questore potrà redigere un atto formale. E però questo atto non sarà mai scritto, perché dal Viminale arriverà l’ordine di sciogliere le righe. Questo è avvenuto nei fatti. Che potevano forse cambiare se la Regione avesse agito da sola come le permette la legge. Ma così non è stato. Dove stia la responsabilità penale toccherà alla Procura capirlo.

Allarme Lombardia: scendono i tamponi, ma salgono i contagi

Allarme rosso in Lombardia e non solo per i numeri di ieri con i contagi schizzati a +252 (due volte e mezzo rispetto a mercoledì), ma soprattutto perché nel confronto con la scorsa settimana il numero di tamponi è diminuito e nonostante questo, vedendo i dati di sette giorni fa, i positivi sono aumentati. La settimana che si chiude oggi manda in archivio 68 mila tamponi, il valore più basso degli ultimi due mesi. La scorsa settimana i test sono stati 90.500. A fronte di questi i numeri, i contagi aumentano questa settimana con 1.406 positivi in più rispetto ai 1.373 dei sette giorni precedenti. Le province di Brescia e di Bergamo ieri hanno messo assieme 120 casi in più. Mentre Lodi segna solo +7. In Lombardia i morti ieri sono stati 25. E come sempre la regione detiene il record dei contagi, ben oltre il 70% del numero nazionale attestato ieri a 379 e circa il 50% dei decessi con un numero nazionale di 53 morti. Il dato dei tamponi, che in Lombardia scendono drammaticamente, è quello che preoccupa di più. Un calo diffuso a livello nazionale, spiegato ieri dal Fatto che ha anticipato i dati della Fondazione Gimbe di Bologna. La diminuzione dei test molecolari riguarda soprattutto quelli diagnostici, i più importanti per comprendere la curva epidemiologica del Covid-19. Il calo complessivo per Gimbe è del 12,6%

Oltre a questo si chiariscono i numeri della strage nelle Rsa. Nei primi 4 mesi del 2020, nella popolazione dell’Ats Milano, che comprende il territorio metropolitano di Milano e la provincia di Lodi, si sono registrati 5.500 morti in più dell’atteso tra gli over 70 rispetto alla media dei 4 anni precedenti. Di questi, il 46% si sono verificati nelle Rsa. Complessivamente nelle Rsa è morto il 22% degli ospiti, con una mortalità 2,5 volte più elevata degli anni precedenti. Sul territorio milanese sono presenti 162 Rsa che ospitano oltre 16.000 persone. “Quello rilevato è un aumento della mortalità assoluta rispetto agli anni precedenti, ed è la fotografia di quanto avvenuto”, ha rilevato Walter Bergamaschi, direttore generale dell’Ats Milano. L’eccesso di mortalità riguarda quasi esclusivamente la popolazione con più di 70 anni. Una mortalità che non è stata la stessa in tutte le Rsa, ma è variata sulla base di fattori che ora sono in corso di analisi da parte dell’Ats, come le politiche di isolamento o l’uso dei dispositivi di protezione. Lo studio condotto ha rilevato che l’eccesso della mortalità negli anziani delle Rsa ha avuto un picco a marzo e aprile, mese in cui è stato di oltre 4 volte superiore. Come ha precisato Antonio Russo, direttore dell’unità di Epidemiologia dell’Ats, “tra gennaio e aprile nelle Rsa erano attesi 2.180 morti, e invece ce ne sono stati 4.800, con un eccesso di mortalità pari a 2.600 persone”. Ma quello che è avvenuto nelle Rsa milanesi, ha aggiunto Bergamaschi, è “sovrapponibile a quanto accaduto nelle Rsa di tutto il mondo, come dimostrano i dati che si stanno raccogliendo. Dove l’epidemia è stata più forte, maggiore è stato l’impatto nelle Rsa. Il principale fattore che ha determinato questa mortalità è legato alla fragilità degli ospiti”. Il report secondo i tecnici serve per “dare strumenti a chi lavora nelle Rsa per essere pronto a una seconda ondata. Dai dati emerge che certamente la disponibilità di dispositivi di protezione individuale nelle prime settimane nelle Rsa era insufficiente ed è stato difficile reperirli”. Di più: “Emerge la necessità di una maggiore formazione e di un maggior investimento nel personale che lavora in queste strutture e occorre poi ripensare un pochino il modello delle Rsa e le risorse che possono essere dedicate alla cura dei non autosufficienti”. Detto questo e come già spiegato dal Fatto, la consapevolezza della diffusione del contagio in queste strutture per Regione Lombardia è arrivata fuori tempo massimo, visto che il maggior numero dei tamponi nelle Rsa milanesi si registra nella settimana del 25 aprile.

Regioni: ecco le 116 zone rosse (con o senza l’ok del governo)

“Al momento non c’è nessuna ipotesi di introdurre nuove zone rosse”. È il 27 febbraio, Giulio Gallera parla dei contagi che si moltiplicano senza respiro a Nembro e Alzano, area della bergamasca che sta per finire travolta e che la Regione sta “guardando con attenzione”. Il 5 marzo il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro lo certifica: la zona rossa va fatta. Poche ore dopo l’assessore al Welfare replica che il Pirellone ha dato “l’assenso, ma ora il governo deve fare le sue valutazioni”, ributtando la palla nel campo di Roma. Migliaia di morti e dopo e con la procura di Bergamo che indaga sulle mancate decisioni di quelle ore, Attilio Fontana continua a negare di poter prendere la decisione da solo. Ma nove suoi colleghi lo hanno fatto: hanno istituito 116 zone rosse per circoscrivere focolai ed evitare che il SarsCov2 si propagasse altrove nei loro territori. A consentirglielo c’era legge 883 che nel 1978 aveva istituito il Sistema sanitario nazionale e stabilito che ministro della Salute, Regioni e Comuni possono adottare misure restrittive per far fronte a situazioni di emergenza.

Ma c’era anche il dl 6 del 23 febbraio: “Allo scopo di evitare il diffondersi del Covid-19 (…) le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”, recita l’articolo 1 del testo emanato dal governo 24 ore dopo aver chiuso Codogno e in Lombardia e Vo’ Euganeo in Veneto. Con l’articolo 2 che poi specifica gli strumenti a disposizione dei governatori, tra cui il “divieto di allontanamento”, quello “di accesso al comune o all’area interessata” e la “sospensione di manifestazioni di qualsiasi natura”.

Quando e dove è servito, il loro potere i presidenti delle Regioni lo hanno esercitato. Come il 16 marzo quando, all’alba, il sindaco di Medicina, 34 km da Bologna, annunciava che il comune era stato dichiarato zona rossa. L’ordinanza era firmata da Stefano Bonaccini: “L’abbiamo fatta di notte, decisione politica difficile, e poi abbiamo informato il governo”, ha raccontato ieri il governatore dem dell’Emilia-Romagna dove i comuni chiusi sono stati in tutto 70, 45 nel piacentino e 25 nel riminese. “Abbiamo chiesto noi al governo a metà marzo di istituire due province, Rimini e Piacenza, per intero come zone arancioni, quasi rosse, con le restrizioni più pesanti nella mia regione, e Medicina zona rossa – ha proseguito Bonaccini – perché gli epidemiologi mi mostrarono dati drammatici”. Nelle settimane successive otto suoi colleghi facevano altrettanto, vergando decine di ordinanze: Zingaretti nel Lazio ne firmava 5, Santelli in Calabria arrivava a 11.

Il 24 aprile giorno in cui la Protezione civile comunicava altri 3.021 nuovi contagi in tutta Italia, Silvio Brusaferro teneva il conto: “Il virus continua a circolare tanto che esistono ancora oggi 106 zone rosse in altrettanti Comuni in 9 Regioni”, spiegava il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità mostrando in conferenza stampa le slide di rito in cui comparivano le cartine di Emilia-Romagna, Lazio, Umbria, Campania, Abruzzo, Molise, Basilicata, Calabria e Sicilia. Cresceranno ancora, fino a toccare un totale di 116. Il 30 aprile ancora Brusaferro annunciava che il numero era sceso a 74 comuni in 7 Regioni, “segno della capacità di individuare precocemente focolai e limitarli”. L’ultimo a riaprire è stato il 26 maggio il piccolo centro di Letino, in provincia di Caserta, chiuso dieci giorni prima da Vincenzo De Luca per far fronte a un improvviso aumento dei contagi. Come quello registrato a fine febbraio nella bergamasca. Decisione che la Lombardia non ha mai preso nella convinzione che, una volta istituita la zona rossa di Codogno e Vo’, il potere di inviare militari e forze dell’ordine a chiudere le strade di accesso ai centri focolaio era tutto di Palazzo Chigi.

Una crepa nelle linea del Pirellone si era aperta il 7 aprile, giorno in cui Giulio Gallera si era arreso: “Ho approfondito ed effettivamente la legge c’è”, ammetteva quel giorno il titolare del Welfare. Per essere pubblicamente contraddetto due settimane dopo dal suo governatore: “È ottimo come assessore, come giurista un po’ meno – lo ridimensionava Fontana il 20, sottolineando ancora una volta la confusione in cui l’emergenza Covid-19 aveva precipitato la giunta lombarda – Questo genere di iniziative può essere assunto solo dal potere centrale”.

E le nuove zone rosse istituite proprio in quei giorni in Lazio e Campania? “Non sono nel rispetto della legge”, sentenziava il leghista. Che continua a negare, mentre i suoi colleghi si assumono la paternità delle decisioni. “Ho anticipato i tempi con ordinanze decisive – rivendicava ancora ieri il governatore del Molise Renato Toma – tipo le quarantene per chi veniva dal nord già al 9 marzo o le zone rosse che hanno salvato migliaia di cittadini”.