Per sapere tutta la verità, gli audio vanno resi pubblici

Luca Palamara non rappresenta il modello di magistrato che preferiamo ma quello che aborriamo. E non ci riferiamo ovviamente alla sua attività inquirente. È inaccettabile che un membro del Csm, leader della sua corrente, discuta delle nomine di qualsiasi ufficio giudiziario alla presenza di un politico, chiunque sia, a meno che non si tratti di un laico del Consiglio.

È altrettanto indigeribile il codazzo di aspiranti capi delle procure, procuratori aggiunti, presidenti di tribunali, di sezioni di tribunali – e su e giù per ogni scalino previsto dal carrierismo – che l’hanno assediato con messaggi in taluni casi al limite dello stalking. Per le progressioni di carriera la legge prevede che ciascun magistrato presenti al Csm la propria “autorelazione” e non messaggi su WhatsApp al potente di turno.

Il rispetto del principio di verità impone però che non ci si debba soffermare sul ruolo del solo Palamara. La procura di Perugia ha utilizzato un trojan – una sorta di microspia inoculata nel suo telefono – per circa un mese.

Gli audio captati dai trojan e poi trascritti – non sempre in modo corretto e a volte persino incompleto, secondo la difesa di Palamara – non saranno depositati. Ascoltati dai soli indagati, resteranno quindi chiusi in un cassetto. Un esempio: la difesa dell’ex presidente dell’Anm sostiene che, da alcuni audio mai trascritti, emerge il sospetto che un consigliere del Quirinale, a indagini corso, quindi segrete, sapesse della presenza di un trojan nel telefono di Palamara. Il Consigliere del Quirinale smentisce. Ci fidiamo. Può questa verità restare ancorata alle versioni di parte? Lasciare quell’audio – come altri – dentro un cassetto significa lasciar fuori per sempre un sospetto. Tanto più dannoso se lambisce i collaboratori della massima istituzione del Paese.

I Modelli Matematici e gli asintomatici

È sempreutile trovare un colpevole su cui traslare le responsabilità. E una volta individuato, va bene per tutto. Ogni colpa, ogni errore troveranno un capro espiatorio. Oggi i colpevoli sono i modelli matematici. Ho già scritto che noti epidemiologi come Donato Greco si sono soffermati a descrivere come spesso siano falliti nelle previsioni ottimistiche e pessimistiche di questa pandemia e non solo. Ma che qualsiasi cosa andata male si attribuisca ai calcoli matematici, mi sembra eccessivo, quasi ridicolo. Ecco l’ennesima incertezza dell’Oms e degli scienziati. Il British Medical Journal in aprile pubblicava “Covid-19: four fifths of cases are asymptomatic, China figures indicate” (“Covid 19: quattro casi su cinque sono asintomatici, secondo i dati cinesi”), puntando l’attenzione sulla loro contagiosità. Concetto ribadito dall’Oms, dalla quasi totalità dei ricercatori e da me pienamente condiviso. Proprio gli asintomatici sono stati l’origine dell’esplosione della pandemia in Italia. La difficoltà di individuare gli asintomatici, visti come dei veri e propri untori, inconsapevoli diffusori del virus, anche in assenza di sintomi, è stato sempre l’aspetto temuto di questa pandemia. L’altro giorno Maria Van Kerkhove, responsabile tecnico dell’Oms per il Covid-19, ha invece sminuito questo ruolo sottolineando come sia “raro che un soggetto asintomatico infetti un altro individuo, secondo i dati pubblicati”. Subito attaccata per la sua dichiarazione, ha poi fatto un passo indietro, ridimensionando la sua dichiarazione e attribuendo la responsabilità a modelli matematici. Che i ricercatori possano avere opinioni diverse, anche contrapposte sta nel dialogo aperto della scienza, ci sta. Ma che un organismo internazionale cui dovremmo tutti fare riferimento come faro nella tempesta passi con tanta leggerezza tra una dichiarazione e l’altra contrapposta non è accettabile. Di matematico in questa pandemia c’è solo l’incertezza e la certezza che il virus, seppur in carica diversa, può circolare inosservato.

*direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Quelle facce di bronzo da Colombo a Lenin: i cattivi via dalla storia

Il profilo di Cristoforo Colombo adesso affiora dal lago del Byrd Park di Richmond. La salma arrugginita è appoggiata in orizzontale, come un ubriaco che riposa. La sua statua è stata divelta e gettata in acqua, ultima di un lungo elenco di caduti. I monumenti sono come le bandiere, hanno storia e colore: non sono neutrali. Non lo è nemmeno Colombo, perché dopo la scoperta dell’America sono arrivati lo sterminio dei nativi e la schiavitù. Gli attivisti di “Black lives matter” l’hanno decapitato a Boston e lanciano petizioni per abbatterlo in tante città americane, dopo averlo fatto con le statue di sudisti e confederali.

A Bristol, in Inghilterra, i manifestanti hanno divelto la statua dello schiavista Edward Colston, trascinato per la città come Ettore fuori dalle mura di Troia e poi gettato nelle acque del porto. A Londra è stato il sindaco Sadiq Khan ad annunciare che i monumenti dei commercianti di uomini saranno rimossi, come Robert Milligan di fronte al museo dei Docklands. L’ondata antirazzista coinvolge il quieto Belgio (con l’assalto alle statue di Leopoldo II, sanguinario colonialista) e persino la neutrale Svizzera (a Neuchatel c’è una petizione per smantellare lo schiavista David de Pury). È una costante storica. Quando un popolo si muove per sovvertire un regime o un sistema di valori, tra le prime teste a rotolare ci sono quelle di metallo o di marmo. È ancora negli occhi del mondo la caduta fragorosa della sagoma di Saddam Hussein dopo la presa di Baghdad nel 2003. Non c’erano le tv invece il 25 luglio del 1943, a Bologna, quando un movimento festoso prese d’assalto l’enorme statua di Mussolini. Un gigante di bronzo da 70 quintali, alto cinque metri, troppo pesante e resistente: non fu abbattuto. Ma gli antifascisti riuscirono a decapitarlo.

Praga ha sempre odiato con veemenza il bronzo di Ivan Konev, maresciallo simbolo dell’occupazione sovietica per i cechi, eroe della liberazione dell’Europa orientale per i russi. La sua statua è stata picconata, colpita da vernice rosso-sangue, finché le autorità ceche hanno deciso di eliminare l’icona della discordia qualche mese fa, facendo divampare l’ira del Cremlino. La Duma ha aperto un’inchiesta penale “per diffamazione dei soldati dell’Armata Rossa”. Il sindaco di Praga è finito sotto scorta tra minacce e tentativi di avvelenamento. Mosca ora vuole portare a casa il bronzo del “generale che non si è mai ritirato”, le cui spoglie custodisce da anni con zelo tra le mura del Cremlino, poco lontane da quelle di Stalin.

Dell’uomo d’acciaio, invece, a Budapest rimangono solo gli stivali sul piedistallo, insieme agli altri 42 bronzi comunisti che l’Ungheria ha relegato in periferia, al Memento Park. Se la distruzione dello Stalin di Budapest ha segnato la fine della dittatura comunista, lo smembramento del Lenin di Kiev ha dato inizio alla rivoluzione di Maidan nel 2013. Rimasta in piedi dal 1946 nonostante il collasso dell’Urss nel 1991, la statua era già stata presa a martellate dalla furia nazionalista ucraina: nel 2009 aveva perso il naso e un braccio. Ogni ucraino si è portato poi a casa un pezzo del suo marmo prima che la guerra del Donbas scoppiasse nel 2014.

Conflitti iniziano, altri finiscono. Quando si è concluso quello a Mostar, città martire delle battaglie jugoslave, bosniaci, croati e serbi cercarono un’icona di pace dopo centinaia di migliaia di morti. Riuscirono a concordare solo su un nome: “un simbolo condiviso di giustizia e solidarietà”. Incredibilmente non fu scelto un eroe slavo: fu eretta invece la prima statua di Bruce Lee.

Maramaldo Giletti e le non domande agli intervistati-amici

Se siamo quello che guardiamo, siamo fritti. Veniamo da ore di binge watching di Non è l’Arena, il programma di Giletti su La7 che ha dato nuovi significati alla parola trash, al fine di cercare di capire i motivi del suo successo.

Tutte le puntate seguono uno schema narrativo preciso: intervista a pezzo grosso anti-governativo (Salvini, Meloni, o persino Renzi); talk con opinionisti (minutaglia politica, accattoni di gettoni di presenza, virologi veri e finti, Cecchi Paone che dice “basta!”, la Mussolini che strilla, Nunzia De Girolamo maîtresse à penser), una caciara impressionante tra ritardi audio, raptus mitomaniacali, risse da trivio, con finta indignazione del conduttore per la esasperata maleducazione del demi-monde; viavai di magistrati, velatamente accusati di giustizialismo/correntismo, con recente pervicace adozione di fatto del discusso Palamara (invece De Magistris, in collegamento da Napoli, lancia una “bomba”: “Quando indagavo su Berlusconi, andava a tutti bene, quando ho iniziato a indagare sulla sinistra…”, e Giletti gongola, anche se un giornalista avrebbe chiesto a De Magistris quando mai ha indagato su Berlusconi, visto che ciò avrebbe voluto dire che Berlusconi fosse indagato a Catanzaro, forse l’unica città italiana in cui Berlusconi non vanti reati certi o prescritti); scoop, talvolta non pianificato (telefonata di Di Matteo contro Bonafede), cui seguono 8 puntate di esegesi; agnizione con risvolto demagogico anti-castale: rinvenimento di ritaglio di giornale del 2010 (“qui leggo che Basentini, ex capo del Dap preferito a Di Matteo, ha gestito un pentito di mafia, Antonio Cossidente, cugino di primo grado del suocero di Basentini”, Basentini che tra l’altro è cugino del ministro Speranza; l’assistente di Conte invece è testimone di nozze di Bonafede); storie nere: mafia, ‘ndrangheta, Casamonica, Spada (è la regola di Raymond Chandler: quando la storia rallenta, fai entrare un uomo con la pistola); parentesi ignominiosa-pruriginosa (“l’intervista di Massimo Giletti a Virginia Giuffre, schiava del sesso del magnate Jeffrey Epstein”); catarsi.

Le interviste meritano particolare menzione: di domenica, al culmine di un relax mentale cui non è estranea l’indifferenza se non l’anestesia, il canovaccio è minimale: parlar male del governo. Per far ciò, Giletti empatizza con l’intervistato assecondando tutte le sue ossessioni. A Salvini, in piena pandemia: “Sulla redistribuzione dei migranti, cosa pensa?”. Salvini, che al programma deve l’addomesticazione della sua figura un tempo barbara oggi impiegatizia catastale (e chissà se è vero che vuole candidare Giletti a sindaco di Torino), sa che l’Italia tribale immaginata e quella mediale si incontrano a quell’ora e in quel luogo (“Ciao Massimo e complimenti per il tuo lavoro”, cioè per aver reso pubbliche le intercettazioni in cui Palamara lo definisce “merda”). Giletti si accomiata dall’ospite con confidenza da congiunto: “Ciao da zio Massimo”, dice alla figlia di Salvini, “un abbraccio a Ginevra”, alla pupa della Meloni.

Ecco, Meloni è una figura in fieri, sfarfalla ancora tra Marine Le Pen e Tina Cipollari, ma acquisisce autorevolezza, e grazie a Non è l’Arena ha buone possibilità di arrivare al 20%. È di casa: “Ma è normale, Massimo, che un imprenditore…”. In mezzo ai suoi “punto primo”, “segnalo sommessamente”, “apro e chiudo parentesi”, Giletti infila la domanda velenosa: “Lei pensa che Conte usi la televisione in orari importanti, alle 20:20, per parlare al Paese in modo così, o per cosa?”. Meloni: “Io penzo…”. Giletti, implacabile: “Lei dopo la conferenza stampa capisce o no? La famosa storia degli affetti stabili…”. Risatine complici.

L’intervista a Renzi è una delizia di simulacri autobiografici: Renzi col gel nei capelli è lì a sponsorizzare il libro nuovo, Giletti parte urticante, tipo David Frost che intervista Nixon: “Come la dipingono? A lei dà fastidio che la definiscano amico dei poteri forti?”. Risposta di Renzi, da staccargli il collegamento: “In Italia ci sono più pensieri deboli che poteri forti”. Giletti ridacchia come davanti a una lepidezza di Marziale. A ogni obiezione Renzi risponde “sono d’accordissimo”, “sono assolutamente d’accordo”, “lei ha ragione”, poi s’inventa che Basentini, ex capo del Dap scelto da Bonafede, è stato premiato per avergli indagato la Guidi, poi costretta a dimettersi; dimentica, e con lui Giletti, che lui salutò le dimissioni della ministra con letizia, perché “chi sbaglia è giusto che vada a casa. La musica è cambiata” (del resto la De Girolamo è lì in quanto vittima delle intercettazioni irrilevanti, infatti è solo rinviata a giudizio per associazione a delinquere). Ecco, se proprio si deve muovere una critica a Renzi, è di non aver fatto cadere Bonafede: “Aveva una grande occasione… l’ha salvato: le è pesato?”. E i posti di lavoro persi a causa del lockdown? Questo vuol dire mettere in difficoltà Renzi, che sostiene il governo! Quindi maramaldeggiano sulla pandemia: Renzi: “Io sono sulla tesi Zangrillo”, Giletti: “Anch’io sono sulla tesi Zangrillo, da tempo”. Il virus è morto, anzi non è mai esistito, fa più morti la paura del virus, e chissà se loro preferirebbero che gli venisse inoculato in diretta il virus o una paura (ma non diamo troppe idee agli autori).

Covid, la seconda ondata: savoia!

È praticamente una legge fisica. Una presenza si avvicina e una si allontana. Nasce un piccolo nipotino e schiatta un vecchio nonnetto. Pensateci quante volte succede. La legge funziona quasi sempre. Oggi per esempio siamo abbastanza lieti perché sembra che la pandemia (il Covid) si stia ritirando ma si vede già all’orizzonte una nuova pandemia, ancora più temibile, la discesa in campo della Real Casa.

Emanuele Filiberto di Savoia non ci lascia scampo. Lo ha detto in tv e lo ha ripetuto nel webinar (se solo sapessi che cosa è un webinar!). “Quello che vedo in tv non mi piace”, ha detto.

E non si trattava di un tentativo di rubare spazio alla rubrica di Nanni Delbecchi. No. Emanuele Filiberto scende in politica. E lo comunica con parole nuove: “Ho sempre amato il mio Paese”.

Vietati banali e gratuiti confronti. È solo un caso che la frase vi ricordi qualcuno. Perché Emanuele Filiberto non pensa a un partito. Pensa a un think thank. Un think thank annunciato in un webinar… Emanuele Filiberto lo sente come un dovere. “Bisogna dare la sveglia ad un Paese ingarbugliato”.

Ma come si fa a sgarbugliare un Paese ingarbugliato? “Ho chiamato attorno a me uomini e donne esperti”. Assembramento? Adesso lo può fare. Il distanziamento sociale è un ricordo. E i social, sempre vicini a chiunque faccia qualcosa di nuovo hanno reagito con affetto alla notizia della discesa in campo dell’ultimo dei Savoia. “Ma questo è accanimento”, è stato il commento più dolce.

No, amici miei, questo non è accanimento. È amore. Emanuele Filiberto ci regala il suo tempo, la sua lucidità e la sua saggezza sabauda. Ha le idee chiare, lui. “C’è troppa confusione”, dice a chi come me vaga nell’incertezza. “Il governo dice una cosa e l’opposizione un’altra”. Ma va?

Il gip su CasaPound: “Non istiga al razzismo” Sgombero lontano. Raggi: “Il Mef ci segua”

“Non sussistono elementi” che dimostrino come le vicende legate all’attività di Casapound elencate dalla Procura di Roma, “per quanto riprovevoli”, siano “finalizzate all’incitamento della discriminazione razziale”. E non dettate da “motivi fondati sui comportamenti del soggetto”. In un colpo solo il gip di Roma, Zsuzsa Mendola, allontana lo sgombero del palazzo occupato nella Capitale dai “fascisti del terzo millennio” e, allo stesso tempo, ne riporta l’azione nell’alveo della “libera manifestazione del pensiero”. Rimane in piedi l’altra accusa formulata dal pm Eugenio Albamonte, l’occupazione abusiva: ieri è stato notificato a vertici del movimento il decreto di sequestro preventivo dell’immobile di via Napoleone III.

Tecnicamente, il provvedimento dovrebbe portare allo sgombero immediato. Nella pratica, al massimo l’atto finirà per far scalare qualche posizione all’edificio del Rione Esquilino nella lunga classifica delle priorità della Prefettura di Roma. In lista ci sono ben 78 immobili occupati – molti sequestrati – in tutta la città. Le ultime direttive del Viminale indicano nella “urgenza di rientro dei proprietari” e nelle eventuali “carenze strutturali” i criteri di priorità per gli sgomberi. Come già appurato da Palazzo Valentini, ilMef – proprietario dello stabile – non ha documentato esigenze imminenti, e il palazzo è tutt’altro che pericolante.

Il capo d’imputazione si basava su un esposto dell’Anpi, che elencava una ventina di episodi. Fra questi, le violente proteste di Torre Maura e Casal Bruciato, nella periferia di Roma, e l’aggressione a simpatizzanti del Cinema America. Ma per il gip non basta: “Elementi probatori in ordine alle singole vicende non possono certamente essere tratti dagli articoli di giornale”. Dalle informative, invece, “non emergono elementi probatori sufficienti a ricostruire compiutamente i singoli episodi (…) le modalità di identificazione dei soggetti coinvolti e le modalità di attribuzione agli stessi della qualità di militanti di Casapound”. Tradotto: responsabilità dei singoli, ma non una regia del movimento.

Resta l’occupazione abusiva. Il gip conferma la presenza nello stabile di persone “con stipendi certi”, che hanno trasformato i locali in “residenza abituale”. Sedici gli indagati: fra questi il presidente Gianluca Iannone, Alberto Palladino e i fratelli Simone e Davide Di Stefano; non il vicepresidente Andrea Antonini. Botta e risposta fra Matteo Salvini e la sindaca Virginia Raggi. “Se non è pericolante non è una priorità”, ha detto il leader leghista; “Per noi lo è, il Mef ci segua in questa battaglia”, ha replicato l’inquilina del Campidoglio. La risposta del Mef: lo sgombero “spetta alla Prefettura in raccordo con Roma Capitale”.

Il teste: “Dissero di aver picchiato Cucchi” E accusa di pressioni l’Arma, che nega

“È successo un casino, i ragazzi hanno gonfiato di botte un arrestato”. Riccardo Casamassima, appuntato dei carabinieri e testimone nel processo sui presunti depistaggi sulla morte di Stefano Cucchi, che vede imputati otto militari, ha confermato ieri di aver saputo dal maresciallo Roberto Mandolini del pestaggio. È la testimonianza che ha permesso alla Procura di Roma di riaprire le indagini, ma sarebbe costata a Casamassima più di un problema. “Ho subito diversi trasferimenti, 15 procedimenti disciplinari, perso indennità e messo in un ufficio a non fare nulla – spiega in aula –. Un superiore mi disse che dipendeva dal comandante generale Giovanni Nistri. Ho denunciato Nisti per diffamazione e rivelazione di segreto d’ufficio”. L’appuntato racconta che Fabiola Moretti, ex banda della Magliana, gli disse che “i superiori mi stavano preparando ‘un biscotto’ per rovinarmi”. L’Arma precisa che le accuse a Nistri sono state archiviate, definendo “affermazioni gravissime” quelle di Casamassima, respinte “con assoluta fermezza”.

Ddl omofobia, no della Cei: “Limita libertà di critica”

Per la Conferenza episcopale italiana non serve una nuova legge contro l’omofobia. E, anzi, l’introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide. “Per esempio, sottoporre a procedimento penale chi ritiene che la famiglia esiga per essere tale un papà e una mamma, e non la duplicazione della stessa figura, significherebbe introdurre un reato di opinione. Ciò limita di fatto la libertà personale, le scelte educative, il modo di pensare e di essere, l’esercizio di critica e di dissenso”, hanno scritto i vescovi italiani che guardano “con preoccupazione alle proposte di legge attualmente in corso di esame presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati contro i reati di omotransfobia: anche per questi ambiti non solo non si riscontra alcun vuoto normativo, ma nemmeno lacune che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni”.

Per Laura Boldrini del Pd il testo in discussione “ha per obiettivo non le opinioni e la libertà di espressione ma gli atti discriminatori o violenti e l’istigazione a commettere questi reati come condotte motivate dal genere, dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere”. Ma l’intervento della Cei ha stupito anche la presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, Francesca Businarolo del Movimento 5 Stelle: “Affermare che esistono già adeguati presidi per contrastare questo fenomeno significa non voler prendere atto di una dura realtà nei confronti della quale noi sentiamo la responsabilità politica ed etica di intervenire”.

Sul fronte opposto il centrodestra e in particolare la Lega, che ringrazia i vescovi e si dice pronta a fare le barricate, come ha annunciato il deputato Alessandro Pagano: “L’introduzione dello psico-reato di omofobia è inutile quanto dannoso perché snaturerebbe la natura stessa del codice penale con una fattispecie fondata su impressioni soggettive e non su fatti oggettivi”.

Il calcio riprende “senza contrasti e senza scivolate”

Cambiano le regole del gioco: le ha riscritte per l’Abruzzo, causa pandemia di Covid-19, il presidente della Regione Marco Marsilio, scatenando la protesta del presidente della Federcalcio Gabriele Gravina e di Massimo Oddo, pescarese campione del mondo di calcio nel 2006 in Germania: “È come dire che non si potrà più giocare”.

Eccola l’ordinanza, rivolta ai centri e ai circoli sportivi: in Abruzzo nelle partitelle tra amici di calcio, basket e volley niente sarà più come prima. Il portiere potrà toccare il pallone solo con i guanti, che dovranno essere igienizzati prima e dopo la partita, e saranno vietati i contrasti per il recupero del pallone che verrà consentito solo tramite l’intercetto e non con il “contrasto”. Ma c’è di più: non si potrà più entrare in scivolata e marcare l’avversario a uomo. E anche per il basket guai a toccare la palla senza aver indossato i guanti. Insomma, per lo sport amatoriale le norme sono state completamente riscritte. Persino il recupero fisico non sarà permesso “da seduti o sdraiati nell’area di gioco”.

Il punto più eclatante è però il divieto di starnuto, che vale per il calcio, il basket, la pallavolo e il beach volley: “È vietato sputare o starnutire a terra – scrive Marsilio nella sua ordinanza – bensì sarà possibile farlo in un fazzoletto”, senza considerare l’imprevedibilità dello starnuto e la difficoltà di estrarre un fazzoletto dalla tasca in piena partita. “Non riscriviamo le regole del calcio, solo l’Ifa può farlo per conto della Fifa”, è l’invito di Gravina, che fa appello a una ripresa con regole uniformi su tutto il territorio nazionale. Per ora, gli atleti abruzzesi si dovranno attenere alle prescrizioni di Marsilio: al campo si dovranno presentare già vestiti perché le docce sono vietate. E nel dopo partita, niente chiacchiere e commenti: “Non sono consentite le soste prolungate in luoghi comuni”, cioè corridoi e luoghi di passaggio. Tanto vale, forse, darsi al calcio balilla.

IL SOCCORSO CIELLINO DOPO I DANNI DI LEGA e FI – il commento

Detto, fatto. In cerca di competenze che pongano rimedio al tracollo della sanità lombarda – travolta dal Covid su tre fronti: medicina di territorio, pronto soccorso e residenze per gli anziani – si ricorre all’usato sicuro. Marco Trivelli, il neo direttore generale dell’assessorato al Welfare, è un bocconiano che si è fatto le ossa al Pirellone come responsabile del finanziamento e degli acquisti per il Servizio sanitario regionale al fianco di Carlo Lucchina, per dieci anni plenipotenziario di Roberto Formigoni, assolto nel processo per la distrazione di fondi del Maugeri.

In seguito Trivelli ha guidato aziende sanitarie d’eccellenza, come il Niguarda di Milano e gli Spedali Civili di Brescia, senza mancare l’appuntamento ciellino del Meeting di Rimini, dove lo definiscono “un amico”. L’ultima volta l’estate scorsa, con Vincenzo De Luca e Walter Ricciardi, a discutere di “Risorse in sanità: prospettive per la persona e il sistema”.

Insomma, Fontana&Gallera, chissà fin quando indissolubilmente legati, hanno richiamato il pronto soccorso ciellino che se non altro fornisce figure dal curriculum ineccepibile. I leghisti e la corrente “laica” di Forza Italia, difatti, ansiosi di occupare gli spazi interamente gestiti in passato dagli uomini di Formigoni, avevano piazzato nei posti che contano fiduciari selezionati sulla base della fedeltà, chiudendo entrambi gli occhi sulla competenza.

Tanto per capirci, il direttore generale uscente, Luigi Cajazzo (ovviamente “promosso” ad altro incarico perché altrimenti ne avrebbe troppe da raccontare), come sua principale esperienza poteva vantare di essere stato il capo della squadra mobile presso la questura di Lecco. Del resto, alla guida del Pio Albergo Trivulzio, cioè del maggiore polo geriatrico italiano, hanno piazzato Giuseppe Calicchio, laureato in filosofia. E i risultati si sono visti.