Saltato il dg Luigi Cajazzo, ora Gallera è accerchiato

Le dimissioni dell’assessore Giulio Gallera aleggiano da giorni sul Pirellone. Sono il sale e il fiele del dibattito politico in Regione Lombardia. Tutti ne parlano, nessuno vuole e può farle scattare. Alla Lega non dispiacerebbero, ma sarebbero il segnale contrario del “rifaremmo tutto, non abbiamo sbagliato niente” che tutti ripetono, ai piani alti di Palazzo Lombardia.

Così la zarina della Regione, Giulia Martinelli, capo segreteria del presidente Attilio Fontana (nonché ex moglie di Matteo Salvini), da sempre in conflitto con Gallera, ha trovato la soluzione: ci teniamo l’assessore, via il direttore generale. Per ora: poi si vedrà. Così è saltato Luigi Cajazzo, il capo dei tecnici della sanità lombarda, che fino a ieri declamava: “Noi abbiamo svolto un lavoro tecnico che difendo e di cui sono assolutamente orgoglioso”.

Saltato. Saltato verso l’alto, però, promosso a un posto formalmente più prestigioso (e meglio pagato): vicesegretario generale della Regione, e per di più “con delega all’integrazione sociosanitaria”, cioè con l’incarico di preparare la riforma del sistema sanità che ha fatto della regione più ricca d’Europa anche quella con più morti e contagiati dal virus. Sì, saltato verso l’alto: anche perché farlo saltare verso il basso non sarebbe stata una buona idea per i vertici politici regionali, visto che Cajazzo dovrà passare le prossime settimane a girare le Procure della Lombardia, per rispondere alle tante domande dei pm sulla gestione dell’emergenza Covid. Per Fontana e Gallera è meglio avere un Cajazzo promosso, piuttosto che rimosso. Ed è meglio averlo non troppo arrabbiato con i politici che hanno scaricato su di lui, tecnico, i cortocircuiti del coronavirus. È stato il fusibile che è saltato.

Sostituito con un altro tecnico che è un grande ritorno al passato. Cajazzo era un poliziotto, non un manager sanitario. Più bravo a inviare email paracadute in vista di future contestazioni, che non a dirigere concretamente la sanità. Che in parte è stata gestita dai politici, Fontana, Gallera e anche Davide Caparini, il leghista assessore al Bilancio che tiene i cordoni della borsa e fa fronte d’acciaio con la zarina Martinelli. In parte è andata per conto suo, gestita dal vento feroce che soffiava a febbraio su Alzano Lombardo, su Nembro, sulle residenze per anziani, sull’ospedale in Fiera da costruire, sui test sierologici da cercare, sulle mascherine da distribuire, sui camici da reperire.

Il nuovo direttore generale invece è un vecchio volpone della sanità. Marco Trivelli ha fatto il manager all’ospedale Niguarda di Milano, al Sacco, agli Spedali civili di Brescia. Cinquantasei anni, bocconiano, viene dal mondo di Comunione e liberazione, era tra gli uomini-sanità di Roberto Formigoni, ai tempi del suo celeste impero. Se oggi arriva a Palazzo Lombardia con la missione di far dimenticare la gestione dell’emergenza più disastrosa d’Europa è segno che, da una parte, la sua competenza manageriale è sopravvissuta al naufragio del Celeste; dall’altra, che né la Lega di Martinelli-Caparini, né la Forza Italia “laica” di Gallera e soci hanno uomini da mettere nei posti più delicati. C’è già profumo di Cl ai vertici di aziende regionali importanti come Aler e Trenord, ora anche in quello della sanità. Le opposizioni intanto scalpitano. Il Pd, con Pietro Bussolati, apprezza che almeno una testa sia saltata, seppur come “capro espiatorio tecnico di responsabilità che sono politiche”. I Cinquestelle sottolineano il ritorno al passato: “Si scrive Trivelli si legge Formigoni”, dice Gregorio Mammì, consigliere regionale M5s. “La sanità lombarda va riformata cancellando la riforma di Roberto Maroni, togliendo le mani dei partiti dalle nomine, garantendo più risorse alla sanità pubblica e al sistema territoriale”.

Tamponi, altro calo: -17% in sette giorni “Regioni in ritardo”

Se la chiave delle fasi 2 e 3 è nelle tre “T” di tracciare, testare, trattare, le Regioni italiane nel complesso non ce l’hanno ancora fatta. I tamponi diminuiscono, specie i tamponi diagnostici che mirano a individuare nuovi contagi e a controllare possibili focolai. Il Fatto l’ha già scritto e purtroppo il calo si fa più intenso. Secondo il report quindicinale della Fondazione Gimbe, che esce oggi, i tamponi in Italia sono passati dai 265.360 della settimana dal 17 al 24 maggio ai 233.898 della successiva (25-31) con una diminuzione dell’11,4%, per poi scendere a 193.567 nella settimana dal 1° al 7 giugno con un decremento del 17,6%. Fin qui i tamponi totali, compresi i test di controllo per verificare la negativizzazione (almeno due per ciascun paziente). I tamponi diagnostici, nelle tre settimane, sono scesi da 442.052 a 431.727 e poi a 357.796, con un primo calo del 2,3% e poi del 17,1%. Quasi un tampone su cinque in meno, 73.931 test non eseguiti rispetto alla settimana precedente. Il commissario Domenico Arcuri sostiene che arriveremo a 90 mila tamponi al giorno ma la strada sembra sempre più in salita.

LombardiaDati peggiori
della media: – 18,6%

Sotto la media nazionale c’è la Lombardia. I tamponi sono passati infatti dagli 83.633 della settimana 25-31 maggio ai 68.103 dei primi sette giorni di giugno: il calo è dunque del 18,6%.

Si capisce meglio, così, la scelta del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità di non indicare i parametri dell’attività di testing and tracing nelle “pagelle” diffuse settimanalmente, l’ultima sabato 6 con riferimento ai casi rilevati tra il 25 e il 31 maggio, che rimandano ai contagi avvenuti nei 15-20 giorni precedenti (tra incubazione, sintomi, attesa dl tampone ecc…) e quindi alle prime riaperture avvenute tra il 4 e il 18 maggio, non all’indomani del 3 giugno quando è caduto il divieto di spostamenti extraregionali. Nessuno sa in tempo reale cosa accade mentre gli assembramenti aumentano.

Va bene, secondo le istituzioni, perché l’incidenza settimanale (i nuovi casi) è diminuita ovunque, così come Rt, il tasso di riproduzione del virus (che però in Lombardia torna spesso attorno a 1: ogni infetto contagia in media una persona). I contagi notificati sono diminuiti anche ieri: 202 in tutta Italia di cui 99 in Lombardia, il dato più basso da metà marzo; le vittime sono state 71 di cui 32 in Lombardia. E certamente le Regioni sono migliorate, come si leggeva nel report governativo, nella qualità dei dati: i casi per i quali è indicata la data di inizio dei sintomi – essenziale per misurare Rt – e non solo quella di notifica del tampone positivo sono passati dal 73 all’83%. Anche questo è un conteggio della Fondazione Gimbe, presieduta dal professor Nino Cartabellotta, impegnata da anni nella denuncia e dell’analisi dei tagli e dei loro effetti sulla sanità pubblica. Restano cospicui ritardi delle Regioni nella comunicazione dei dati, il che conferma: non sappiamo cosa stia avvenendo ora.

Speranza verso decreto
per aprire terme e fiere

Mentre l’Ocse fa sapere che in caso di seconda ondata di contagi il Pil italiano sprofonderà del 14 per cento, il ministro della Salute Roberto Speranza annuncia un nuovo possibile decreto del capo del governo per allentare le misure restrittive su “attività ricreative-ricettive, come centri termali, parchi tematici e rifugi alpini, e di attività congressuali ed eventi fieristici”.

Da Bergamo a Roma: sulla zona rossa la pm convoca Conte & C.

C’è rabbia, ci sono lacrime, c’è soprattutto la volontà di capire. Sulle scale davanti al palazzo di Giustizia di Bergamo sono decine i parenti delle vittime colpite dal Covid. Ognuno ha in mano il suo esposto. Cinquanta ieri e altri ne arriveranno. Per denunciare errori e mancanze del sistema politico e sanitario lombardo. Entrano a piccoli gruppi nell’aula della corte d’Assise. Otto ufficiali di pg e il pm di turno raccolgono le denunce. Tutte confluiranno nel fascicolo coordinato dal procuratore Maria Cristina Rota che indaga sulla mancata chiusura dell’ospedale di Alzano e sulla mancata disposizione della zona rossa a fine febbraio, quando già si era compreso che l’area della bassa Valseraina stava diventando il più grande focolaio d’Europa. Per mettere in fila i tasselli, nei giorni scorsi la pm ha ricevuto alcuni membri del Comitato. E ieri è scesa a Roma dove ha interrogato il presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss) Silvio Brusaferro. Il 3marzo, infatti, l’Iss aveva inviato una nota al governo nella quale si illustrava la necessità di istituire la zona rossa tra Nembro e Alzano. Domani il procuratore interrogherà il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, il ministro della Salute Roberto Speranza e il premier Giuseppe Conte, che si è detto pronto a “riferire doverosamente tutti i fatti di cui sono a conoscenza”. L’atto di convocare i membri dell’esecutivo era stato annunciato giorni fa, dopo che la procura aveva interrogato il governatore Fontana e l’assessore Gallera. Tutti sentiti come persone informate sui fatti, nell’ambito dell’inchiesta sulla mancata zona rossa di Alzano e Nembro. Su a chi spettasse l’isolamento dei comuni, il procuratore Rota al Tg3 aveva detto: “Da quel che ci risulta è una decisione governativa”. Nei fatti, secondo una legge del 1978 anche i presidenti delle regioni hanno la facoltà di delimitare aree per motivi di sanità pubblica.

A Bergamo, davanti al tribunale, in una mattina di mezzo sole ci sono mogli, mariti, figli, sorelle, amici. Ognuno ha un lutto, ognuno pretende giustizia. Tutti fanno parte del comitato “Noi denunceremo”, sul cui profilo Facebook e sito da mesi vengono pubblicate storie di morte e di abbandono. Il presidente del Comitato, Luca Fusco non ha dubbi: “È finita l’epoca delle mezze parole, bisogna dire la verità. Vogliamo sapere se si poteva fare qualcosa, e le mancanze sono chiaramente politiche. Responsabilità della politica è non aver chiuso la Valseriana quando doveva essere fatto, cioè il 23 febbraio, il giorno della chiusura e riapertura del pronto soccorso di Alzano. Sono stati lasciati trascorrere 15 criminali giorni fino all’8 marzo: per due settimane il virus ha circolato indisturbato”.

Nei giorni scorsi la stessa Rota aveva sottolineato “il dovere da parte della magistratura di rendere giustizia”, aggiungendo che “in questo momento siamo al primo gradino, quello della ricostruzione dei fatti”. Tra le linee investigative che in questo momento la Procura di Bergamo sta vagliando, per ricostruire la catena epidemiologica del contagio nella Bergamasca – avvalendosi anche della consulenza di un comitato scientifico –, la partita di Champions League disputata a Milano tra Atalanta e Valencia il 19 febbraio, un giorno prima che venisse individuato il paziente 1 a Codogno.

Ieri c’erano parenti e giornalisti, ma nessuna autorità. Nemmeno il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che ha però chiesto al Comitato un incontro per oggi. “Ci sentiamo abbandonati, ho scritto al presidente Mattarella”, racconta Cristina, che ha perso il padre dopo una calvario straziante. “A noi serve che qualcuno ci chieda scusa e ci dia delle risposte”. Cristina tiene in mano il suo esposto. Racconta di come è morto suo papà di 65 anni. Di come abbia dovuto riconoscere il corpo. Di quel sacco dell’immondizia con dentro le cose del papà. “C’era un maglietta intima e un’enorme chiazza di sangue, era la testimonianza della sua sofferenza”. A darle forza ci sono le parole del suo bimbo di due anni: “Mamma, nonno è un palloncino che è volato in cielo”. Come lui, tanti altri qui. Mamma e papà di due fratelli, persi nel giro di quattro giorni. Raccontano con dignità il loro dolore. Come Mariuccia, moglie di Vincenzo. “Siamo pieni di rabbia. Vincenzo era a casa con la polmonite, siamo stati abbandonati. In videochiamata mi hanno fatto vedere come attaccare il respiratore…”. Chiara e Sara raccontano del loro papà, morto a 66 anni. “Ricoverato il 28 febbraio, cinque giorni lasciato in pronto soccorso, in un mese è morto senza che lo salutassimo”. “I piani pandemici sono vecchi di sette anni, quando ci sono”, conclude Fusco. “Li abbiamo richiesti: nessuno ci ha ancora risposto”.

Di Maio “valuterà”, ma dirà sì alle navi per l’Egitto di al Sisi

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio dovrà avallare il sì dell’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento alla vendita delle due Fregate Fremm di Fincantieri (per un valore di 1,2 miliardi) all’Egitto di Al Sisi. E nonostante le polemiche degli ultimi giorni e la richiesta al premier Conte di riferire “urgentemente” nella Commissione d’inchiesta su Giulio Regeni, è tendenzialmente da escludere che si opponga. Anche se nella risposta durante il question time di ieri alla Camera all’interrogazione di Leu (presentata da Federico Fornaro) ha volutamente mantenuto qualche margine di ambiguità, teso soprattutto ad attribuire la responsabilità dell’operazione al premier: “È bene precisare che la procedura autorizzativa alla conclusione delle trattative per le fregate Fremm (Fincantieri) è tutt’ora in corso. Oltre al vaglio di natura tecnico-giuridica, il governo svolge una valutazione politica, che è in corso a livello di delegazioni di Governo, sotto la guida del presidente del Consiglio”. Quello che manca è solo l’imprimatur finale: secondo la legge 185, come chiarisce Di Maio, “il governo esamina caso per caso le richieste delle imprese italiane di autorizzazione a trattative contrattuali di fornitura e poi all’esportazione”.

Ma la valutazione politica in questi giorni c’è stata: Conte ha consultato un buon numero di ministri. Possibile ci sia un passaggio formale nel Cdm per accentuare la collegialità della scelta e anche per consentire al ministro degli Esteri di restare defilato. Ma sia alla Difesa che a Palazzo Chigi escludono che la vendita possa essere rimessa in discussione. Nel suo intervento ieri alla Camera, Di Maio è tornato a ribadire “la nostra incessante richiesta di progressi significativi nelle indagini sul caso del barbaro omicidio di Giulio Regeni”. Dice ancora: “I nostri sforzi proseguiranno per facilitare la fissazione di un incontro di persona tra i due procuratori di Roma e del Cairo, dando così seguito alla prima riunione tecnica tra le procure, del 14 gennaio”.

Ma non si fermerà né la vendita delle due fregate Fremm, né il resto della commessa (che, come scritto dal Fatto quotidiano, riguarda 26 navi e 20 caccia, per un valore complessivo di circa 11 miliardi). Lo stesso ministro chiarisce: l’Egitto resta “uno degli interlocutori fondamentali nel quadrante Mediterraneo, nell’ambito di importanti dossier, come il conflitto in Libia, la lotta al terrorismo e ai traffici illeciti, nonché la gestione dei flussi migratori e la cooperazione in campo energetico”. Di Maio si tira il più fuori possibile: alla Farnesina fanno notare che di quest’argomento non ha mai parlato con l’omologo egiziano Sameh Shoukry, ma che si tratta di una questione gestita dal premier. La rivalità con il premier è costante, ma in questo caso resta accennata, si limita a condividere il meno possibile il peso della scelta. D’altra parte, il Movimento non ha intenzione di rimettere davvero in discussione i rapporti politici ed economici dell’Italia con l’Egitto.

La vendita delle due fregate Fremm è questione nota da tempo: il premier ne aveva parlato con il presidente egiziano il 14 gennaio nella sua visita al Cairo. Quasi cinque mesi prima della telefonata di domenica. Negli ultimi 2 anni i due hanno interloquito una ventina di volte. La richiesta italiana di chiarimenti sull’uccisione di Regeni è sempre stata al primo punto. Con esiti che sono sotto agli occhi di tutti. La politica, però, avrebbe avuto tutto il tempo di intervenire. Non l’ha fatto, se non praticamente fuori tempo massimo. Ieri mentre Nicola Fratoianni prendeva positivamente atto delle parole sulla “valutazione politica” in corso, da parte di Di Maio, i due deputati del Pd, Alberto Pagani, capogruppo in Commissione Difesa, e Carmelo Miceli, responsabile per le politiche della sicurezza definivano “ragionevole e politicamente opportuna” la decisione del governo di autorizzare la cessione all’Egitto delle due fregate.

Silenzio significativo dai piani alti del Pd. E da parte di esponenti impegnati per ottenere verità su Regeni, come il presidente della Camera, Roberto Fico. Conte rassicura: “C’è urgenza di riferire alla Commissione d’inchiesta, non è usuale che un presidente del Consiglio sia chiamato a farlo, ma appena possibile ci andrò”.

Le tre task force non bastano: “Commissione sulle fake news”

Non si finisce mai di indagare sulle fake news. Non è bastata la task force voluta da Palazzo Chigi, non è sufficiente la squadra anti-bufale messa in piedi dalla Rai e non sfagiola nemmeno l’osservatorio istituito dall’Agcom: l’ipotesi più probabile, adesso, è che il Parlamento si doti di una commissione di inchiesta sulle notizie false. O meglio, sulle notizie false “sul web e sui social network”, campo di battaglia che consente di auto-assolversi rispetto alle balle pronunciate dai politici e di condonare pure tutto ciò che viene diffuso dalle testate tradizionali (giornali, tg, programmi in radio…).

Due giorni fa in Commissione Trasporti e Cultura alla Camera è arrivato anche il placet di Angelo Maria Cardani, presidente dell’Autorità garante per le telecomunicazioni (Agcom): “La mia risposta all’idea della commissione è un convinto sì, perché la presa di coscienza e l’analisi collettiva da un punto di vista tecnico e politico può solo aiutare in un momento come questo”.

Il punto di partenza sono quattro proposte di legge molto simili presentate alla Camera in questa legislatura. La prima, firmata da Emanuele Fiano e da diversi colleghi dem, vede all’orizzonte lo zampino di qualche potentato straniero: “Quello che ci preoccupa – si legge nel testo – sono le falsità costruite ad arte da gruppi organizzati, dietro i quali c’è il sospetto che possano muoversi anche governi stranieri. Notizie create e diffuse con l’obiettivo di modificare l’agenda pubblica, facendo ricorso all’utilizzo di tecnologie sofisticate, quali account coordinati o gestiti da robot che funzionano in base ad algoritmi”. Uno scenario che ricorda le accuse ai “bot” e ai “troll” russi capaci di condizionare, secondo qualcuno, le elezioni italiane degli ultimi anni.

Il rischio è evocato anche da Maria Elena Boschi, prima firmataria di un altro progetto di legge che chiede una commissione per “accertare le responsabilità relative alla diffusione seriale di notizie false” e “verificare se questi atti siano riconducibili a gruppi organizzati o, comunque, finanziati da Stati esteri allo scopo di manipolare l’informazione e di condizionare l’opinione pubblica”. Ma a favore della commissione ci sono anche Paolo Lattanzio del Movimento 5 Stelle, a sua volta firmatario di un testo che si concentra soprattutto sulla “sensibilizzazione” degli utenti e sulla “definizione di un pensiero critico”, e Federico Mollicone di FdI, che intende “indagare sulla diffusione intenzionale e massiva di informazioni false”.

E pensare che i contributi pubblici per la caccia alle fake news sono già parecchi. La Rai ha affidato a Antonio Di Bella una struttura per smentire le balle in tv, mentre l’Agcom sta stilando report sulle bufale durante l’emergenza Covid.

Ha invece appena pubblicato la propria relazione la task force voluta dal sottosegretario con delega all’Editoria Andrea Martella: non un insieme di fact checking su questa o quest’altra notizia, piuttosto linee guida per una corretta e univoca comunicazione istituzionale e una serie di campagne da promuovere per aiutare i lettori (sempre del web) a riconoscere la verità. Troppo poco, secondo i parlamentari: meglio indagare un altro po’.

Liguria, ancora 48 ore per il candidato Pd-5S

A riprendere il filo, 24 ore più tardi, sembra di raccontare tutt’altra storia. Martedì sera il Pd aveva lasciato il vertice con i 5 Stelle sulle regionali in Liguria aspettando il sì degli alleati a Ferruccio Sansa, dopo che i dem avevano compattato la coalizione che comprende il resto della sinistra e i Verdi. Da ieri sera la situazione è capovolta: il Movimento si è deciso ad accettare il giornalista del Fatto, ma il Partito democratico ha chiesto e ottenuto altre 48 ore di tempo per sciogliere la riserva. Alla fine, comunque, la sensazione è che convergere su Sansa potrebbe convenire a entrambi, se non altro per risolvere alcune partite interne.

Ma cosa è cambiato in queste ore? Per Andrea Orlando, vicesegretario dem presente al tavolo con il capo politico del M5S Vito Crimi, il nome di Sansa è l’unico possibile: due giorni fa è stato lui a proporlo agli alleati di governo ancora scettici e nel frattempo non sono emerse alternative credibili. Ieri mattina però la segreteria del Pd ligure si è riunita e quello che doveva essere il via libera definitivo a Sansa è diventato un improvviso niet. Orlando si è ritrovato così nell’imbarazzo di dover difendere il “suo” candidato dalle resistenze delle anime dem più vicine all’ex governatore ligure Claudio Burlando, proprio mentre dall’altra parte i vertici del Movimento si erano convinti ad accettare la proposta su cui si erano arenati durante il vertice della notte precedente. E così ieri, prima di sera, il nuovo incontro tra 5 Stelle, Pd e alleati si è concluso con un nulla di fatto: i dem avranno bisogno di una direzione regionale nei prossimi due giorni per sciogliere il nodo del candidato e placare i malumori interni.

Il problema è che più passa il tempo e più diventa difficile smontare quanto costruito finora non senza fatica da entrambe le parti. All’incontro con la coalizione, Simone Farello, segretario regionale dem, si è lamentato di non riuscire “a tenere i suoi” in caso di sì al giornalista del Fatto, provando persino a riproporre Paolo Bandiera, direttore generale dell’Associazione italiana sclerosi multipla già comparso nei totonomi dello scorso inverno, ma ritenuto “debole” dallo stesso centrosinistra. Una provocazione a cui i 5 Stelle, tramite il consigliere genovese Luca Pirondini, hanno replicato con Aristide Massardo, professore universitario anche lui in corsa prima della convergenza su Sansa, ma ormai rimasto indietro nelle gerarchie delle candidature.

Orlando però sa di poter approfittare della eventuale candidatura del giornalista per rinnovare la classe dirigente locale, in gran parte legata all’epoca dell’ex governatore, dunque tiene duro e nei prossimi giorni cercherà di forzare la mano con la segreteria regionale. Allo stesso modo, i 5 Stelle sanno di non potersi permettere altre rotture sul territorio dopo la scissione della ex capogruppo Alice Salvatore, candidata in pectore per le regionali ma contraria all’accordo con la sinistra votato dagli attivisti su Rousseau: cambiare rotta adesso, dopo settimane di trattative su Sansa, provocherebbe nuove grane interne.

Alla coalizione serviranno altre 48 ore, dunque, poi dovrebbe arrivare la decisione. Tenendo conto che rompere l’intesa e ridiscutere il tavolo da capo sposterebbe ancora più in là l’inizio della campagna elettorale. L’eventualità preoccupa non poco Gianni Pastorino di Linea Condivisa, una delle liste di sinistra presenti al vertice : “Capisco tutte le legittime dinamiche interne dei partiti, ma Giovanni Toti è da almeno un anno in campagna elettorale. Il massacro che il governatore ha provocato nella sanità pubblica, gli scempi ambientali e le mancate promesse sul lavoro meritano la discesa in campo di un protagonista che per quanto mi riguarda è Ferruccio Sansa”.

Diverso invece l’atteggiamento di Italia Viva, mai presente ai tavoli nazionali. Ieri fonti del partito renziano hanno fatto trapelare alle agenzie di stampa malumori per il mancato coinvolgimento, soprattutto nei confronti del Pd: “Stanno trattando solo con il Movimento senza consultarci”. Anche da parte di Iv però c’è stato un certo attendismo in queste settimane, forse in attesa di capire su quale nome sarebbero andati gli alleati di governo per poi decidere da che parte stare a giochi fatti. Non è da escludere, a questo punto, che i renziani corrano da soli: contro il centrodestra di Toti, ma anche contro il nome dei giallorosa.

Ultimatum di Meloni a B. “Chi va, rompe l’alleanza”

Sono entrati con tre posizioni diverse e sono usciti con una sola, imposta da Giorgia Meloni, che è stata irremovibile. E ha avvisato gli alleati. “Attenzione che, se ci dividiamo su questo, con uno che va e l’altro no, il centrodestra è finito…”, è l’avvertimento messo sul tavolo dalla leader di Fratelli d’Italia. Il tema è l’invito agli Stati Generali promossi da Giuseppe Conte, che ha chiamato i partiti d’opposizione per la giornata di venerdì. Un invito rivolto a Forza Italia, Lega e FdI, che il premier voleva addirittura vedere singolarmente. A un certo punto, martedì sera, si era sparsa la voce che la linea sarebbe stata quella di andare insieme, per mostrare l’unità della coalizione. Ma ieri, quando Antonio Tajani, Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono arrivati, alle 5 di pomeriggio, al vertice di centrodestra, ognuno aveva un suo pensiero in testa, diverso dagli altri.

Agli estremi Berlusconi e Meloni. Il primo – che fisicamente è ancora nella villa della figlia Marina in Costa Azzurra – era per accettare l’invito del premier, “perché in questa situazione dobbiamo interpretare più che mai il ruolo di opposizione responsabile”. Meloni, invece, era fissa sul no. “Non ci hanno mai preso sul serio, mai accolto nessun emendamento, perché dovremmo andare?”, ha chiesto l’ex ministra. Salvini, per una volta, nel mezzo a far da mediatore, possibilista. “Non ho ancora ricevuto l’invito. Se mi arriva, da persona educata, andrò per presentare proposte…”, aveva detto il leader leghista martedì sera in tv da Giovanni Floris. Anche se poi, ieri mattina, vista l’irremovibilità di FdI, aveva virato sul no: “Sfilate in villa? Uno show inopportuno”, ha scritto su Fb. Ma in realtà il Capitano restava “aperturista”.

Alla fine, però, ha vinto la linea Meloni: non si andrà. “Siamo pronti a confrontarci con il governo in qualsiasi momento, ma soltanto nelle sedi istituzionali. A Palazzo Chigi siamo sempre andati, ma a una kermesse mediatica no, non faremo questo regalo a Conte”, dice in coro il centrodestra. “C’è bisogno di soldi veri per imprenditori e famiglie. Il luogo del confronto è il Parlamento, non le ville o le sfilate. Sessanta milioni di persone non possono dipendere dall’umore di Rocco Casalino”, ha detto poi Salvini. Che, come dicono fonti leghiste, “ha lavorato per trovare una sintesi con proposte equilibrate e di buon senso, arrivando a una soluzione che ha accontentato tutti”. Mentre secondo Meloni “su questi Stati Generali c’è un problema di merito e di metodo: noi non partecipiamo a passerelle nelle ville”. Tajani, alla fine, ha dovuto abbozzare. Ma si sa, fa notare Gianfranco Rotondi, “prima eravamo noi, coi nostri numeri, a imporre la linea agli alleati, ora invece sono loro che la impongono a noi…”.

Nulla di fatto, invece, sulle Regionali, dove prosegue il braccio di ferro su Campania e Puglia, con il veto salviniano su Caldoro e Fitto. Ma intanto proprio in Campania Fi registra una grave perdita: la consigliera regionale Flora Beneduce ieri ha lasciato gli azzurri annunciando il suo sostegno al governatore Vincenzo De Luca. Dopo le uscite in Sicilia, un altro brutto colpo per il partito berlusconiano.

Colao e “patent box”: conflitto d’interessi dentro alla task force

C’è un conflitto d’interessi da qualche milione di euro nel piano della task force di Vittorio Colao. Riguarda Stefano Simontacchi, uno degli avvocati più in vista d’Italia, esperto di fisco internazionale, componente della squadra di esperti raccolti intorno al manager Vittorio Colao per rilanciare l’economia italiana dopo la pandemia di Covid-19.

Tra le tante proposte elaborate dai venti saggi scelti dall’ex capo mondiale di Vodafone per proiettarci nella Fase 2 ce n’è una che va sotto il titolo di “Modernizzare il tessuto economico e produttivo del Paese ed aumentarne la sostenibilità”. L’idea è di “ampliare il regime del patent box a ulteriori beni immateriali e incrementare il beneficio previsto (anche ai fini del re-shoring ad alto valore aggiunto)”, si legge nelle 121 pagine presentate al premier Giuseppe Conte, lo scorso 9 giugno. Tradotto: l’Italia dovrebbe fare maggiore uso dei patent box. Di cosa si tratta? Spiegata in breve, è un’agevolazione fiscale di cui beneficiano soprattutto le multinazionali con brevetti importanti. Brevetti di design, di modelli, formule chimiche, software, disegni industriali e tutto ciò che riguarda la proprietà intellettuale. In sostanza, il patent box permette alle multinazionali di pagare solo il 14% di imposte sull’Ires, invece che il 24% che paga una normale azienda all’Agenzia delle Entrate. L’Italia l’ha introdotto nel 2014 accodandosi ad altri Stati Ue come Olanda, Ungheria, Lussemburgo, Cipro, San Marino. Obiettivo ufficiale: invogliare i grandi marchi italiani a lasciare i brevetti in patria (e le royalties conseguenti), spingendo al contempo le aziende ad aumentare i loro investimenti in ricerca e sviluppo.

Il problema è però, per la task force che dovrebbe “aumentare la sostenibilità” dell’economia italiana, che Simontacchi questi patent box li vende. Lo studio legale che presiede dal 2013, BonelliErede, è uno dei più importanti nel settore del diritto commerciale, e offre tra i propri servizi proprio la consulenza sui patent box. E l’esperto in materia è lui, l’avvocato Simontacchi, classe 1970, che è anche consulente del ministero degli Esteri, oltreché componente dei cda di Rcs e di Prada. “Ha proposto e scritto il Patent Box (la norma per riportare in Italia gli investimenti in ricerca e sviluppo e beni immateriali)”: si legge sul suo profilo pubblicato dalla Fondazione Buzzi, di cui è presidente. Secondo la classifica annuale di Legal community, BonelliErede è stato lo studio con il fatturato più elevato anche nel 2018: 166 milioni di euro. E Simontacchi è da anni uno dei tributaristi più in voga in Italia.

Una consulenza sul patent box”, racconta una fonte del settore, “può fruttare dai 100 ai 500 mila euro”. Gli studi legali non comunicano quasi mai sui propri canali i nomi dei clienti in relazione a operazioni di questo tipo. Il Fatto può però rivelare che in almeno un caso è stato proprio Simontacchi a fare affari con il patent box. Lo ha scritto su LinkedIn, nel dicembre del 2017, Aaron Meneghin, capo del settore fiscale della casa di moda Valentino (di proprietà del fondo del Qatar, Mayhoola for Investments). Meneghin aveva ringraziato chi ha lavorato come advisor, lo studio BonelliErede, e dedicato una menzione speciale proprio all’avvocato Stefano Simontacchi.

Potrebbe però non essere stata l’unica consulenza per il saggio che oggi propone al governo di rendere l’agevolazione ancora più invitante per le aziende. Lo studio BonelliErede da anni infatti segue le vicende tributarie di Prada, anch’essa folgorata sulla via del patent box. Nel suo ultimo bilancio, la casa di moda – Simontacchi siede nel consiglio d’amministrazione – scrive che dal 2015 al 2019 attraverso questo sconto ha risparmiato 102 milioni di euro in imposte. Di quanto sono aumentati gli investimenti in ricerca e sviluppo? Di nulla. Anzi, sono diminuiti: dai 132 milioni di euro del 2015 ai 125 milioni del 2018.

Il no (atteso) del centrodestra. Conte riparte dalla Lagarde

Il no che vorrebbe rovinargli la festa arriva a consultazioni in corso. I ministri entrano e escono dall’ufficio di Giuseppe Conte, quando nel pomeriggio dal centrodestra gli fanno sapere tramite nota che domani agli Stati generali dell’economia non si faranno vedere: “Ci si confronta solo in occasioni e in sedi istituzionali”. Ma l’avvocato che deve ascoltare o almeno cercare tutti per non sembrare solo non è troppo sorpreso. Tiene il punto: “Villa Pamphili è una sede istituzionale”. Però già cambia il calendario dei lavori: “Sabato sarà la giornata inaugurale degli Stati generali”. Ciò che rimane del fu spirito di unità nazionale tanto invocato dal Quirinale è tutto qui.

Disperso tra le schegge dello scontro a distanza tra le opposizioni e Conte. E il Colle non sarà troppo entusiasta. Ma così va, tra il presidente che ha già robusti problemi nella sua maggioranza, con i dem che ancora ieri erano lì a chiedersi “cosa saranno questi Stati generali”. E il centrodestra che sgancia un siluro dal conclave dove discute forte anche dei candidati nelle Regionali. Lui, Conte, apprende del no tramite agenzie. Poi scende le scale di palazzo Chigi e ai cronisti la mette così: “Quella villa è la sede istituzionale di alta rappresentanza della presidenza del Consiglio, il fatto di invitarli lì è un gesto di attenzione nei loro confronti. Vi abbiamo ricevuto i capi di Stato: più istituzionale di così…”. Ma stupito no, non lo è.

Aveva già capito che aria tirasse parlando al telefono martedì con la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Voleva invitarla di persona nella villa immersa nel verde a Roma, per discutere del suo piano per rifare l’Italia, il Recovery Plan che dovrebbe avere come ossigeno i fondi dell’Unione europea. Ma la Meloni gli aveva subito risposto di volersi “confrontare in Parlamento”, innanzitutto sul decreto Rilancio. “Non è quello il tema degli Stati generali” aveva ribattuto il premier. “Farlo con l’Italia in questa situazione è incomprensibile” ha controreplicato la presidente di Fdi. Il prologo al muro di ieri. Così Conte si è presentato davanti alla stampa, per coprire con altri contenuti le cronache dei tg, e ribadire che lui non è un autocrate. “Agli Stati generali porterò un progetto più condiviso possibile” giura. E per riuscirci oggi vedrà tutti capigruppo dei partiti. “Con i ministri porteremo idee e progetti concreti” ripete più volte, a ricordare che li ha ricevuti per tutto il giorno (a un certo punto assieme al ministro dell’Economia Gualtieri), sempre con il suo piano diviso per caselle sul tavolo. In giorni di mare grosso deve tenere dentro tutti. Anche Vittorio Colao, a cui non avevano concesso una conferenza di stampa di presentazione del piano della sua task force. Ma rimedierà: “Lunedì Colao sarà a Villa Pamphili per riferire il senso della sua iniziativa, ha fatto un buon lavoro” dice l’avvocato. Prima, sabato, sarà il giorno inaugurale, “quello degli ospiti internazionali”.

Tra questi la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde, come anticipato ieri dal Fatto. Si discuterà di proposte e numeri, con il premier che ammette quello che molti dicono da settimane: “Non escludo un nuovo scostamento di bilancio”. Ma soprattutto vuole rassicurare, ancora: “Una mia lista varrebbe il 14 per cento? A mia insaputa, non ho un partito”. Sillabe rivolte soprattutto al M5S. Agitato, sempre. A muovere le acque ieri ha provveduto quello che sta fuori, Alessandro Di Battista: “Il governo deve battagliare perché i parametri del patto di Stabilità finiscano nel dimenticatoio”. Va sempre nella sua direzione, Di Battista. Ed è anche per frenarlo che gli altri big, a cominciare dall’ex capo Luigi Di Maio, pensano a una segreteria unitaria per il M5S del futuro.

Compreso Beppe Grillo, che questa settimana doveva scendere a Roma per discuterne in una riunione riservatissima. Ma la notizia del suo arrivo è filtrata, e il telefono del fondatore è stato inondato di richieste di incontro da parte dei 5Stelle. Tanto da spingere Grillo a cancellare il viaggio. Certo, poi c’è sempre Conte. “Ci ha copiato il nome degli Stati generali” notava ieri qualche grillino. Dettagli. O magari no.

Processi somari

Avete presente il cosiddetto caso Bonafede-Dap-scarcerazioni? E due mesi di “Non è l’Arena, è Salvini” sul ministro, su Basentini e sui loro parenti vivi o morti fino al sesto grado? E i processi al Guardasigilli&C. nel question time, nella mozione di sfiducia e in inutili audizioni in quella parodia di commissione Antimafia ridotta a succursale di casa Giletti (ma senza Salvini, latitante da due anni per non rispondere sui rapporti con Siri e Arata, socio occulto di Nicastri amico di Messina Denaro)? Bene, buttate pure tutto nel cestino. Erano tutte balle, fuffa, armi di distrazione di massa per colpire il ministro che ha bloccato la prescrizione e affibbiargli la colpa delle scarcerazioni di 350 mafiosi e malavitosi (50 già tornati dentro), che ovviamente sono responsabilità esclusiva dei giudici di sorveglianza che le hanno firmate. Basta leggere l’ordinanza di quello di Sassari che ha riesaminato, alla luce del decreto anti-scarcerazioni, gli arresti domiciliari da lui stesso concessi a Pasquale Zagaria il 23 aprile in piena pandemia. E li ha confermati, sollevando questione di legittimità costituzionale contro il decreto. È Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica, che ha un’idea del carcere opposta alla nostra. Ma ha il merito di rivendicare le sue decisioni e convinzioni senza incolpare gli altri né inventare scuse. Viva la faccia.

Da tre mesi chi vuole liberarsi di Bonafede starnazza che le scarcerazioni sono colpa sua, dell’ex capo del Dap Basentini e di una circolare del 21 marzo che avrebbe dato la stura al “liberi tutti”. Circolare che non parla mai di scarcerazioni: si limita a chiedere i nomi dei detenuti affetti da patologie che li espongano a conseguenze letali in caso di contagio per metterli in sicurezza (con isolamenti, esami, precauzioni varie: non certo per scarcerarli, visto che si rischia il Covid molto più fuori che dentro). Dunque le scarcerazioni con la circolare non c’entrano nulla, anche se molti giudici se ne sono fatti scudo per dare sfogo ai loro uzzoli decarceratorii. Non è il caso di De Vito che, già nell’ordinanza che mandava a casa (a Brescia, epicentro del Covid) il camorrista Zagaria, chiariva di averlo fatto in base al Codice penale e all’Ordinamento penitenziario. Certo, aveva chiesto al Dap di indicare un centro di cura penitenziario e il Dap, con un’imperdonabile gestione burocratica (giustamente pagata da Basentini con le dimissioni), non aveva risposto in tempo. Ma il giudice chiariva che Zagaria l’avrebbe scarcerato lo stesso, perché riteneva le sue condizioni di salute (neoplasia vescicale, da poco operata con postumi gravi) incompatibili con cure in qualunque struttura penitenziaria.

E ora lo ripete con ancor maggiore nettezza nell’ordinanza che conferma i domiciliari. Zagaria deve restare a casa nel Bresciano e curarsi nell’ospedale del posto: non per le mancate risposte del Dap, che nel frattempo ha indicato strutture alternative (nell’ospedale Belcolle di Viterbo) a quelle che prima erano inutilizzabili in Sardegna (occupate da casi di Covid e ora di nuovo disponibili); ma perché non il Dap, non Basentini, non la circolare, non Bonafede, ma il giudice, nella sua insindacabile “discrezionalità”, ha deciso che la “patologia grave non è fronteggiabile con strumenti diagnostici-terapeutici in ambiente carcerario”; e perché la “Corte d’appello di Napoli in data 22.1.2015” ha definito Zagaria “non più pericoloso”. E l’ha mandato a casa in base al “bilanciamento discrezionale tra diritto alla salute e sicurezza sociale”, visto che il detenuto non può ricevere “adeguate cure mediche in ambito carcerario”. Punto. Chiunque sia il ministro o il capo del Dap, con o senza il decreto, il giudice di Sassari non cambia idea. Solo alla “scadenza del termine individuato” (5 mesi) da lui, e non di quello indicato nel decreto (“immediatamente”), opererà la “rivalutazione della persistenza delle ragioni del differimento e della detenzione domiciliare” in base “all’evoluzione della patologia”. Né quando adottò il provvedimento, né ora il giudice si lascia influenzare dalla “comunicazione del Dap in ordine alla disponibilità delle strutture protette”, dai pareri della Dna e delle Dda “favorevoli al ripristino della detenzione”. Né dal nuovo decreto, che ritiene incostituzionale perché “sconfina nella sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria”, cioè a lui.

Cosa sarebbe accaduto se il Dap gli avesse risposto per tempo, prima del 23 aprile? “L’idoneità dei reparti di medicina protetta tempestivamente comunicati dal Dap avrebbe dovuto essere valutata da questo tribunale con riferimento all’intervento diagnostico che lo Stato non era riuscito ad assicurare” con l’intervento chirurgico. Ma non sarebbe bastata neppure allora a evitare la scarcerazione: infatti neanche ora è “possibile valutare l’idoneità delle strutture indicate a evitare il pregiudizio per la salute del detenuto”. Ciò sarà possibile solo in caso di “guarigione e idoneità delle cure”. Cioè non ora, neppure in presenza di strutture penitenziarie: “una rivalutazione improvvisa… prevalentemente indirizzata al ripristino della detenzione, comporta una violazione del diritto alla salute”. Chissà se i mitomani in Parlamento, in Antimafia, nei giornali e nei tele-pollai leggeranno l’ordinanza e la pianteranno. Ma c’è da dubitarne: non c’è peggior mitomane di chi non vuol capire.