Pivetti, ipotesi riciclaggio da evasione fiscale: le Ferrari vendute alla società di Hong Kong

Nuovi guai per Irene Pivetti: è coinvolta insieme ad altre cinque persone in una inchiesta coordinata dal pm Giovanni Tarzia, che ha portato ieri la GdF a perquisire la sua abitazione a Milano e due società. Si ipotizza il riciclaggio di proventi di evasione fiscale non riferibili all’ex presidente della Camera ma a un altro imprenditore. Al centro delle indagini ci sono il gruppo Only Logistics Italia – presieduto dall’ex esponente leghista e già al centro del caso mascherine che l’ha vista coinvolta (fascicoli aperti a Savona, Siracusa, Roma e Imperia) – e una serie di operazioni commerciali tra Italia e Cina. Tra le persone coinvolte anche Leonardo Isolani, pilota ed ex campione di Gran Turismo. L’inchiesta verterebbe in particolare sul passaggio di tre Ferrari Gran Turismo vendute, assieme ad altri beni, da società del pilota (una indebitata col Fisco per diversi milioni) a una società di Hong Kong di Pivetti e poi rivendute da quest’ultima a una società cinese. Tra gli indagati anche la moglie del pilota, un notaio, un socio della società cinese riferibile alla Pivetti e un responsabile delle due società di Isolani.

Intesa-Ubi, primo no dell’Antitrust alla fusione

L’Antitrust mette il primo vero ostacolo agli appetiti di Intesa e Unipol su Ubi. “Sulla base degli elementi emersi nel corso dell’istruttoria”, il garante della concorrenza ritiene che l’operazione “non sia allo stato degli atti suscettibile di essere autorizzata”, si legge in una valutazione preliminare delle nozze che Il Fatto ha potuto consultare. L’Antitrust pensa che le nozze tra le due banche lombarde possano creare o rafforzare la “posizione dominante” di Intesa “in numerosi mercati” senza che l’accordo per la cessione di un ramo d’azienda di Ubi a Bper possa risolvere le criticità concorrenziali. Anche perché c’è una “sostanziale indeterminatezza” di cosa verrebbe venduto. Nel documento di quasi 60 pagine emergono tutti i dubbi degli operatori del settore sulle nozze. A partire da Unicredit, secondo cui l’operazione impedirebbe a Ubi – non “un soggetto in difficoltà, ma un operatore particolarmente dinamico” – di essere il perno di un terzo polo bancario capace di competere con la stessa Intesa e naturalmente con la stessa Unicredit. Per la banca di Piazza Gae Aulenti, le nozze avrebbero come effetto l’eliminazione di Ubi, esito che di per sé costituirebbe un fattore di rafforzamento del posizionamento di Intesa, nell’ambito del quale il ruolo attribuito a Bper per l’acquisizione degli sportelli in esubero di Ubi non sarebbe idoneo “in un’ottica rimediale”. E se a Unicredit e Ubi arriva anche il sostengo di Bnl, lo stesso non si può dire di Poste italiane che sposa in pieno le nozze “di sistema” disegnate da Mediobanca. Quanto ai diretti interessati, per Intesa il matrimonio limiterebbe “il rischio di collusione tacita e di effetti di coordinamento, tipici dei contesti in cui operano pochi soggetti con analogo posizionamento di mercato”. Che invece ci sarebbe in caso di nascita di un terzo polo. Ubi infine bolla la proposta come un mero tentativo di eliminare un concorrente. La parola tornerà alle parti il 18 giugno.

Dalle mazzette all’online: così le mafie s’ingrossano

Il dato è stato fornito dallo stesso governo maltese. Rispondendo a una domanda del parlamentare nazionalista Claudio Grech, lo scorso maggio il ministro degli Interni Byron Camilleri ha detto che dal 2015 a oggi solo 50 persone sono state indagate per riciclaggio dalla giustizia di Malta. In media fanno 10 persone all’anno. Non molto, per quello che i fatti indicano come uno dei centri europei preferiti dalla criminalità per ripulire il denaro frutto di corruzione, traffico di droga ed estorsioni. Una situazione talmente lampante da aver spinto anche il Fondo monetario internazionale a metterlo nero su bianco. Malta deve “continuare a porre rimedio alle carenze identificate nelle procedure anti riciclaggio”, ha scritto il 20 aprile, nel suo ultimo rapporto sul Paese, il comitato esecutivo del Fmi. Le carenze in questione sono quelle che negli ultimi anni hanno proiettato l’isola al centro di decine di scandali finanziari internazionali.

Primo fra tutti è quello che molti hanno collegato alla morte di Daphne Caruana Galizia, la giornalista fatta saltare in aria insieme alla sua auto il 16 ottobre del 2017. L’inchiesta della magistratura maltese sull’omicidio della reporter, che va avanti da tre anni, ipotizza che nell’attentato siano coinvolti due ex membri del governo laburista guidato da Joseph Muscat (nel frattempo dimessosi): il suo capo di gabinetto, Keith Schembri, e l’ex ministro Konrad Mizzi. Due politici di cui Caruana Galizia aveva scritto molto. Qualche mese prima di morire, la giornalista aveva pubblicato i dati di alcuni bonifici ricevuti da società panamensi riconducibili ai politici laburisti. Dopo l’omicidio diversi giornali internazionali hanno approfondito le notizie svelate da Daphne, arrivando ad accusare l’uomo d’affari Yorgen Fenech (ora indagato dalla magistratura) di aver pagato una tangente da 2 milioni di dollari ai due politici in cambio di una concessione per costruire una centrale elettrica.

Ma gli scandali di Malta non riguardano solo i suoi politici. La storia recente dell’isola è piena di vicende oscure, spesso legate a nomi italiani. Come quella degli imprenditori toscani Ermete Moretti e Massimo Bettinotti, che qualche anno fa hanno patteggiato quattro anni di carcere per un traffico internazionale di armi destinate a milizie irachene, congolesi e libiche. Affari gestiti tramite società maltesi, secondo la Procura di Perugia che si è occupata dell’inchiesta. Malta al centro della corruzione e del traffico d’armi, quindi, ma soprattutto del riciclaggio da parte della mafie italiane – camorra, ‘ndrangheta, Cosa nostra – tutte presenti nell’ex protettorato britannico. Come ha svelato tre anni fa l’inchiesta giornalistica internazionale MaltaFiles, a La Valletta gli studi di commercialisti e le autorità finanziarie non fanno tanti controlli sui clienti stranieri. È successo così che una società sull’isola sono riusciti ad aprirla anche i Calabrò di San Luca, famiglia specializzata nel trattare forniture di cocaina con i cartelli sudamericani. E pure Bruno Tucci, imprenditore sospettato dall’antimafia italiana di essere un prestanome usato dai Casalesi per riciclare il proprio tesoro.

La specialità di Malta, però, è sicuramente il gioco online: casinò, poker, scommesse sportive. Grazie a norme semplici e parecchi incentivi fiscali, La Valletta negli ultimi anni ha attirato sul proprio territorio centinaia di imprese del settore. Incluse alcune considerate veicoli attraverso cui la criminalità organizzata ha ripulito denaro. I casi sono parecchi, ma per capire qual è la responsabilità di Malta in tutto questo vale la pena di citare la vicenda di Mario Gennaro, l’uomo finito al centro dell’inchiesta Gambling della procura di Reggio Calabria. Dopo l’arresto, Gennaro ha raccontato ai magistrati di essere stato mandato a Malta dalle cosche più potenti di Reggio con l’obiettivo di investire denaro nel gruppo Betuniq, specializzato appunto in scommesse online. Al vertice della catena societaria del gruppo c’era una fiduciaria: titolare delle quote di quest’ultima era fino a poco tempo fa David Gonzi, avvocato e figlio dell’ex premier Lawrence Gonzi. Possibile che le autorità maltesi non si siano accorte di chi c’era dietro a quella fiduciaria?

Di certo da allora le cose non sembrano essere cambiate molto. Lo ha spiegato lo scorso 20 maggio la Commissione europea nel suo rapporto semestrale su Malta. La dipendenza del Paese dal settore del gioco online, da investimenti virtuali come le criptovalute e dai Golden Visa (passaporti rilasciati ai cittadini extracomunitari in cambio di investimenti nell’isola), fa sì che Malta, ha scritto la Commissione, “rimanga suscettibile ai rischi di riciclaggio, che devono ancora essere mitigati”.

Malta l’isola esentasse. Il paradiso fiscale resiste al Covid

Malta subirà meno delle altre nazioni dell’Ue l’impatto del Covid. Il Fondo monetario internazionale prevede infatti “solo” un calo del 2,8% del Pil maltese, quest’anno. Decisamente meglio dell’Italia (-9,1%), ma anche di nazioni molto meno colpite dalla pandemia come Portogallo (-8%) e Grecia (-10%). Il segreto sta anche – leggendo le carte di un’indagine della procura di Tempio Pausania, in Sardegna –, nero su bianco, in un meccanismo rodato da centinaia di aziende italiane che, attraverso società maltesi, a loro volta di proprietà di holding basate a Dubai o in qualche altra nazione, riescono a pagare solo il 5% di Ires.

Ufficialmente, Malta, non è un paradiso fiscale. Non lo è per l’Ocse, che detta la linea sul tema. Non lo è per il governo de La Valletta, che ricorda come l’aliquota societaria nell’isola sia del 35%, una delle più alte d’Europa (in Italia è del 24%). La Guardia di finanza di Olbia ha smascherato però una presunta evasione da 3 milioni di euro imperniata proprio sulle imposte societarie di Malta. Soldi che dalla Costa Smeralda sono passati per l’ex protettorato britannico, approdando infine su un conto corrente di Dubai. Schema comune a centinaia di aziende registrate nel più piccolo Paese dell’Ue, 420 mila abitanti, crocevia storico di traffici tra l’Africa e l’Europa, e protagonista di un boom economico che continua da un decennio grazie soprattutto a quello che ricade sotto il nome tecnico di “participation exemption”.

L’ultima inchiesta: dalla Sardegna agli yacht

Il 26 maggio scorso, i pm di Tempio Pausania e la Guardia di finanza di Olbia, dopo anni di complesse indagini bancarie, hanno sequestrato 3 milioni di euro di beni a un imprenditore italiano del settore nautico, Oberdan Chimenti, formalmente residente a Malta, e proprietario del gruppo Maori che produce yacht di lusso. I legali di Chimenti hanno annunciato ricorso al Tribunale del Riesame contro i sequestri – e, interpellati dal Fatto, non vogliono commentare per il loro assistito la vicenda – ma, al di là degli esiti giudiziari, le carte dell’inchiesta permettono di descrivere nel dettaglio cosa significhi avere un buco nero a meno di due ore di traghetto dalla Sicilia.

Oberdan Chimenti, livornese classe 1969, fino al 2016 realizzava e fatturava yacht a Olbia. Pezzi pregiati, con prezzi a sei o sette zeri, acquistati per lo più da milionari russi e mediorientali. Su queste vendite Chimenti era ovviamente tenuto a pagare le tasse in Italia, a partire dal 24% di Ires calcolato sull’utile. Poi uno studio di commercialisti (non ancora individuato dagli investigatori) ha studiato per lui un’architettura molto più conveniente, basata su due società estere e alcuni prestanome. Gli yacht hanno continuato a essere prodotti nella zona industriale di Olbia, ma l’imprenditore ha trasferito la sua residenza a La Valletta e ha ceduto le quote della società italiana. Nel frattempo è stata creata una nuova impresa a Malta e una a Dubai. Dando così vita a una nuova catena societaria: l’azienda italiana che realizza gli yacht è controllata da quella maltese, a sua volta detenuta dal veicolo di Dubai. Il vantaggio? Pagare il 5% di tasse, invece che il 24%. Sì, perché se è vero che l’Ires ufficiale a Malta è del 35%, il fisco isolano ha messo a punto un sistema che da anni attira aziende come mosche. Se la società è controllata da un azionista straniero, sei settimi delle imposte pagate vengono rimborsate all’azionista stesso. È così che si passa dal 35% ufficiale al 5% reale: l’Ires più bassa di tutta Europa.

Un sistema legale, a Malta, che ha però permesso a Chimenti di evadere almeno 3 milioni di euro in Italia, sostiene la Procura di Tempio Pausania. Gli yacht prodotti a Olbia venivano infatti realizzati su commissione della nuova società maltese. Era questa a incassare l’utile delle vendite. La maltese era però controllata da una società registrata a Dubai, straniera appunto, che così poteva beneficiare del generoso rimborso fiscale pari a sei settimi delle imposte pagate.

Una goccia nel mare dell’evasione

Tre milioni sono una goccia nel mare dell’evasione fiscale. Una goccia che gli investigatori italiani questa volta sono riusciti però a fotografare, grazie a intercettazioni telefoniche e ambientali. È così che sono state raccolte le prove per contestare l’estero-vestizione della società maltese e di quella di Dubai, per sostenere cioè che le due scatole registrate fuori dall’Italia altro non sono che schermi societari riconducibili sempre al solito Chimenti. Scatole necessarie per non pagare le imposte all’Agenzia delle Entrate. Sebbene fosse ufficialmente solo un dipendente della società maltese, si legge nelle carte, Chimenti gestiva in realtà tutto il gruppo: la società italiana che produceva gli yacht, quella maltese che li vendeva ai clienti finali, pure la holding di Dubai. Chimenti decideva gli orari di lavoro degli operai italiani, le assunzioni, i fornitori e i commercialisti. Si presentava ai clienti come fondatore della società maltese, firmava documenti per conto della holding di Dubai, trascorreva la stragrande maggioranza del tempo in Italia e non a Malta (suo Paese di residenza ufficiale).

Sulla carta, però, la struttura del Gruppo Maori non aveva nulla di illegale. E infatti è uguale a quella di centinaia di altre aziende tuttora attive: una società italiana controllata da una maltese, a sua volta di proprietà di una holding basata a Dubai o in qualche altra nazione. Uno schema che consente di pagare il 5% di Ires. E che fa di Malta ancora oggi un paradiso fiscale. Lo ha detto, a marzo dell’anno scorso, anche la commissione speciale del Parlamento europeo per i reati finanziari (Tax3), mettendo in evidenza un numero impressionante: 1.474%. È il rapporto tra gli investimenti esteri e il Pil di Malta.

Significa che l’economia dell’isola dipende fortemente da quello schema fiscale che ha attirato negli anni miliardi di euro da nazioni come l’Italia. Alcuni la considerano semplice concorrenza fiscale. Ogni Paese Ue – è la tesi – può scegliere che imposte applicare a cittadini e aziende. Il problema è che così facendo Malta sottrae miliardi di euro ad altre nazioni europee: 42,8 miliardi di gettito ogni anno finiscono nelle casse dei sei paradisi fiscali europei (Malta, Cipro, Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Ungheria) invece che in quelle degli altri 22 Stati membri, dice la commissione Tax3.

Per Malta il caso più celebre è quello rivelato nel 2017 da Mediapart: le multinazionali francesi Renault, PSA Peugeot Citroën e Auchan hanno registrato nell’isola le loro compagnie assicurative, riuscendo così a non pagare decine di milioni di euro di tasse in Francia. Tutto legale, anche se molto destabilizzante per le finanze pubbliche transalpine.

Il conto globale è contenuto in uno dei testi accademici più citati negli ultimi anni sul tema. In The Missing Profits of Nations, gli economisti Thomas Tørsløv, Ludvig Wier e Gabriel Zucman hanno calcolato, sulla base dei dati del 2017, che Malta ha attirato sul proprio territorio quasi 10 miliardi di euro di profitti realizzati in realtà in altre nazioni. Una cifra che permette a La Valletta di sostenere una buona fetta della propria spesa pubblica. Infatti, sebbene l’Ires effettiva sia molto bassa, l’8% delle entrate dello Stato maltese arriva dalle imposte societarie. Qual è la proporzione per l’Italia? Meno del 3%. Un problema più serio che mai, oggi che il Paese è a terra e c’è un disperato bisogno di risorse per farlo ripartire.

De Luca “spacca” de Magistris E il Pd punta pure al Comune

“Appoggiare De Luca? Non esiste proprio. Il mio movimento, DeMa, non farà liste e non entrerà in aggregazioni a sostegno dell’attuale presidente della Regione”. Luigi de Magistris non ci sta, le sirene del “facciamo come in Emilia” non lo attirano. “Cosa faremo come movimento, e cosa farò io lo decideremo presto. Ma con De Luca mai”. Insomma, con lo “stracandidato” Vincenzo non ci sarà il sindaco di Napoli. A sinistra monta il dibattito, e negli ambienti vicini al “governatore-sceriffo” sale qualche preoccupazione.

La coalizione che sostiene Vincenzo De Luca è sconfinata, nel senso letterale del termine: senza confini politici. Diciotto liste. Oltre a quella del Pd, il suo partito scendiletto, quelle organizzate da tre pezzi da novanta della Prima Repubblica: De Mita, Mastella, Pomicino. Con l’aggiunta di spregiudicate aperture a destra, e un occhio attento ai cognomi. Ultima conquista quella di Mario Ascierto, beneventano, produttore agricolo, nel 2010 candidato con la destra di Giorgia Meloni. È il fratello dell’oncologo del Pascale, Paolo Ascierto, notissimo per la sperimentazione del “Tocilizumab” durante l’emergenza Covid. Vincenzo è un politico “pigliatutto”.

I sondaggi oggi sono dalla sua parte (cinque punti avanti al candidato della destra), ma non bastano. Le elezioni si terranno a settembre e il vantaggio mediatico accumulato durante l’emergenza Covid è volatile e può svanire in poco tempo. La parola d’ordine è “coprirsi a sinistra”. Inglobare quel mondo che a febbraio si era spinto fino ad ipotizzare un’ampia coalizione dal Pd alla sinistra, passando per Dema, il movimento del sindaco de Magistris, ma con un altro candidato presidente. Il Covid ha radicalmente cambiato lo scenario. De Luca ha sfruttato in modo strategico l’emergenza proponendosi come un modello di efficienza nella gestione della crisi, si è rafforzato fino a diventare insostituibile.

Il varco a sinistra è stato aperto da Sandro Ruotolo, una vita da giornalista tv, da pochi mesi senatore. Vicinissimo a de Magistris, per la sua elezione in un collegio di Napoli è stata determinante la convergenza sul suo nome del Pd, di Sinistra italiana, di movimenti civici vari e di Dema. “Nella guida della Regione ci vuole discontinuità, sul programma e sulla gestione. De Luca non può fare tutto da solo. Si può seguire il metodo unitario che ha portato alla mia elezione. Si può fare come in Emilia. Se si creano le condizioni si va avanti, ma è tutto aperto, tutto può succedere. Certo non voglio che vinca la destra sovranista e antimeridionale”.

Ma l’idea di una lista “Campania coraggiosa” che sostenga De Luca non piace a sinistra. Contraria è “Potere al Popolo” che correrà da sola. Niet assoluto di Sinistra Italiana. Il segretario regionale, Tonino Scala, ha lanciato un appello per costruire una coalizione alternativa al “deluchismo”. “È un dovere tentare di riaccendere una speranza in una Regione che, presa dalla paura, si è stretta intorno all’uomo forte con i deboli e debole con i forti”. La verità è che a Napoli si sta giocando una partita su più tavoli. Oggi la Regione, subito dopo il Comune. De Magistris è al suo ultimo mandato e il Pd vuole riconquistare la guida della città persa dieci anni fa. Circolano già i nomi di possibili candidati, quelli dei ministri Gaetano Manfredi, già rettore dell’Università Federico II, e di Enzo Amendola. Ma anche in questo caso non tutto è scontato, de Magistris è pronto a giocarsi le sue carte con suoi candidati.

Liguria: Pd-M5S trattano a oltranza sul civico Sansa

L’accordo definitivo ancora non c’è. Dopo mesi di trattative, però, Ferruccio Sansa è vicino a essere il candidato unitario del centrosinistra e dei 5 Stelle per le regionali in Liguria. Ieri l’ennesimo vertice giallorosa alla Camera è iniziato verso le 18 e proseguito fino a notte. Presenti il vicesegretario dem – ligure – Andrea Orlando e il capo politico reggente del M5S Vito Crimi insieme alle rispettive delegazioni e ai rappresentanti delle altre liste della coalizione.

Forte del Sì della sinistra e dei Verdi, Orlando va dritto sul nome del giornalista del Fatto, considerato il “civico” ideale per rinnovare la classe dirigente locale e quello con più speranze di contendere la Regione al governatore Giovanni Toti. I 5 Stelle prima rifiutano, poi aprono. Alla fine Crimi prende tempo e riunisce i suoi a tarda sera per decidere il da farsi, tenendo conto che sull’alleanza coi dem i 5 Stelle liguri si sono già spaccati: a marzo gli attivisti votarono per il Sì su Rousseau, poco dopo la capogruppo e candidata presidente designata Alice Salvatore se ne è andata, creando una sua lista.

Il problema, sostengono fonti dem e 5 Stelle, è che a un Crimi “perplesso” si aggiungono le resistenze dell’ala vicina all’ex leader Luigi Di Maio, in grado di congelare un accordo che sabato – dopo un incontro tra le delegazioni – sembrava fatto anche per bocca degli stessi 5 Stelle. Difficile però per il M5S, a questo punto, trovare un modo per uscirne proponendo pure un’alternativa a Sansa. Anche perché il tempo stringe e Toti è già in campagna elettorale da mesi. Non a caso il governatore ieri si è messo a capo di un’altra battaglia con l’esecutivo, questa volta per anticipare la data delle elezioni regionali alla prima settimana di settembre, eventualità che toglierebbe altro tempo agli avversari.

Un passo indietro. Due giorni fa la Camera ha approvato un emendamento del forzista Francesco Paolo Sisto al dl Elezioni per rimandare a dopo il 15 settembre il voto per la scelta dei 7 nuovi presidenti di Regione. L’idea dei giallorosa è quella di un election day il 20 e 21 settembre per accorpare regionali, amministrative e referendum sul taglio dei parlamentari, situazione che permette alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese di rivendicare una riduzione dei costi per le consultazioni.

Ma le Regioni hanno altri interessi, così ieri Toti ha firmato una lettera insieme a Stefano Bonaccini in nome della Conferenza delle Regioni chiedendo di anticipare il voto al 6 settembre: “L’intenzione è di utilizzare la prima domenica utile di settembre, anche al fine di garantire il regolare avvio dell’anno scolastico e di limitare l’eventuale nuovi rischio epidemiologico”. Se il Viminale si fa forza del contenimento dei costi, i presidenti puntano sulla sicurezza: impossibile iniziare l’anno scolastico, votare e poi tornare in aula senza uno stop per le sanificazioni. Da vedere se le Regioni arriveranno allo strappo, visto che il potere di indire le elezioni resta a loro carico, ma le indicazioni del governo vanno in direzione opposta alle loro.

Lavoro e sociale. Lo Stato è piegato alle esigenze private (con troppi sussidi)

Dalle cinquantatré pagine del Piano Colao emerge un auspicio per il futuro governo politico della crisi. A differenza di un rapporto tecnico, assume radicalmente un punto di vista e tratteggia ogni intervento in base a questo, senza fornire un solo dato a supporto delle proprie proposte. È un “fate così che è meglio” assumendo che le politiche auspicate siano neutrali e sprigionino i propri effetti su tutti i cittadini, indipendentemente dal loro essere ricchi o poveri, sfruttati o sfruttatori.

In particolare, il punto di vista del Piano Colao è esplicito: lo Stato deve funzionare come meccanismo di assistenza a fondo perduto per il settore privato, elargendo sgravi e condoni, spostando la gestione da quel che resta del pubblico al privato. Un tratto che emerge lungo l’intero rapporto ma che si fa eclatante nel primo capitolo “imprese e lavoro”, dove per il lavoro viene suggerito di investire per dotare i lavoratori di quelle capacità che non hanno (soprattutto digitali) e di estendere i rinnovi dei contratti a termine, in deroga al decreto dignità. Ovviamente tutta la formazione così come l’istruzione stessa avranno come unico fine quello di servire al meglio le imprese, che magari continueranno ad assumere con tirocini, come i 384 mila siglati nel 2019.

Sulla questione salariale, dei regimi orari ormai fuori controllo, del dilagare del cottimo e del lavoro gratuito nessun cenno. Bisogna adattarsi alle esigenze di competitività, senza tuttavia spendere nessuna parola, né su quale regime competitivo affrontare, cioè quale mercato, né su quale sarà la domanda di lavoro, quali gli investimenti, quali i settori produttivi che dovranno trainare questa ripresa. Il silenzio a riguardo è una presa di posizione fideistica nelle capacità di impresa e del mercato, di restituirci il migliore dei mondi possibili. Del resto, ne abbiamo le prove, o no? A conti fatti, il piano risulta vecchio negli intenti e superato dai fatti, sociali ed economici che in questi decenni hanno già smentito il punto di vista della task force.

* Ricercatrice, autrice di “Basta salari da fame” (Laterza)

Concorrenza Concessioni, imprese e mercato: scarse le vere innovazioni

A leggere le 102 idee “per il rilancio del Paese” contenute nel “Piano Colao l’impressione che se ne trae è però quella di un déjà-vu. Un riemergere, sotto spoglie “tecniche”, di visioni politiche di lungo corso. Il documento è un lungo elenco di cose in più da realizzare mentre è del tutto assente la pars destruens che dovrebbe invece essere altrettanto essenziale. Esito forse inevitabile vista l’assenza di un qualsiasi vincolo dal lato delle risorse da investire. Si guarda, come sempre, ai benefici e ci si scorda dei costi.

Paradigmatica al riguardo la strategia relativa a “infrastrutture e ambiente” che sarebbero “il volano del rilancio”. Lettura passatista e priva di fondamento soprattutto per quanto riguarda le infrastrutture di trasporto che, come emerge in modo pressoché univoco dalla letteratura scientifica, non hanno alcun ruolo rilevante per la crescita di un Paese come l’Italia. Perché è vero che “la rete infrastrutturale dei trasporti accorcia le distanze per lo spostamento delle merci” ma si tratta di un fattore del tutto marginale per la competitività delle aziende. Far risparmiare mezz’ora a un camion non farà alcuna differenza e portare la merce su un treno rendendo più difficoltoso l’inoltro, ha l’effetto opposto a quello desiderato. Quello che rileva è il valore di quel prodotto: tanto più esso vale, tanto più irrilevante è il costo del trasporto. Del tutto assente è poi ogni riferimento alle inefficienze esistenti: nella produzione dei servizi e nella scelta degli investimenti. Si arriva perfino a sostenere che “per favorire l’efficienza e il livello di servizio” ferroviario occorre “incentivare il consolidamento del settore”. Rafforzare il monopolio delle Ferrovie dello Stato: una proposta coerente con il mancato riconoscimento del ruolo della concorrenza come incentivo alle imprese per crescere e la difesa delle concessioni, da quelle autostradali alle spiagge per le quali ritorna la parola magica: proroga. La conservazione prevale sull’innovazione.

*Docente di Trasporti all’Università di Torino, già componente della task force costi-benefici del Mit

Le 2 sorprese Lagarde e Georgieva (Fmi) Invitati Piano e Fuksas

A differenza del cacao, Vittorio Colao (nella foto in tondo) non è meravigliao. Il suo piano, fitto di analisi e proposte dettagliate, non scalda i cuori. Nemmeno di quelli che invece dovrebbero trovarci sostegno e rappresentanza, basti guardare allo spazio risicato che gli ha riservato Il Sole 24 Ore.

Il punto è che al suo piano manca l’idea-forza, quello spunto che possa scaldare gli animi e indicare una strada. Ora Conte, con il programma dei “suoi” Stati generali, compie uno scarto rispetto alla task-force di Colao pur senza giungere a una sconfessione. Il manager sarà presente agli Stati generali, ma ci saranno talmente tanti e variegati attori economici, sociali, intellettuali da modificare ampiamente il campo di gioco.

La mossa a sorpresa è la presenza di Christine Lagarde accanto a Ursula von der Leyen, oltre alla direttrice del Fmi, Kristalina Georgieva. Il governo Conte era nato nel segno di “Ursula” con il premier che si spese in prima persona per favorire il voto del M5S alla nuova presidente della Commissione europea. Ma, finora, l’aiuto più diretto e concreto all’Italia è giunto dalla Bce che, dopo l’iniziale gaffe di Lagarde – “Non siamo qui a chiudere lo spread” – ha iniettato miliardi di euro sui mercati obbligazionari per rastrellare titoli del debito pubblico. E dopo la decisione di aumentare il piano anti-pandemia, Pepp, di 600 miliardi oltre i primi 750, lo spread tra i Btp italiani e il Bund decennale tedesco si è effettivamente ridotto.

Lagarde è l’emblema della politica europea che serve a qualche cosa. Il suo ruolo è invocato anche dai sovranisti che spingono per la monetizzazione del debito. Conte riesce nell’impresa di farsi accompagnare così da due figure chiave dell’attuale snodo europeo e la loro presenza agli impegnativi Stati generali serve a sostenere le ragioni italiane. La presenza viene condita dall’invito rivolto anche alla Georgieva e al segretario dell’Ocse, l’Organizzazione di cooperazione sociale ed economica composta da 36 membri, Angel Gurrìa. Sia la Georgieva sia Gurrìa sono esponenti di un pensiero liberale e conservatore, ma Conte ha voluto pure Olivier Blanchard, già capo economista del Fmi negli anni più duri della crisi post-2008, esponente di un pensiero mainstream che però ha dovuto recitare in seguito più di un mea culpa. Invito ancora più interessante quello rivolto al premio Nobel, Esther Duflo che ha ricevuto il riconoscimento grazie agli studi sulla povertà globale.

Conte vuole parlare con tutti, le opposizioni, gli interlocutori internazionali, tutte le organizzazioni sociali. Per capirsi: non solo Confindustria e i tre sindacati principali. E dunque Confcommercio, Confapi ma anche, in linea con l’invito alla Duflo, l’Alleanza contro la povertà, con esponenti del Terzo settore e molte altre realtà di società civile.

Accanto a Carlo Bonomi, presidente di Confindustria e finora duro avversario del governo, ci saranno molti esponenti delle più importanti industrie nazionali, a partire da Eni, Enel o Poste, singoli imprenditori. Come a dire, l’impresa è più ampia dell’attuale Confindustria. Anche sulle personalità si gioca su un fronte più largo: sono invitati Renzo Piano, ma anche gli architetti Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas.

Conte punta così a spazzare via le polemiche degli ultimi e ai presunti screzi con i Dem: agli Stati generali, del resto, ci saranno anche Paolo Gentiloni e David Sassoli, esponenti del Pd in Europa. In tal modo il partito di Zingaretti avrà meno occasioni di smarcarsi.

Se ricostruzione deve essere, però, servirà uno scatto, un’idea-forza, un orizzonte. In questi giorni è uscito il libro di Thomas Piketty in cui l’economista fa una proposta shock: tassare i patrimoni per erogare una “dote” di 120 mila euro a tutti i giovani di 25 anni. Magari Piketty è troppo socialista, la sua proposta è irrealizzabile e non è di questo che si parla. Ma la sua idea è di quelle che esattamente esprimono un’idea-forza. Anche al governo ne servirà una.

Conte e Gualtieri fanno le “consultazioni”: tregua per gli Stati Generali

L’immagine dell’armistizio è la coppia. Per sminare quegli Stati generali dell’economia che avevano irritato il Pd e frastornato un pezzo del M5S, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte convoca uno per uno tutti i ministri per avere spunti e suggerimenti, nel segno di una collegialità ostentata: e al tavolo si presenta affiancato da Alessandro Rivera, il direttore generale del Tesoro. Tanto per ribadire che non vuole fare da solo. Così eccolo con il numero due del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri per un nuovo rito della Repubblica, quello di “ascoltare” i titolari dei dicasteri prima di dare il via a una sorta di kermesse che ha l’ambizione di disegnare l’Italia del futuro. Forse un’altra anche rispetto a quella immaginata dalla task force di Vittorio Colao. Ma il momento è delicato e dunque Palazzo Chigi e Mef devono procedere insieme. Nella prima parte del pomeriggio, in cui Conte inizia gli incontri ricevendo la ministra dell’Istruzione Azzolina e quello all’Università Manfredi, Gualtieri è impegnato con l’Ecofin. Tocca poi a Provenzano e Amendola. Gualtieri arriva in serata, appena si libera, a palazzo Chigi per sostituire Rivera.

Sul tavolo il premier e il ministro mettono una bozza che hanno scritto insieme. Si racconta di una certa insofferenza di Conte per la troppa centralità di Gualtieri. E lo stesso ministro (che pure ci tiene a rivendicare il suo ottimo rapporto con il premier) non ha gradito l’annuncio in solitaria degli Stati generali da parte di Conte, com’è noto. Ma devono lavorare assieme. Esiste già un gruppo di tecnici (Palazzo Chigi segue la parte strategica e di coordinamento, il Mef quella finanziaria) che poi dovrà valutare i progetti di riforma presentati dai ministeri per ottenere i soldi del Recovery Fund. In questo quadro, il Pd ha invocato “un cambio di passo”, non ben identificato: con il linguaggio di questi giorni al Nazareno, per “evitare errori”. Conte sa che c’è ancora “un po’ di maretta” nella maggioranza, per dirla come un grillino di governo. E anche per questo ieri da palazzo Chigi hanno smentito una frase attribuita al premier da alcuni quotidiani: “C’è un pezzo di Stato che rema contro le riforme e il governo”. Soprattutto, giurano, “non c’è alcun attrito con Gualtieri”. Un concetto che Conte ripete anche nei colloqui privati di queste ore: “Il problema non sono Gualtieri o Dario Franceschini”. E neppure il segretario dem, Nicola Zingaretti, “con cui ho un buon rapporto”.

Casomai, sospettano a palazzo Chigi, ad alimentare la maretta è qualche dem che scalpita perché vorrebbe riposizionarsi da ministro in un eventuale rimpasto, a cui Conte era e rimane nettamente contrario, più o meno come lo sono i Cinque Stelle. Ma ora il principale obiettivo del premier è ripartire. “Bisogna correre, cogliere questa occasione per ricostruire il Paese”. Per questo, ai ministri che ha incontrato e che incontrerà anche oggi, assieme ai capigruppo dei vari partiti, chiede idee e spunti. Vuole costruire un programma organico, partendo dal suo Recovery Plan, il piano in sette punti di riforme e investimenti. Vi aggiungerà, assicurano, parti del piano presentato da Colao. Ma tanto dovrebbe raccogliere anche negli Stati generali dell’economia, che inizieranno venerdì pomeriggio a Villa Pamphili, a Roma. E si partirà con una riunione con le opposizioni, per dare un segnale di buona volontà anche al Quirinale, che ha sempre predicato un clima da unità nazionale, o almeno una parvenza di dialogo. Non è escluso, dicono, che possa presentarsi anche Silvio Berlusconi.

Di certo sabato sarà il turno degli ospiti internazionali in videocollegamento: la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen, e la direttrice del Fmi, Kristalina Georgieva. Con loro, anche il presidente dell’Europarlamento, il dem David Sassoli. E c’è chi ipotizza la presenza della presidente della Bce Christine Lagarde. Ma l’obiettivo è avere anche “uno o due premi Nobel”, assieme a nomi noti come Renzo Piano e Stefano Boeri. Poi da lunedì inizierà la parte più di sostanza, con gli incontri con le parti sociali. Ma vertici, note e promesse non hanno ancora sopito il fastidio dei dem. Raccontano che ieri, a margine del Consiglio dei ministri, il capodelegazione Franceschini sia tornato a lamentarsi: “Non abbiamo ancora capito come saranno questi Stati generali”. Perché una distanza rimane. E si vede.