L’assessore cantava le Ss: erano i “monaci dell’onore”

“Guerrieri della luce generati da padre antico e dalla madre terra. Nel sacrificio dell’ultima Thule. Monaci dell’onore’’. E sopra i versi il titolo, due sciabolate d’inchiostro a fugare ogni dubbio sulle passioni giovanili filonaziste dell’autore: “Schutz Staffeln’’, le famigerate Ss. Un imbarazzante inno alle squadre della morte di Hitler con una svastica raffigurata all’interno di una serie di cerchi concentrici e una spruzzata di razzismo ariano, tradito dal riferimento alla terra mitologica del nord Europa, Thule, che dopo il sit-in del 2 giugno davanti palazzo d’Orleans contro la nomina del neoassessore leghista ai Beni Culturali e all’Identità siciliana, il giornalista Alberto Samonà, rischia di provocare un nuovo imbarazzo alla giunta siciliana del governatore Musumeci.

L’autore della poesia, infatti, stampata a pagina 33 del volume “Le colonne dell’eterno presente’’, pubblicato dalla casa editrice Ila Palma nel 2001, è proprio Samonà, allora trentenne, rampollo di una famiglia aristocratica siciliana di origine spagnola, da settembre 2018 responsabile del settore cultura per la Lega in Sicilia e autore un mese fa di un duro attacco al presidente Mattarella sulle commemorazioni del 25 aprile: “Nessuna parola sui morti di coronavirus. In compenso ha ribadito che l’antifascismo è un valore”. Era un post su Facebook, fatto sparire in fretta e furia dopo la nomina ad assessore, come l’omaggio a Stefano Delle Chiaie, leader dell’eversione di destra negli anni 70.

Approdato alla Lega dopo trascorsi giovanili nella destra palermitana e un veloce passaggio tra i grillini, che lo esclusero dopo le “parlamentarie” del 2018, cui lui reagì citando in giudizio Luigi Di Maio, Samonà è stato definito da Musumeci, del quale è stato addetto stampa, “una giusta sintesi della militanza politica e della competenza professionale’’; ma il governatore forse non immaginava a quale confine ideologico quella militanza si fosse spinta negli anni giovanili: quelle antiche passioni del neo assessore ora rischiano di offrire nuovi argomenti a chi sostiene, come i 50 mila iscritti del gruppo Facebook “No Beni Culturali alla Lega Nord Musumeci dimettiti’’, che l’identità siciliana non può essere rappresentata da un leghista che, ora si scopre, inneggiava a 30 anni agli orrori del nazismo.

Di Samonà si conosceva la passione esoterica, esercitata in un contesto massonico, sia scrivendo numerosi articoli sul Notiziario Massonico, sia da iscritto al Grande Oriente d’Italia, come ha ammesso recentemente anche se adesso, ha detto, “non lo sono più’’. E se ideali massonici e neonazismo hanno nutrito gli anni giovanili del neoassessore le sue origini familiari tradiscono una lunga frequentazione con i salotti buoni della cultura e dell’imprenditoria italiana: nella villa di famiglia di Spadafora, in provincia di Messina, restaurata dallo zio Alberto con i consigli di un altro zio, Giuseppe Samonà, che fu uno dei quattro saggi nominati dal sindaco Orlando per redigere il progetto del risanamento del centro storico di Palermo, i Samonà ospitarono negli anni 60 da Michelangelo Antonioni a Alberto Moravia, dal pittore Corrado Cagli al petroliere Attilio Monti e agli scrittori Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Lucio Piccolo di Calanovella. E il libro “Fratelli’’, di un altro zio, Carmelo Samonà, scrittore e ispanista tra i più accreditati, venne citato dal regista Federico Fellini come una delle sue due letture preferite.

Una famiglia di aristocratici illuminati con passioni culturali e testimonianze civili: vent’anni prima che il nipote pubblicasse svastiche e inni alle Ss il pittore Pupino Samonà, ha realizzato nel 1980 su incarico dell’Aned, l’associazione degli ex deportati e con i testi di Primo Levi, il Memoriale Italiano Auschwitz, una tela di 200 metri che all’interno del blocco 21 del campo di concentramento nella Polonia occupata dai nazisti ha ricordato per anni i cittadini italiani morti nel lager. E allo zio che ha reso omaggio alle vittime del nazismo, il neoassessore siciliano che da giovane ha scelto la svastica come simbolo dei suoi miti, ha dedicato nel 2008 la copertina del suo primo romanzo, “Il padrone di casa”, pubblicando la foto di un suo quadro, Mediterranea.

Scafarto e la gogna per quell’errore nella trascrizione

Gianpaolo Scafarto detto il “manipolatore” e il “depistatore”. Parliamo dell’ufficiale del Noe dei carabinieri, indagato dalla procura di Roma, nel 2017, nell’ambito dell’inchiesta Consip, per aver confezionato informative inzeppate di falsi che miravano a colpire Tiziano Renzi. Le sue indagini furono definite dai giornali “merce ad alto rendimento politico” perché riguardavano il padre del Presidente del Consiglio. Il suo lavoro fu definito dai cronisti “un verminaio di infedeltà e manipolazioni” nelle quali Scafarto – secondo Repubblica, per esempio – “sprofonda definitivamente” . Proprio così: “definitivamente”. L’infedele uomo dello Stato da quelle accuse è stato prosciolto. Non depistò. Semplicemente, sbagliò. C’era però un’aggravante: lui era convinto che la frase fosse di Romeo e un suo collega, il vicebrigadiere Remo Reale, in una chat l’aveva avvertito, dell’errore: “Capitano non è così”. Fu considerata la pistola fumante dell’accusa. Il proscioglimento dimostra che fu un pasticcione e non un delinquente. C’è una gran bella differenza.

Quale fu il suo errore? Consegnò al pm Henry John Woodock un’informativa per l’inchiesta su Consip, nella quale attribuì falsamente ad Alfredo Romeo, l’imprenditore accusato di corruzione, la frase: “Renzi, l’ultima volta che l’ho incontrato”. L’errore faceva intendere che Romeo avesse incontrato Tiziano Renzi. Frase pronunciata invece dall’ex parlamentare Italo Bocchino. Come peraltro correttamente riportato nei brogliacci. Non era un passaggio essenziale per la ricostruzione dei fatti: potevano essere ripercorsi, sotto il profilo investigativo, anche senza quell’intercettazione. Il secondo falso riguardava un passaggio dell’informativa che menzionava il ruolo dei servizi segreti. È stato prosciolto anche da questa accusa. In quel momento si gridò però al complotto contro la famiglia Renzi. Salvo scoprire che la tesi del complotto era totalmente infondata. Piuttosto salda, invece, l’indagine che Scafarto e il pm Woodcock avevano avviato a Napoli. La procura di Roma ha invece chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio per il deputato Pd Luca Lotti (favoreggiamento), l’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette (rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento), il generale Emanuele Saltalamacchia (favoreggiamento), l’ex consigliere economico di Palazzo Chigi Filippo Vannoni (favoreggiamento) e Carlo Russo (millantato credito), l’imprenditore amico diTiziano Renzi. Per quest’ultimo, accusato di traffico di influenze, il gip Sturzo ha respinto la richiesta di archiviazione dispondendo nuove indagini.

L’esperienza su Scafarto fornisce l’occasione per un insegnamento: un pasticcione non è necessariamente un criminale. Qualche pasticcio potrebbe averlo fatto anche il Gico della Guardia di Finanza che, per esempio, ha trascritto con la parola “carabinieroni” un audio in cui, a parere di chi vi scrive, si sente dire invece Pignatone. O ancora: la trascrizione della frase di Luca Lotti all’hotel Champagne di Roma, il 9 maggio 2019, in compagnia di Palamara e Cosimo Ferri. Quella in cui Lotti dice “Si vira su Viola sì ragazzi”, alludendo alla nomina di Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, come procuratore capo di Roma al posto di Giuseppe Pignatone ormai in pensione. Lotti assume, con queste parole, il ruolo di regista dell’operazione. Ma se fosse confermato quel che sostiene la difesa di Palamara, Lotti avrebbe invece detto, dopo aver ascoltato i presenti conteggiare i probabili voti: “Vedo che si arriva a Viola”. E questo – se nulla toglie all’estrema gravità della partecipazione di Lotti e Ferri, due parlamentari, alle strategie per la nomina del capo della procura più importante d’Italia – trasformerebbe la frase di Lotti da un incitamento a una constatazione. Se tutto questo – e forse altro – fosse vero, bisogna ammetterlo, saremmo di fronte a degli investigatori non meno pasticcioni di Scafarto.

Il trojan “difettoso” e l’uomo del Quirinale

In gergo si chiamano chunk e in sostanza sono delle interruzioni. E a quanto pare, il trojan che ha intercettato Palamara, di chunk ne avrebbe fin troppi. Ma non si tratta soltanto di questo. Ieri la difesa dell’ex presidente dell’Anm s’è presentata in procura per ascoltare gli audio e confrontarli con le trascrizioni effettuate dal Gico della Guardia di Finanza. Gli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Buratti hanno già lamentato nei giorni scorsi – con un’istanza inviata alla procura di Perugia – che “durante l’ascolto delle fonie s’è potuto appurare, in molti casi, una sostanziale divergenza tra quanto riversato nei brogliacci e quanto effettivamente ascoltato”.

Poiché gli audio non sono stati depositati, e non avendo quindi la possibilità di verificare personalmente, possiamo inquadrare questo rilievo nella naturale schermaglia tra difesa e accusa. C’è però un precedente.

Il Fatto, nell’unico audio che ha potuto analizzare – quello della sera del 21 maggio, in cui Palamara incontra l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio – una divergenza, con la trascrizione del Gico, l’ha effettivamente riscontrata. L’audio tra le 21.53 e le 21.58 è stato classificato dal Gico come “rumori”. E in effetti il fruscio è altissimo. Pochi secondi prima delle 21.58 c’è però un dialogo, di circa un minuto, che il Fatto ha potuto ascoltare. Resta il dato che l’audio non inizia dal momento dell’incontro, ma quando il dialogo è già in fase avanzata. La difesa di Palamara ha chiesto di trascrivere quella manciata di secondi mai verbalizzata. E il Gico ha coperto la falla. Lì dove, secondo i finanzieri, Palamara dice la parola “carabinieroni” il Fatto ha invece sentito la parola “Pignatone”. Nella trascrizione del Gico di quei pochi secondi non c’è mai la parola “Mattarella” che il Fatto ha invece sentito. In un’altra occasione Palamara sembra fare il nome di Erbani (Stefano, consigliere giuridico di Mattarella, ndr) che nella trascrizione del Gico non c’è.

In sostanza, gli audio possono essere interpretati diversamente, ma la difesa di Palamara ci ha assicurato di ricordare che, nel dialogo con Fuzio, si fecero proprio i nomi che abbiamo menzionato. Se così fosse, fermo restando che la trascrizione giusta potrebbe essere quella del Gico, sarebbe interessante capire perché Fuzio e Palamara parlino di Pignatone, Erbani e Mattarella. E soprattutto: perché affrontano questo argomento proprio la sera del 21 maggio? Una risposta potrebbe darla l’audio tra il 20 e il 21 notte, quando Palamara incontra Lotti e Ferri. Vediamo perché. A mezzanotte e cinque minuti i tre fanno un discorso a tratti incomprensibile durante il quale menzionano ancora una volta Erbani. Ferri dice: “… ma poi io gli ho detto ad Antonio, il Consigliere non lo toccare mai… la figura di merda che…”. L’Antonio in questione potrebbe essere Lepre, ex togato del Csm. Lotti interviene dicendo: “… quello che si deve fare…”. E Ferri: “… eh, che devo fare… io, ho detto, (incomprensibile) io me ne assumo le responsabilità…”. E Palamara: quando Erbani (…) però dice quelle cose…”. Risponde Ferri: “… (incomprensibile) … la verità”. Il punto è che in un’altra intercettazione Palamara sostiene con l’ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini: “Lepre ha chiamato Cosimo… e l’ha fatto tornare.. non so dove stava.. gli ha fatto prendere un treno per tornare a Roma… dicendogli ‘guarda c’hanno messo il trojan non parliamo più’…”.

Palamara potrebbe persino mentire sapendo di mentire. Però quel che ha detto a Legnini lo ripete ai pm di Perugia che gli chiedono delle voci sul trojan e proprio di Erbani: “ Non voglio insinuare nulla – risponde Palamara – e ho il massimo rispetto di tutti, ma di certo a Roma girava voce che io avessi il trojan, e ne parlammo con Ferri, il quale lo aveva saputo da alcuni consiglieri ai quali Erbani aveva riferito che qualcuno era stato infettato dal trojan e io notavo che in tanti temevano di parlare con me”.

È di questo che parlano Lotti, Ferri e Palamara la notte il 20 e il 21 maggio, tanto da spingere Palamara, la sera del 21 maggio, a discuterne con Fuzio? Per saperlo bisognerebbe apoter ascoltare entrambe le conversazioni dall’inizio. Ma non è detto che sia possibile.

Ieri la difesa di Palamara ha tentato di sentire gli audio precedenti alla mezzanotte e cinque minuti. Interpellato dal Fatto, l’avvocato Buratti ha risposto: “La ricostruzione dell’intera vicenda è molto faticosa in quanto è necessario sentire uno per uno i file, che si presentano spezzettati, ma anche perché al momento non sono stati rinvenuti alcuni progressivi, come nel caso della vicenda sulle indiscrezioni sul trojan oggetto di specifiche domande dell’interrogatorio di Palamara sul dottor Erbani”.

In sostanza, sostiene Buratti, mancano dei piccoli tasselli.

“Contiamo di ricostruire”, conclude, “con il supporto necessario degli audio, la vicenda relativa ai fatti oggetto delle domande nel corso dell’interrogatorio del nostro assistito”. Ovvero la presunta fuga di notizie sul trojan.

Il Fatto ha contattato il consigliere giuridico del Quirinale Stefano Erbani che, sulla vicenda trojan, ha ribadito: “Si tratta di una falsità totale e assolutamente incredibile”. Il Quirinale già lo scorso anno commentò: “La Presidenza della Repubblica non dispone di notizie su indagini giudiziarie e dal Quirinale non può essere uscita alcuna informazione al riguardo”. E Ferri riferì al Fatto: “Questa voce sull’ inchiesta sulle nomine fu connessa nelle voci di corridoio a un incontro tra un esponente di Unicost e Stefano Erbani. Io ovviamente non so se sia vero l’ incontro, né le maldicenze che circolavano. E non ne ho mai parlato con nessuno dei due di questo”. Non abbiamo alcun motivo di non credere alle parole di Erbani, Ferri e del Quirinale, ma resta il fatto che se davvero, come sostiene la difesa di Palamara, mancano trascrizioni o ci sono addirittura interruzioni negli audio, la situazione è complicata. Non sarebbe un caso isolato. Il Fatto ha già ricostruito l’assenza, negli audio del 9 maggio 2019, di una cena tra Palamara e Pignatone. Quella sera il trojan non funzionò. Non esistono registrazioni dalle 16 in poi, quando Palamara annuncia la cena in questione. Secondo la difesa esiste però una telefonata intercettata, la sera del 9 maggio, che pur depositata non è stata inserita nelle informative. Sarebbe accaduto – segnala la difesa nell’istanza – anche l’8 maggio. Durante la cena del 9 maggio il telefono quindi funzionò. Ma solo per le intercettazioni telefoniche.

P2, corna e Tolstoj la saga “corriere”

Once upon a time l’editore “puro” che aveva come oggetto in ditta la vendita di giornali e libri, nient’altro. Ai miei tempi quando entrai in giornalismo, nei primi anni Settanta, gli “editori puri” più importanti erano Rizzoli e Mondadori. Arrivai in Rizzoli, all’Europeo, nel 1972 quando Angelo Rizzoli senior, il fondatore della Casa editrice, era morto da due anni. Di lui si raccontavano storie leggendarie. Figlio letteralmente di nessuno, era un “martinitt”, si era fatto da solo. Certamente anche a lui, da buon milanese, piaceva fare i danee, ma aveva quello spirito umanistico che apparteneva alla buona borghesia del Nord, ad Adriano Olivetti, a Leopoldo Pirelli e persino ai Crespi. Poiché non aveva avuto modo di farsi alcuna cultura, diceva “quel Tolstoj lì che sarebbe poi il Dostoevskij”, aveva voluto che anche i poveri potessero farsela creando la Bur, una collana di grandi classici, a 50 lire a volume, su cui tutta la mia generazione si è formata. Non sapeva di cultura ma, a differenza di suo nipote Angelo junior, sapeva scegliersi i collaboratori, che è la vera qualità dell’imprenditore. Affidò la Bur a Paolo Lecaldano. Fu un grande successo, ma naturalmente a prezzi così stracciati la Rizzoli ci perdeva, anche se lui non voleva ammetterlo (tanto che, morto Angelo, la Rizzoli fu costretta ad appiccicare materialmente su ogni volume un sovraprezzo, per esempio Il libro della norma di Lao-Tse fu portato a 100 lire).

Quegli imprenditori a differenza dei manager d’oggidì erano anche degli uomini, conservavano il gusto dello scherzo e della burla. Nel 1959 Arturo Tofanelli, il mitico editore-direttore di Tempo Illustrato, il primo settimanale italiano a colori, si trovò in mano il “pacchetto” della Dolce vita. Ne capiva l’importanza, ma non aveva i 200 milioni per produrlo. Andò da Angelo Rizzoli e gli propose di fare a metà. “A metà no, disse Angelo, solo io”. Tofanelli, che aveva una moglie e una mezza dozzina di amanti, si girò e rigirò per qualche notte nel letto poi cedette. La Dolce vita ebbe il successo che tutti conosciamo. Mi raccontò Tofanelli: “Ogni volta che incontravo Rizzoli, in treno o in aereo, per andare a Roma, lui dopo un po’ tirava fuori dal taschino un rotolino di carta, lo svolgeva e mi diceva: caro Arturo, alla data odierna i vostri mancati guadagni ammontano a…”.

Ma sul lavoro non scherzavano affatto. Mi ha raccontato Angelo Rizzoli junior: “Un venerdì pomeriggio, saranno state le quattro, mi affaccio all’ufficio di mio nonno e gli dico: cumenda, lo chiamavamo così anche in casa, vorrei partire adesso per Saint Moritz perché se lo faccio più tardi trovo tutta la coda. Se credi di poter andar via un’ora prima degli altri, mi rispose, puoi anche non ripresentarti lunedì”.

Ad Angelo senior succedette il figlio Andrea e fu l’inizio del disastro. Andrea era un brav’uomo (quando ti incontrava nei corridoi, a differenza dei manager che vennero dopo, ti salutava e faceva anche finta di aver letto il tuo ultimo pezzo), mite, fisicamente fragile (quando ebbe il primo infarto Angelo senior, che era ormai vicino agli ottanta, andò dal medico e chiese stupito: “Ma può capitare anche a me?”) ma soprattutto sodomizzato da tanto padre che gli dava del “cretino” in pubblico, anche davanti alle maestranze. Il sogno di Angelo Rizzoli senior, che aveva sempre editato solo settimanali, era di fondare un quotidiano. Ne aveva già trovato il titolo Oggi. Il quotidiano di domani, che ha campeggiato per anni in via Civitavecchia oggi via Rizzoli, e il direttore Gaetano Afeltra. Ma alla fine si era reso conto che non c’era lo spazio. Il figlio Andrea per spirito di rivincita nei confronti di quel padre ingombrante decise che la Rizzoli doveva avere un quotidiano e comprò il Corriere della Sera. I Rizzoli non erano attrezzati, politicamente e psicologicamente, per un colosso come il Corriere dove avere agganci col potere è fondamentale. Il direttore del più importante settimanale della casa, l’Europeo, Tommaso Giglio, non aveva e non voleva avere contatti con i politici, e per la verità con nessuno, quando fu invitato a Roma da Gianni Agnelli si rifiutò di andarci perché avrebbe dovuto prendere l’aereo (era un tipo stranissimo, viveva di carta stampata che divorava a quintali). Così quando in Rizzoli ci fu uno sciopero non erano nemmeno in grado di telefonare a Luciano Lama. Affidarono l’incombenza all’ultimo scagnozzo della redazione romana.

Nel frattempo alla Rizzoli era cominciata l’ascesa, come direttore finanziario, di Bruno Tassan Din. Con mia grande sorpresa. Tassan Din lo avevo conosciuto anni prima in tutt’altro contesto. Una sera il mio “compagno di merende”, Diego, col quale andavo un giorno sì e un giorno no a Campione, mi disse: “C’è anche il fidanzato di mia sorella, si chiama Bruno”. Andammo a prenderlo a casa. Alla frontiera il coglione non aveva né la carta d’identità né il passaporto. Tassan Din, che era allora direttore finanziario della Fidenza Vetraria, si comportò nel classico modo all’italiana: “Lei non sa chi sono io!”. Ma con i doganieri svizzeri questi metodi non funzionano. Dovemmo ritornare a Milano per prendere i documenti. Finalmente al Casinò, mi accorsi che Tassan Din guardava con un certo stupore il volume di gioco che facevamo Diego e io. Lui azzardava qualche puntatina alla roulette. Sarebbe diventato molto più disinvolto con i quattrini degli altri.

La tattica di Tassan Din alla Fidenza Vetraria era quella di occupare la stanza più vicina al Capo per carpirne i segreti e ricattarlo. Ma con Cefis e simili queste manovre infantili non funzionavano. La tattica gli riuscì in Rizzoli approfittando delle debolezze di Angelo junior. Angelo aveva avuto un’adolescenza e una giovinezza difficili. Era brutto, così grasso che quando camminava i pantaloni di vigogna scricchiavano e i compagni del Berchet, dove c’ero anch’io, lo chiamavano “coscia rovente”. A quell’epoca Andrea, il padre di Angelo, era proprietario del Milan. Noi ci facevamo dare da Angelo i campi, le magliette, le scarpe, ma di giocare non era neanche da parlarne, lo avevamo nominato DT ma in realtà la squadra la faceva il capitano, un certo Guerrero un bel ragazzo biondo. Insomma un’umiliazione dopo l’altra, cui si aggiungeva una leggera zoppia dovuta alla sclerosi multipla. Nel 1960 mio padre fu invitato, insieme ad altri direttori di giornale, da Angelo Rizzoli senior che li ospitava all’Hotel Regina Isabella di Ischia, di sua proprietà. Mio padre avrebbe voluto che lo accompagnassi, ma quell’estate io stavo ai Bagni Umberto di Savona e filavo con la più bella ragazzina della spiaggia, Anna, e col cavolo che ci andavo a Ischia. Quando ritornò il mi babbo mi raccontò di quel ragazzo strano, solitario, che non socializzava con nessuno. Si diceva avesse un tumore.

Angelo che aveva già delle gravi difficoltà con le ragazze doveva anche subire Ljuba Rosa, la matrigna, la seconda moglie di Andrea, che si intrometteva nelle sue conversazioni telefoniche e le interrompeva. Tassan Din si era assunto il compito di procurargli le ragazze. Ma come visto che Tassan Din, col suo aspetto meschinetto di allora, di donne per le mani non ne aveva? Si faceva forte del nome di Rizzoli. Ma Angelo non avrebbe potuto farlo in conto proprio? No, era troppo timido, troppo introverso. Il riscatto avverrà con Eleonora Giorgi. Si conobbero a una festa a Roma. “Restammo a parlare tutta la notte, fu l’incontro di due dolori” mi raccontò Eleonora. Non è affatto vera la storia, raccontata dalle gazzette, dell’attrice che sposa il produttore cinematografico per interesse. La loro è stata una vera storia d’amore, ma arrivava troppo tardi. La Rizzoli stava già cadendo a pezzi, spolpata da Tassan Din che nel frattempo era diventato, per non si sa quali meriti, “socio d’opera” con il 10,2% nella disponibilità della “Fincoriz Sas di Bruno Tassan Din & C”, decisivo quel 10,2% perché ago della bilancia fra il 40% apparentemente di Rizzoli e il 40% di Calvi. Comprava giornali a manetta sia per aumentare il suo potere personale sia per indebitare sempre più Angelo. Con la complicità del sindacato, perché il patto era che non avrebbe licenziato nessuno. Tutti rubavano in quella Rizzoli, anche nomi famosissimi cui venivano affidate consulenze farsa ma milionarie. Finché anche Angelo Rizzoli decise di rubare a se stesso e finì in galera. Così andavano le cose. Ma arriva il colpo di fulmine: la Guardia di Finanza il 17 marzo dell’81 perquisisce la villa di Gelli a Castiglion Fibocchi e trova le liste della P2. Con una certa sorpresa scoprimmo che il vero potere non stava né a Torino né a Milano né nella Roma ufficiale ma a Castiglion Fibocchi o all’Hotel Excelsior dove svernava Gelli che tutti, veramente tutti, andavano a omaggiare, una volta anche Indro Montanelli. Che Tassan Din fosse nelle liste della P2, insieme ad altri importanti personaggi, Franco Di Bella, direttore del Corriere, Maurizio Costanzo, Silvio Berlusconi, non era sufficiente per affermare che la P2 era la vera proprietaria del Gruppo Rizzoli-Corriere. Il busillis, su cui tutti si assillavano, poteva essere risolto solo individuando i misteriosi “& C” della Fincoriz. Fui io a farlo. Per pura induzione logica arrivai alla conclusione che gli “& C” fossero Gelli, Ortolani e Calvi e lo scrissi sul Giorno: “Corriere: il 10,2% di Tassan Din (?) è il vero mistero”, 13.1.1982. Tassan Din mi querelò per 50 miliardi. Il caso volle che pochi giorni dopo entrassi in possesso di un documento che spazzava via ogni dubbio. Mi ero recato nello studio di Gaetano Pecorella, allora avvocato di Tassan Din, col quale avevo buoni rapporti perché, assistente di Pisapia, aveva curato la mia tesi. Non ero lì per ragioni professionali, ma personali: mi stavo separando da mia moglie e volevo qualche consiglio. A un certo punto Pecorella si alzò, uscì dallo studio e resto fuori dieci minuti. Proprio davanti a me c’era una cartellina azzurra. La aprii: era un documento segreto del 18 aprile del 1980 in cui Angelo Rizzoli si impegnava a “mettere a disposizione di società indicata dall’Istituzione (l’“Istituzione” nel linguaggio di Gelli era la P2, ndr) numero 918.000 nuove azioni pari al 10,2% del nuovo capitale”. Il 10,2% risultava a sua volta suddiviso in quattro quote del 2,55% intestate a Gelli, Ortolani, Calvi e Tassan Din. Se fossero esistiti gli smartphone mi sarebbe stato sufficiente fare una foto, invece con velocità da stenografo copiai tutto e lo pubblicai sul Giorno del 26 gennaio ’82 in un articolo intitolato “Tassan Din è l’uomo della P2 nel Corriere”. Tassan Din non fiatò più e della querela si perse ogni traccia. Ma la storia non finisce qui. Con la pubblicazione delle liste della P2 fatta dal governo Forlani il 20 maggio del 1980 Gelli e Ortolani sono costretti a fuggire dall’Italia e dall’estero non possono far valere il patto segreto. Tassan Din era stato fino ad allora solo il prestanome di Gelli e Ortolani nel Gruppo Rizzoli-Corriere, ma adesso, nella sua testa, comincia a balenare l’idea di liberarsi dell’antico servaggio nei confronti dei due e di diventare lui, finalmente, in prima persona, il vero padrone del Gruppo Rizzoli-Corriere. Tanto che ho il sospetto, solo il sospetto, che sia stato proprio Tassan Din a fare la soffiata alla Guardia di Finanza (e questo spiegherebbe il singolare comportamento di Pecorella che per dieci minuti mi lascia da solo davanti a quella cartellina azzurra che conteneva il “mistero”). Fatto sta che scaricati Gelli e Ortolani (“Bruno non è più quello di una volta” dirà Gelli in una famosa telefonata intercettata dalla polizia) Tassan Din cambia completamente la strategia del Gruppo. Adesso i soldi sono suoi o almeno così si illude. E quando i soldi sono suoi Tassan Din non scherza. Sono di questo periodo le chiusure dell’Occhio e dell’Informazione e un progetto di drastica riduzione del personale oltre che di altre testate in passivo. Ma, crollata la P2, Tassan Din ha bisogno di qualche appoggio. Lo cerca e lo trova nel Pci attraverso il sindacato dei giornalisti del Corriere che dal Pci era controllato attraverso Raffaele Fiengo. Lo conferma lo stesso Tassan Din in una lettera che scriverà a Feltri, per il Giornale, molti anni dopo, nell’ottobre del 1994. Ma di questa conferma non c’era alcun bisogno. Che il sindacato del Corriere, guidato allora da Raffaele Fiengo, fosse la cinghia di trasmissione del Pci lo ha detto la storia di quegli anni. Io posso aggiungere un curioso particolare di cronaca. Nel giugno dell’81 si tenne a Bari il Congresso nazionale della Stampa. Io vi partecipavo come delegato di Stampa Democratica. Il primo giorno c’erano tutti i capataz del sindacato tranne, curiosamente, Fiengo. Nel primo pomeriggio, già stufo del bla bla sindacalese, rientrai in albergo e mi stesi sul letto per riposare un poco. Il caso volle che, pochi minuti dopo, arrivasse, direttamente dall’aeroporto, anche Fiengo che entrò proprio nella stanza vicino alla mia. Si attaccò subito al telefono. Anche se avessi voluto non avrei potuto non ascoltare perché parlava a voce altissima sicuro che tutti fossero nella sala del Congresso e che in albergo non ci fosse nessun collega. Ma devo confessare che se anche avessi avuto quell’intenzione me la sarei ricacciata in gola dopo aver sentito le prime parole di Fiengo. Parlava di Ronchey e di Cavallari. Erano infatti i giorni in cui si decideva della nomina dell’uno o dell’altro alla direzione del Corriere. Fiengo riferiva al suo interlocutore come fosse riuscito a bloccare la nomina di Ronchey e dava quella di Cavallari come ormai fatta. Dalla conversazione si capiva che Fiengo e il suo interlocutore avevano concertato in precedenza certe mosse. Altre ne prepararono nei lunghi minuti di quella telefonata. Chi era il misterioso interlocutore di Fiengo? Era, come si evinceva senza possibilità di equivoco da tutto il contesto, un esponente di alto livello di Botteghe Oscure.

I piani di Tassan Din andranno in fumo, sarà incarcerato, la Rizzoli finirà in Amministrazione controllata e in seguito verrà comprata per un tozzo di pane dalla Fiat, cosa che roderà sempre il fegato del povero Angelo, il più innocente dei colpevoli.

Montecarlo, primi anni Ottanta. Andrea Rizzoli, ammalato di diabete, giace da anni inerme nel suo letto. Raffaello Gelli, che conobbi negli anni Duemila a Talamone, un bel ragazzo che girava in Rolls décapoté, il primogenito di Licio Gelli, è l’amante di Ljuba Rosa: la moglie di Andrea tradisce il marito col figlio di colui che ha distrutto la Rizzoli. E così si chiude la saga Rizzoli. Come nel Servo di Losey.

 

Pop di Cividale, gli azionisti vogliono “cambiare l’aria”

La necessità di mantenere le distanze sociali rende difficile rinnovare le cariche sociali. In tempi di coronavirus, complicato fare l’assemblea annuale della banca. Complicatissimo votare per rinnovare il consiglio d’amministrazione. Anche quassù a Nordest. Ci stiamo riferendo a una piccola banca del Friuli, la Popolare di Cividale, per gli amici Civibank.

È una banchetta del Nordest che ha resistito impavida alla crisi che ha fatto saltare le banche venete e allo shopping delle grandi che hanno mangiato le piccole. Orgogliosa della propria indipendenza, non è che sia però senza problemi. Il valore delle azioni negli ultimi anni è crollato. Il vecchio patriarca dell’istituto, Lorenzo Pelizzo, presidente per più di 40 anni, sta aspettando che la prescrizione sani del tutto vecchie questioni. La nuova sede della banca costruita a Cividale, incrocio tra una casa dei Puffi e l’astronave di Star Trek, è fonte di eterni contenziosi. Ma ora la polemica è sulla prossima assemblea. Avendo il patrimonio sotto la soglia degli 8 miliardi, Civibank ha resistito anche alla riforma delle Popolari, non è stata trasformata in Spa e ha mantenuto il voto capitario. “Una sciagura”, secondo Pigi Comelli, notaio di Udine e presidente dell’associazione “Azionisti banca popolare di Cividale”. Non soltanto perché quest’anno, causa Covid, l’assemblea dei 15 mila soci dovrà essere a porte chiuse, virtuale e telematica, ma anche perché, attacca Comelli, “il voto capitario, sotto lo scudo della difesa della mutualità, permette la perpetuazione del gruppo di potere che da sempre governa la banca”.

Macchinoso il sistema di partecipazione all’assemblea virtuale, convocata per il 15 e 16 giugno presso lo studio del notaio milanese Filippo Zabban (“Alla faccia della banca del territorio”, protestano molti soci, “non c’era un professionista disponibile in Friuli?”): per partecipare al voto, ogni azionista dovrà compilare e spedire 13 pagine di moduli.

Una novità, però, quest’anno c’è: gli oppositori dell’eterno gruppo di comando della banca erede dell’immarcescibile Pelizzo sono riusciti a raccogliere le firme (l’1,8 per cento dei soci) per presentare tre candidature alternative per il consiglio d’amministrazione. Sono quelle di Silvano Chiappo, Teresa Dennetta e Michele Picco, che si propongono di sostituire gli attuali Riccardo Illy, Massimo Fuccaro e Guglielmo Pelizzo (nipote dell’eterno presidente emerito). “Per cambiare l’aria, per rendere finalmente trasparente la gestione dell’istituto”, dice Comelli, “e poi per proporre il passaggio a società per azioni”.

È battaglia in questi giorni, sui dolci colli tra Udine e Cividale. I “ribelli” si propongono di scalfire l’inossidabile sistema di relazioni e di potere che da sempre governa la banca, facendo entrare i tre nuovi membri nel consiglio d’amministrazione.

“Le azioni della banca valevano più di 24 euro, oggi sono a 4 euro e mezzo. E sono praticamente invendibili sul mercato”, protesta Comelli. È quel “sistema anacronistico” (la definizione è di Salvatore Bragantini) che fa stabilire il valore delle azioni di anno in anno allo stesso Cda della banca e che rende i titoli scambiabili soltanto attraverso un sistema interno all’istituto. Il “sistema anacronistico” è finito per le Popolari diventate Spa, ma è sopravvissuto a Cividale. Ora tentano di entrare in Cda quelli che vorrebbero cambiare il sistema.

“La nostra banca è sana e non ha seguito la cattiva strada delle banche venete”, replica a distanza la presidente di Civibank Michela Del Piero. Il 16 giugno si saprà se l’assalto sarà riuscito.

 

 

Il “rilancio” di Colao è il solito bluff: più cemento, niente gare

La tragedia della pandemia avrebbe dovuto far capire a tutti che la salvaguardia della salute pubblica non dipende solo dalla capacità dei presidi sanitari di prevenire e far fronte alle emergenze. Per questo basterebbe rimettere in piedi un sistema pubblico – a partire dalla ricerca epidemiologica e farmaceutica – totalmente svincolato dalla logica aziendalistica della redditività delle prestazioni.

La pandemia ci ha insegnato che siamo parte di un unico ecosistema naturale: One planet, one health, afferma la campagna di Vandana Shiva. Che è poi la stessa cosa che ha detto papa Bergoglio in occasione della giornata della Terra: “Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo malato”. Ovvio. Maltrattare oltre ogni limite i cicli bio-geo-fisici naturali significa esporre le popolazioni umane a rischi immensi. Diretti e indiretti. Immediati o differiti. Come ci hanno spiegato i biologi, il virus Sars-Cov-2 è arrivato a noi perché noi abbiamo sottratto ogni spazio vitale (il 75 per cento della superficie terrestre e il 60 di quella marina) alla libera rigenerazione delle forme della vita selvatica. Gli squadroni della morte bruciano le foreste amazzoniche per garantire hamburger ai ricchi mercati occidentali. Il fiume Daldykan è sommerso dal diesel destinato ai suv europei. Le polveri sottili secondarie che abbiamo continuato a respirare nella Pianura padana sono il prodotto di una concentrazione insostenibile di allevamenti industriali.

Per un momento abbiamo sperato che lo shock della pandemia avrebbe potuto far fare ai nostri decision maker un salto di consapevolezza e di responsabilità: nulla sarebbe stato come prima, si diceva. Ma ci eravamo tremendamente sbagliati. Gli “esperti” (di cosa?) chiamati dal governo italiano hanno posto la salute al 73° posto e l’impresa al 1°. L’ambiente è associato alle infrastrutture come “capitale naturale” da impiegare nella creazione di valore economico. Stessa sorte per i beni culturali, la scuola, la ricerca. Per il gruppo messo assieme dal super-manager Colao, il “rilancio immediato” significa procedere come e peggio di prima. Senza pudore è stata messa in piedi una gigantesca operazione di lobbying. Il “governo ombra” degli interessi privati delle industrie, dei costruttori, dei concessionari, della grande distribuzione e della finanza è uscito allo scoperto pianificando l’assalto alla diligenza dei fondi pubblici in arrivo da Bruxelles. Non solo. La necessità di una rapida ripresa delle attività produttive dopo il lockdown è vista come una grande occasione per sbarazzarsi dei pochi controlli e delle deboli norme ambientali e sanitarie esistenti.

Con meticolosa arroganza il gruppo di Colao detta al governo un lunghissimo elenco di disposizioni di legge che vanno abrogate, prorogate (concessioni), sospese (codici degli appalti e delle opere pubbliche), depenalizzate (da responsabilità civili e penali), detassate, “sburocratizzate”… il tutto per velocizzare gli investimenti. Particolare attenzione viene data alla abrogazione dei livelli di emissione elettromagnetica generati dagli impianti 5G. Il dottor Colao qui se ne intende!

Nelle opere pubbliche torna alla grande la logica della “legge obiettivo” (di berlusconiana memoria). Il “modello Genova” prevede un regime ad hoc con “affidamento diretto negoziale senza bando di gara”; per tutte le altre “silenzio assenso” di poche settimane. Poco importa se gli uffici competenti (sovrintendenze, Asl, Comuni…) non ce la faranno nemmeno ad aprire i fascicoli. L’obiettivo è: “Ridurre l’area di responsabilità dei dipendenti pubblici conseguente all’adozione di procedure governate da algoritmi” (sic). Il tutto nel quadro “del Green Deal europeo”. Ovviamente, non è vero nulla.

 

“Nero”, appalti ed esuberi. Così si riforma il lavoro

L’emergenza sanitaria ha prodotto un’alluvione di norme la cui ultima e corposa manifestazione è rappresentata dal “Decreto Rilancio”, con i suoi 262 articoli. Dato atto al Governo delle migliori intenzioni, bisogna ricordare che studiosi e operatori giuridici attestano che le leggi davvero importanti sono, invece, brevi e compatte, perché modificano i punti di principio e di snodo di un sistema normativo. Cerchiamo, allora, sul tema del lavoro, di indicare alcune proposte semplici su argomenti di grande rilievo ma trascurati dal decreto.

1) Proposta in tema di “lavoro nero”, antica piaga sociale cui il legislatore, pur intervenendo ripetutamente, non ha mai saputo porre rimedio, per un errore di impostazione e metodo: non ha compreso che l’unica tutela efficace può essere solo l’autotutela, che il lavoratore irregolare abbia un preciso e sicuro interesse a innescare lui stesso. Invece il legislatore ha sempre puntato su tutele “esterne”: la previsione di sanzioni economiche o penali, a carico del datore di lavoro, irrogate dall’ispettorato del lavoro; o di sanatorie con le quali il datore viene incentivato a “pentirsi” e a regolarizzare il rapporto lavorativo, a fronte del “perdono” delle illegittimità passate e relative sanzioni, salvo qualche contributo e costo minore. Né l’uno né l’altro strumento ha mai funzionato, per comprensibili motivi: la probabilità di esser “pizzicati” dall’ispettorato è minima, mentre gli illeciti vantaggi sono alti; lo stesso lavoratore “in nero” è spesso omertoso con il datore perché la “regolarizzazione” non gli garantisce di tenere il posto e teme di perderlo. Non meraviglia, dunque, il “flop” della sanatoria prevista dal decreto per il settore agricolo (“sanatoria Bellanova”).

La soluzione deve puntare invece sull’autotutela del lavoratore: una semplice norma che preveda che il lavoratore che abbia denunziato all’ispettorato o al giudice di essere occupato in nero, ottenendo la regolarizzazione, non possa essere licenziato per un successivo periodo di 4 anni, per motivo economico-produttivo.

Non è una novità eversiva, perché una norma del genere esiste per lo specifico caso di regolarizzazione di un lavoratore “falsa partita IVA”: è l’art. 54 del D. Lgs. n. 81/2015, che tuttavia prevede un periodo di illicenziabilità troppo breve, di un solo anno (è pur sempre una norma del Jobs Act!). È lampante che con la norma che suggeriamo il lavoratore “in nero” avrà tutto l’interesse a denunziare la sua condizione, perché, una volta regolarizzato, il datore dovrà o tenerlo al lavoro o pagargli quattro annualità di retribuzione. La proposta ha anche un alto livello di prevenzione: dare lavoro “in nero” diverrebbe pericoloso e lo stesso “lavoro nero” finirebbe con lo scomparire.

2) Una seconda proposta dovrebbe riguardare il regime degli appalti (e dei subappalti), tema di grande rilievo in tempi di sperato rilancio economico tramite la costruzione di grandi o piccole opere, private o pubbliche. È noto che si tratta di una materia divenuta (per colpa dell’art.29 della “Legge Biagi”) ad altissimo rischio di illegalità e di sfruttamento, perché ai dipendenti di appaltatori e subappaltatori sono per lo più applicati trattamenti economico-normativi peggiori di quelli che dovrebbe far carico alla stazione appaltante se procedesse direttamente ai lavori, con suoi dipendenti. Sono dilagati e dilagheranno appalti fasulli, di mera mano d’opera, spesso affidati a cooperative spurie, create dallo stesso committente o infiltrate dalla criminalità, al solo scopo di realizzare illegittimi risparmi sulla manodopera.

Basterebbe, però, un semplicissimo intervento di poche righe per risanare questa sorta di “fronte del porto”: basterebbe, cioè, stabilire un principio di parità di trattamento tra i dipendenti dell’appaltatore o subappaltatore e quelli del committente, e la responsabilità solidale del committente verso i dipendenti dell’appaltatore o subappaltatore per l’effettiva fruizione di detto trattamento. Produrrebbe una benefica selezione automatica tra appalti: quelli “speculativi” non avrebbero più ragione di esistere perché non vi sarebbe più differenza nel costo del lavoro, e resterebbero solo quelli giustificati dalla specializzazione organizzativa e tecnologica della ditta appaltatrice. Una norma del genere è già esistita nel nostro ordinamento (art.3 Legge 1369/1960) e ha dato ottima prova per quarant’anni, ma l’ondata neo-liberista l’ha poi cancellata con i risultati di diffusissima illegalità che affliggono il mercato del lavoro.

3) Una terza proposta dovrebbe riguardare gli esuberi di personale, riferiti al momento in cui scadrà l’attuale “blocco” dei licenziamenti disposto per l’emergenza sanitaria. Poiché dare il “via libera” ai licenziamenti (si stimano in un milione) significherebbe innescare tensione sociale gravissima, essi vanno evitati promuovendo e imponendo la stipula di contratti di solidarietà difensiva, anche se di lunga durata, fino al momento in cui l’esubero venga riassorbito dal recupero dei livelli produttivi.

Sarà necessario riorganizzare gli ammortizzatori sociali e utilizzare i fondi europei “Sure” che sono ispirati al “Kurzarbeit”, versione tedesca, in sostanza, dei contratti di solidarietà difensiva. Recuperati i livelli produttivi, potrebbero essere trasformati in contratti di solidarietà espansiva, con aumento netto dell’occupazione, finanziata anche dal risparmio nell’erogazione degli assegni di reddito di cittadinanza già spettanti ai neo-assunti.

 

Mail box

 

Non tutti i Fontana sono pessimi amministratori

Gentilissimo Marco Travaglio, le scrivo in merito all’ultima vicenda che coinvolge Attilio Fontana, in parte anche per contribuire alla riabilitazione del cognome Fontana (che è anche il mio). A parte l’ironia, che comunque aiuta in questi giorni tristi, vengo al motivo della mia mail: Attilio Fontana ricopre una carica pubblica elettiva, una tra le più importanti del Paese. In questi casi la persona titolare dell’incarico deve essere e contestualmente apparire disciplinata e onorevole. Viene da citare Piercamillo Davigo, ma cito un fatto personale: negli anni ’90 ho avuto incarichi pubblichi per il mio Comune e, all’epoca dell’esperienza in qualità di assessore alla Cultura, fu indetto il concorso pubblico per la selezione del bibliotecario. Mia moglie era in possesso dei titoli per partecipare però le dissi che se aveva intenzione di farlo doveva avvertirmi, in modo da presentare le mie dimissioni in anticipo. E comunque la cosa mi avrebbe messo in difficoltà. Mia moglie non partecipò al concorso e il mio Comune assunse un bravo bibliotecario.

Massimo Fontana

 

Parlamentari, basta trattamenti di favore

Caro direttore, leggendo l’articolo di Ilaria Proietti non posso che constatare che chi ci governa non ha alcun rispetto degli elettori. La dimostrazione sta nel fatto che loro possono e i cittadini no. Con tutte le agevolazioni che hanno (chiedere a Casini) adesso mancava la clinica anti-Covid. Penso che con tutte le difficoltà degli italiani per fare tamponi e test, per certe iniziative (visto che sono nostri dipendenti) si dovrebbe chiamare il popolo a un referendum. Cosa ne pensa?

Luciano B.

 

Caro Luciano, penso che i parlamentari, se stanno male, debbano recarsi in ospedale come ogni comune mortale.

M. Trav.

 

Atlantia, sbrigatevi a revocare le concessioni

Cosa aspetta il governo dei tanti auspicati cambiamenti a revocare la concessione di Autostrade ad Atlantia? Quella struttura, pagata e strapagata mille volte con denaro pubblico, doveva diventare gratuita ad ammortamento avvenuto. Invece, beffa delle beffe, è stata mantenuta a pagamento, per cui per farne uso si deve elargire un obolo a un privato cittadino. Veramente assurdo! Il paradosso è indigeribile. È come se per abitare nella propria casa si dovesse pagare l’affitto a qualcuno. Perché il ministro dei Lavori pubblici del tempo, Di Pietro, tace? Perché tace il capo del governo di allora? Non sentono il dovere di dare spiegazioni? Perché questo silenzio? Ci sono state vittime. Sono opportunità come questa che il governo Conte dovrebbe accogliere per dimostrare la volontà di effettuare veri cambiamenti e rimediare ai gravissimi errori del passato.

Ernesto Ghisoni

 

Enti inutili: qualche idea per la riconversione

Siamo un Paese povero di idee: questo ormai incancrenito andazzo deve essere modificato, altrimenti sarà la fine. Esistono tanti enti inutili che andrebbero soppressi o riconvertiti in un lasso di tempo medio-corto: a mio parere, dovrebbero essere assorbiti tutti dallo Stato e “stemperati” nei vari ministeri della Repubblica, senza licenziare nessuno. Lo Stato così acquisirebbe personale provetto che darebbe maggior esperienza e professionalità all’ambiente e si eliminerebbero un sacco di infrastrutture-doppione con forte risparmio e recupero di edifici. In 1-2 anni andrebbero in pensione molti dipendenti, da non sostituire, e si entrerebbe nell’area di “utilità netta” di questa operazione, vista di buon grado dai cittadini italiani ma anche all’estero. Per conseguire questo risultato ci vogliono politici e manager “con gli attributi”. Forza e coraggio: la cosa è utile e fattibile.

Giuseppe Borghi

 

Guerini, lo “statista” che non ci meritiamo

Gentile Direttore, ho letto l’articolo di Tommaso Rodano su Lorenzo Guerini, lo statista che non ci meritiamo. Il profilo del sullodato si dispiega a livello internazionale e nazionale. Io desidererei essere più riduttivo e riferirmi alla dimensione locale, cioè al Comune di Roma. Sull’argomento – se è vero quello che scrive Ignazio Marino nella sua opera Un marziano venuto a Roma – il suddetto “statista”, quando era vicesegretario del PD, impose al suddetto sindaco la presenza di Mirco Coratti (approdato alla carica di Presidente dell’assemblea capitolina), di cui si parla sempre molto poco, con gli effetti che tutti quanti – almeno quelli attenti alle questioni romane che non parlano solo per sentito dire – hanno potuto constatare da vicino.

Marco Olla

 

Il “Fatto” era esaurito: sono soddisfazioni

E niente: l’altra mattina arrivo a Firenze S. Maria Novella e le prime due edicole avevano esaurito il nostro meraviglioso Fatto Quotidiano. Sono soddisfazioni.

Angelo Barbera

 

Piazze gremite al Nord: hanno scordato i morti?

Vedo su tutti i giornali foto e video di piazze del Nord strapiene: manifestazioni naturalmente autorizzate dagli organi preposti e pubblicizzate dai media. La causa si può considerare lecita. Ma i centomila e passa morti non dicono nulla?

Pietro

Trieste. La Giornata della liberazione dai titini è necessaria (o revisionista)?

La giunta di estrema destradel Comune di Trieste ha votato l’istituzione della “Giornata della Liberazione della città di Trieste dall’occupazione jugoslava”. Penso si debba ribadire un giudizio profondamente negativo. Questa del 12 giugno è una data “divisiva” (usando lessico altrui…), una scelta che soddisfa i fautori di una lettura revisionista delle vicende storiche. Evidentemente l’attuale giunta e parte della nostra città non hanno ancora fatto i conti con se stesse e con il proprio passato. Così riorganizzano gli eventi basandosi su una memoria selettiva: per loro la storia della nostra città inizia il 1° maggio del 1945: Falso: siamo stanchi di batterci contro ricostruzioni di questo genere che trasudano di vecchie ideologie… Nel clima di fine della guerra e primo dopoguerra ci sono sicuramente state violenze ed eccessi nazionalistici jugoslavi, ma risultano illeggibili se non considerati nel contesto di crudeltà estrema causato dall’aggressione nazifascista, particolarmente feroce in queste terre.

Gianluca Paciucci

 

Che dire, caro signor Gianluca, non è facile addentrarsi in polemiche come questa. Come lei stesso spiega, non mancarono di certo “violenze ed eccessi” in quei giorni a cavallo della fine della guerra: e che, ancora oggi, ci sia chi “ricorda con rabbia” è legittimo. Ma la questione che lei pone penso vada comunque ricondotta all’abitudine revisionista attuale che, a fini di una ricerca di consenso elettorale, vede moltiplicarsi le iniziative che paiono mirare, più che a non cedere all’oblio, a far invece dimenticare (e a riallineare) il vero senso del bilancio umano e storico (per tutta l’Italia) della Seconda guerra mondiale. Un Paese trascinato dal nazifascismo in un conflitto sanguinoso per militari e civili, segnato dalle persecuzioni verso gli antifascisti e dalle complicità italiane nella Shoah. Credo allora che le due date fondamentali restino quella del 25 aprile 1945 e quella del 27 gennaio dello stesso anno, la Giornata della Memoria dell’Olocausto. Nel 2004, infine, l’Italia ha istituito la Giornata del Ricordo (il 10 febbraio) per conservare “memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe”, dell’esodo degli istriani, giuliani, fiumani e dalmati e “della più complessa vicenda del confine orientale”. C’era dunque bisogno di altro per non perdere la memoria?

Ettore Boffano

Le statue del re fascista vanno abbattute: Sì, se ce ne fossero…

“Sono fiero di tornare quale cittadino della libera Italia, ma non quale suddito del re degenerato e del principe di casa Savoia”. Arturo Toscanini, Time, 18 maggio 1945

Alcuni giovani italiani che stanno manifestando contro il razzismo avrebbero voluto prendere di mira le statue di Vittorio Emanuele III, firmatario delle leggi razziali negli anni del fascismo, e considerato uno dei più spietati sovrani coloniali nella storia d’Italia, la nazione su cui regnò dal 1900 al 1946. Avrebbero voluto vandalizzarne le statue (sull’esempio di quanto i contestatori belgi stanno facendo alle statue di Lodovico II) soprattutto per le gravi violazioni della Convenzione di Ginevra perpetrate dalle truppe italiane durante le guerre fasciste in Libia e in Etiopia (uso di gas asfissianti su militari, villaggi, mandrie, pascoli, laghi, fiumi); e per la morte di decine di migliaia di civili nelle colonie d’oltremare (Libia, Eritrea, Etiopia, Somalia).

Già si erano creati gruppi di pressione per chiedere la rimozione dei monumenti del vecchio re (come negli Stati Uniti c’è chi propone di rimuovere le statue dei leader schiavisti della Guerra Civile americana) entro il 27 novembre, anniversario della fine dell’Impero, poiché “in Italia non c’è posto per monumenti a un uomo responsabile di massacri”. Ma Giletti (Dio, come mi manca Enzo Biagi!) non fa in tempo a varare uno speciale dedicato alla querelle che si materializza, lampante, un problema: statue di Vittorio Emanuele III, in Italia, non ce n’è. Prontamente, l’Istituto per la guardia d’onore alle reali tombe del Pantheon, istituzione nata nel 1878 con lo scopo di onorare i defunti sovrani di casa Savoia, coglie l’attimo: che sia colmata la lacuna, presto!, e siano erette statue equestri al re sciaboletta (era alto un cazzo e mezzo, cioè come il suo cazzo, secondo un celebre passaparola delle ballerine di Napoli che frequentava). Il piano era schierarsi in apparenza coi rivoltosi (“giusto abbattere le statue, però prima vanno fatte”), ben sapendo che siamo in Italia: una volta eretti i monumenti, cosa fatta capo ha, e per poter demolire campa cavallo.

L’oscena concordia fra demolitori ed erettori è durata giusto un minuto, il tempo per una Sardina di far presente che siamo in Italia, dove per l’appalto del progetto di un’opera, e poi per quello dell’esecuzione dei lavori, e poi per la variante urbanistica necessaria alla collocazione del manufatto, campa cavallo; e dunque che sarebbe più pratico abbattere le statue di Vittorio Emanuele II, che in Italia sono ubique. “E perché non assaltare adesso la sua tomba al Pantheon?”, gli ha domandato Giletti, che già si vedeva in testa al manipolo. “Perché è una stronzata”, gli ha risposto un cameraman con voce dal sen fuggita, mordendosi subito la lingua. E Giletti: “È bello sentire il parere di un disoccupato”.

(I critici denigrano Giletti: “Cosa sa fare?” Bè, innanzitutto è sempre in orario. Comincia il programma, lui è lì. Non è poco, di questi tempi. Ma cosa intendono, di preciso, quando dicono che Giletti è un presentatore televisivo? Ovviamente non è un complimento. Comunque, la sua vita è molto cambiata, da quando è in tv: non accumula più tante mance come un tempo).