L’ultima versione di Capezzone, eroe sovranista

Ve lo ricordate Capezzone? Quello con gli occhialetti e l’eloquio un po’ secchione, imitato da Neri Marcorè. Quello Radicale, figlio di Pannella, europeista, liberista, ma pure un po’ socialista zapateriano, poi berlusconiano ortodosso, infine eretico, in fuga da Forza Italia e accolto da Raffaele Fitto. È stato un eccellente portavoce, visto che portava – con la stessa faccia – ogni volta la voce di uno diverso. E la portava ovunque: in tv, in radio, sui giornali, in Parlamento. E ora? Ora che fa Daniele Capezzone?

Il nostro, che non ha mai smesso di definirsi “liberale”, è diventato una delle firme di punta de La Verità di Belpietro, il quotidiano corsaro che ha cavalcato con talento gli spiriti animali dell’ascesa salviniana. L’ultimo Capezzone twitta garrulo nella cerchia dei Bagnai, dei Borghi, dei Rinaldi, dei Porro: è diventato uno degli intellettuali di riferimento nella galassia virtuale della destra “sovranista”, quelli che su Twitter mettono accanto al nome la bandierina italiana o quella greca. Apprendiamo con un certo sgomento dalla piattaforma eTrender, uno degli aggregatori che calcolano l’influenza dei profili social, che Capezzone sarebbe addirittura tra i primissimi “trendsetter” in Italia. La scorsa settimana era al quarto posto dietro a Matteo Salvini (che non smette mai di celebrare), Fanpage e Il Fatto Quotidiano.

Ci meritiamo anche questo: Capezzone maître à penser. Ma di quale pensiero parliamo? Giovane prodigio radicale, allevato a pane e Pannella, sostituto del mitico Bordin nella rassegna “Stampa e regime” della domenica, l’ambizioso Capezzone prende in mano le redini del partito da ragazzo: è segretario a 28 anni. È schiettamente di destra ma porta i Radicali dall’altra parte, all’abbraccio con i socialisti. La lista della Rosa nel pugno prende il 2,6%, è decisiva per la nascita del governo Prodi, Capezzone si becca pure la presidenza di una commissione. Va in tv tutto serio a dire: “Vogliamo più Blair, vogliamo più Zapatero”. Sinistra, laicismo e libertà. Dura poco.

Litiga con Pannella e Bonino (leggendario il bestemmione di lei in diretta radio: “Non ci sei solo tu, Daniele, nel mio piccolo sono importante pure io, porco di un …!”), fa i bagagli, si offre a Berlusconi tramite Sandro Bondi: diventa portavoce di Forza Italia. Di B. diceva, tra le altre cose: “Ha una visione clerico-fascista”. Tutto perdonato. La sua figura si ingrigisce un poco. Fioccano retroscena così: sembra che stia sulle palle a Dudù, il barboncino di casa Berlusconi, che ringhia furiosamente ogni volta che Capezzone è al capezzale. Alla fine si stufa anche di Silvio e va via, scappa con Fitto. S’immerge e scompare.

Quando riaffiora è un pensatore salviniano. Il programma del giovane Capezzone era “pacs, droga e Giavazzi”. Sarebbe a dire: diritti gay, antiproibizionismo e liberismo. Ora Capezzone twitta contro i migranti, denuncia i “pacchi francotedeschi” e descrive con giubilo “lo spettacolare fallimento del progetto europeo”, liscia il pelo di @matteosalvinimi un giorno su due. “È la sua natura – scrisse Francesco Merlo in un formidabile ritratto – come don Abbondio che non aveva coraggio, Capezzone non ha un io”.

La scuola apre 8 giorni dopo. Prima bisogna allestire i seggi

Sono il 20 e 21 settembre le due date scelte dalla maggioranza per l’election day che unirà il voto in sette regioni, le amministrative in 1000 comuni e il referendum sul taglio dei parlamentari. Un “baricentro” rispetto al 6 settembre, come volevano i governatori, e il 27 chiesto dalle opposizioni. Con una conseguenza immediata, anche se non ancora ufficiale: per evitare di richiudere le scuole sedi di seggio ad appena tre giorni dalla ripresa delle lezioni, la riapertura delle aule slitterà direttamente a dopo il voto, probabilmente mercoledì 23 settembre. Otto giorni dopo rispetto al 15, pensato originariamente. Prolungando di un’altra settimana lo stop all’istruzione in presenza iniziato a marzo scorso.

Il ministero dell’Istruzione non ha ancora deciso ma questa sembra la strada più scontata: “Ci ragioneremo nelle prossime ore – dice al Fatto il sottosegretario del Miur Giuseppe De Cristofaro – ma quest’ipotesi c’è: è sicuramente una data che non aiuta a riaprire le scuole la settimana prima e non avrebbe molto senso richiuderle dopo pochi giorni”. Anche il deputato Pd Stefano Ceccanti, che ha seguito il dossier elezioni fin dall’inizio, la pensa allo stesso modo: “Non cambierà molto – spiega – probabilmente il Miur avrebbe indicato comunque una data vicina al 23”. Al Ministero di viale Trastevere sarà fatto presto anche un censimento delle scuole dove saranno istituiti i seggi che, nella maggior parte dei casi, sono le elementari e le medie. Ma comunque la ripresa della didattica avverrà in un’unica data per gli studenti di ogni età.

Resta, quindi, il problema di dover spiegare alle famiglie, soprattutto quelli con bambini più piccoli, e a molti sindaci l’ennesimo rinvio della riapertura delle scuole, fondamentale per tutti i genitori che hanno ripreso o non hanno mai smesso di lavorare. “Il tema c’è e può essere problematico – spiega al Fatto Gabriele Toccafondi, ex sottosegretario alla Scuola e oggi deputato di Italia Viva – però la data del 20 settembre è la migliore possibile: votare il 6 o il 13 significava fare campagna elettorale sotto l’ombrellone mentre il 27 era troppo tardi. Una cosa buona c’è: potremmo allungare da due a tre settimane i corsi di recupero agli studenti delle superiori con insufficienza e non solo per colmare le lacune della didattica a distanza”.

Intanto si avvia alla conclusione l’iter parlamentare del decreto elezioni: ieri pomeriggio la Camera ha votato gli emendamenti e il “sì” finale è previsto per lunedì. L’accordo per sbloccare la situazione parlamentare – e in particolare l’ostruzionismo di Fratelli d’Italia che voleva votare il 27 – è stato trovato martedì sera, dopo ore di mediazione, in conferenza di capigruppo: ieri è stato approvato un emendamento sulla par condicio voluto dal centrodestra secondo cui l’Agcom dovrà vigilare che non ci sia un “vantaggio competitivo” da parte dei governatori uscenti che in questo periodo di emergenza Covid-19 sono particolarmente esposti sui media. Nell’accordo sono stati compresi anche due ordini del giorno votati dalla Camera: il primo, presentato dal deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, prevede che le Regioni non “modifichino le leggi elettorali” a esclusione del principio della doppia preferenza di genere, e il secondo del forzista Simone Baldelli in cui il governo si impegna a “valutare la volontà del comitato promotore sul tema della data della celebrazione del referendum costituzionale”. Obiettivo: spostare il voto sul taglio dei parlamentari dal primo al secondo turno di inizio ottobre.

Durante la seduta di ieri, infatti, molti sostenitori del “No” al referendum sul taglio dei parlamentari, come Riccardo Magi dei Radicali e Roberto Giachetti di Italia Viva, hanno chiesto che quest’ultimo venga scorporato dalle elezioni regionali per non dare alla consultazione un valore troppo politico, facendo leva sulla decisione dell’allora governo Berlusconi di celebrare in due date diverse le elezioni politiche di aprile e il voto sulla riforma costituzionale a giugno 2006 (bocciata dagli italiani). Ma dalla maggioranza chiudono: “Un caso solo non può fare giurisprudenza costituzionale e poi quella fu una scelta politica – conclude Ceccanti – il referendum sarà fatto la stessa data del primo turno perché farlo al secondo significherebbe richiudere di nuovo tutte le scuole d’Italia. Il ballottaggio infatti riguarderà solo pochi comuni e, forse, la Toscana”.

Il Pd è ancora gelido: “Concreti o rischiamo un incendio sociale”

Davanti alla coppia Giuseppe Conte-Roberto Gualtieri che a Palazzo Chigi fa le consultazioni con i capigruppo per gli Stati generali, sfilano le delegazioni di Iv e di Pd, a ruoli invertiti.

I renziani sono particolarmente concilianti, i dem più critici, pur se attenti a tirare la corda, evitando che si rompa.

Il dettaglio che illumina il quadro dei rapporti del premier con i partiti di maggioranza non arriva, infatti, dagli incontri. Ma da una votazione a Palazzo Madama, l’altro giorno. In Commissione il senatore Luigi Cucca di Italia Viva si è astenuto sull’emendamento di Forza Italia che propone la sospensione della riforma della prescrizione voluta dal ministro Bonafede, nonostante tale emendamento riproducesse testualmente la proposta della sua collega, Lucia Annibali. Il segno più evidente che in questo momento Matteo Renzi e i suoi non hanno alcuna intenzione di mettere in difficoltà il premier. Anzi, cercano di ritagliarsi il ruolo di alleato più affidabile, proprio mentre dal Pd arrivano segni di insofferenza crescente.

Conte riceve prima Maria Elena Boschi, Ettore Rosato e Davide Farone. L’incontro inizia verso le 10 e 30 e si conclude poco dopo le 11 e 30. La Boschi chiarisce all’uscita quali sono le priorità dei renziani: piano shock, semplificazione, scuola e università. Dice: “Abbiamo chiesto un coinvolgimento del Parlamento nel confronto con il governo per individuare le priorità del Paese”. Non solo: annuncia che il Family Act andrà nel Cdm la sera (dove poi viene approvato). In filigrana, c’è tutto: la battaglia sulle Infrastrutture (è quello il ministero cui il partito guarda in caso di rimpasto, per ora remoto, anche se auspicato da molti). E poi, chiedendo un coinvolgimento del Parlamento, Iv sa di poter far pesare i suoi voti, soprattutto a Palazzo Madama. D’altra parte, il ruolo di ago della bilancia è l’unico che Renzi può giocare.

Operazione complessa, visto che il gruppo è sempre più diviso e sempre più di malumore. E che i rapporti del Pd con Forza Italia rischiano di marginalizzarlo . Ma intanto se la gioca. E ha intenzione di farlo almeno fino a quando non si arriva al cambio delle presidenze di commissione. Iv vuole alla Camera la Bilancio per Marattin e Affari costituzionali per la Boschi. Sentire Cucca: “Mi sono astenuto sulla riforma della prescrizione perché il ministro è venuto in Aula a fare un accordo sulla giustizia. Non mi pareva il caso di un colpo di mano ora”. Peccato che lo stesso Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, indicato da Renzi come partecipante a un tavolo sulla giustizia (deciso dopo la fiducia a Bonafede) critichi duramente la scelta di Cucca (non determinante: con il suo sì, la votazione sarebbe finita 12 a 12 e l’emendamento sarebbe passato comunque).

Dove l’atmosfera è decisamente più tesa è in casa Pd. Il premier riceve quei due capigruppo, Graziano Delrio e Andrea Marcucci, che vengono considerati tra i più ostili al governo, sia a Palazzo Chigi, che al Nazareno. Ma che sono centrali: Nicola Zingaretti è fuori dal Parlamento, i gruppi dem hanno più anime e il loro controllo è essenziale.

L’incontro con i due dura circa un’ora e mezzo. Delrio ci tiene a chiarire al premier che “la situazione è molto seria”. Sia nel paese, dove “l’incendio sociale” è dietro l’angolo (occhi puntati sull’autunno), sia nel governo, dove i risultati stentano ad arrivare. Lo invita ad analizzare i problemi “con il metodo Ciampi”, ad analizzare cosa va e cosa non va. E a coinvolgere i parlamentari. Perché poi in questi mesi il presidente dei deputati Dem è uno di quelli che più hanno fatto notare l’assenza del Parlamento. Non solo: critico anche sulla gestione dell’immigrazione e sul piano Colao. Su quest’ultimo, Marcucci si differenzia: usa toni meno aspri. Ma in generale la posizione ufficiale dei dem resta quella stabilita: “Ambizione e concretezza”, ma “condivisione del processo”. Finché dura.

“Gli Stati Generali decisivi per fare il Recovery Plan”

Palazzo Chigi, pomeriggio. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è in piedi: rimane in silenzio per un po’, poi congiunge le mani. E dice: “Mi chiedete dell’ipotesi di Lorenzo Guerini come premier al mio posto? Ma le pare che io con tutto il lavoro che c’è da fare io possa seguire tutte le suggestioni di cui si parla?”. Conte ha fretta: di fugare le voci su continui complotti nella maggioranza, di annunciare progetti, di arrivare a settembre con piani e fondi per superare la notte dell’emergenza.

Domani (oggi, ndr) sarà ascoltato dal pubblico ministero di Bergamo sulla mancata istituzione della zona rossa nei comuni di Nembro e Alzano Lombardo. Teme di uscire dall’audizione come indagato?

Non lo temo affatto. Sono assolutamente disponibile per informare doverosamente il pm su tutte le circostanze di mia conoscenza.

Tornando indietro, ordinerebbe la zona rossa per quei comuni?

No, perché ho agito in scienza e coscienza.

Parliamo degli Stati generali. Cosa rappresentano?

Abbiamo il dovere di programmare un rilancio del Paese e di recuperare una visione strategica. Ci sarà la necessità di ulteriori misure nel breve periodo, ma nello stesso tempo servono iniziative di largo respiro. Dobbiamo tramutare la grandissima sofferenza vissuta in Italia in un’opportunità.

Come?

Ci siamo già messi all’opera con questo piano di rilancio, così da creare specifici progetti di investimento che chiederemo all’Europa di finanziare, da inserire nel nostro Recovery Plan.

Quando prenderà forma?

Lo presenteremo a settembre. I finanziamenti europei richiedono un cronoprogramma molto articolato: dobbiamo pianificare molto bene i progetti per non rischiare di perdere i fondi. Dobbiamo metterci subito a lavorare per farci trovare pronti a settembre, e per questo mi sto dedicando al piano già da giorni assieme ai ministri e a tutta la maggioranza, perché sia il più condiviso possibile. Ora lo affineremo ulteriormente per presenteremo alle forze sociali e produttive che andremo a incontrare (da lunedì, ndr).

Non teme che gli Stati generali diventino solo una passerella mediatica?

Non sarà una passerella o una sfilata, il Paese non ha bisogno di questo e non ci consente di fare kermesse. Tutte le forze produttive e le migliori energie del Paese vanno coinvolte in questo programma. Terminato questo confronto, vareremo un piano condiviso di rilancio, ampio. E da questo verrà ricavato il Recovery Plan da presentare a settembre.

Qual è la differenza tra i due piani?

Alcune delle misure del piano più generale non hanno bisogno di essere finanziate.

Il piano di Vittorio Colao non si sovrappone a tutto questo?

Quello non è un piano di rilancio politico, sono schede di lavoro. La commissione di esperti ha fatto un grande lavoro.

Avete promesso lo Sblocca cantieri. Sarà costruito superando il Codice degli appalti?

Non c’è il tempo per superare il Codice degli appalti. Lo abbiamo però per varare delle norme che consentiranno di far partire gli appalti in modo più spedito, già da questa estate. Anche in via temporanea, almeno per alcune procedure di gara. Ora dobbiamo correre.

Ha detto di essere pronto a valutare un progetto per il Ponte sullo Stretto. E il M5S si è spaccato.

Penso che non dobbiamo dividerci. La questione si porrà se e quando avremo completato una rete adeguata per arrivare in Sicilia.

Lei sarebbe favorevole?

Sono favorevole a tutto ciò che ha una razionalità economica e che serve al Paese. Oggi ragionare di Ponte sullo Stretto è una fuga in avanti. Un domani, di fronte a una rete infrastrutturale che ci ponga di fronte al tema dell’ultimo miglio, sarà una necessità ragionarci.

Tornando agli Stati generali: li ha indetti anche per calmare Confindustria, che ha parlato di “politica più dannosa del virus”?

È stata un’uscita poco felice.

Il centrodestra non ci sarà.

Le opposizioni hanno rifiutato l’invito, che pure dimostrava grande riguardo nei loro confronti. Avevo riservato loro un intero pomeriggio (oggi, ndr), ma mi è stato risposto che Villa Pamphili non è una sede istituzionale, ma c’è un difetto di conoscenza, visto che è una sede di rappresentanza dove ho incontrato capi di Stato. Diciamo che è un infortunio definirla come non istituzionale. Si sono sottratti al confronto: ma potrei tornare a proporre un incontro dopo il confronto con le parti sociali.

Gli Stati generali saranno importanti. Ma se dall’Ue non arrivano fondi entro l’anno sarà complicato realizzare il vostro piano.

Ci stiamo lavorando. Ho subito prospettato alla presidente della Commissione europea l’esigenza di erogarli prima. Ma i finanziamenti si basano sullo stato di avanzamento dei progetti: sarà importante realizzarli in tempo.

Dovrete fare ricorso ai 36 miliardi del Mes, no?

Ci sarà un momento in cui ci confronteremo tra le forze di maggioranza e di fronte al Parlamento sulla convenienza o meno di attivare fonti di finanziamento come il Mes.

Perché non dovrebbe convenire?

È un discorso complesso: ci sarà un momento in cui analizzeremo tutti i regolamenti e i tempi di restituzione, tenendo conto anche della situazione della finanza pubblica. È regola di un buon padre di famiglia, prima di prendere un finanziamento, informarsi in banca.

L’Italia sta per vendere due fregate militari all’Egitto, nonostante il caso Regeni.

Ne parlerò alla commissione parlamentare competente (ieri Conte ha reso un’informativa sul caso in Consiglio dei ministri, ndr).

I genitori del ragazzo sono amareggiati, si aspettavano dal governo comportamenti conseguenti.

Le azioni del governo sono conseguenti, nel senso che io ho messo in ogni telefonata il caso Regeni al centro dei colloqui. E sarà sempre così.

2 Consip e 2 misure

Càpita a tutti di sbagliare. Specialmente quando il lavoro è tanto e il tempo è poco. Dunque non c’è nulla di strano se l’inchiesta della Procura di Perugia sul pm Luca Palamara, divenuta ben presto un’inchiesta sul Csm e sulle correnti togate, presenta errori nella trascrizione delle migliaia di intercettazioni. O, meglio: non ci sarebbe nulla di strano se quegli errori non fossero tutti unidirezionali, sempre a vantaggio degli utilizzatori finali dell’indagine. Cioè gli amici dell’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, interessato a garantirsi un successore in continuità con la sua discussa e discutibile gestione: prima dello scandalo, il procuratore di Palermo Franco Lo Voi; dopo, l’aggiunto prediletto Michele Prestipino. E soprattutto a spezzare la maggioranza del Csm che aveva già indicato in commissione un procuratore “discontinuo”: il Pg di Firenze Marcello Viola. L’operazione, grazie alla diffusione degli allegri conversari fra Palamara e i deputati renziani Lotti e Ferri (magistrato in aspettativa ed ex ras di MI), riuscì perfettamente: Mattarella chiese un nuovo voto in commissione con altri candidati e alla fine la spuntò Prestipino, cioè Pignatone. Ora che gli atti dell’inchiesta sono depositati (e le accuse di corruzione a Palamara sono evaporate), si scopre, con buona pace della leggenda del Santo Pignatone diffusa dai giornaloni, che quella non era una lotta fra buoni e cattivi: ma una guerra per bande per consumare vendette e prendere il potere nella Procura più importante d’Italia, che vale 2 ministeri.

Ma, come documenta il nostro Antonio Massari, si è scoperto ben altro: una serie di “errori”, tutti favorevoli a Pignatone e ai suoi cari. 1) La sera del 21 maggio 2019 Palamara incontra l’allora Pg della Cassazione Riccardo Fuzio (poi dimessosi): il Gico della Gdf di Roma, che stranamente indaga per conto di Perugia pur essendo alle dipendenze dei pm romani (indagati compresi), trascrive solo “rumori”. Ma i difensori di Palamara scoprono che una parte del colloquio è abbastanza intelleggibile e chiedono di trascriverlo. Il Gico riempie il buco e attribuisce a Palamara la parola “carabinieroni”. Palamara nega di averla mai usata. Infatti, quando il nostro giornalista ascolta l’audio, sente “Pignatone”. E vabbè, dài, sarà un caso. 2) Nello stesso colloquio, Massari sente “Mattarella” ed “Erbani” (consigliere giuridico del Quirinale). Nella trascrizione del Gico non compare nessuno dei due nomi, che invece Palamara ricorda di aver pronunciato perché alcuni consiglieri del Csm gli avevano detto di aver saputo da Erbani che qualcuno di loro aveva il trojan nel cellulare, tant’è che molti avevano smesso di parlare con lui.

E vabbè, dài, sarà un caso. 3) Il 9 maggio 2019 Palamara cena con Pignatone. Sarebbe interessante sapere cosa si dissero il procuratore che ambiva a scegliersi il successore e il potente membro del Csm che poteva orientare Unicost nell’una o nell’altra direzione 13 giorni prima del voto in commissione. Purtroppo, vedi la combinazione, l’aggeggio che intercetta tutto 24 ore su 24 rimane spento dalle ore 16, quando Palamara annuncia la cena a un’amica: qualcuno l’ha disattivato, o si è provvidenzialmente guastato. Ed è strano, perché durante la cena risulta una telefonata di Palamara intercettata, ma non depositata: quindi il trojan avrebbe potuto funzionare anche quella sera, ma captò solo conversazioni telefoniche e non ambientali. E qui le coincidenze diventano davvero troppe. Anche perché la Procura di Roma, per errori ben più veniali, indagò per falso in atto pubblico e fece espellere dall’Arma il capitano del Noe Gian Paolo Scafarto, che indagava su Consip per conto dei pm napoletani Woodcock e Carrano e poi di quelli capitolini; e, non contenta, tolse le indagini all’intero Noe per affidarle al Ros di Roma.

Che aveva fatto di tanto grave Scafarto, a parte beccare l’imprenditore Alfredo Romeo e il galoppino di Tiziano Renzi, Carlo Russo, mentre trattavano favori in Consip in cambio di 50 mila euro al mese per “T.” e 2,5 per “C.R.”? Nel rapporto investigativo, aveva invertito i nomi di Romeo e del suo consulente Italo Bocchino, attribuendo al primo anziché al secondo la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato”. Che, in bocca al primo, portava a babbo Tiziano e a Consip; in bocca al secondo, provava solo normali colloqui politici fra Matteo e l’ex braccio destro di Fini. Un errore neutro (le prove di almeno un incontro Romeo-Tiziano già c’erano) e involontario (nelle trascrizioni delle telefonate allegate al rapporto Scafarto, la frase era attribuita a Bocchino, dunque sia gli avvocati sia i magistrati avrebbero scoperto facilmente la svista). Eppure Scafarto, indagato e privato della divisa, fu sputtanato dall’Innominabile e dai giornaloni al seguito come carabiniere “deviato” e “falsificatore di prove”, per dimostrare che Consip era un “complotto” e un “colpo di Stato”. Poi il Riesame e la Cassazione reintegrarono Scafarto e il gup respinse la richiesta di rinvio a giudizio, prosciogliendolo con formula piena da quell’errore in buona fede. Ora la domanda è semplice: che farà la Procura di Roma coi finanzieri che scambiano “Pignatone” per “carabinieroni”, non sentono “Mattarella” ed “Erbani” e piazzano trojan intermittenti che si spengono quando Pignatone cena con Palamara? Si accettano scommesse.

Lee fa la cosa giusta (sempre): un film profetico per tutti i Floyd

L’avevamo lasciato, nella scena finale di BlacKkKlansman (sei candidature all’Oscar e la statuetta per la sceneggiatura originale nel 2019), con le immagini di repertorio della manifestazione dei suprematisti e neonazisti di Charlottesville dell’agosto 2017: l’omicidio dell’attivista Heather Heyer, le dichiarazioni di Trump e di David Duke, già leader del Ku Klux Klan, quindi la Stars and Stripes capovolta e ingrigita. Poi, una settimana fa, ecco il video 3 Brothers, che collega l’assassinio di Radio Raheem nel suo Fa’ la cosa giusta (1989) a quelli di George Floyd ed Eric Garner e si domanda: “Will History Stop Repeating Itself?”.

La risposta è no, la Storia continua a ripetersi, ma Spike Lee non è da meno: il suo nuovo lungometraggio Da 5 Bloods, che arriva domani su Netflix, associa al trauma bellico del Vietnam l’ingiustizia razziale ai danni degli afromericani. Lo apre Muhammad Ali, che nel 1978 si rifiuta di andare a combattere i Viet Cong: “La mia coscienza non mi permette di sparare a un mio fratello. E perché dovrei sparargli? Non mi hanno mai chiamato ‘negro’”; lo chiude Martin Luther King, che il 4 aprile 1967, esattamente un anno prima di essere ucciso, si dice “convinto che l’America non sarà mai libera o salvata da se stessa se i discendenti degli schiavi non saranno liberati dalle catene che ancora li legano”.

In mezzo Lee utilizza il canovaccio del film d’avventura per raccontare il sodalizio immarcescibile ma problematico di quattro veterani, quattro fratelli neri che ritornano nel ‘Nam alla ricerca delle spoglie del quinto, “il nostro Malcolm (X, ndr) e il nostro Martin (Luther King, ndr)” Stormin’ Norman interpretato dal Black Panther Chadwick Boseman, e di un tesoro in lingotti d’oro. Marvin Gaye canta l’antibellica What’s Happening Brother, i Chambers Brothers pretendono che Time Has Come Today, e sì, Spike ha un timing perfetto. I riot che hanno seguito il soffocamento di Floyd abitano il fuoricampo interno, perché il regista ha saputo, si fa per dire, giocare d’anticipo: se Paul (Delroy Lindo, super) e gli altri bloods si batterono per un’America che li opprimeva da New York a Los Angeles, più di qualcosa non è cambiato. Il disturbo da stress post-traumatico di Paul ha un acronimo inedito ai Rambo del grande schermo: Maga, ovvero il trumpiano Make America Great Again stampigliato sul berretto rosso. Quel Trump apostrofato “pagliaccio di un reality show”, “figlio di puttana”, “membro del Ku Klux Klan nello Studio Ovale” è il nemico, ma Lee guarda alle vittime, a chi non respira più. Per tutti, i George, gli Eric, i Raheem, parla il suo Norman, e la preveggenza fa accapponare la pelle: “Ogni volta che apro la porta di casa vedo i poliziotti che girano nel mio quartiere e sembrano pronti a colpire. E sento che per loro non valgo niente”.

McCartney le suona al Mibact: “Restituite i soldi dei concerti”

Non era a Piazza del Plebiscito, ieri. Ma Paul si è fatto sentire lo stesso, eccome. Nel giorno del concerto napoletano, e a tre da quello a Lucca, entrambi cancellati dal virus, McCartney ha sparato una formidabile bordata contro il “sistema” italiano della musica live, affondando via Facebook la strategia pubblico-privata che ha partorito la trovatona dei voucher.

“È veramente scandaloso che coloro che hanno pagato un biglietto per uno show non possano riavere i loro soldi”, ha tuonato il Sir. “Siamo fortemente in disaccordo con ciò che il governo italiano e Assomusica hanno fatto. A tutti i fan degli altri Paesi che avremmo visitato quest’estate è stato offerto il rimborso completo. L’organizzatore italiano dei nostri spettacoli e i legislatori italiani devono fare la cosa giusta in questo caso. Siamo tutti estremamente dispiaciuti del fatto che gli spettacoli non possano avvenire ma questo è un vero insulto per i fan”.

Ad amplificatori spenti, l’ex Beatle ha fatto fischiare le orecchie al governo e ai promoter D’Alessandro e Galli. E per soprammercato anche a De Magistris, che dapprima sogna “di recuperare il prossimo anno il concerto”, e poi detta la linea: “Ora i biglietti vanno assolutamente rimborsati, è giusto restituire i soldi”.

Il punto è che McCartney aveva annunciato da tempo che il “Freshen Tour 2020” sarebbe stato il suo passo d’addio in Italia. Tant’è che proprio l’annullamento (e non un rinvio) delle date di Napoli e Lucca aveva provocato l’insurrezione dei molti fan che di voucher per vedere altre star non sanno cosa farsene: i 50 mila biglietti già venduti per Paul costavano dai 100 ai 150 euro, con pacchetti vip da oltre 500. Un gruzzolo (immobilizzato) che supera i 7 milioni. Rimborsi? Neanche a parlarne. Il decreto Rilancio esenta gli organizzatori dalla restituzione dei soldi per gli show cancellati (per quelli rimandati i vecchi tagliandi restano validi). Ed è qui che l’idea ha fatto crac: i responsabili della filiera erano andati a bussare a quattrini alle porte delle istituzioni, lamentando una perdita (tra eventi sfumati e indotto in tilt) di un miliardo di euro, con 400 mila addetti ai lavori in panne. Ma una pandemia non è la congiuntura più favorevole per saldare lo storico scollamento tra chi amministra fondi pubblici settoriali e chi vive di rischio d’impresa. Così, invece di destinare risorse incontrollate ai patron di rock e pop, ecco il voucher, un cerotto a costo zero sopra la bolla dorata dei megaconcerti, sperando che non scoppi. Ma il voucher è poco più di un assegno cabriolet, protestano appassionati e consumatori: se ho speso dei bigliettoni per McCartney non so che farmene di un buono per Céline Dion. Difficile dar loro torto.

Lo schizzo di fango è arrivato sul tavolo dei maggiori impresari nazionali. Il presidente di Assomusica, Vincenzo Spera, rimanda la palla di cannone nel campo di Paul: “McCartney ha deciso di annullare i concerti in Italia. Pertanto avrebbe dovuto trovare soluzioni idonee ad affrontare le eventuali problematiche. I sindaci di Lucca e Napoli hanno formalmente chiesto all’artista di indicare una data per i concerti dell’anno prossimo, richiesta rimasta ancora senza risposta”. Spera aggiunge munizioni: “La norma italiana è stata ripresa e funziona anche in Germania, dove vengono dati 2 anni di tempo per utilizzare i voucher. Il governo delibera in piena autonomia e indipendentemente da qualsiasi richiesta di terzi”. Dal canto loro D’Alessandro e Galli non fanno marcia indietro: pur “comprendendo”, spiegano, “l’amarezza di McCartney”, sottolineano che “questa formula è una misura straordinaria di cui lo staff di Paul era perfettamente a conoscenza da prima della cancellazione”, aggiungendo di essersi “già impegnati per il 2021 a recuperare quasi tutti gli spettacoli programmati per il 2020 e lavorando per aggiungerne altri” e rendere sostanziosi i voucher.

Sì, ma a chi telefonare? Nel roster ci sono nomi come Waters, in odore di pantofole, o Gilmour, che ha già dato. Così come Elton John. Pure Clapton ha qualche acciacco. Rockstar sulla soglia degli 80 (Paul ne avrà 78 a giorni): sarà complicato per tutti mettere una pezza a una figura di merda mondiale. Che non farà sorridere neppure Franceschini.

“Solo dopo due giorni abbiamo capito: è il match del secolo”

“Dicono: aveva giocato male l’Italia le prime tre partite. Vero, ma provate voi a iniziare un Mondiale dopo che nel precedente c’è stata la Corea, e il Cile in quello prima. Abbiamo fatto tre brutte partite, sì, ma ci siamo qualificati da primi. E poi ci siamo sbloccati. Anche grazie a Rivera. Che, appena arrivato, aveva febbre e dissenteria ma in Messico-Italia, quarto di finale, entra in campo al 46’ e cambia tutto, segna. Due gol. I primi gol di Riva”, dixit Ricky Albertosi, portiere di quegli azzurri memorabili del 1970.

“Il giorno di Italia-Germania cominciamo come sempre: Mazzola in campo, Rivera in panchina. Lui è dispiaciuto, è Pallone d’Oro e sente di stare bene; ma così vuole Valcareggi. La Germania è una corazzata. Nei quarti ha rimontato l’Inghilterra da 0-2 a 3-2 e in attacco ha Gerd Muller che ha fatto 8 gol in 4 partite. L’ho visto in tv, è come Hamrin: parte largo e poi te lo ritrovi davanti. Sono tranquillo. In quattro partite ho preso un gol e la difesa, io, Burgnich, Cera, Rosato (che marcherà Muller) e aggiungo Bertini e De Sisti, è un muro”.

“La partita comincia e Boninsegna fa gol dopo pochi minuti. Perfetto. Ci mettiamo tutti in difesa e io faccio il mio: nel primo tempo svento un gran tiro di Grabowski, nel secondo un’incornata di Seeler e dico grazie a Rosato che salva un gol sulla linea. C’è Beckenbauer che caracolla col braccio destro fasciato; si è fatto male ma i tedeschi non ci rinunciano. Il suo infortunio ci favorisce. Al 46’ entra Rivera”.

“Arriva il 90’ e aspettiamo che l’arbitro fischi la fine; a quei tempi il recupero non esisteva, a volte capitava di andare avanti un minuto. Invece andiamo avanti di due e all’ultimo assalto vedo un tedesco crossare palla in area: e a centro area, a 5 metri da me, vedo Schnellinger tutto solo allungarsi, toccare di piatto e farmi gol. Ora: Schnellinger non è mai uscito una volta dalla sua area, nel Milan ha fatto 222 partite e 0 gol, nella Germania uno: a me, quello. Si può sapere cosa ci facevi in area al 92’?, gli chiedo quando tutto è finito. Volevo avvicinarmi allo spogliatoio: era dietro la tua porta e la partita stava finendo, mi ha risposto”.

“E invece, grazie Schnellinger: perché senza il tuo gol nulla sarebbe stato come poi è stato. Andiamo ai supplementari e in campo non c’è più Rosato, che si è fatto male, ma Poletti. Che tocca il suo primo pallone su un angolo dei tedeschi, stoppa di petto e viene palla al piede verso di me. Chi gioca con me sa che sono io che chiamo la palla; invece vedo Poletti avvicinarsi e chiamare la mia uscita. Io però sono in ritardo, lui tentenna, dovrebbe buttarla in angolo invece arriva Muller e la tocca piano. Vedo la palla superarmi e ballonzolare verso la linea. Mi tuffo all’indietro, nuoto sull’erba, cerco di raggiungerla ma Poletti mi frana sulla schiena e così guardo la palla superare la linea senza nemmeno arrivare a toccare la rete”. “Cosa dico a Poletti? Vorrei fulminarlo, poi penso che era al primo pallone giocato in una semifinale mondiale e mi trattengo. La mazzata è tremenda: è finita, pensano tutti. E invece no. È la notte dell’incredibile e a segnare subito il gol del 2-2 sbuca Burgnich, uno che non sa nulla del mestiere di attaccante. Ma a marcarlo, su quella palla che Rivera fa spiovere in area, c’è Held, uno che non sa nulla del mestiere di difensore: infatti gli stoppa la palla sui piedi e Burgnich la scaraventa in porta. E poi arriva la meraviglia del 3-2 di Riva; che stoppa la palla in corsa col sinistro e col sinistro la porta avanti, se la sistema e la calcia con precisione chirurgica nell’angolino di Maier. Un gol da manuale. Un gol di Riva”.

“Adesso all’inferno ci sono loro. Intanto è iniziato il secondo supplementare e io tengo il 3-2 deviando in angolo un colpo di testa di Seeler. Quando torno a centro porta vedo Rivera sul palo. Vai via, voglio un difensore, vai via!, gli urlo; ma non c’è tempo, la palla spiove in area, Seeler salta altissimo, la indirizza verso Muller che la sfiora e la manda proprio dove c’è ora Rivera: che si stacca dal palo, alza braccio e gamba e la fa passare. È il 3-3, e io mi mangio Rivera abbracciato al palo a cui sta dando testate. Figlio di puttana, testa di cazzo, cosa cazzo sei venuto a fare qui, te l’avevo detto… Ora per rimediare posso solo andare a fare gol, mi dice lui staccandosi dal palo”.

“Venti secondi dopo Rivera segna il gol del 4-3 alla Germania. L’ultimo. Il gol dei gol. Boninsegna si è mangiato Schulz sulla sinistra e ha messo in mezzo un pallone su cui è arrivato lui: e mentre Maier, assecondando i movimenti di Rivera, si tuffa a braccia allungate verso sinistra, Rivera modifica le coordinate e di piatto destro indirizza la palla a destra, a scarpe del portiere in volo appena passate. Mi ritrovo a centrocampo ad abbracciare tutti. Siamo in un sogno”.

“Mi chiedi se abbiamo avuto subito la sensazione di aver compiuto un’impresa leggendaria? No. È stato due giorni dopo, all’arrivo dei giornali italiani. Mostravano i caroselli di auto, i deliri nelle città; e allora un po’ di consapevolezza, mista a emozione, è arrivata. Poi un giorno ci hanno detto che all’Azteca era stata affissa una targa-ricordo, quella del partido del siglo. E allora è stato bello saperlo: che eravamo nella leggenda”.

Palme, risolto l’infinito giallo svedese

Una vecchia battuta svedese definisce l’omicidio di Olof Palme come l’unico giallo scandinavo rimasto irrisolto. Da ieri non più. L’inchiesta più lunga e costosa nella storia della Svezia (e lì magistrati e polizia devono dare conto ai cittadini di ogni corona che spendono) ha un colpevole che si chiama, anzi si chiamava Stig Engstrom. L’uomo infatti si è suicidato il 26 giugno del 2000 a sessantasei anni. E non per rimorsi o sensi di colpa, ma depresso per il suo secondo divorzio. Il procuratore capo Krister Petersson ha dichiarato chiuse le indagini proprio perché il principale sospettato è morto. Engstrom era di destra e uccise Palme per ragioni politiche, questa la tesi.

A Stoccolma, la sera del 28 febbraio 1986, di venerdì, Olof Palme – campione della socialdemocrazia scandinava e primo ministro – andò al cinema con la moglie e congedò la scorta. Al ritorno a casa, passate le undici, un uomo sparò contro di lui due colpi con una Smith&Wesson 357 Magnum. Uno lo prese alla schiena, senza scampo. L’altro ferì la moglie. Palme venne dichiarato morto vari minuti dopo la mezzanotte. Uno dei primi testimoni sentiti fu Stig Engstrom, subito soprannominato Skandia man. L’uomo lavorava lì vicino come grafico alla compagnia di assicurazioni Skandia. Anni dopo, due giornalisti in due libri diversi indicarono in lui il colpevole.

L’omicidio Palme è una ferita che ha squarciato la testa e il ventre della Svezia per 34 anni. Un’ossessione che ha influito persino sulla moltiplicazione dei giallisti, e che ha prodotto lo storico boom della fiction svedese. Per colpevole e mandanti le ipotesi sono state infinite e complottiste. La più nota fu la pista sudafricana ed ebbe il sigillo di Stieg Larsson buonanima, l’inventore dell’ormai leggendaria trilogia di Millennium, quella che inizia con Uomini che odiano le donne.

In breve: ad ammazzare il primo ministro sarebbe stato un sicario neofascista su ordine dell’allora regime sudafricano razzista (l’apartheid), che Palme combatteva apertamente. Tra Kgb, Cia, Fbi e anche curdi, fu però un giallista portoghese, Luís Miguel Rocha, con il suo bestseller La morte del papa (sul pontificato di 33 giorni di Albino Luciani) a dare dignità finanche a una pista italiana: l’omicidio Palme sarebbe rientrato in una strategia reazionaria dei servizi americani supportati dalla loggia massonica e deviata di Licio Gelli, la P2.

Ma lo scrittore svedese che ha dedicato ben tre gialli al mistero del primo ministro è stato Leif GW Persson, tra gli autori più bravi e originali del suo Paese. Nella trilogia del ciclo I casi dello Stato sociale che comincia con Tra la nostalgia dell’estate e il gelo dell’inverno, prosegue con Un altro tempo, un’altra vita e si conclude con In caduta libera come un sogno (pubblicati da Marsilio), c’è il personaggio del poliziotto Lars Martin Johansson che si immerge nel labirinto Palme quando a Stoccolma si suicida un giornalista americano. E il primo romanzo (anno 2002) termina con un’annotazione “riduzionista”, coperta da polizia e Servizi: “Con tutta probabilità, l’omicidio del Primo ministro svedese è stato opera di un folle che ha agito da solo”. È quello che è successo ieri e farà di Stig Engstrom il Lee Oswald svedese.

Israele, nasce il tunnel che sanifica dal Covid

Nella corsa ad arginare la diffusione del coronavirus un buon punto sembra averlo segnato una start-up specializzata in automazione industriale che ha adottato la tecnologia di disinfezione sviluppata dai ricercatori dell’Università Bar-Ilan e ha creato un piccolo tunnel di “risanamento” da posizionare agli ingressi di stadi, scuole, uffici pubblici, centri commerciali, supermercati. Il tunnel – realizzato dalla RD Pack – è composto di un telaio in alluminio e policarbonato ed è attualmente in prova al Bloomfield Stadium di Tel Aviv.

L’esperimento durerà un mese – anche se si giocherà senza tifosi – sarà utilizzato da staff, medici, parenti e tecnici ammessi ai match.

“Quando le persone camminano attraverso il tunnel tutto il loro corpo viene spruzzato con disinfettante vaporizzato, che fornisce una completa sterilizzazione di una persona”, spiega Eran Druker, responsabile dello sviluppo della company.

Ad aprile i ricercatori della Bar-Ilan University hanno annunciato di aver sviluppato un modo di produrre disinfettanti rispettosi dell’ambiente in grado di uccidere batteri e virus usando l’acqua del rubinetto, che viene elettrificata per produrre acido ipocloroso a determinati livelli di acidità. Il vantaggio del disinfettante rispetto ad altri, dice il ricercatore Eran Avraham, è che l’acido ipocloroso a differenza di altri disinfettanti commerciali come la candeggina, è inodore e non è dannoso per la pelle o il cibo.

Il coronavirus è altamente infettivo e si diffonde principalmente attraverso goccioline espulse da naso e bocca. Ma ha anche la capacità di sopravvivere su mani, vestiti e altre superfici per un periodo di tempo variabile. Quindi se qualcuno fosse entrato in contatto con una persona malata avrebbe ancora delle goccioline sui propri vestiti.

“Il tunnel”, spiega Avraham, “è in grado di distruggere quelle goccioline, fermando la diffusione del virus, uccidendo anche altri agenti patogeni”. Inoltre se una persona asintomatica passa attraverso il tunnel, secondo i tecnici della RD Pack, il disinfettante distrugge le goccioline virali sul suo corpo e vestiti prima di entrare nel locale. Quindi se una volta all’interno – del ristorante, della scuola, degli uffici – la persona aderisce alle regole igieniche di base (mascherina e lavaggio delle mani) le possibilità di infettare altri scendono in maniera esponenziale.

Eran Druker ha spiegato che l’azienda è in fase molto avanzata anche per la realizzazione di depuratori d’aria basati sulla stessa tecnologia da poter collocare in grandi spazi pubblici.

Maor Bynyamini, direttore della Tel Aviv Yafo Sport Ltd, la società municipale che gestisce diversi grandi impianti sportivi, spera che il tunnel “sia in grado di dare al pubblico la rassicurazione medica e psicologica di cui ha bisogno per riportare la gente allo stadio, per lo sport o per la musica”.

“Siamo felici di provare tutto ciò che ci aiuta a tornare verso la normalità”, spiega Bynyamini, aggiungendo che tutti gli impianti sportivi avranno un lettore automatico di temperatura all’ingresso del tunnel.

Il tunnel realizzato dalla RD Pack ha già attirato l’attenzione di organizzazioni sportive e scolastiche dagli Stati Uniti all’Europa; ai primi di luglio al termine della sperimentazione allo stadio Bloomfield partirà la produzione in serie.