La tragedia all’italiana tra cognati e “Bidoni”

Nella tragedia all’italiana vista su Report l’intervista al citofono con il cognato di Attilio Fontana potrebbe essere il sequel Covid di “Un eroe dei nostri tempi”. E se anche (purtroppo) non c’è più Alberto Sordi, ritorna pur sempre l’eterna maschera del cognato, che da Pillitteri (Bettino Craxi) a Tulliani (Gianfranco Fini) è il parente fatale, figura incuneata tra famiglia e politica con effetti non sempre positivi per entrambe. Rispetto ai Monicelli e ai Dino Risi in più abbiamo il citofono, apparecchio oltremodo a rischio per chi chiama (Salvini al Pilastro: “Lei spaccia?”), e se lo sventurato risponde. Infatti, uno si chiede cos’è che il cognato di Fontana (che sembra interloquire dalla cucina con uno strofinaccio sulla bocca) vuole nasconderci? I rubinetti d’oro? La vasca dei coccodrilli per giornalisti ficcanaso? O il quintale di camici che gli sono rimasti sul groppone? Nel cinema vero di Report

spiccano gli “amici miei” di Matteo Salvini con l’assessore trentino che promuove le settimane bianche a epidemia incombente (infatti è pure albergatore). E le conoscenze della non diversamente leghista Donatella Tesei, presidente di quella Regione Umbria che paga 150 mila euro in più del prezzo di mercato una partita di test sierologici procurati da un imprenditore, immortalato accanto a essa in una cena elettorale (del tutto casualmente s’intende). E se fosse una pellicola neorealista che titolo daremmo all’accordo tra il Policlinico San Matteo di Pavia e la Diasorin, annullato dal Tar: i test acquistati dalla Regione Lombardia per gli screening di massa (mezzo milione senza gara a 4 euro l’uno)? Il Bidone? Presto, con i 170 miliardi e rotti che stanno per planare dall’Europa sull’Italia avremo, vedrete, una stagione cinematografica pimpante. Un paio di remake: “ I Magliari”, “Finché c’è virus c’è speranza”. E l’“Audace colpo dei soliti noti”. Che in sintonia con lo spirito del tempo si chiamerà: “Ce la faremo”.

Gli infermieri chiedono diritti, non applausi

Il video realizzato dagli infermieri dell’Ospedale Maggiore di Bologna è parecchio istruttivo. Spiega benissimo la loro condizione (“sono quello che hai minacciato perché ti ho assegnato il codice bianco”; “sono quello che hai spintonato”; “sono quello che hai denunciato”) e l’assurda parabola che hanno vissuto da febbraio a oggi. Con la fine della fase acuta della pandemia gli infermieri sono passati da eroi celebrati con applausi collettivi e menzioni d’onore a soliti stronzi. Gli “angeli” tanto spesso citati nei commossi resoconti della stampa strappacuore sono professionisti sottopagati, precari, in tanti casi lavoratori atipici (molti lavorano per cooperative che a loro volta prestano manodopera agli ospedali). Tra le troppe vittime della flessibilità, si sono ritrovati (insieme a tutto il personale sanitario) a fronteggiare la marea dell’epidemia spesso (soprattutto nelle prime settimane) senza nemmeno dispositivi di protezione personale. Da giorni stanno protestando in tutta Italia per vedersi riconosciuti gli aumenti di stipendio favoleggiati durante la crisi. Promesse non mantenute, che certamente avevano origine da un sincero riconoscimento del grande sacrificio di quelle settimane: mentre gli ospedali scoppiavano e noi stavamo chiusi in casa, il personale sanitario era in trincea (con l’aggravante della solitudine: moltissimi non hanno potuto vedere i propri familiari per proteggerli). Erano condizioni estreme, in una situazione che nessuno poteva prevedere. Ora però non li si può liquidare con una pacca sulla spalla o un bonus (di qualche euro), bisogna rispondere a domande (anche sui turni e gli organici) che riguardano loro come lavoratori e tutti noi come cittadini: se abbiamo imparato una lezione da questi mesi drammatici è che i servizi essenziali vanno garantiti sempre.

Ciò che denunciano gli infermieri però è anche la spia di un tic antropologico ben visibile nella nevrosi che affligge il dibattito pubblico. L’enfasi di ieri (“eroi”, “angeli”) è speculare alla sostanziale indifferenza di oggi. L’infermiere eroe è passato di moda: ora si parla di politici inginocchiati o del disegnino “lei” e “lui” sulla app Immuni. L’isteria infantile con cui si consumano a mezzo stampa questioni fondamentali (il razzismo, la discriminazione di genere) trasforma tutto in chiacchiere banali e, dunque, prive di significato. In maggio, per una settimana, ha imperversato l’annuncio della fine del caporalato da parte della ministra Terranova piangente (“gli invisibili non saranno più invisibili”): ora si scopre che i braccianti continuano a restare irregolari perché pochissimi datori di lavoro (secondo Coldiretti e altre associazioni di categoria) stanno facendo richiesta. Intanto a Caltanissetta un ragazzo pakistano di 32 anni, Adnan Siddique, è stato assassinato per aver denunciato i caporali: non risultano pensosi commenti a reti e quotidiani unificati. Sono solo alcuni esempi di un sistema dell’informazione incontinente e quasi mai in grado di dominare il confronto di idee. Sia per una fraintesa par condicio delle opinioni, sia per una superficialità imperdonabile che si accontenta del titolo ad affetto e mira a suscitare emozioni tanto forti quanto passeggere. Il guaio non è tanto per l’informazione in sé, ma per quello che dovrebbe essere il suo compito. Se non sappiamo più pensare, interpretare le notizie e dare una gerarchia ai fatti diventiamo funzionali a una società di sudditi. Dove l’infermiere è eroe per un quarto d’ora e, finito l’applauso, applauso può tranquillamente tornare a essere minacciato, sottopagato e dimenticato. Fino alla prossima emozione.

 

Graziani. La statua del boia fascista va rimossa: è una vergogna nazionale

Consigli di viaggio. Se vi capita di andare a Budapest, meravigliosa città imperiale, decaduta e fané, oggi ostaggio delle truppe di Orbán, ma sempre un posto straordinario, prendetevi qualche ora per visitareil Memento Park (qualche chilometro a sud della città). Lì – brutta periferia industriale – tra il 1989 e il 1990 vennero deportate decine di statue che abbellivano (?) il centro di Budapest, statue in onore del realismo socialista, immensi catafalchi in bronzo che gli ungheresi, almeno dalla repressione del 1956, odiavano ferocemente come emblemi dell’oppressione sovietica. All’ingresso del parco, vedrete due immensi stivali: erano quelli di Stalin e della sua gigantesca statua che sorgeva un tempo nel centro di Budapest e che venne abbattuta tra grida, e funi, e feste di popolo, proprio nel ’56. Ecco: sono rimasti gli stivali, che è quello che tutti si augurano dei tiranni.

Mi scuso per la deriva Tripadvisor che ha preso questa rubrichina, ma il fatto è che qualche giorno fa, a Bristol (Gran Bretagna) i manifestanti antirazzisti hanno abbattuto e buttato nel fiume (plop!) la statua di Edward Colston, responsabile della deportazione (traduco: rastrellamento, rapimento e vendita) di 800.000 schiavi alla fine del 1600. Il sindaco della città di Bristol ha in qualche modo approvato (è nero di origini giamaicane), e anche la scritta comparsa a Londra sotto il monumento a Churchill (“Era un razzista”) non è proprio campata per aria (chiedere agli indiani).

L’argomento è controverso ma facilmente riassumibile: bisogna prendere a picconate il passato, i suoi simboli, le celebrazioni monumentali di infami ingiustizie? Tutto il mondo applaudì convinto all’abbattimento della statua di Saddam a Baghdad, per esempio, e nessuno ebbe nulla da dire quando si fece saltare la svastica in cima ai principali edifici tedeschi dopo il ’45. Strabiliante invece che al Foro Italico in Roma campeggi ancora, sul grande obelisco bianco, la scritta “Mussolini”.

Potremmo cavarcela così: lasciamo questa faccenda agli storici e alle folle incazzate. Nessuno pretende di abbattere le piramidi perché furono costruite a frustate dagli schiavi, ma qualche opera di decenza distruttiva, converrebbe tenercela cara, e magari imitarla. Per fare un esempio da cui si potrebbe cominciare subito, meriterebbe qualche candelotto ben piazzato il mausoleo del generale Graziani, che sorge ad Affile dal 2012, per iniziativa del sindaco Ercole Viri (tuttora in carica nonostante le condanne per apologia di fascismo). Il mausoleo è un orribile manufatto, brutto architettonicamente e ripugnante per quel che rappresenta. Sopra c’è scritto “Patria e onore”, dove l’onore del generale Graziani è noto: un boia senza pari, che usava armi chimiche, che aveva per soprannome “macellaio del Fezzan”, che si macchiò di efferati crimini di guerra prima da viceré d’Etiopia e poi da comandante delle forze armate della Repubblica di Salò. Per dirla con linguaggio accademico, un vero pezzo di merda o, se preferite gli eufemismi, un assassino della peggior specie. Il monumento, dunque, non è a Graziani, ma alla vergogna di un paese e di uno Stato (l’Italia) capace di celebrare i peggiori delinquenti, e non in antica epoca storica, ma ai giorni d’oggi. Ecco. Ad Affile non c’è il fiume, e il monumento a Graziani non potrà fare la fine subacquea della statua dello schiavista Colston, peccato. Ma a tutto c’è un rimedio e, dal piccone alla dinamite, c’è anche la tecnologia per porre fine a una vergogna nazionale.

 

Dal celeste a Fontana: la padella e la brace

Da almeno un quarto di secolo la Lombardia è la roccaforte della destra italiana. Fu nel 1995 che Roberto Formigoni avviò i suoi diciotto anni di governo ininterrotto al Pirellone, edificando un blocco di potere culturale, sociale ed economico incrinato solo dagli scandali. Intorno al Celeste, all’egemonia della sua rete comunitaria e affaristica, perfino il berlusconismo e il leghismo venivano relegati a satelliti di un meccanismo amministrativo perfettamente oliato. Vero è che quando Formigoni fu travolto dalle sue stesse spudorate malversazioni, nel 2013 il leghista Maroni faticò a sconfiggere, di soli 4 punti percentuali, il candidato di centrosinistra Ambrosoli. Ma nonostante la rinuncia in extremis di Maroni, cinque anni dopo, nel 2018, il suo successore Attilio Fontana sfiorò addirittura il 50% dei consensi, lasciando indietro di venti punti Giorgio Gori. Riscossa completata l’anno seguente, alle europee 2019, quando la Lega di Salvini conseguì in Lombardia la percentuale stratosferica del 43,38%. Un trionfo. Sembrava che non ce ne fosse più per nessuno. Perfino oggi che l’infelice accoppiata Fontana-Gallera precipita nell’impopolarità per via della disastrosa gestione dell’emergenza Covid, è prematuro dedurne che i lombardi siano pronti a voltare pagina, ripudiando la “loro” destra sempiterna.

La collezione di infortuni nella quale la destra lombarda sembra inciampare – dalle delibere a pagamento rivelate dall’inchiesta “mensa dei poveri”, fino alla mancata istituzione della zona rossa in Val Seriana; dall’obbrobriosa vicenda delle Rsa, fino alle forniture fatturate e stornate ai familiari del presidente, e da ultimo all’affidamento irregolare dei test sierologici Diasorin – è figlia della caduta in disgrazia di Formigoni. Che ha risvegliato gli appetiti degli ex satelliti, ai quali non è parso vero di avviare una imponente redistribuzione dei posti di potere per i quali erano sprovvisti del personale adatto.

Non credo di poter essere accusato di simpatia per Formigoni, la cui invadenza spregiudicata denunciavo quando pareva intoccabile, se rilevo che siamo caduti dalla padella nella brace. A partire dalla sanità, senza trascurare Trenord e il tentativo di assalto (fallito) alla Fondazione Cariplo, si sono fatti avanti personaggi famelici, autoritari, ma contraddistinti da palese incompetenza. La lottizzazione delle nomine, che il circuito ciellino affidava a uomini ombra navigati come Nicola Sanese (segretario generale della Regione) e Carlo Lucchina (dg Sanità) per i leghisti è finita nelle mani di Giulia Martinelli, ex moglie di Salvini, capo segreteria di Fontana, e per Forza Italia nelle mani di Mimmo Pacicca, il dg della Sanità che Gallera ha convinto a dimettersi quando sfiorato dalle inchieste della magistratura. Se prima il Celeste delegava a faccendieri esperti come Simone e Daccò la relazione con protagonisti della sanità come don Verzè, Rotelli, Maugeri, adesso a trattare per conto di Giorgetti o della Gelmini sono dei parvenu ignari di gestione del potere. Dal Pio Albergo Trivulzio al neurologico Besta, gloriose istituzioni della sanità lombarda, abbiamo visto entrare in azione “uomini nuovi” di comprovata inesperienza. E così è successo un po’ dappertutto, nella macchina amministrativa e negli enti lombardi. Lungi da me indulgere al detto qualunquista “si stava meglio quando si stava peggio”. Ma è sotto gli occhi di tutti il decadimento della classe dirigente lombarda, azzoppata per giunta dalle infiltrazioni della ‘ndrangheta, e culturalmente subalterna a rappresentanze degli industriali e dei commercianti che non brillano certo per capacità di rinnovamento: la Confindustria regionale è presieduta da Marco Bonometti, nostalgico di Mussolini, tenace assertore dell’apertura degli impianti nel pieno della pandemia; dalla Confcommercio ancora nessuno osa schiodare il più longevo degli andreottiani, Carlo Sangalli.

La tragedia che ha colpito la “locomotiva d’Italia”, con i suoi oltre 16 mila morti per Covid, ha indotto opinionisti solitamente equilibrati come Ferruccio de Bortoli a protestare contro il presunto sentimento anti-lombardo che sarebbe diffuso nel resto del paese. Ma a parte che dovrebbero spiegarci perché mai questi italiani insofferenti della superiorità padana se la prenderebbero con la Lombardia e non con il Veneto, diciamocelo: il vittimismo è un alibi che non ha mai aiutato nessuno, neanche quando viene attribuito ai meridionali alle prese con le piaghe del Mezzogiorno.

Meglio sarebbe se gli uomini dell’establishment riconoscessero le buone ragioni della delusione generalizzata fra i cittadini lombardi, di fronte all’incompetenza rivelata da chi li governa. Un rischio che si può correre anche se la destra fosse destinata a restare insediata al Pirellone.

 

Mail box

 

Italia: un Paese nelle sabbie mobili

Non voglio tornare alla normalità… di prima. Anzi ne sono terrorizzata. Chi ha governato negli ultimi decenni, governo dopo governo, rimpasto dopo rimpasto, ha fatto di questo Paese un bancomat personale e ha commesso una lista interminabile di abusi, soprusi, concorsi esterni in qualunque tipo di affare… Ora il Paese, dalle Alpi a Capo Passero, sta nelle sabbie mobili… La politica in Italia da decenni si è infettata, si è corrotta e ha contaminato a giri concentrici tutto ciò che incontrava e con cui poteva fare affari. Però si è anche occupata di tagli indiscriminati. Sulle tasse taccio per pietà. Noi italiani ci siamo assuefatti e crogiolati in questo degrado. Le eccezioni, che non mancano, chissà perché, in questa società a irresponsabilità illimitata, non riescono a farsi sentire. Mi sembra chiaro che questa politica non sia in grado di salvarci. Il nostro Paese è devastato, già da prima del Covid: ci vogliono misure decise, lungimiranti, inclusive, per mettere le giuste basi per un cambiamento improntato alla giustizia sociale e alla ripresa economica rispettosa dell’uomo, della donna e dell’ambiente… Ma gli intellettuali dove sono? Eppure da noi non li deportano…

Anna Lucioli

 

Fondi alle aziende, ma solo di qualità

Gran chiacchiere sul salvare le aziende, ma quante da salvare se producono peggio dei cinesi? Elettrodomestici con perni in plastica che durano un anno e non sono sostituibili, così si butta via l’intero prodotto eccetera… Allora uno si domanda se valga la pena salvare aziende e posti di lavoro così. Abbiamo imparato dai cinesi a far oggetti inutili ma non la capacità di lavoro. Si lavora un giorno su due ma il mercato è invaso da porcherie. E basterebbe poco per produrre bene! Invece di parlare solo di soldi, si salvi la qualità, l’unica a mettere l’Italia in condizione di competere con tutti: serve il Commissario della qualità.

Gianni Oneto

 

Perché i cittadini onesti non si mettono in gioco?

La colpa del tutto è degli italiani, ovvero della stragrande maggioranza sana degli italiani. Se tutti gli italiani mediamente onesti se ne stanno a casa e non scendono, come si suol dire, in campo, è normale che ai posti di potere concorrano e si offrano solo coloro che, già partendo affamati da casa, quando arrivano al potere lo trattano come i bimbi trattano le torte della nonna: ne arraffano più che possono e tirano a dividerla con meno concorrenti possibile. Fuor di metafora, mi chiedo: ma è possibile che in Italia non ci sia più da decenni un cospicuo numero di cittadini, che, partendo “già mangiati da casa”, abbiano voglia di mettersi in gioco e di aspirare alla gestione della cosa pubblica, provando così a dare democraticamente il ricambio a questa feccia di classe politica (tranne tantissime e nobilissime eccezioni), che siamo pure tenuti ad omaggiare col titolo di “onorevoli”?

MG

 

I super manager fanno solo i propri interessi

A Colao non farei cuocere neanche un uovo, altro che piano di ripartenza! Non è forse abbastanza chiaro che questi “super Marchionni” sono la causa primaria del declino e fallimento delle loro stesse aziende? La loro politica è sempre la stessa: business, taglio dei lavoratori dipendenti e più stipendio per se stessi. Ciao produzione, ciao occupazione, ciao qualità, ciao ecologia. Avrei delle belle idee di rilancio ma è inutile.

Sandro Santarelli

 

Volontari “controllori”: non c’è nulla di male

Far rispettare la distanza fisica, controllare se si indossa una mascherina o meno, richiedono capacità particolari? Certo che è compito delle Forze dell’ordine far rispettare determinate regole, ma ove si verificasse la carenza di tale personale, cosa ci sarebbe di strano se dei volontari, bene coordinati, prestassero la loro opera al servizio della collettività?

Pasquale Mirante

 

Fontana minaccia causa La pagheremo noi

Ciao Marco, leggo in queste ore il tentativo intimidatorio di Fontana & C. per ricattare il nostro giornale. Non commento, basti tu e la tua splendida squadra per difendere giustizia e verità. Da parte mia ti dico di non preoccuparti della causa legale. Saremo in tanti, sono sicuro, a raccogliere fondi per pagarla. E resistere. E saranno i soldi meglio spesi della mia povera vita. Sempre grazie.

Daniele Mantovani

 

Quante peripezie per misurar la pressione

Mi chiedo: è giusto e opportuno che mi debba essere misurata la temperatura corporea in ogni attività commerciale in cui entro e, viceversa, mi debba arrendere a vedermi misurata la pressione arteriosa perché farmacie e parafarmacie si rifiutano? Una volta oppongono la scusante di non poter garantire la distanza, un’altra lamentano la difettosità dell’apparecchio… E quelle stesse farmacie poi mi rimandano al medico di famiglia – i cui ambulatori sono chiusi! – come se quel povero medico riuscisse ad assicurare la fatidica distanza di sicurezza. E intanto la “pressione” sale…

Alberto Volpe

Teatro di Roma Istituzione in crisi: ha ragione Cordelli, non Raimo

Tutta la gazzarra scoppiata intorno al Teatro di Roma mi porta a intervenire, cosa che non faccio mai, per ristabilire alcuni normali criteri di verità, ovviamente quelli che a me paiono tali. L’ingeneroso attacco a Franco Cordelli da parte di Christian Raimo è un avvitarsi in paradossi.

Cordelli viene accusato, per aver detto che il Teatro India assomiglia attualmente a un “centro sociale”, di auspicare un ritorno al teatro delle “crinoline”. Chiunque sappia qualcosa di teatro in Italia può giudicare come tale affermazione sia destituita di ogni fondamento. Se c’è stato un critico che ha svolto e continua a svolgere da tutta una vita militanza attiva, da più di quarant’anni, nel sostegno al teatro d’innovazione, quello è Cordelli. Anche combattendo via via contro tutti i potentati che si annidavano in quella che sulla carta, superficialmente, appariva come la stessa famiglia.

Sappiamo benissimo tutti, e tutti se ne preoccupano, della situazione in cui versa il teatro italiano in questo momento. Rispetto a questa situazione, e rispetto a un’istituzione cruciale come il Teatro di Roma, credo sia lecito e, di più, doveroso muovere delle critiche. Evidentemente Cordelli non pensa come Raimo, che saluta l’attuale gestione come foriera di grande innovazione. Ma ha il diritto di esprimersi o no? Se è stata usata la metafora del centro sociale, non è certo perché egli disprezzi i centri sociali, visto che i suoi articoli testimoniano il contrario. Ma una cosa è un centro sociale, tutt’altra un teatro.

Per esempio, sappiamo tutti cosa è successo con il Valle. Dall’iniziale grande entusiasmo (ricordo un lungo articolo che scrissi per Alfabeta2) si è arrivati al nulla o quasi nulla. Per amore di verità, va detto che, nel corso degli anni, tutti noi al Teatro Valle, in un lungo periodo funestato da spartizioni politiche di ogni sorta, vedemmo alcuni fra i migliori spettacoli della nostra esistenza. Da quanti anni, dopo molte traversie, il Valle è gestito dal Teatro di Roma?

È solo un esempio per mostrare come tale polmone teatrale sia qualcosa che riguarda tutti. Sono soldi delle nostre tasse, prima di essere cultura del teatro. Mi pare che l’occupazione del Valle si sia risolta, a conti fatti, in un contributo al generale depauperamento delle risorse della città. Questi mi paiono i problemi veri.

In questo momento Raimo difende l’istituzione, ed è più che legittimo. Ma, dal momento che tra poco l’Argentina avrà quattro direttori, le maschere del teatro si moltiplicheranno. Difendere le istituzioni è pericoloso, si entra a farne parte, a volte senza accorgersi che le crinoline indossano la maschera del centro sociale.

 

Brigitte, la moglie di Macron, è una mia ex (e non è così vecchia)

Mia zia e la sua vicina, benché in buoni rapporti diretti, sono nemiche sul piano geopolitico: dietro Fayez al Sarraj, il premier riconosciuto dall’ONU, c’è mia zia; dietro Khalifa Haftar, il malamente della Cirenaica, famelico di notorietà come tutti i principianti, c’è la vicina (cosa che non stupisce, se si considera che dieci anni fa sposò un paraplegico solo per poter usufruire dei parcheggi per disabili). Come previsto dalla parrucchiera di zia, il cui nonno era un galoppino di Federico Umberto D’Amato, le forze di Haftar si sono rivelate un branco di incapaci, e l’altro ieri, dopo essere state sconfitte in Tripolitania (Libia Ovest), si sono ritirate in Cirenaica (Libia Est), il morale a terra di chi sta pensando: “La prossima volta che mi invitano a un party del genere me ne sto a casa a fare le pesche sciroppate.”

Ciò significa che zia adesso ha il controllo di tutta la regione occidentale, tranne Sirte. “Tranne Sirte, dove ci sono le infrastrutture petrolifere ancora in mano alla vicina,” ha detto l’inviato in Medio Oriente della CNN. (L’inviato in Medio Oriente della CNN! Il mio vecchio lavoro!) Analisti e diplomatici non credevano che zia, inviando 3000 soldati siriani e uno stormo di droni da bombardamento, potesse cambiare così rapidamente le sorti della guerra, soprattutto perché la vicina poteva contare sull’appoggio di Russia, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Francia. “Adesso la battaglia si sposterà a Sirte, ma se tua zia inseguirà Haftar a est, rischia di allontanarsi troppo da Tripoli, la sua roccaforte, rendendo vulnerabili le rotte per i rifornimenti al fronte”, sostiene il mio pizzicagnolo, un vorace lettore di Tom Clancy.

Ieri, la zia e la vicina hanno accettato di iniziare nuovi colloqui di pace, organizzati dall’ONU; ma, almeno per ora, nessuna delle due sembra intenzionata a rinunciare alle proprie ambizioni. “I colloqui hanno poche possibilità di successo senza l’approvazione dei Paesi coinvolti nella guerra,” continua il mio pizzicagnolo, porgendomi il sacchetto con le melanzane, ignaro della loro destinazione d’uso (la mia ragazza se le infila davanti e di dietro mentre la lecco, e me ne infila una di dietro quando ricambia il favore con un pompino).

Da mesi zia si domanda perché Macron, che è un così bel ragazzo, appoggi Haftar. L’ho chiesto dunque a Brigitte, la moglie di Macron, che è una mia ex. (All’epoca facevo il cameriere in una trattoria di Anacapri. Era in vacanza da sola. Le dissi: “Ed ecco qua il caffè. Offre la casa. Posso offrirle qualcos’altro? Per esempio il mio cuore?” E lei: “Sì, grazie. Mettimelo nel sacchetto per il cane.” È proprio vero che fra le lenzuola le stronze danno più gusto. Che donna! Un secondo a letto con lei era come un anno con una folla inferocita. E no, non è vero che è così vecchia che s’è fatta un lifting alla figa.)

Secondo Brigitte, dicevo, Macron ha paura che la zia e la vicina si dividano la Libia, escludendolo. Se solo sapesse che, ogni volta che pensa a lui, zia si ritrova fra le gambe un secchio di colla! (risate)

Oh, non fate così. Mi spaventate. Nel frattempo, le cose in Libia stanno precipitando: sangue, stragi, vendette. Ah no, scusate, questi sono i Cinquestelle.

 

Le date, i soldi, il contratto: le giravolte dell’affaire camici

Tempi e cifre. La vicenda dei camici ordinati dalla Regione all’azienda della moglie del presidente Attilio Fontana si arricchisce di particolari sulla ricostruzione fatta da Andrea Dini, fratello di Roberta, consorte appunto del governatore, nonché amministratore della Dama spa, l’azienda che il 16 aprile riceve un ordine di fornitura da Aria, la centrale acquisti del Pirellone, per 513 mila euro. E che non tutto torni lo dimostra il fatto che la Procura di Milano da settimane ormai ha aperto un fascicolo conoscitivo senza indagati e senza reato.

Torniamo alla versione fornita da Andrea Dini al giornalista di Report. Davanti ai dubbi di un conflitto d’interessi per un’azienda molto vicina al presidente della Regione, l’amministratore della Dama Spa spiega che fin dall’inizio questi camici dovevano essere donati. Eppure per una incomprensione dei suoi collaboratori ad Aria è arrivata un’offerta commerciale. Che sarà poi trattata dal direttore generale Filippo Bongiovanni attraverso un affidamento diretto. Ora la posizione della Dama Spa si chiarisce in una un mail che Andrea Dini invia al dg di Aria. Il messaggio porta la data del 20 maggio. Si legge: “Egregio dottor Bongiovanni, come anticipato per le vie brevi, la presente per comunicarle che abbiamo deciso di trasformare il contratto di fornitura in donazione”. Il contratto porta la sigla: IA.2020.0019646. Due cose: la data. Dal 16 aprile al 20 maggio passa oltre un mese. In questo tempo la Dama non si è accorta del fraintendimento interno spiegato da Dini. Il verbo usato (“trasformare”) conferma che la pratica è partita da Dama come una offerta commerciale alla Regione, poi trasformata appunto in donazione. Nella mail Dini non illustra a Bongiovanni il fraintendimento dei suoi collaboratori di cui invece parla poi a Report. Sempre nella mail, il presidente del Cda di Dama scrive che “emetteremo nota di credito per la fattura n. 10865 del 30 aprile per un valore di 247.308 euro, nonché emetteremo fattura per donazione di euro 112.164 per quanto riguarda i camici consegnati a maggio”. Ora, calcolatrice alla mano, si arriva a 359.472 euro. Una bella cifra ma non uguale a quella scritta nell’ordine di fornitura firmato da Aria e cioè 513 mila euro. È vero anche che sui 513mila euro bisogna togliere il 22% di Iva, arrivando così a un cifra simile. Sempre Dini spiega: “Certi che apprezzerete la nostra decisione, vi informiamo che consideriamo conclusa la nostra fornitura”. Se donazione è stata sembra, nei numeri, inferiore alla cifra fissata nel contratto di Aria. Va detto che tutto questo denaro resterà sempre sulla carta. Aria nell’ordine del 16 aprile spiega che pagherà a 60 giorni. La retromarcia di Dama avviene, come abbiamo visto, molto prima. E dunque la Regione non pagherà. Detto questo, il rapporto iniziale, come spiegato anche dall’interno di Aria, è tra chi offre (Dama) e chi compra (Aria). La centrale acquisti della Regione, spiegano fonti interne, saprà della trasformazione in donazione il 20 maggio dopo la mail di Dini a Bongiovanni.

C’è poi un tema di legalità che, per quanto risulta al Fatto, non è stato seguito per espressa scelta emergenziale della Regione. Si tratta del “patto d’integrità in materia di appalti pubblici” reso operativo da una delibera di Giunta nel 2019 che prevede il rispetto di alcune regole per “prevenire il verificarsi di fenomeni corruttivi e a promuovere comportamenti eticamente adeguati”. Tra i vari paletti c’è la dichiarazione sul conflitto d’interessi. Un paletto (regolato dall’articolo 3 del Patto) che avrebbe certamente reso noto il fatto che Roberta Dini, moglie di Attilio Fontana, attraverso la Divadue srl è socia al 10% nella Dama Spa. Così però non è avvenuto perché, a causa dell’emergenza Covid, la Regione Lombardia ha scelto di non chiederne la sottoscrizione “per – ci viene spiegato – evitare lungaggini”. Questo è valso per la Dama e per decine di altre aziende risultate nella lista dei fornitori di Aria. Il che, almeno in tempi non emergenziali, potrebbe costituire reato.

“Quale giustizia? Cercherò la verità”

“Continuerò a cercare la verità per la morte di mia figlia Martina ma alla giustizia italiana non credo più”. Bruno Rossi, 80 anni, per tutta la vita ha lottato dalla parte degli ultimi: storico camallo (portuale genovese), è stato sindacalista della Cgil negli anni delle privatizzazioni delle banchine e oggi continua a scendere in piazza per bloccare l’esportazione di armi in Yemen e per difendere i diritti dei lavoratori. La sua ultima battaglia era stata quella di far riaprire l’inchiesta sulla morte di sua figlia ma, dopo la sentenza di ieri dei giudici di appello di Firenze, riesce a fatica a pronunciare il nome di Martina, in un misto di emozione e indignazione: “Mi hanno tolto tutto” dice.

I giudici dicono che non c’è colpevole per la morte di sua figlia.

Aspettiamo le motivazioni e la Procura generale farà ricorso ma secondo i giudici nessuno è responsabile. E allora chi le ha tolto i pantaloni? Perché ha graffiato uno dei due ragazzi che erano con lei? Non trovo proprio le parole. Quando sono andato a recuperare Martina in Spagna, nove anni fa, la polizia spagnola mi disse che sarebbe stata lei ad aggredire i ragazzi prima di buttarsi di sotto dalla finestra. E oggi (ieri, ndr) i giudici hanno confermato questa tesi. Un suicidio, insomma. Ma può un genitore accettare una cosa del genere? Come può essere credibile?

Però, per condannare, ci vogliono le prove.

Ho seguito dal primo giorno tutta l’indagine dei magistrati di Arezzo e poi il processo di primo grado: tutti avevano detto il contrario, l’opposto di quello che è stato deciso oggi. Poi c’è stata la prescrizione che sicuramente ha avuto un suo ruolo: Bonafede mi aveva detto che avrebbe mandato gli ispettori. Ecco, adesso li potrà mandare con un motivo in più. E comunque la condanna sarebbe stata di soli tre anni, la stessa pena di chi ruba le mele, ma almeno l’onore di Martina sarebbe stato salvo.

È possibile che sua figlia si sia suicidata? Hanno detto che aveva fumato hashish.

Non è così, mia figlia non aveva né bevuto né fumato come hanno detto le analisi fatte a Barcellona. Oltre al danno, abbiamo dovuto subire anche questa beffa. Non è possibile che mia figlia si sia suicidata: era una ragazza normale, felice, amava quello che studiava e non era certo una ragazza facile come molti hanno detto. Anzi, si era ribellata a quei due. Ma non avrebbe mai fatto del male a nessuno, nemmeno a sé stessa.

Crede ancora nella giustizia?

No, nella mia vita ho sempre lottato per difendere i lavoratori e i più deboli e poi la giustizia mi dà queste delusioni. Sono cresciuto con Umberto Terracini, padre costituente comunista, e lui mi aveva insegnato a credere nella legge, ma ieri mi è crollato il mondo addosso, mi hanno quasi ammazzato. Io e mia moglie andremo avanti solo per tenere alto il nome di Martina.

Martina volò dal balcone: “Non fu violenza, assolti”

All’alba del 3 agosto 2011 Martina Rossi non è morta per sfuggire a un tentativo di violenza sessuale da parte di due coetanei in un hotel di Palma di Maiorca. I giudici di appello di Firenze hanno ribaltato la sentenza di primo grado del Tribunale di Arezzo che aveva condannato i 29 enni di Arezzo, Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, a sei anni: i due sono stati assolti ieri pomeriggio perché “il fatto non sussiste”. Uno dei due reati per cui erano stati condannati nel dicembre 2018, quello di morte per conseguenza di un altro reato, era caduto in prescrizione nel novembre scorso e per questo la procuratrice generale di Firenze, Luciana Singlitico, non aveva potuto far altro che chiedere un dimezzamento della pena. L’accusa di tentata violenza sessuale di gruppo invece si prescriverà ad agosto 2021. Ma i giudici di appello hanno assolto gli imputati con formula piena per entrambe le accuse.

I due ragazzi si sono sempre dichiarati innocenti e i loro avvocati avevano chiesto l’assoluzione piena o la riapertura dell’istruttoria per difetti nelle indagini. Dalle motivazioni, che saranno depositate entro 45 giorni, si capiranno i motivi che hanno portato il collegio dei giudici di Firenze, presieduto da Angela Annese, ad assolvere nel merito i due ragazzi sconfessando i propri colleghi di Arezzo. Nel frattempo, resta la delusione del padre di Martina, l’ex sindacalista genovese Bruno Rossi, che in questi anni ha lottato per ottenere giustizia, facendo riaprire l’inchiesta alla Procura di Genova (poi è passata ad Arezzo) dopo l’archiviazione dei giudici spagnoli e portando il caso al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dopo la prescrizione del primo reato: “Mi sento come se un carro armato fosse passato sopra di me, ma Martina non si è buttata da sola”, dice al Fatto (intervista qui sotto). Soddisfazione invece da parte dell’avvocato di Vanneschi, Stefano Buricchi, che parla di “fine di un incubo durato nove anni” e di una vittoria “di Davide contro Golia: avevamo contro i giornali, le televisioni e anche il ministro Bonafede”.

Martina Rossi era morta il 3 agosto 2011 precipitando dal balcone della camera 609 dell’hotel Sant’Ana di Palma di Maiorca, dove era andata in vacanza con due amiche. Dopo una serata in discoteca, le tre erano tornate in albergo e alle prime luci del mattino era avvenuto il fattaccio. Gli investigatori spagnoli avevano subito archiviato la vicenda: suicidio. Ma la tenacia del padre di Martina aveva fatto riaprire le indagini in Italia. Secondo l’accusa, confermata dai giudici di primo grado, a provocare la morte della ragazza sarebbe stato il tentativo di una violenza sessuale da parte dei due ragazzi conosciuti sul posto.

Durante il processo sono stati riesumati i resti della 20enne, troppo deteriorati per provare la violenza o anche possibili lesioni da difesa, ma una delle prove che avevano convinto i giudici di Arezzo era il fatto che la giovane fosse stata ritrovata con i soli slip indosso. Martina, avevano scritto i giudici di primo grado nelle motivazioni della sentenza, “non aveva mostrato alcun interesse sessuale né per Albertoni né per Vanneschi” e i graffi sul collo di Albertoni “erano ben evidenti e visibili”. Da questo, i giudici di Arezzo erano arrivati alla conclusione che la ragazza avesse “reagito ad un tentativo di violenza nei suoi confronti”, prima di scappare dal balcone e cadere nel vuoto. Tesi negata dai giudici di appello.

I due coetanei invece hanno sempre fornito un’altra versione: nell’udienza del 17 febbraio scorso, Albertoni aveva rilasciato dichiarazioni spontanee dicendo che quella sera “dopo aver fumato una canna” Martina “era uscita di testa: non sapeva né dove si trovasse né cosa stesse facendo”. Durante il processo ci sono stati molti momenti di tensione tra gli avvocati e i genitori di Martina e i difensori avevano anche presentato un’istanza di nullità, poi respinta, per la decisione della Corte d’appello di concludere il processo entro l’anno per evitare la prescrizione anche del secondo reato. A margine della sentenza è arrivato il commento della Pg di Firenze, Luciana Singlitico: “Non era un processo facile – ha detto ai cronisti –, è nato tutto in Spagna e le indagini laggiù sono state fatte in maniera sommaria: tutto ha giocato contro”. A Bruno Rossi e alla madre Franca resta la strada della Cassazione ma la prescrizione incombe.