Ciao Pau, leader degli Jarabe De Palo: ha insegnato che nella vita “Todo depende”

“Da che depende?”: la cantavano tutti nell’estate del 2000, un tormentone “illuminato” di Pau Donés – leader degli Jarabe De Palo – con un testo rielaborato da Lorenzo Jovanotti, con il quale l’artista spagnolo aveva stretto una bella amicizia artistica e personale subito dopo il successo internazionale de La Flaca. Favore restituito subito l’anno dopo per l’album Pasaporte di Cherubini, pensato per il mercato latino, contenente El Ombligo Del Mundo e Un Rayo De Sol En La Mano adattate in spagnolo da Pau.

L’amore di Donés per il nostro Paese è stato confermato negli anni con altre canzoni composte insieme ad artisti italiani, dai Nomadi passando per i Modà, Francesco Renga, Noemi, Fabrizio Moro, Niccolò Fabi ed Ermal Meta. La notizia della sua morte a soli cinquantatré anni ha spiazzato pubblico e addetti ai lavori, nonostante si sapesse dal 2015 della convivenza con un cancro al colon. La scomparsa è stata comunicata dalla famiglia: “Vogliamo ringraziare l’equipe medica e tutto il personale dell’Ospedale De La Vall d’Hebron, Sant Joan Despì Moisès Broggi e l’Istituto Catalano di Oncologia per il loro lavoro”.

L’artista negli ultimi tempi era apparso sui social deperito ma combattivo, documentando coraggiosamente la sua malattia (“ci penso massimo cinque minuti al giorno”) e progettando un ritorno sulle scene. “Sono sconvolto dalla notizia” commenta Saturnino al Fatto, “l’ultima volta l’ho incontrato a Miami, venne a trovarci durante il Tour ed è un momento che ricordo con affetto. Pau da buon latino aveva la gioia nel cuore, la voleva condividere sempre. E ha scritto canzoni sensazionali, delle hit mondiali. Con Lorenzo si scriveva spesso, persino qualche giorno fa. La sua scomparsa fa male, colpisce soprattutto per la sua età”.

Per festeggiare i suoi cinquant’anni e i venti di carriera dei Jarabe De Palo aveva recentemente pubblicato l’autobiografia e il doppio album 50 Palos, con i suoi successi arrangiati con piano, archi e voce (attualmente al primo posto della classifica italiana di iTunes). Tra i brani anche Fumo, con una nota commovente scritta da Pau, quasi un epitaffio: “Un’intera vita passata a scrivere canzoni d’amore e neanche una dedicata al mio più grande: la vita. Mi svegliai e mi mancava: per un momento, come mi era già successo in precedenza, sentii che la vita mi stava abbandonando. Presi carta e penna e scrissi una canzone. Una di quelle che scrivi impulsivamente, che ti commuove, che ti fa venire un nodo alla gola”.

“Per 48 ore sono stato il cantante degli AC/DC”

Il destino in una lavastoviglie. Nic Cester, (ex) frontman dei Jet – la seconda rockband più importante d’Australia – a un certo punto sente il richiamo delle radici italiane, e per amore va a vivere sul lago di Como. “Era il 2006, a Copenhagen avevo conosciuto Dominic Howard, il batterista dei Muse. Stavano registrando a Milano. Dom mi disse che anche il loro cantante, Matt Bellamy, abitava lì”.

E?

Due settimane dopo entro in un negozio di elettrodomestici. Una ragazza mi viene incontro. Penso: sono famoso. Invece era Gaia, la fidanzata di Matt.

Con Bellamy, Graham Coxon, Sean Payne, Miles Kane e Jamie Davies vi divertite in un supergruppo, i The Jaded Hearts Club…

Le radio battono il secondo singolo, This Love Starved Heart of Mine, di Marvin Gaye. Il prossimo, una nuova sorpresa soul, uscirà il 6 luglio per il mio compleanno. Concerti? Abbiamo idee per l’autunno.

Muse e Jet condividevano il cartellone negli stadi.

Facemmo un festival in Australia. Abbiamo suonato pure a San Siro. Duettavo con i Muse su Back in Black degli AC/DC.

Gli AC/DC sono leggenda.

Anni fa sono tornato in vacanza in Australia. Appena sbarcato leggo sui giornali la notizia che Brian Johnson era stato costretto dalla salute precaria a mollare gli AC/DC. Dico a mio suocero: “non vorrei mai essere il loro prossimo cantante. Sarebbe complicato”. Due ore dopo mi telefona il manager degli AC/DC proponendomi di volare negli USA per un provino.

Possibile?

Atterro ad Atlanta e mi ritrovo in uno studio minuscolo, con un volume assurdo. Potevo scegliere i pezzi, optavo per quelli dell’era di Bon Scott: Highway to Hell, Whole Lotta Rosie.

Come andò?

C’erano altri nove candidati, mai saputo chi. Tranne il prescelto: scoprii dalla lista dell’albergo che era stato ospite lì.

Chi?

Axl Rose. Ma potrò dire ai nipoti di essere stato per 48 ore il cantante di Angus Young.

Non che le siano mancate le frequentazioni con altri miti. Come il tour australiano con i Green Day.

Quello stronzo di Tré Cool, il loro batterista, godeva a tirare petardi sul nostro palco. La vendetta fu un capolavoro. Contattai il responsabile di uno zoo: si presentò carico di animali esotici. I Green Day trovarono in camerino dei serpenti e un coccodrillo.

Osò burlarsi anche dei Rolling Stones?

No, erano gentili. Keith si era ripreso dalla caduta dalla palma. Si sentiva fragile.

Poi Springsteen…

Un mese a contatto, e non sono riuscito a parlarci.

Gli Oasis…

Due mesi in America: io ho la voce più potente di Liam e riuscivo a gestirla, lui diventava rauco. Mia moglie ha ritrovato le foto di un party con gli Oasis: non so quanto bevemmo, ma comparvero dei nani.

Lei è venuto in Italia per salvarsi dalla follia rock.

Non voglio la normalità. E sono innamorato dell’Europa; l’Australia e i Jet non mi mancano.

Il 19 giugno esce “Live in Europe” con la band italiana, i Milano Elettrica.

Con i concerti del mio tour più importante, il primo da solista, due anni fa.

I suoi nonni paterni erano di Treviso e Pordenone. È vero che si chiama Nicholas per Nicola Di Bari?

Così racconta mia madre. Papà aveva una cassetta con i cantanti italiani, Battisti in testa. Poi Di Bari: l’ho ascoltato molto in quarantena.

Pensa a delle cover.

Con altri amici, tra cui Roberto Dell’Era degli Afterhours, stiamo mettendo su una band di revival, Le Bomboniere. Ho la lista dei pezzi: Io che non vivo di Donaggio, Doce Doce di Bongusto… Quanto al rock, se Jagger viene qui, andrò a comprarmi un frigorifero. Non si sa mai.

Caos calmo per una sestina. Veronesi favorito: farà il bis?

Qualcuno volò sul nido del Colibrì: Sandro Veronesi si conferma il grande favorito di questa 74esima edizione del Premio Strega, Oro in cinquina – anzi in sestina, causa ripescaggio di un piccolo editore per regolamento – con 210 voti su 592 (dei 660 aventi diritto, tutti raccolti online, tra collettivi, lettori forti delle librerie, estero e Amici della Domenica). Se riuscisse nell’impresa – espugnando il Ninfeo di Villa Giulia il prossimo 2 luglio – sarebbe il primo nella storia a vincere due volte il blasone più ambito delle Belle Lettere patrie, dopo Caos Calmo (Bompiani) nel 2006.

A sfidare Veronesi (La nave di Teseo) saranno i due romanzi Einaudi Gianrico Carofiglio con La misura del tempo e Valeria Parrella con Almarina (199 voti, ex aequo), seguiti da Gian Arturo Ferrari con Ragazzo italiano (Feltrinelli, 181 voti) e Daniele Mencarelli con Tutto chiede salvezza (Mondadori, 168 voti). Ma aggiungi un posto a tavola, per altro unico brivido della serata di ieri: cooptato, per includere un editore medio-piccolo, il romanzo di Fandango, Febbre di Jonathan Bazzi (137 voti), solo settimo nella dozzina finale, ma tant’è. Fuori la sesta in classifica: Marta Barone con Città sommersa (Bompiani). A bocca asciutta è rimasta così l’altra sporca mezza dozzina, ovvero Barone con la collega di Bompiani Silvia Ballestra (La nuova stagione); Alessio Forgione con Giovanissimi (NN); Giuseppe Lupo con Breve storia del mio silenzio (Marsilio); Gian Mario Villalta con L’apprendista (Sem); Remo Rapino con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax).

Rapino si consolerà forse col Campiello, premio di cui è entrato in cinquina e premio – un po’ come questo Strega – già accusato di machismo, alla luce della percentuale di testosterone in finale: quattro su cinque uomini in entrambe le competizioni. Tutto il resto è noia, e hai voglia a far polemiche sullo strapotere di Segrate+Torino+Roma con tre titoli su sei (due Einaudi e uno Mondadori) al Ninfeo 2020…

La cerimonia della cinquina ieri è stata più che sobria: un “Caos calmo”, se non soporifero. Sarà che da casa, in streaming, si è svolta giusto all’ora dell’aperitivo; mancava solo il notaio, e si è sentito: alla fine i conti non tornavano, col povero Veronesi a cui era stato scippato un voto. Il siparietto più divertente è stato regalato – va detto, per bontà di cronaca – dal presidente della Camera Roberto Fico, presente in video-collegamento da Montecitorio per annunciare il vincitore del Premio Strega Giovani, giunto alla settima edizione. Ovviamente non si sentiva nulla. “Presidente, è meglio che ci telefona!” (sic, la presentatrice della serata Loredana Lipperini). “Potrebbe mettere la busta a favore di Skype, per favore?”. Così è stato, grazie ai potenti mezzi della Rai (che trasmetteva la diretta), facendo fare a tutti gli ospiti la figura di Serafino Gubbio operatore. Da muto. Dunque, il fiore all’occhiello della giuria giovane – studenti tra i 16 e i 18 anni – è andato al commosso Mencarelli, che ha battuto Bazzi e Carofiglio e ha dedicato il Premio “a chi vive in questo momento un Tso”. Straordinario.

A porte chiuse senza pubblico e per la prima volta in diretta web, la cerimonia della “cinquina” si è svolta al Tempio di Adriano di Roma, molto lontano per chilometri e atmosfere dal mitico salotto di casa Bellonci ai Parioli, andato in scena fino al 2018. Sommesso è stato anche l’intervento del direttore dello Strega Stefano Petrocchi: “Quest’anno Villa Giulia sarà molto meno affollata del solito”. Quanto ai fili rossi dei titoli in gara, riscontra “un minor interesse per l’attualità e il romanzo storico… Prevale, invece, la riflessione sul sé, con una forte presenza della dimensione personale dei romanzi”, e a margine giorni fa alla stampa aveva dichiarato: “Credo sia doveroso cogliere la buona occasione per ritornare al passato, al vecchio Premio di Maria Bellonci: una dimensione originaria, magica, che non mi dispiacerà affatto”.

Magia o no, il primo incontro aperto al pubblico con i sei finalisti si terrà come di consueto a Benevento, la città del liquore Strega, il 19 giugno al Teatro Romano.

“Prima i jihadisti, ora il Covid: in Africa impatto devastante”

“Questa pandemia rappresenta una minaccia grandissima per i rifugiati, l’80% delle decine di milioni di persone nel mondo che vive in Paesi fragili, con lavori saltuari e per cui l’impatto economico della crisi del Covid può essere devastante”. Carlotta Sami è portavoce per l’Italia dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), impegnato negli ultimi mesi in una campagna che cerca di “contenere gli effetti di un’ondata di povertà causata dal Covid che costituirebbe una catastrofe per chi fugge dai luoghi in cui il cessate il fuoco non c’è stato, come la Libia o lo Yemen”. Il tentativo è quello di scongiurare un “effetto domino su territori confinanti, già fragili, come in Africa”.

Il Sahel che situazione vive?

È critica da parecchi mesi, soprattutto in Niger. I Paesi intorno sono investiti da un’ondata di violenza legata all’estremismo islamico. Parliamo soprattutto del nord-est della Nigeria, che da un anno vede incursioni molto violente che hanno provocato lo spostamento di decine di migliaia di rifugiati nella parte confinante, a Sud del Niger. La stessa situazione la vivono il Burkina Faso, il Ciad e il Mali. È di pochi giorni fa la notizia dell’uccisione di alcuni rifugiati in Niger, nonché dell’incursione violentissima da parte delle bande che si sono riversate nei campi, devastando e saccheggiando.

Che ruolo ha il Niger?

Negli ultimi anni ha fatto da ago della bilancia tenendo un equilibrio difficilissimo nella regione, ma ora sta sopportando una situazione esplosiva.

Qual è l’impatto del Covid?

Il governo nigerino pur con le poche forze che ha, supportato dalle agenzie, ha preso tutte le misure possibili di prevenzione. Il contagio non sembra avere proporzioni devastanti. Tuttavia l’analisi e il tracciamento delle persone positive sintomatiche non è strutturato e coerente in tutte le zone del Paese. Parliamo di un territorio molto diversificato, in cui sono difficili gli spostamenti. C’è anche da dire che essendo molto povero, questa crisi, che ha avuto come immediata reazione quella di chiudere alla possibilità delle persone di recarsi nelle città, sta causando un impatto economico devastante.

Questo cosa significa per la Regione?

Innanzitutto esacerbare ancora di più il livello di povertà, ma soprattutto aggiungere un altro elemento prorompente di instabilità a quella già esistente causata dallo jihadismo. Questa è la nostra preoccupazione, motivo per cui siamo intervenuti a supporto del governo del Niger cercando di coinvolgere i rifugiati nella risposta economica: cioè nella riconversione di molte attività, come la produzione di sapone o di strumenti di protezione.

Il sistema sanitario locale sarebbe in grado di fronteggiare un’emergenza?

No. Infatti stiamo lavorando con le altre agenzie per organizzare un supporto e per fare in modo che non si creino sistemi paralleli di gestione. In Niger perché è uno dei Paesi più fragili, ma anche perché è centrale per la rotta del Mediterraneo centrale.

Rispetto alla Libia, fuori controllo con la ripresa degli scontri, notate un aumento delle partenze?

In Italia ci sono stati sicuramente più sbarchi, ma la maggior parte non sono partiti dalla Libia, bensì dalla Tunisia. La situazione libica ci preoccupa perché gli scontri non sono terminati. Ci sono molto meno persone nelle prigioni, ma in condizioni miserevoli e senza supporto, se non quello nostro sporadico e limitato dal conflitto. Continuiamo la pressione sul governo libico perché liberi le persone dai centri, ma d’altra parte fuori non sono sicure anche se in appartamenti e con delle piccole somme di denaro per pagare l’affitto. Sono esposte a furti, attacchi, e anche al contagio.

Prevedete un fuggi-fuggi?

Potrebbe accadere una cosa paradossale: milioni di persone vorrebbero fuggire ma non possono.

Muriel ha messo Trump KO, a Washington la legge è lei

Di sicuro, Joe Biden non sentiva il bisogno di un’altra candidata alla vice-presidenza: già ne era assediato, nere e bianche, “di sinistra” o “centriste”, governatrici – magari mancate – o senatrici, Kamala Harris e Stacey Abrams, Elizabeth Warren e Amy Klobuchar e pure Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan, gli danzano intorno. Ma se una qualità cercata nella running mate è sapere tenere testa a Donald Trump, ecco allora proporsi alla ribalta Muriel Elizabeth Bowser, nera, 48 anni, sindaca di Washington dal 2015.

Muriel si prende addirittura la pole position, almeno a livello mediatico, come aveva fatto a maggio la Whitmer, che resistette al magnate che le chiedeva di cessare il lockdown e di riaprire lo Stato. Bowser, che s’è fatta tutta la gavetta nelle Amministrazioni di quartiere e comunali del Distretto di Columbia, dove sorge Washington, tra Maryland e Virginia, a cavallo del Potomac, s’è schierata con i manifestanti, nelle proteste anti-razziste provocate dall’uccisione, il 25 maggio a Minneapolis, di George Floyd a opera di un poliziotto bianco.

Irritata con la scelta di Trump di una repressione “Law & Order”, la sindaca ha fatto scrivere Black Lives Matter in giallo a caratteri cubitali lungo la 16ma Strada, che incrocia Pennsylvania Avenue proprio all’altezza dell’ingresso della Casa Bianca. “Si discuteva di chi fosse la strada – racconta una fonte dell’Amministrazione comunale – e la sindaca ha voluto rendere chiaro che questa strada è del Distretto e di chi manifesta pacificamente”. Tutto ciò dopo che, il 1° giugno, le forze di sicurezza avevano allontanato da Lafayette Square, davanti alla Casa Bianca, i manifestanti con gas lacrimogeni e pallottole di gomma per fare passare Trump, che voleva farsi una foto davanti alla chiesa di St. John con la Bibbia in mano. Bowser se ne disse “indignata e sconvolta”: “Le persone non stavano violando il coprifuoco, né conducendo attacchi … Sono state invece attaccate dalle autorità. Un fatto inopportuno”. Trump le aveva contestato di “chiedere sempre soldi e aiuto”, ma di non avere fatto intervenire la polizia del Distretto. La tutela delle più alte autorità federali spetta al Secret Service. La sindaca non è però rimasta passiva di fronte alle violenze, come non lo era stata col coronavirus: ha prolungato ed esteso il coprifuoco, una misura estremamente rara nella storia della capitale, ma condivisa dal capo della polizia Peter Newsham; e ha rallentato l’avvio della fase 2. Nata e cresciuta a North Michigan Park, un quartiere della zona Nord-Est del Distretto di Columbia – quella bene è la North West – Muriel ha studiato in una scuola cattolica privata di Bladensburg, nel Maryland e, grazie al massimo dei voti, ha ottenuto una borsa di studio e s’è laureata in storia al Chatham College di Pittsburgh, in Pennsylvania.

Nel 2014 fu eletta sindaco del Distretto di Columbia col 55% dei voti, succedendo a Vincent Gray, da lei battuto nelle primarie. Nel 2018, fu rieletta col 76,4% dei voti. È la seconda donna sindaca della capitale e la prima a essere rieletta. A Washington, per un democratico è più difficile vincere le primarie che le elezioni: la città vota democratico anche all’80% e capita che i repubblicani non presentino neppure un candidato. Il Washington Post le riconosce il merito di avere restituito integrità all’Amministrazione, di avere reso la capitale di nuovo prospera e di avere alzato il salario minimo sa 10,5 a 15 dollari l’ora, come già è in molte città: il salario minimo federale è fermo a 7 dollari e 25 centesimi. Robert McCartney la elogia perché ha applicato la legge e mantenuto l’ordine rispettando il diritto dei cittadini a protestare, evitando di creare le condizioni per un ricorso all’esercito e prevenendo abusi della polizia nei confronti dei neri e di altre minoranze. L’elezione di Trump e il successo repubblicano nel novembre 2016 costituirono una doccia fredda per Washington e la Bowser: nell’Election Day, infatti, il 79% degli elettori della capitale approvò una petizione per diventare il 51% Stato dell’Unione. Ma i repubblicani sono contrari: vorrebbe dire avere due senatori democratici in più in pianta stabile nel Senato degli Stati Uniti. Così Washington continua a non avere rappresentanti in Senato e a non concorrere all’elezione del presidente, perché non ha Grandi Elettori. Di qui il fatto che molti, in segno di protesta, hanno sulla targa lo slogan, ispirato alla Rivoluzione anti-britannica del 1776, “Taxation without representation”. Lo mise pure Obama, che non riuscì però a cambiare le cose.

Salvini, dall’ossessione social alla nuova “sindrome Cuccia”

Matteo Salvini non scaricherà la app Immuni. Lo ha fatto sapere con una nota asciutta: “Gli italiani chiedono garanzia totale sulla protezione e la tutela della riservatezza dei loro dati e quindi fino a quando non ci sarà questa garanzia totale, io non scarico assolutamente nulla”. E bisogna ammettere che la decisione non ha destato alcuno stupore, vista la nota riservatezza del leader della Lega, un uomo che da anni difende la sua privacy, quella dei cittadini, dei suoi familiari e delle sue compagne con le unghie e coi denti. È una sorta di Enrico Cuccia della politica, Salvini, sempre curvo e impenetrabile quando le telecamere lo inseguono, un uomo che ha fatto della consegna del silenzio la sua cifra. Con qualche piccola, trascurabile eccezione che vado ad elencare.

Discreto La famiglia viene sempre prima di tutto

Per esempio, quando fotografa sua figlia immortalata mentre gioca, mentre perde il dentino, mentre è al mare col suo costumino, mentre gioca con le bambole, mentre mangia e così via, perché Salvini è molto preoccupato per la privacy degli italiani, ma non di esporre la bambina sulle sue pagine social da 8 milioni di follower complessivi. La piccola avrà senz’altro firmato l’assenso al trattamento dati, apponendo una x sotto alla dichiarazione “Acconsento all’utilizzo della mia immagine per scopi propagandistici al fine di far accrescere i follower di mio padre che porello, ha finito i cibi cotti da fotografare”. Poi, se qualcuno fotografa suo figlio sull’acqua-scooter della polizia, lo tratta come fosse un pedofilo. Ma ce lo ricordiamo particolarmente attento alla privacy altrui anche quando voleva indire il famoso censimento rom. “Facciamo una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti sono”, disse. Quindi che il governo possa carpire i dati di chi ha potenzialmente una malattia contagiosa lo spaventa, ma che possa schedare i cittadini in base alla propria etnia gli sembra cosa buona e giusta. E gli sembra non solo giusto, ma anche legittimo sempre dal punto di vista della privacy a cui tanto tiene, andare a citofonare a un ragazzo con persone e telecamere al seguito chiedendo se fa lo spacciatore. Il tutto durante una diretta Facebook, mentre dall’altra parte del citofono c’è un minorenne.

CorteseOppositori e “neri” vanno bene per Facebook

O quando ha postato sulla sua pagina Facebook la foto di alcune ragazzine minorenni che lo contestavano, giusto per regalare alle adolescenti quella gogna mediatica che tanto si sposa con la sua vocazione per la ritrosia, con la sua attenzione per il riserbo degli italiani, specie quelli più fragili come i più poveri e i minorenni. E come dimenticare tutte le volte in cui il timido, ritroso Matteo Salvini ha pubblicato video di ignari individui con l’unica colpa di starsene seduti su una panchina o di fare un bagno in piscina tacciandoli di essere risorse venute in Italia a rubare e bivaccare. Come quando se ne andò in giro col sindaco di Verona a filmare ragazzi di colore alla stazione o pubblicò il video di un richiedente asilo con disturbi psichiatrici che si era messo a fare ginnastica in mutande per strada, ovviamente chiedendo a tutti i permessi per sbatterli sulla sua pagina, perché Salvini è così, lui alla privacy dei cittadini ci tiene parecchio. È un’ossessione, verrebbe da dire. Potrebbe senz’altro confermarlo anche il ragazzo dislessico che ha dileggiato pochi mesi fa, sempre sulla sua pagina Facebook in cui può contare sui suoi follower schivi e rigorosi come lui, follower che come noto tendono a proteggere, ad alzare una cortina di massima riservatezza sulle persone più fragili.

Errori Se l’Inps sbaglia può farlo anche Matteo

Ma un raro, luminoso esempio di attenzione per la privacy degli italiani, Salvini l’ha data anche quando per denunciare il sito dell’Inps che aveva diffuso per sbaglio i dati personali di migliaia di connazionali che avevano chiesto il reddito d’emergenza, pensò bene di pubblicare a sua volta un video con nomi e cognomi dei richiedenti. Insomma, se non ti aveva sputtanato il sito dell’Inps perché magari il tuo nome era finito nel mucchio, dopo pochi minuti ci aveva pensato Salvini. È comprensibile che Salvini non si scarichi Immuni. Anche perché diciamolo, è molto probabile che con tutte le app che ha scaricato non abbia neppure più memoria libera sul telefono: ha già TikTok per deliziarci con le sue pedalate sulla cyclette (e quindi ha ceduto i suoi dati personali ai cinesi, che di TikTok sono inventori e proprietari). Ha le app Meme Generator per la divulgazione dei suoi contenuti più alti. E poi ha le app per contattare le persone che si sentono sole, con cui scrive a Fontana tutte le sere. Insomma, davvero un peccato che Salvini non scarichi Immuni. E non tanto per lui, quanto per noi: non so voi, ma io vorrei poter sapere quando Matteo Salvini è a meno di due metri da me.

Consip: Bonifazi sentito dai pm. Così le indagini ora continuano

C’è l’ex tesoriere del Pd, ora in Italia Viva, Francesco Bonifazi. E poi alcuni dirigenti Consip. Sono coloro già sentiti come persone informate sui fatti nell’ambito dell’inchiesta Consip. La procura di Roma ha dato seguito alle indagini indicate dal gip Gaspare Sturzo. Si tratta del gip che lo scorso febbraio ha rigettato (accogliendola invece per due episodi) la richiesta di archiviazione nei confronti, fra gli altri, del padre di Matteo Renzi. Tiziano Renzi è stato indagato per traffico di influenze illecite, la procura ne ha chiesto l’archiviazione rigettata in parte dal gip che ha disposto nuove indagini. Così sono stati svolti ulteriori accertamenti e interrogatori. Davanti al pm Mario Palazzi è stato convocato dunque Francesco Bonifazi. L’ex tesoriere dem, estraneo alle indagini, è stato sentito come persona informata sui fatti. Il gip aveva chiesto di convocarlo per avere chiarimenti su un messaggio ricevuto ormai cinque anni fa da Carlo Russo, l’imprenditore amico di Tiziano Renzi. Era il 4 marzo 2015 quando Russo scrive a Bonifazi: “…Solo per evidenziarti i passaggi fondamentali dell’incontro di stamani: lui deve capire che io sono il suo unico interlocutore e che ho rapporti privilegiati, senza che venga fuori il nome di T. Grazie, è davvero importante per noi, a dopo. Carlo Russo”. Il “T.” di cui non doveva uscire il nome secondo il gip potrebbe essere Tiziano Renzi. Sull’sms, il gip nell’ordinanza scrive: “Non sappiamo se e cosa abbia risposto Bonifazi, in quanto gli argomenti qui trattati sono stati individuati in quel che resta del cellulare sequestrato al Russo, a prescindere da quelli non rinvenuti o da quelli che non sono stati posti a controllo tecnico”. In passato l’ex tesoriere dem spiegò al Fatto di non ricordare la circostanza e che comunque Russo non era un suo interlocutore, non avendo con lui alcun rapporto. In questi mesi sono stati interrogati anche alcuni dirigenti Consip e presto toccherà all’ex ad Luigi Marroni, che è già stato convocato.

I legali di Palamara “assolvono” Lotti: “Disse solo: ‘Si arriva a Marcello Viola’”

È stata la frase cultdell’inchiesta su Luca Palamara. E da ieri rischia una rivisitazione non da poco. Parliamo dell’ormai celebre “Si vira su Viola”. Frase che secondo il Gico della Guardia di Finanza disse il parlamentare (autosospeso) del Pd Luca Lotti, il 9 maggio 2019, mentre in compagnia di Palamara, del deputato Pd Cosimo Ferri e altri consiglieri del Csm, discuteva la strategia per portare Marcello Viola, all’epoca procuratore generale di Firenze, alla guida della procura capitolina, lasciata vacante dal pensionamento di Giuseppe Pignatone.

“Si vira su Viola” c’era scritto nella trascrizione del Gico della Guardia di Finanza e venne riportata: non vi fu giornale che in quei giorni non titolò sull’ingerenza di Lotti, e quindi del Pd, nella scelta del futuro procuratore di Roma. Ora, che Palamara non dovesse discutere di nomine con Lotti e Ferri resta fuori discussione. E che Lotti non dovesse immischiarsi degli uffici giudiziari rimane altrettanto scontato. Anche perché si trattava degli stessi uffici giudiziari che avevano indagato e chiesto il suo rinvio a giudizio per favoreggiamento e rivelazione del segreto nell’inchiesta su Consip. Ma adesso il punto un altro: forse non fu lui a indicare che bisognava “virare” su Viola.

Un conto è svolgere il ruolo di spettatore – che Lotti non avrebbe dovuto comunque incarnare – e un altro quello di regista dell’operazione. La difesa di Luca Palamara in questi giorni sta ascoltando i dialoghi captati dal trojan che dal 3 al 30 maggio 2019 fu inoculato nel suo telefono. E ieri ha ascoltato quello del 9 maggio 2019 nell’hotel Champagne di Roma.

Gli avvocati Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti dopo l’ascolto ieri hanno dichiarato all’Adnkronos: “Con riferimento alla nomina del Procuratore di Roma, la frase effettivamente pronunciata da Lotti, dopo aver ascoltato il racconto degli altri presenti a quell’incontro sarebbe stata: ‘Vedo… che si arriva a Viola’”.

Quando Lotti li raggiunge, Ferri sta dicendo a Palamara che il consigliere laico di Forza Italia Alessio Lanzi potrebbe aver deciso di votare per il loro candidato. Palamara è scettico: “Ma Lanzi non lo vedo manco se… Lanzi vota Viola”. E così, giunto proprio mentre i presenti conteggiano i probabili voti per chiudere l’operazione, quando scopre che anche Lanzi è pronto a sostenere il loro candidato, Lotti avrebbe concluso che le reali possibilità per gli altri due concorrenti – il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo e il collega di Palermo Francesco Lo Voi – erano ormai sfumate. A quel punto avrebbe commentato: “Vedo che si arriva a Viola”.

La task force: scuola a gruppetti e orari più brevi

Cambiare il concetto di classe, preferire le attività all’aperto, prestare maggiore attenzione alle scuole superiori. “Le attività di base caratterizzanti devono essere ripensate, per ordine e per grado” ha detto ieri Patrizio Bianchi, coordinatore della task force del ministero dell’Istruzione in commissione alla Camera dei deputati. “Utilizziamo questa tragedia per riportare la scuola al centro di un dibattito che dica che cosa debba essere insegnato ai nostri ragazzi. Anche per avere quel volano fondamentale per lo sviluppo” ha detto. Le linee guida sono ancora in elaborazione, saranno presentate entro il 31 luglio.

Il Comitato composto da 18 membri propone di riorganizzare le attività didattiche prevedendo di svolgerle negli spazi esterni alla scuola come parchi, strutture sportive o spazi culturali, di ridurre il numero di alunni per classe, di stringere alleanze con le comunità culturali e quelle educative di ogni città con il supporto dei sindaci. E ancora, di prevedere misure per il sostegno agli studenti con disabilità e il reclutamento di assistenti sociali, psicologici e sociologici. “I nostri insegnanti – ha detto – in questa fase sono stati messi a durissima prova e lo saranno nei prossimi anni. Occorre dotarli di capacità di gestione delle emozioni ma non vanno caricati troppo: va allargata la comunità educante”. La pandemia, ha detto, deve servire per innovare: “Se non si semplifica a settembre non si può riaprire: non si possono fare gare pure per importi bassi”. E ai deputati che gli chiedevano chiarimenti su mascherine e distanziamento al rientro a settembre ha risposto di chiedere a Miozzo, il coordinatore del Comitato tecnico scientifico. In autonomia, invece, le scuole potrebbero prevedere gruppi di alunni adeguati agli spazi e la rimodulazione del tempo per assicurare attività in presenza al maggior numero di alunni possibile.

La guerra fascista, nera come il pane

Il 10 giugno 1940 la voce energica di Mussolini annuncia dal balcone di Palazzo Venezia che “la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia”; l’8 settembre 1943 la voce rauca del maresciallo Badoglio annuncia per radio che “il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower”.

Dal vitalismo aggressivo alla mestizia silenziosa: in mezzo, più di tre lunghi anni, tra sconfitte al fronte, città bombardate, pane nero, alpini che non tornano dalla Russia e paracadutisti che muoiono a El Alamein. La guerra fascista 1940-43 è l’epilogo drammatico di una stagione dove la retorica della parola oscura la ragione: ultima arrivata tra le nazioni industrializzate, l’Italia degli “otto milioni di baionette” entra in conflitto contro il mondo, prima Francia e Gran Bretagna, poi anche Unione Sovietica e Stati Uniti. La disfatta è implicita nella sproporzione tra le ambizioni imperialiste del regime e le possibilità reali di un paese che dispone di tante braccia e pochi carri armati, e che per produrre armi deve prima trovare chi gli venda ferro e carbone. Alleato con la Germania di Hitler in un rapporto sospettoso, inizialmente di competizione e subito dopo di subalternità, il fascismo ne segue la parabola, sprofondando la nazione e se stesso nella rotta: “Non abbiamo alternative, vincere con la Germania o perdere con essa” afferma il duce nella primavera del 1943, quando gli anglo-americani hanno ormai conquistato “Tripoli, bel suol d’amore” e stanno preparando lo sbarco in Sicilia.

Oggetto di numerosissimi approfondimenti storiografici su singole campagne militari, il periodo 1940-43 difetta di quadri d’insieme, per i quali in genere si rimanda al lavoro di Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista 1940-43, pubblicato mezzo secolo fa. Dalla constatazione di questo vuoto della bibliografia nasce il lavoro di sintesi proposto in questo volume, dove è tracciato il profilo del periodo seguendo tre direttrici principali. In primo luogo, le scelte politiche di Mussolini, stretto tra le accelerazioni strategiche di Hitler, le diffidenze reciproche tra Roma e Berlino, i limiti dell’economia nazionale e il peso di un’autorappresentazione ventennale che si decompone alla prova del conflitto. In secondo luogo, le operazioni militari, dalla “guerra parallela” dell’estate-autunno del 1940 (la campagna sulle Alpi occidentali, i movimenti di Graziani in Africa settentrionale e del duca d’Aosta in Africa orientale, l’attacco alla Grecia) alla “guerra subalterna” degli anni successivi, con il Regio esercito subordinato alla Wehrmacht nei Balcani, in Africa, in Russia. In terzo luogo, il fronte interno con il progressivo raffreddamento del consenso al fascismo e il venir meno del blocco sociale che lo ha sostenuto, sino alla perdita della capacità di controllo del regime (espressa dalle manifestazioni di aperta insofferenza del marzo 1943) e alla sua caduta silenziosa il 25 luglio (“Ma che cos’era questo fascismo che si è sciolto come neve al sole?” chiederà Hitler).

Accanto a questi percorsi che attraversano cronologicamente tutto il periodo, un approfondimento di cui si trovano ancora poche tracce nella ricerca: i crimini di guerra commessi da reparti del Regio esercito nella lotta contro la resistenza partigiana nei Balcani, la dottrina della controguerriglia fissata dalla Circolare 3C di Roatta, i campi di concentramento per slavi, sino alle richieste di estradizione per crimini contro i civili avanzate a fine guerra dai governi dei paesi occupati. La conclusione è dedicata all’armistizio dell’8 settembre, ricostruito nei diversi teatri, atto finale di una guerra in cui muore l’Italia fascista.

L’ambizione è che la sintesi possa servire ai più giovani, perché a ottant’anni dallo scoppio del secondo conflitto mondiale la memoria di quanto accaduto sta sfumando. La mia generazione ha avuto la fortuna di nascere quando la guerra era ormai terminata, ma le ferite che aveva lasciato bruciavano ancora e si riversavano nei racconti: nelle famiglie, nelle scuole, nelle piazze, nei mercati, dovunque si ascoltavano storie di rifugi antiaerei, o di farina comprata al mercato nero, o della ritirata nelle steppe russe. Tutti avevano vissuto la guerra, al fronte o a casa, e ne trasmettevano il ricordo in forma semplice e spontanea. Attraverso quei racconti la mia generazione è cresciuta ed è stata educata a un sistema di valori: abbiamo imparato che cos’è la pace sentendo parlare della paura per le bombe, per il passo degli anfibi sui selciati, per i giovani morti nella neve o nella sabbia; abbiamo imparato che cos’è il benessere sentendo raccontare della fame, della “tessera”, dei surrogati senza gusto; abbiamo imparato che cos’è la libertà sentendo ricordare una stagione in cui, prima di parlare, bisognava guardarsi attorno per vedere se c’era qualcuno di troppo che ascoltava.

Quella trasmissione generazionale di memoria, per ovvie ragioni anagrafiche, è venuta meno e il rischio, per i più giovani, è crescere pensando che tutte le garanzie di cui fruiamo oggi siano definitive: la storia dell’umanità insegna che nulla è dato per sempre e che le conquiste vengono conservate solo se si ha la consapevolezza del loro significato. Alla forza educativa delle testimonianze dirette bisogna sostituire la conoscenza del passato, quella che si acquisisce attraverso lo studio della storia, le proposte dei media, le suggestioni della rappresentazione letteraria o cinematografica. Purtroppo nel nostro paese vige un sistema scolastico dove la storia è poco in onore e la storia antica ha assai più spazio della storia contemporanea. Qualsiasi studente ha sentito parlare della battaglia di Canne, o di Annibale, o di Ottaviano Augusto; pochi sanno collocare Stalingrado, lo sbarco in Sicilia, Rommel; quasi nessuno Badoglio, Ciano, Ribbentrop.

Bisognerebbe prendere atto delle lacune e avere il coraggio di riformare radicalmente i programmi: se non è possibile dedicare maggiore tempo alla storia, allora la si studi dalla Rivoluzione francese in poi e si riducano tutti i secoli precedenti a grandi quadri d’insieme. Da storico, mi piange il cuore; da cittadino, preferisco nuove generazioni consapevoli del loro presente. E il presente è figlio del passato prossimo, non del passato remoto.