Tito Stagno, la luna nel tinello

Che Tito Stagno abbia toccato – dovunque abbia toccato –, e abbia dunque abbandonato il pianeta Terra, a un bambino che era davanti al televisore la notte del 20 luglio 1969 appare ancora oggi una cosa poco probabile. Quindi quel signore dietro la cattedra con i microfononi e i telefononi, i megaschermi alle spalle, davanti a sé la platea con il fiato sospeso; quel signore di nome Tito Stagno era un giornalista vero, anzi, un giornalista e un telecronista così bravo da sembrare finto, così come Ruggero Orlando in collegamento da Cape Canaveral. Era un vero e bravo giornalista Rai, e non un personaggio di fantasia, un supereroe, nonostante la sua somiglianza con Clark Kent – Clark Kent biondo nonostante il bianco e nero. Il bello di essere bambini sta nel vivere in bianco e nero, nel non separare mai la fantasia dalla realtà (il brutto di essere adulti è farlo sempre), ma la telecronaca dello sbarco sulla luna dell’Apollo 11 ci mise del suo, non poteva capitare in un momento né in un modo migliore.

Non si era ancora dissolta la scia di polvere d’oro dell’arrivo della televisione in tinello, lo scatolone magico che portava il mondo a domicilio, che ci trovammo in tinello addirittura la Luna. “Ha toccato” “No, non ha toccato” “Ecco, adesso ha toccato”. Toccare il cielo con un dito, passare dalla luna di Leopardi a quella di Tito Stagno senza perdere il senso della poesia, questo è capitato alla generazione dei baby boomers. A propria insaputa, il Clark Kent biondo aveva inaugurato le maratone televisive, poi ne sarebbero arrivate altre e altri maratoneti, tutta la tv sarebbe diventata una maratona infinita, molto terra terra, mentre la polverina d’oro si dissolveva nel nulla. Così, a raccontare la Luna è stato solo lui, e sulla Luna è rimasto fino a oggi. Per restare nella leggenda bisogna arrivare al momento giusto, e al momento giusto togliere il disturbo. Ora che ha toccato, Tito Stagno lo sa.

I No Vax, la pipì controvento e la mela al forno con tutta la bocca

Speravo che non mi capitasse più. Anzi ne avevo ormai l’assoluta certezza proprio grazie al fatto che da mesi non avevo più avuto occasione di incontrarne uno. D’altronde il sabato nel villaggio va così, si esce più spesso, a orari diversi dal solito e le sorprese non mancano. Insomma, finisce che mi imbatto in un No Vax. I latini avevano un motto che suonava così: “Noli mingere contra ventum…” e che applico adattandolo a questo caso, stiracchiandone un po’ il senso e magari attirandomi gli strali di qualche purista. Va be’, me li beccherò. Ma il motto suddetto mi torna in mente proprio perché ciò che speravo mi si è ritorto contro, come se appunto stessi mingendo contro vento. Sta di fatto che il soggetto di cui sopra mi attacca con la novità delle nuove pillole antivirali che a breve verranno messe in commercio a suo giudizio dannose al pari dei vaccini mentre si continuano a disprezzare ben altri metodi di cura per, a suo giudizio, mere questioni economiche. Ora, al fine di farla breve ed evitare di ascoltare l’elogio di codeste, per me misteriose, cure, lo fermo chiedendogli se per caso è al corrente di una terapia naturale vecchia come il mondo: utilizzata, è vero, per curare il raffreddore e che però, essendo la rinite spesso di origine virale, potrebbe valere qualcosa anche contro il corona che pure lui appartiene alla stessa grande famiglia. Dice di non saperne niente, e allora gliela spiego. Consiste nel prendere una mela di dimensioni tali che possa stare tra le ganasce del soggetto. Fatto ciò si accende il forno portandolo a temperatura, raggiunta la quale ci si infila la testa con la mela in bocca tenendo il tutto all’interno dell’elettrodomestico sino a che il frutto è cotto. A quel punto non solo la mela è pronta per essere consumata ma anche il raffreddore se n’è andato. Mentre vado parlando vedo la sua mimica pian piano cedere al richiamo della gravità. Gli concedo il diritto di replica. Mi vuoi prendere in giro?, chiede. Ma visto che è libero di vaccinarsi oppure no, gli lascio pure quella di decidere per il sì o per il no.

Ora nel Movimento il tema centrale è il terzo mandato

Il Movimento 5 Stelle ha un problema molto più grande dello scontro tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte: l’indecisione. Da più di tre anni il Movimento non affronta la questione centrale per il suo eventuale futuro: la regola dei due mandati. Oggi questo principio, che è da considerare fondante per i pentastellati, è ancora in vigore. Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo lo avevano introdotto per garantire un continuo ricambio degli eletti; per consentire alla società civile di aspirare a entrare in Parlamento non per cooptazione come avviene in tutti gli altri partiti e per evitare che all’interno delle Camere si formassero cordate interessate solo alla propria sopravvivenza. Gruppi di potere che gli elettori da sempre non amano e liquidano con una brutta, ma adeguata parola: poltronari. Un termine dispregiativo che però non tiene conto di un altro aspetto della questione: tra tante persone che dopo dieci anni sono disposte a fare di tutto pur di non perdere lavoro, poltrona e stipendio vi può sempre essere chi ha invece maturato esperienze e competenze molto utili alla forza politica che rappresenta.

Attualmente, in base alla regola, alle prossime elezioni non dovrebbero essere ripresentati 67 su 230 parlamentari. Molti di loro sanno già che se anche la norma fosse abolita le loro chance di rielezione sarebbero molto basse. I consensi sono in calo e il numero di posti a disposizione è per tutti diminuito proprio in base a una riforma costituzionale voluta dal Movimento. Ma avere pochissime possibilità è diverso dal non poter partecipare alla competizione elettorale. Sopratutto se la tua figura pesa nella breve storia grillina. Tra i 67 figurano nomi come quelli di Luigi Di Maio, Paola Taverna, Roberto Fico, Federico D’Incà, Danilo Toninelli, Laura Castelli, Giulia Sarti, Stefano Patuanelli e Vito Crimi. È ovvio e scontato insomma che indipendentemente dallo scontro tra dimaiani e contiani (tra i 67 vi sono esponenti di entrambi i fronti) la tensione salga e che anzi in qualche caso sia proprio la causa dello scontro.

Beppe Grillo ha già fatto sapere mesi fa di essere fieramente contrario a modificare la regola. Se lo fate, ha detto, io me ne vado. E si è limitato ad approvare l’introduzione di un terzo mandato (ipocritamente chiamato zero) per i consigli comunali. Un’innovazione utile, tra l’altro, per permettere a Virginia Raggi di correre di nuovo a Roma.

Conte, invece, non si è mai espresso chiaramente. Al netto del necessario assenso di Grillo e del voto vincolante da parte degli iscritti, le soluzioni possibili sono quattro: non cambiare niente; abolire la regola; introdurre un ulteriore mandato, ma solo per quanto riguarda i consigli regionali oltre che comunali; consentire delle deroghe. Cioè dare a Conte, o chi per lui, il potere di stabilire chi sono i meritevoli che però, per essere ripresentati, dovranno prima essere votati dagli aderenti ai 5Stelle. Ogni scelta ha dei pro e dei contro. Fatti chiari li esaminerà in una prossima rubrica. Una cosa però è certa. Rimandare non può che peggiorare le cose in un movimento in cui Di Maio può aspirare ad avere dalla sua parte molti parlamentari, ma al contrario di Conte pochi iscritti. Per questo l’ex premier, per il bene suo e della forza politica che rappresenta (e quindi anche di Di Maio), dovrebbe rileggere una frase del ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt: “Quando devi decidere, la migliore scelta che puoi fare è quella giusta, la seconda migliore è quella sbagliata, la peggiore di tutte è non decidere”.

 

Col Draghi-2. Il Consiglio dei ministri è una riunione tra l’epico e il fantasy

Ognuno ha le sue perversioni, ci mancherebbe. La mia, ieri, è stata bere avidamente le cronache del primo Consiglio dei ministri del governo Draghi Due, che sarebbe il governo Draghi Uno dopo la scomparsa dei sogni quirinalizi del capo. Apprezzabili i toni sospesi tra l’epico e il fantasy, un po’ come se ci descrivessero una seduta della Tavola Rotonda, o una merenda dei ministri del Re Sole. Merende niente, però, lo dico subito, nemmeno il caffè, solo acqua. Poi l’applauso chiamato da Draghi per Mattarella rieletto – un bell’applauso! – poi gli sguardi bassi di chi ha qualcosa da farsi perdonare, poi piccole scaramucce (Giorgetti versus Speranza, Brunetta versus chissà chi), poi strette di mano. Poi l’orgoglioso giubilo per un Pil che veleggia verso il 6,5 per cento, cosa mai vista in tempi recenti, hurrà. Viene da chiedersi come mai Mattarella, appena rieletto dal Parlamento, abbia parlato chiaramente di “crisi economica”, forse si sbaglia lui che non vede il boom, forse si sbaglia Draghi che lo rivendica, non sottilizziamo.

Insomma, come è tradizione del primo giorno di scuola, il prof. non ha interrogato (interroga nel Consiglio dei ministri di oggi, si dice, ndr), ma soltanto spiegato agli alunni che ora si fa sul serio, che ci sono gli esami, che non tollererà ritardi e distrazioni, eccetera eccetera. Una cosa a metà strada tra il pippone motivazionale e la faccia severa del preside. I titoli e i commenti dicono che ora Draghi è più forte; le ultime righe degli zuccherosissimi articoli – se qualcuno ci arriva senza aggravare il diabete – dicono il contrario: che in un anno pre-elettorale, con molti mal di pancia in giro, non sarà una passeggiata di salute. Va bene, non sottilizziamo (e due).

Si proroga l’obbligo di mascherine all’aperto, la stessa valenza scientifica di stringere un cornetto di corallo o di toccare ferro, e si parla di discoteche, che aprano almeno per San Valentino, l’amore è una cosa meravigliosa. Poi tutti a casa: era solo un antipasto, come un rincontrarsi dopo un lungo ponte e le festività.

Ed è qui che mi sono detto: ma guarda che fesso che sono! Perché, in effetti, nella rubrica della settimana scorsa mi ero lasciato prendere dallo sconforto, addirittura avevo teorizzato che si possa fare politica, e meglio, fuori di lì, nelle strade e nelle piazze, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. Ma no, dài, avrò esagerato, mi sarò fatto prendere la mano… E allora avevo preso a coltivare l’illusione che al primo Consiglio dei ministri, si parlasse di noi, del mondo qui fuori, dei comuni mortali. Chissà, immaginavo forse un piccolo capannello in cui il ministro del Lavoro chiacchiera con quello dell’Istruzione per risolvere questo fatto che un ragazzo sta in cantiere invece che in classe, e muore per una trave che gli casca in testa, cosa che peraltro succede a tre o quattro lavoratori italiani ogni giorno. Macché, niente.

Oppure che la ministra degli Interni spiegasse a tutti, con parole sue, come sia possibile che la polizia (a Torino, a Milano, a Napoli, a Roma), si metta allegramente a bastonare a sangue dei ragazzini che protestano pacificamente perché uno di loro è morto in cantiere. Magari comunicando che salta qualche prefetto, o che si prenderanno provvedimenti disciplinari. O magari che qualcuno “di sinistra” (ahah) chiedesse la benedetta riforma di mettere numeri di riconoscimento sui caschi degli agenti per contrastare abusi, come avviene in tutto il mondo… Macché, niente nemmeno lì, ma non sottilizziamo (e tre).

 

Pd e M5s, le lotte interne sono questioni politiche

Giusto “aprire una riflessione”, fosse anche, meno eufemisticamente, un regolamento di conti su un passaggio politico di rilievo come quello del Quirinale, l’importante è che, per davvero, non si ometta una riflessione genuinamente politica. Dentro i partiti e le coalizioni sempre più posticce, delle quali, nell’occasione, si sono squadernate tutte le contraddizioni.

Si prenda il caso del conflitto Conte-Di Maio. Merita scavare oltre i personalismi e i qui pro quo comunicativi prodottisi dentro la concitazione dei negoziati per il Quirinale. Il nodo è l’irrisolto profilo identitario del M5S. Ora sembra che Di Maio sia l’interlocutore più convinto dell’asse privilegiato con il Pd e che Conte il più incerto e ondivago. L’esatto opposto di ciò che si immaginava sino a ieri. E che, nel passaggio più controverso (la candidatura Belloni), Grillo – che ancora conta, anche se sembra abbia perso la bussola, con i suoi interventi casual – abbia solidarizzato con Conte di cui pure, fuor di ipocrisia, non è tra i più fervidi estimatori.

Di più: il padre-fondatore, che fu decisivo nella sofferta decisione del M5S di dare il sostegno al governo Draghi, in questo passaggio ha supportato Conte contrario all’ascesa del premier al Colle. Da questi equivoci, da questi misteri, si può uscire solo, appunto, con una riflessione politica di natura identitaria, che ci faccia capire qualcosa che forse non è chiaro neppure ai protagonisti e che si concreti in una inequivoca scelta di campo, comprensiva della collocazione del M5S nel quadro delle famiglie politiche europee.

Questione, questa, con effetti sistemici sul cosiddetto “campo largo progressista” e che interpella lo stesso Pd, a sua volta chiamato a sciogliere nodi irrisolti. Nella partita del Colle, anche il Pd ha avuto le sue tensioni interne, solo più professionalmente “diplomatizzate”. Ora Letta sembra orientato a ripensare la sua originaria opzione per una regola elettorale maggioritaria aprendo a soluzioni proporzionali. Soluzioni curiosamente patrocinate – semplifico – dalla destra ex renziana e dalla sinistra interne al partito. A monte, pure il Pd dovrebbe operare un decisivo chiarimento circa se stesso, la propria visione strategica e la conseguenti, più naturali alleanze.

Può essere che l’opzione per la proporzionale sia inevitabile e persino auspicabile a fronte della disarticolazione di entrambi gli opposti campi, ma non ci si può sottrarre al compito di esplicitare la propria prospettiva politica che retroagisce sull’identità del Pd: partito di centrosinistra nel solco dell’Ulivo concepito in una logica maggioritaria e nitidamente alternativo al centrodestra ovvero partito moderato di centro partner naturale di FI e dei cespugli contigui tra i quali Renzi.

La riprova di un’ambiguità irrisolta anche del Pd? La disponibilità alla candidatura al Colle di Casini, espressione simbolica e dichiarato fautore di un ridisegno del sistema politico in chiave neocentrista e consociativa. La regola proporzionale non può essere una comoda, esorcistica scorciatoia che esonera dal declinare le proprie generalità politiche e che, ha ragione Bersani, si decidono scegliendo (sottolineo: scegliendo, prendendo parte) su poche ma cruciali questioni in agenda. Due soli esempi: fisco e giustizia. Terreni sui quali è difficile sostenere che partner quali M5S e FI pari sono.

 

“X Factor” a Montecitorio: Mario canta “Fossi ricco”, Giorgia ha James Brown

L’indecoroso show di chi ha scambiato l’elezione del Presidente della Repubblica con le audizioni di “X Factor” dimostra una sola cosa: bisogna far scegliere il Presidente direttamente ai cittadini. (Matteo Renzi, 27 gennaio)

 

26 gennaio. “Vogliamo un presidente condiviso”. Continua così la nuova stagione di X Factor 2022 dagli studi di Montecitorio, dove i 4 giudici (Letta, Salvini, Meloni e Conte) stanno selezionando chi possiede l’x factor tra le migliaia di aspiranti presidenti. La terza puntata è stata forse la più alta per quanto riguarda il livello dei candidati sentiti finora. Il primo a esibirsi è Mario, in arte Mario. Lavorava alla Bce quando vinse L’Isola dei Famosi, un anno fa. “Spero di essere più bravo come capo dello Stato”. Si presenta sul palco indossando un abito sartoriale blu scuro, con camicia bianca e sobria cravatta bordeaux. Canta un suo brano, Fossi ricco. Un brano divertente e per niente stupido. “Ho capito chi sei. Sei Clark Kent, poi ti siedi al piano e diventi Superman. Sei sexy”, dice Giorgia, che spera nelle elezioni anticipate. “Io non lo trovo sexy”, controbatte Conte, interpretando i desiderata dei peones grillini che vogliono finire la legislatura. Mario tace: con lui anche il silenzio diventa una forma di comunicazione. L’imbarazzo generale viene rotto da 4 sì. Marta si presenta come un trio coreano. Canta La crisi dei Bluvertigo, ma non convince i tre giudici maschi fino in fondo. “Appena arriva una donna ecco il fuoco di sbarramento e la misoginia italiana” commenta Giorgia, che le chiede un selfie prima che se ne torni a casa. Tocca a Sergio, ed è una vera sorpresa. Un po’ perché non sa bene per quale motivo è lì, un po’ perché si presenta con una camicia hawaiana che lascia perplessi. Poi si siede al pianoforte, e tutti sbalordiscono: ha talento da vendere. Sentendolo cantare viene la pelle d’oca, considerando che si cimenta con It’s A Man’s Man’s Man’s World di James Brown. Applausi a scena aperta. “È così che si fa: si fa tantissimo senza fare niente”, gli dice Letta. Lo rivedremo di sicuro. 27 gennaio. Challenge e Last Call decimano i candidati. Peccato per Kissinger. Canta Satisfaction alla sua maniera: o lo ami o lo odi.28 gennaio. Quando si arriva ai live, le elezioni presidenziali dimostrano di essere tra gli show televisivi più innovativi e coinvolgenti. Elisabetta C si cimenta con Closer dei Nine Inch Nails. Un brano dal testo molto forte, forse anche troppo per la prima serata tv. “C’era tanto rumore e poca emozione”, sentenzia Letta. È della squadra di Salvini, che prova a consolarl : “Rimani dolce anche quando urli”. Eliminat. Pera si esibisce con il mash up di In Bloom dei Nirvana e Felicità di Al Bano, ma esagera con l’autotune e la sua voce sembra quella di Stanlio. Giorgia lo stronca: “Fa schifo”. Eliminato. A Mario (squadra Letta) è affidata Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi di Lucio Battisti, riarrangiata in chiave folk tirolese. Una versione intensa e sentita: Giorgia sale sul palco per abbracciarlo. Tutti i giornaloni tifano Mario. Sergio (squadra Conte) canta I Gotcha di Joe Tex, un brano del 1972. Ed è una delle migliori interpretazioni della serata. Sembra una canzone scritta su misura per lui. E anche i giudici non possono che applaudire. Salvini gli dice: “Il passo falso l’ho fatto io dubitando di te!”. A queste parole, Giorgia allibisce: “Non ci posso credere!”. Chiosa Letta: “Sergio trasforma il malessere in benessere. Questo è fare musica!”. È bravissimo, nessuno lo mette in dubbio. Però anche lui si esibisce con una sola formula. Che poi è l’accusa fatta a molti altri concorrenti. Si chiede a Elisabetta B o a Mario di uscire dalla propria comfort zone, ma a Sergio nessuno dice nulla: perché? (2. Continua)

 

Il cittadino di Lodi e l’eroico Guerini

Voi pensavate che la rielezione di Mattarella fosse una sconfitta dei partiti e una sconfessione del progetto dell’altissimo Draghi. Pensavate che fosse una figuraccia epica di Salvini, una conferma della marginalità di Meloni, un ripiego per Conte e Letta. Pensavate, al limite, fosse una vittoria del Parlamento, di quel corpaccione anonimo di deputati e senatori che hanno insistito sulla conferma del Capo dello Stato anche in assenza di indicazioni da parte dei leader. Se pensavate tutto questo, vi sbagliavate di brutto. Perché il merito appartiene a un uomo in particolare: Lorenzo Guerini. Ce lo spiega Il Cittadino, il giornale di Lodi, che solo per coincidenza è anche la città natale e il territorio di riferimento del ministro della Difesa del Pd. “Quando il centrodestra ha proposto il nome del presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati – scrive Il Cittadino – è stato tra i primi a indicare la strada del Mattarella bis. La strada che ha portato alla rielezione del presidente uscente Sergio Mattarella, anche questa volta è passata da Lodi, e ancora una volta il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha giocato un ruolo importante nella stabilizzazione di un quadro politico che rischiava di andare a schiantarsi ogni giorno di più”. Grazie Lodi.

Mario torna e diventa re artù

Mario Draghi è tornato, finalmente. Archiviate le ambizioni quirinalizie, il premier si è ripreso il vecchio scranno a Palazzo Chigi e le lancette degli orologi della politica, che si erano rispettosamente fermate insieme a lui, sono potute ripartire. Di conseguenza è unanime il senso di sollievo e giubilo nella stampa italiana. Basta leggere il titolone cubitale di Repubblica in prima pagina. Apodittico: “È tornato Draghi”. Non c’è altro da aggiungere. Ma le corde più liriche sono quelle pizzicate dai sapienti liutai del Corriere della Sera, in un articolo dal respiro epico. “Mario Draghi riparte come un orologio svizzero e il gesto con cui apre il primo consiglio dei ministri dopo una settimana di morte e risurrezione della politica è pensato per spazzar via le scorie… Il premier entra nella grande sala, dà le spalle agli arazzi fiamminghi con le gesta di Alessandro Magno e compie in senso antiorario un intero giro dell’immenso tavolo, porgendo la mano a ogni singolo ministro”. Che statura. Ma il meglio deve ancora venire. “Compiendo un intero giro della ‘tavola rotonda’ di Palazzo Chigi, il premier, che un ministro sottovoce paragona a ‘Re Artù che stringe un nuovo patto con i suoi cavalieri’, suggella un nuovo inizio”. Capito? Altro che Super Mario, qui siamo alla leggenda.

’Ndrangheta, chiesto giudizio per 43 indagati

La Procuradi Milano ha chiesto il processo con rito immediato per 43 imputati che erano stati fermati lo scorso 16 novembre nella tranche lombarda di una maxi inchiesta, coordinata anche dalle Dda di Reggio Calabria e Firenze, che aveva inflitto un duro colpo alla cosca della ‘ndrangheta dei Molè con oltre 100 misure cautelari eseguite in tutta Italia. Qualche giorno dopo il blitz, nell’inchiesta della Squadra mobile milanese e della Gdf di Como, i gip di diverse sedi giudiziarie avevano convalidato 48 dei 54 fermi, con conseguenti misure cautelari, a carico degli indagati del filone lombardo, coordinato dai pm Sara Ombra e Pasquale Addesso.

“I due marò spararono per legittima difesa”

All’indomani dell’archiviazione dell’inchiesta sui due marò accusati dell’uccisione di due pescatori indiani scambiati per pirati, a sancirlo è il provvedimento del gip di Roma Alfonso Sabella. “È chiarissimo come – si legge – più che legittimamente Latorre e Girone si trovassero in una situazione tale da far pensare a un attacco di pirati alla Enrica Lexie, ragion per cui nessuna perplessità potrebbe giammai residuare sul fatto che i due abbiano agito in stato di legittima difesa”. Anche se “potrebbe discutersi sul fatto che, in sede di quell’azione abbiano, per errore, determinato da imprudenza o imperizia, sparato direttamente qualche colpo contro l’imbarcazione che avevano percepito come minaccia”. Ma oggi il reato “sarebbe ampiamente e irrimediabilmente prescritto”.