Il mitomane recidivo

E niente, l’Innominabile ha capito di essere l’Innominabile (furbo lui) e ha ripreso con le cause civili al Fatto. Ormai abbiamo perso il conto, forse siamo alla quindicesima, forse alla sedicesima (in sei mesi). Se voleva comunicarci che, oltreché di voti, ha bisogno di soldi, l’abbiamo capito. Solo ci domandiamo che senso abbia intasare i tribunali, così impegnati a giudicare i suoi cari per reati gravi e non di opinione, con liti temerarie che calpestano il diritto di critica e di satira (oltreché di cronaca). Liti che, se il Rignanese non avesse l’immunità e gli altri lo giudicassero col metro che pretende di applicare a noi, passerebbe in tribunale il resto dei suoi giorni. Nell’ultimo atto di citazione che ci ha fatto recapitare, chiede non so più che cifra perché l’ho definito “mitomane molesto”. In realtà gli facevo il favore di fornirgli un alibi, perché l’unica alternativa alla suddetta patologia (psico-politica, s’intende: non conosco la sua vita privata) sarebbe la malafede. Il bello è che, mentre nega di essere un mitomane e trascina in tribunale chi afferma che lo sia, non perde occasione per dimostrare di esserlo.

Leggete qui: “Tendenza a mentire e ad accettare come realtà, in modo più o meno volontario e cosciente, i prodotti della propria fantasia. Nel bambino normale, entro certi limiti, il fenomeno è frequente come alterazione della realtà dovuta soprattutto al prevalere dell’immaginazione, o all’inesperienza, o al desiderio di evitare un castigo. Nell’adulto, e talora anche nel bambino, ha invece significato patologico, come espressione di una personalità anomala, generalmente isterica, che, mediante la falsificazione della realtà e con racconti fantastici, cerca di attirare su di sé l’attenzione di quanti lo circondano allo scopo di soddisfare l’esagerata vanità e il bisogno di stima (pseudologia fantastica). Mentre alcuni di questi soggetti sanno perfettamente di abbandonare il terreno della realtà, altri al contrario non hanno piena consapevolezza delle proprie menzogne”. Pare il suo ritratto sputato, invece è la definizione di “mitomania” sul dizionario Treccani. Sarà uno spasso, dunque, vedere l’Innominabile che tenta di dimostrare al giudice di non essere così. Io, per parte mia, mi limiterò ad allegare alla mia memoria difensiva le interviste che denotano non solo la mitomania, ma anche un’altra patologia (sempre intesa in senso psico-politico): la “proiezione”, cioè il “processo difensivo per il quale il soggetto attribuisce ad altri sentimenti, desideri, aspetti propri che rifiuta di riconoscere in sé stesso”. Prendete la sua ultima comparsata (definirla intervista sarebbe eccessivo) chez Giletti. Si parlava del caso Bonafede-Di Matteo-Basentini.

E lui spiegava che il ministro scelse come direttore del Dap Francesco Basentini perché questi aveva indagato a Potenza su Tempa Rossa: “un’inchiesta fuffa”, fatta apposta per colpire il suo governo “con un enorme dispiegamento di forze, intercettazioni sulla vita privata delle persone”, di talché “la bravissima ministra Guidi fu costretta a dimettersi. Eppure l’indagine non portò a nulla”. Naturalmente l’indagine, tutt’altro che fuffa, portò a un processo tuttora in corso. E a indurre la bravissima ministra Guidi a dimettersi non furono né Basentini, né Bonafede. Fu l’Innominabile. Quando uscirono le telefonate fra la ministra dello Sviluppo e il suo compagno Gianluca Gemelli, lobbista petrolifero, che premeva per farle inserire un emendamento pro petrolieri e la trattava “come una sguattera del Guatemala”, l’allora premier le chiese di dimettersi. E se ne vantò al Tg2: “Non c’è niente di illecito, ma il ministro Guidi ha fatto un errore e ne va preso atto. In Italia adesso chi sbaglia va a casa”. Quale errore? Fu lui stesso a spiegarlo: “Quando l’emendamento è stato presentato, il ministro dello Sviluppo l’ha comunicato in anticipo al suo compagno, che si è scoperto poi essere interessato al business. Così facendo Federica Guidi ha compiuto un errore e giustamente ha deciso subito di dare le dimissioni, per evidenti ragioni di opportunità”. L’altra sera, invece, vaneggiava di “intercettazioni sulla vita privata” (come se gli emendamenti a una legge fossero equiparabili a un amplesso o a un bacetto) e attribuiva le dimissioni della Guidi a Basentini (che non disse una parola) e a Bonafede (che dall’opposizione chiese le dimissioni della ministra, ma fu anticipato dal premier più “giustizialista” di lui). E il cosiddetto intervistatore Giletti, che ha il pregio di non avere mai la più pallida idea di ciò di cui si parla, s’è ben guardato dallo smentirlo. Nessun’obiezione neppure quando l’Innominabile, in un attacco congiunto di mitomania e proiezione, ha accusato Bonafede di aver “chiesto le dimissioni non solo della Guidi, ma anche di Alfano e di altri miei ministri”. Ora, sapete chi fu il primo a invocare le dimissioni di Alfano? L’Innominabile, che 7 anni fa chiedeva la testa dei ministri di Letta prima di prenderne il posto. Il primo fu proprio Alfano, per il sequestro Shalabayeva: “Se Alfano sapeva, ha mentito e questo è un piccolo problema. Se non sapeva è anche peggio… Se si è sbagliato, qualcuno si assuma la responsabilità” (18.7.2013). Poi, appena andò al governo, lasciò Alfano al Viminale. E ora, grazie alla smemoratezza di chi dovrebbe contraddirlo, confonde Bonafede con se stesso. Mitomania o malafede? Scelga e ci faccia sapere.

Dj Bonnot, e il producer diventa artista

“Difficilmente un producer viene considerato un artista. Come diceva Carlo Rossi, che è stato uno dei produttori più importanti in Italia, lo capisci anche dal fatto che non hanno un manager”: Bonnot, al secolo Walter Buonanno, è uno di loro. Un dj producer, per l’appunto. Non siamo in America, dove chi plasma il suono di un brano o di un disco viene portato in palmo di mano e riconosciuto oltre il suo percorso, precedente o meno, da solista (Missy Elliot, Dr Dre, Pharrell Williams). Ma di produzioni all’attivo ne hanno, e spesso longeve. Bonnot ha deciso di racchiudere i suoi primi quindici anni di carriera “meticcia”, come ama chiamarla, in un album intitolato Hip Hop Dopest Joints, al quale è collegato anche un contest per rapper che potranno comporre un testo sulle basi strumentali del disco e saranno premiati con un singolo originale prodotto dall’etichetta.

“Nella selezione dei brani di questa raccolta ho scelto come parametro l’estetica dell’Hip Hop, come tributo a un genere a cui sono grato, quello grazie al quale la mia passione è diventata un lavoro”, racconta. Scoperto da Militant A a 21 anni, è entrato negli Assalti Frontali. In Italia ha firmato con Inoki, Colle Der Fomento, Dj Gruff, Caparezza, Awa Fall, mentre il ping pong con gli Stati Uniti ancora continua. È di casa con lo storico duo Dead prez, ha collaborato con Talib Kweli, Snoop Dogg, Gary Clark Jr. Scorrendo i nomi con cui ha lavorato, non sfugge un altro filo rosso, cioè l’impegno sociale e la conoscenza delle stesse istanze che in questi giorni, dopo la morte di George Floyd, stanno accendendo proteste e manifestazioni in tutto il mondo.

“Sono contento di avere gli strumenti per leggere quanto accade e vedo quanto le proteste cerchino una colonna sonora che le rappresenti – spiega Bonnot – perché servono pezzi che incarnino lo spirito di quello che accade, che creino un immaginario. Un nuovo immaginario, tanto musicale, quanto politico, è quello che ci è mancato negli ultimi anni, perché quando passi periodi tranquilli, o presunti tali, dimentichi il calore della musica impegnata. Le mobilitazioni hanno bisogno di organizzarsi, affinché non diventino energia dispersa”.

Lo Yin e lo Young: l’album mai uscito per il cuore spezzato

È il disco perduto e sempre agognato dai fan, l’equivalente dell’Album bianco dei Beatles o il Black album di Prince. Dodici canzoni in uscita il 19 giugno, scritte tra il 1974 e il 1975 subito dopo Harvest e poco prima di Comes A Time durante la grande onda creativa del chitarrista e compositore canadese.

I brani inediti di Homegrown sono ben sette, più altri cinque nella “veste” originale. Neil ha pubblicato un post a giustificazione del grande ritardo: “Vi chiedo scusa. Questo album sarebbe dovuto essere nelle vostre mani un paio di anni dopo Harvest. È la faccia triste di una storia d’amore. Con il cuore spezzato, non riuscivo proprio ad ascoltarlo, volevo andare oltre. Così l’ho tenuto per me, nascosto in un archivio su uno scaffale, nel retro della mia mente. E invece avrei dovuto condividerlo. È davvero bellissimo ed è per questo che l’avevo registrato. A volte la vita fa male, sapete cosa intendo dire”.

È stato restaurato da John Hanlon e suonato da Ben Keit, Tim Drummond e Stan Szelest con il contributo di Levon Helm e Katl T. Himmel. Sul test pressing in vinile – la prima copia stampata – vi è una nota dell’etichetta Reprise con la scritta “questo album è incredibile” e una frase di Neil piena di enfasi: “È la prima volta che ricevo un commento come questo”. Le canzoni rivelano l’allora situazione sentimentale dell’artista, la relazione fallita con l’attrice Carrie Snodgress. Abbandonata l’idea di pubblicarlo, Young sostituì Homegrown con l’album Tonight’s The Night, registrato nel 1973.

Try inizia come una scarna ballata d’antan per poi diventare armonico e convincente. Mexico è la sorpresa più intrigante: breve e struggente, si sorregge solamente sul pianoforte classico, è la resa emotiva di Young sull’abisso di una relazione implosa nel dolore sordo. “I sentimenti sono andati… perché è così difficile rimanere in linea con il tuo amore? Mi prenderò il mio tempo…”. La title-track risente benevolmente delle sessioni di registrazioni con i sodali Crosby Still e Nash, un rock tagliente da far invidia agli Stones. We Don’t Smoke It è uno dei due blues (l’altro è Vacancy) sensuali e dannati in puro stile Bob Dylan.

Proprio all’amico Bob Neil dedicò due tracce: Bandit (“Sei invisibile e portatore di molti segreti”) e Flags Of Freedom per la sua grande affinità compositiva. E Dylan ricambiò citandolo apertamente in Highlands (“Ascolto Neil devo alzare il volume!”). White Line, secondo l’autobiografia Shakey, “fu registrata con la band di Robbie Robertson in Inghilterra pochi giorni prima dello show dei C. S. N. & Y.” a Wembley”: “Sono venuto da te quando avevo bisogno di riposo, hai preso il mio amore e l’hai messo alla prova, sto rotolando sulla strada e la luce del giorno si spezzerà”. Quarantasei anni dopo la ferita è rimarginata, le canzoni son tornate a fiorire.

Dieci piccoli italiani. I papabili a Venezia n.77

Non si sa molto, della 77ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Eccetto che si farà: organizzata dalla Biennale presieduta da Roberto Cicutto, diretta da Alberto Barbera, dal 2 al 12 settembre prossimi. Causa pandemia, le sorelle Arte e Architettura sono slittate, il Cinema no, ma alla decisione si è arrivati in ordine sparso.

Cicutto s’è limitato a fare cattivo viso – a ragione – al cattivo gioco di Cannes; Barbera avrebbe dovuto battere un colpo entro fine maggio; per entrambi, ha parlato il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, che ha confermato le date e auto-certificato lo sconfinamento editoriale: “Probabilmente non ci saranno tutte le produzioni che siamo abituati a vedere, perché si sono fermate le lavorazioni e le anteprime dei film, ma tutto si farà come previsto”. Zaia siede nel Cda della Biennale, però festival cinematografici e convention politiche sono cose diverse, almeno, dovrebbero. Dall’ibridazione fisico/virtuale alle procedure di accreditamento, dai protocolli di sicurezza alle modalità di fruizione, dagli ospiti alla ricettività, non è dato sapere: vince lo zaiano ottimismo della volontà, per ora.

Leoni e Oscar non mentono, la caratura internazionale della Mostra sotto il lungo governo Barbera è acclarata, nondimeno, con questi chiari di luna uno spettro si aggira per il Lido: lo spettro del Controcampo Italiano, la sventurata sezione ante-sovranista – nei fatti un patrio refugium peccatorum – istituita dall’allora direttore Marco Müller nel triennio 2009/2011 e cassata dallo stesso Barbera nel 2012. Non c’è Covid-19 che tenga o pretenda, il recinto identitario al posto della competizione allargata genererebbe mostri, eppure, i tricolori pronti a mettersi in Mostra non sono affatto male. Sulla carta. Ne abbiamo scelti 10.

Freaks out di Gabriele Mainetti. L’opera seconda è la più difficile, e dopo l’acclamato Lo chiamavano Jeeg Robot Mainetti può solo sbagliare, e forse lo sa: lavorazione-fiume, post-produzione pure, l’ambizione mette insieme circo e Seconda guerra mondiale. Protagonista, Claudio Santamaria, e sceneggiatore, Nicola Guaglianone, sono quelli di Jeeg.

Diabolik dei Manetti Bros. I fratelli Marco e Antonio apparecchiano l’adattamento: Luca Marinelli è l’eponimo ladro, Miriam Leone Eva Kant, Valerio Mastandrea Ginko, L’ispettore Coliandro incontra la creatura di Angela Giussani?

Il giorno e la notte di Daniele Vicari. “Cosa accade alle coppie se costrette dentro le pareti domestiche, senza possibilità di fuga?”. Interpreti Milena Mancini, Vinicio Marchioni e Isabella Ragonese, uno smart film che è caso più unico che raro nel cinema (post-)pandemico globale: ce la farà per il Lido?

Le sorelle Macaluso di Emma Dante. Dal suo spettacolo omonimo, Dante inquadra la vita di cinque sorelle palermitane, Maria, Pinuccia, Lia, Katia, Antonella. Vivono all’ultimo piano, ed è più probabile in Mostra vedremo questo dei Tre piani di Nanni Moretti, che adocchia Cannes 2021.

Miss Marx di Susanna Nicchiarelli. La figlia più piccola di Karl Marx, Eleanor: libera, colta e, sulla mediana tra femminismo e socialismo, precoce, la interpreta Romola Garai. Dopo Nico, 1988, Nicchiarelli cerca la consacrazione.

Occhi blu di Michela Cescon. Esordio alla regia per un’attrice intelligente e determinata, Cescon, che filma Valeria Golino in una Roma violenta: western per necessità, polar di virtù, genere con sentimento.

Lacci di Daniele Luchetti. Dall’omonimo libro di Domenico Starnone, Luchetti dirige storie da un (ex) matrimonio con Alba Rohrwacher, Luigi Lo Cascio, Laura Morante, Giovanna Mezzogiorno. Lo davano a Cannes.

Without Remorse di Stefano Sollima. Da Tom Clancy, scrive Taylor Sheridan (Soldado), interpreta Michael B. Jordan (Creed), gira Sollima, il nostro meglio export di genere.

Born to Be Murdered di Ferdinando Cito Filomarino. Opera seconda per il regista di Antonia, Luca Guadagnino produce, John David Washington e Alicia Vikander recitano: il bello del thriller, confidiamo.

We Are Who We Are di Luca Guadagnino. Ormai è tradizione, Venezia propone antipasti, un paio di episodi, delle serie più attese, ci fosse quella di Guadagnino sarebbe d’uopo: titolo tautologico, produzione The Apartment Wildside per Sky e Hbo, Chloë Sevigny e Alice Braga nel cast, le avventure sentimentali di due figli di soldati Usa di stanza in Italia.

Il Black Power in divisa rompe il muro dell’omertà

C’è stata un’America in cui i poliziotti erano tutti irlandesi. Poi, ce n’è stata una in cui i poliziotti erano spesso italiani. Adesso, fare il poliziotto è un mestiere da neri, o da ispanici: più da neri che da ispanici. C’è una ragione, per questa staffetta razziale: è mestiere pericoloso, non certo pagato bene. Non lo fanno i ricchi, o quelli che studiano nelle Ivy League; lo fanno quelli che sanno che vivere, anzi sopravvivere, è fatica e che, magari, cercano un riscatto sociale. E i neri, da poliziotti, hanno fatto carriera: oggi nessuno, neppure alla stazione ferroviaria di Sparta, Mississippi, si stupirebbe di incontrare un nero elegantemente vestito che fa l’ispettore a Filadelfia, come nelle prime scene de La calda notte dell’ispettore Tibbs. Ma anche quando sono ormai capi della polizia – e ve ne sono molti –, si portano spesso dentro la frustrazione di non sapere cambiare la mentalità razzista dei loro agenti bianchi. Medaria Arradondo, 55 anni, una famiglia che vive nel Minnesota da cinque generazioni è il capo della polizia di Minneapolis, il primo afro-americano. Ha subito licenziato i quattro agenti coinvolti nell’arresto e nella morte di Floyd, ha auspicato la loro incriminazione – che c’è poi stata – s’è recato sul luogo dell’omicidio “per rendere omaggio” alla vittima e s’è tolto il cappello in segno di rispetto di fronte al fratello di George, Philonise. “Il silenzio e l’inazione sono complicità”, ha detto Arradondo intervistato dalla Cnn.

Ma ciò non ha salvato né lui né il suo dipartimento. Il consiglio comunale di Minneapolis ha deciso d’avviare un processo per tagliare i fondi alle forze dell’ordine: “L’obiettivo – è stato stabilito – è di riformarlo e di costruire con tutta la nostra comunità un modello di sicurezza pubblica nuovo, che davvero garantisca la sicurezza di tutti”. Il Washington Post ha dedicato un ampio servizio alla rabbia e allo scoramento di tutti quei capi della polizia neri che cercano di cambiare dal di dentro i loro dipartimenti, spesso senza riuscirci, e che devono , nelle attuali circostanze, misurarsi con la rabbia della loro gente. “Negli ultimi sei anni – scrivono Arelis H. Hernandez e Scott Wilson –, mentre il movimento Black Lives Matter s’affermava a livello nazionale contro la brutalità della polizia nei confronti delle persone di colore, il compito di guidare un dipartimento di polizia per un numero di funzionari è divenuto molto più complesso, politicamente sensibile e personalmente lacerante”. Eppure, “per molti di loro, divenire poliziotti significava continuare l’opera di affermazione dei diritti civili dei loro genitori”. Un esempio: Ronnel A. Higgins, capo della polizia dell’Università di Yale, a New Haven, Connecticut, era figlio di un poliziotto, uno dei pochi di colore in una città prevalentemente bianca. Il che non gli evitò di vedere il fratello brutalizzato da colleghi di suo padre, fuori da una discoteca negli anni Novanta: il padre che denunciò l’abuso fu marginalizzato e spinto ad andare in pensione prima del previsto. “E ora mi può capitare di giustificare il comportamento della polizia, quando parlo con mio fratello, che ha ancora gli incubi della notte in cui fu picchiato”. I fatti di Minneapolis, e prima, dal 2014, quelli di Ferguson, Missouri, e molti altri, hanno messo capi della polizia e agenti neri in una situazione difficile: rompere il fronte dell’omertà – il Blue Wall of Silence – condannare l’operato dei loro colleghi e reprimere il dissenso. La svolta ora è che capi e agenti neri hanno spesso scelto di fraternizzare con i manifestanti: inginocchiarsi con loro, rendere omaggio alla memoria della vittima, disinnescare la carica di violenza delle proteste.

Dopo le prime notti difficili, paiono esserci parzialmente riusciti. Carmen Best, una donna di colore che gestisce il dipartimento di polizia di Seattle, oltre 1.400 agenti, dice: “Per quanti progressi abbiamo fatto, ci sono ancora disuguaglianze nel modo in cui ci rivolgiamo ai non bianchi e ai neri in particolare”. Daniel Hahn, capo della polizia di Sacramento, sostiene: “Il problema fondamentale è lo stesso da quando questo Paese esiste: l’integrazione, la comprensione, la capacità di fare partnership fra le diverse componenti della nostra comunità”. C’è un problema di addestramento, ma pure di educazione. Robert C, White, un ex comandante della polizia di Denver nel Colorado, spiega: “Ci addestriamo a seguire prassi e procedure, ma non ci abituiamo a pensare che il solo fatto che siano legali non vuol dire che siano necessarie”. Quello che può servire per ridurre alla ragione un energumeno violento non serve per una persona inerme: a Derek Chauvin, non l’avevano insegnato; o forse sì, ma lui non l’aveva imparato.

I due cazzari e donna Giorgia tra contagi, ponti e Pap Test

Negli ultimi mesi Salvini, Meloni e Renzi hanno partecipato a un’avvincente gara a chi la sparasse più grossa. Analizziamo ora per sommi capi il loro talento nel trasformarsi talora politicamente, e con rispetto parlando, in mitologici trimoni a vento.

 

Il Cazzaro Verde

– Propone di aprire le chiese e fare andare a Messa gli italiani quando la fase 1 è in pieno atto. E i virologi lo inseguono armati di badile.

– Prima parla del “porto di Madrid”, poi posta una foto (ma lui parla di manipolazione) in cui confonde il Vesuvio con l’Etna. Quindi invade la Polonia. Marciando però su Bengasi.

– Allude a un mitologico “foglio” attraverso il quale in Svizzera, se lo compili, ti danno sull’unghia centinaia di migliaia di euro. Ha ragione: quel “foglio” esiste. Non solo: ti regalano anche una stecca di Lindt, tre Rolex e due etti di Emmenthal. Tagliato a mano.

– Riparla di condoni fiscali e straparla di “bot di guerra”.

– Dice in piena fase 1 a El Paìs che il governo Conte è meno che impresentabile, ribadendo quel suo altissimo senso per le istituzioni.

– Parlando da solo, cioè con Porro, dice che l’Italia dovrebbe prendere esempio da Fontana e Gallera. E il bello è che è serio.

– Ripete che la Regione Lombardia non poteva fare la zona rossa nella bassa Val Seriana, dimenticandosi la legge del 1978 sull’Istituzione del Sistema Sanitario Nazionale che lo rende possibile eccome (come dimostrano tutte quelle regioni, per esempio Emilia Romagna e Campania, che infatti le hanno fatte).

– Si mette a fare selfie, stringere mani e prendere in mano smartphone altrui, ovviamente con mascherina abbassata, durante la scellerata adunanza del 2 giugno a Roma.

– Fa la solita cagnara sui migranti, prendendo a pretesto la proposta Bellanova.

– Attacca Bonafede in merito ai criminali (momentaneamente e colpevolmente) liberati sotto la fase 1, quando il ministro della Giustizia non c’entra una mazza.

– Pur di attaccare il governo, finge di difendere Nino Di Matteo. Un magistrato che, fosse stato per larga parte del centrodestra, a quest’ora non farebbe il magistrato.

– Dà lezioni a Conte sulla “sburocratizzazione”, dimenticandosi che la Lega è stata al governo undici anni senza fare in merito nulla, a parte il sobrio Calderoli che – quando era ministro delle Semplificazioni – diede fuoco col lanciafiamme a due o tre fogli comprati il minuto prima in una cartoleria di Calolziocorte.

– Attacca a prescindere il presidente del Consiglio, dimostrando di non avere ancora metabolizzato le esilaranti tortoiate prese da Conte in Parlamento l’estate scorsa.

– Cambia idea su tutto, nella speranza recondita di avere ragione – ogni tanto – anche solo per la nota teoria del caos. Eccetera.

 

Donna Giorgia

– Afferma che il Pap Test serve per prevenire il cancro al seno. Poi, se non altro, si scusa: era solo una gaffe. (Nel frattempo, La Russa affronta una gastroscopia per curarsi una carie).

– Rivela che i regolarizzati di oggi (quelli della Bellanova) chiederanno il Rdc, non sapendo – come ricorda Leonardo Cecchi – che per averlo bisogna essere residenti da dieci anni in Italia.

– Sostiene che i decreti-legge sono “fonti giuridiche secondarie”, quando in realtà sono “primarie”.

– Parla di “derrate alimentari”, immagine già desueta ai tempi del Foscolo.

– Suggerisce che chiunque abbia bisogno di soldi debba riceverli seduta stante tramite un semplice “click”. E se poi quel bisognoso si rivelerà un truffatore, pazienza: lo si appurerà dopo, perché “ora non c’è tempo da perdere”. Tanto i soldi crescono sugli alberi.

– Grida al complotto affermando che il governo sta “sospendendo la Costituzione”, venendo demolita dal Subcomandante Zagrebelsky.

– Accusa di deriva dittatoriale Conte, quando lei adora Orbán e in Europa è alleata con quelli che, se potessero, i soldi del Recovery Fund non ce li darebbero mai.

– Organizza un monumentale assembramento il 2 giugno con Salvini e Tajani, e il giorno dopo non solo non chiede scusa, ma se la prende con la Digos che ipotizza di multarli. Evidentemente, dopo una baracconata simile, pensava pure di ricevere un premio.

– Definisce se stessa e Salvini “sgraditi al regime”, che sarebbe stato quasi come se Mussolini si fosse definito “vessato oltremodo da Matteotti”.

– Sostiene (come Salvini) che il governo ha “firmato” il Mes, dimenticandosi che è stato firmato da Monti dopo lo sdoganamento del governo Berlusconi IV (appoggiato da Salvini e in cui Meloni stessa era ministro).

– In tivù definisce “criminale” Conte, salvo poi correggersi parzialmente (“atteggiamento criminale”).

– Suggerisce, dopo il caso Silvia Romano, di andare a stanare i terroristi islamici “buca per buca”, lasciando intendere di essere rimasta ai tempi dell’Abissinia. Perlomeno col cuore. Eccetera.

 

Il cazzaro rosè

– In piena fase 1, propone di riaprire le scuole a maggio e prim’ancora le fabbriche. La sparata, rilasciata all’Avvenire, è così enorme che nemmeno Burioni riesce a ridimensionarla.

– Prima parla di governissimo, poi dice che non è vero, poi sì, poi ni, poi no. Quindi, come sempre, si rifugia nell’ennesimo penultimatum.

– Crolla nei consensi, ma continua a tirarsela neanche fosse Churchill.

– Attacca la magistratura straparlando di Tangentopoli, giusto per omaggiare una volta di più il suo padre putativo Berlusconi.

– Sempre per omaggiare Berlusconi, riparla del Ponte sullo Stretto. E ovviamente Salvini, che è l’altra faccia della sua medaglia, gli dà ragione.

– Arriva a sostenere, al Senato, che se i morti di Bergamo e Brescia potessero parlare ci direbbero di riaprire.

– In un intervento mitologico alla Cnn, consiglia al mondo di non ripetere gli stessi errori commessi dall’Italia. Quell’Italia in cui (purtroppo) lui è al governo.

– Col suo mirabile inglese-Shish, dichiara solennemente (testuale) che “So Sciaina wos the forst cauntri was the solve problem and president si gin pink wok block with the chainiiiiis uei”. A quel punto l’intervistatore va in analisi. E per la cronaca non è ancora uscito. Eccetera.

“Sabotavo governi, ora faccio la guerra per i tavolini fuori”

“Lo spaghetto ai ricci di mare lo facciamo secondo la ricetta di Procida. A crudo. Mettiamo la polpa e l’acqua del riccio in una terrina con una fogliolina di menta. Nessuna mantecatura: il riccio non vale una padella”. Valter Lavitola da due anni si occupa di questo: linguine, spigole, frutti di mare. Riparato dagli occhi del mondo, un bistrò di due stanze e una dozzina di coperti a Monteverde, quartiere borghese di Roma, distante dal centro e dai palazzi della politica.

Per oltre 20 anni è stato a fianco del potere vero: prima Bettino Craxi, poi Silvio Berlusconi. È lui che ha scoperto per B. il documento sulla casa di Montecarlo che ha distrutto la carriera di Gianfranco Fini; è lui che ha consegnato i soldi di B. a Sergio De Gregorio nell’operazione che ha fatto cadere il governo Prodi; è lui che pagava per conto di B. Gianpi Tarantini, l’uomo che si occupava degli svaghi privati dell’ex premier (traduzione: le prostitute).

Ora Lavitola spadella, occasionalmente, e il resto del tempo lo passa in sala. Non gli manca il senso dell’ironia: “Prima facevo cadere i governi, facevo la guerra a Prodi e Fini. Adesso faccio la guerra a queste due aiuole qui davanti”, e indica il marciapiede fuori dal locale. “Non mi fanno mettere i tavolini all’esterno. Appena ci ho provato sono arrivati i vigili”.

Ha avuto una vita pazzesca, tutta in mare aperto. Imprenditore ittico con entrature in America latina, poi nuotatore spericolato, sotto il pelo dell’acqua, nelle correnti più scure della politica italiana. Istintivamente simpatico, affabulatore, un po’ mitomane, con frasi da caratterista di Sorrentino: “Solo di due cose ho paura, di Dio e di Valter”. Non si capisce dove inizia la leggenda e dove finisce la realtà. “Cos’ero io per Berlusconi? Giuro che non lo so. Ma ci sono solo due tipi di persone: chi è affidabile e chi è inaffidabile. Io ero affidabile”.

Affidabilmente si occupava di affari pubblici e privati: “La famosa festa in Brasile dopo gli accordi con Lula? L’ho organizzata io. A San Paolo avevo contatti. Portai un giro di fiche spaziali. Ma Berlusconi non fece niente, era con la ‘dama bianca’” (Federica Gagliardi, poi arrestata per traffico di cocaina). Le abitudini del premier erano notorie: “Aveva una rubrica fissa di 23 putt…, le chiamava ‘fidanzate’. Capisce cosa significa per la sicurezza di un uomo così potente? Quando andavano da lui, impediva pure che venissero perquisite”.

Lavitola ha un talento da narratore. La casa di Montecarlo? “Per lo scoop mi aiutò un amico dell’Mi5, i servizi inglesi. Berlusconi mi diede 500mila euro ma non bastarono, ne aggiunsi altri di tasca mia. Non pensavo che avrebbero squagliato Fini così”.

La compravendita di De Gregorio? “I 3 milioni che diedi a Sergio servivano per liquidarlo dall’Avanti! (il giornale socialista riesumato da Lavitola, ndr), dove lui e la moglie avevano uno stipendio da 5mila euro. Per far cadere Prodi invece gli promisero la presidenza della commissione Difesa e la rielezione al Senato”. I soldi di Tarantini? “Quelli li portavo io, ma con il giro delle prostitute non c’entravo niente. Ho conosciuto la moglie di Tarantini nel 2010, è per l’amicizia con lei che davo una mano alla famiglia”.

Dopo la ruota del potere, il carcere: tentata estorsione, ovviamente ai danni di B. “Ridicolo. Con lui c’era un sistema di mutua assistenza consolidato. Quando uno doveva un favore all’altro, non c’era nemmeno bisogno di chiedere. Pensate che dovessi minacciarlo?”. Eppure… “Quando sono tornato dalla latitanza tutti pensavano che l’avrei rovinato. Avrei potuto raccontare tutto. E invece mi sono fatto 4 anni interi, nemmeno un giorno di pena sospesa. In una cella con 11 persone, c’era pure uno che aveva ucciso il padre con la balestra. Ho fatto la galera per Berlusconi”.

Questo ristorante è la sua catarsi: “Gli dedico 12 ore al giorno. A volte vado di persona a fare le aste del pesce all’alba, a Fiumicino o Terracina”. L’adrenalina di prima, dice, non gli manca: “Sono andato a tremila per tanti anni, non potevo continuare. Mi piacerebbe svernare ai Caraibi, ma non posso. Per fortuna c’è il ristorante. Guardate Sergio che fine ha fatto”. Ancora De Gregorio, amico fraterno e padrino di cresima, arrestato la settimana scorsa: “Hanno scritto che andava a fare le estorsioni ai bar. Non ci credo. Poi tutto è possibile… lui a differenza mia non ha mai capito che era finita un’epoca. Ma gli vorrò sempre bene”.

Valter Lavitola sembra finalmente un uomo in pace, libero. Ma gli resta un cruccio: “Sto per fare causa a Berlusconi. Ho diritto a un risarcimento. Non mi ha mai ristorato dei danni”. Alla fine si parla sempre di ristorazione.

Sblocca-cantieri, la Sicilia vuole i commissari per 3,4 miliardi

Risvegliandosi da un abbiocco infrastrutturale di decenni, la Sicilia stila un elenco corposo di grandi opere stradali e ferroviarie del valore di 3,4 miliardi e preme sul governo perché nomini subito i commissari ad hoc sulla base del decreto approvato un anno fa (il cosiddetto Sblocca-cantieri) e del metodo attuato per la ricostruzione del ponte di Genova. La Sicilia guidata da Nello Musumeci pone però un veto perentorio: come commissari vanno bene tutti, ma non Massimo Simonini, ad di Anas, l’azienda pubblica delle strade. Nei suoi confronti e dell’Anas il presidente siciliano e gli assessori sono drastici: un attimo prima di deliberare l’elenco delle grandi opere, la Giunta ha approvato un’azione legale contro Anas, accusata di aver accumulato colpevoli “ritardi sui lavori di manutenzione straordinaria e nuove opere programmate”. Musumeci si è esibito in un attacco frontale verso l’Anas di cui ha “rappresentato le gravi responsabilità di inadempienza rispetto a precisi obblighi, assegnati in sede di programmazione delle risorse. Forse su questo atteggiamento di repulsione senza appello ha pesato la difficile convivenza tra Anas e Regione Sicilia nel Cas, Consorzio autostrade siciliane, un carrozzone succhia-soldi.

L’elenco delle opere redatto dalla Regione comprende interventi attesi da molto tempo, a partire dalla grande opera siciliana per eccellenza, che non è il Ponte sullo Stretto, ma l’autostrada Ragusa-Catania (815 milioni), infrastruttura di cui si era fatto paladino l’imprenditore e politico siciliano (ex andreottiano), Vito Bonsignore, messo da parte dal ministero dei Trasporti previa generosa buonuscita di 35 milioni. Oltre alla Ragusa-Catania ci sono altre otto grandi opere che la Sicilia ritiene essenziali. Tra esse spicca la strada statale 640, detta “Strada degli scrittori” (990 milioni). Una sola opera ferroviaria elencata, ma di grande importanza: il ripristino a opera di Rfi della Palermo-Trapani (200 milioni).

Regeni & Zaki, la verità fregata: ok di Conte alla vendita di due navi da guerra all’Egitto

Domenica pomeriggio il generale Abdel Fattah Al Sisi e il premier Giuseppe Conte hanno parlato al telefono di questioni libiche, ieri l’Italia ha venduto all’Egitto una coppia di fregate Fremm di Fincantieri, destinate inizialmente alla Marina militare italiana. L’operazione vale circa 1,2 miliardi di euro, più del doppio per Fincantieri che dovrà costruire altre fregate per l’Italia. Dopo mesi di trattative, Al Sisi ottiene la prima parte di una commessa ben più ampia, fra i 9 e gli 11 miliardi di euro: altre 4 fregate e 20 pattugliatori d’altura sempre di Fincantieri; 24 caccia Eurofighter e 20 velivoli addestratori M346 di Leonardo (ex Finmeccanica) e forse un satellite da osservazione. Per l’ordine più grosso serviva la firma del contratto che prelude alla consegna delle Fremm, di fatto sottratte alla Marina. Come scritto dal Fatto, l’Egitto non era disposto ad aspettare oltre la metà di giugno e il governo italiano aveva già autorizzato la vendita, ma non sapeva come rivelarlo. Adesso dovrà affrontare la prevedibile polemica, dopo che per settimane ha tentato di evitarla con un rimpallo di responsabilità e la dilatazione dei tempi.

L’Egitto di Al Sisi è lo Stato autoritario che non collabora con i pm romani nell’indagine sull’uccisione del ricercatore universitario Giulio Regeni, ma da un anno è il primo cliente dell’industria bellica italiana. Da una parte la politica intima a se stessa di interrompere i rapporti diplomatici con il Cairo per Regeni e anche per Zaki, il ragazzo egiziano arrestato al rientro da Bologna dove studia, dall’altra fa affari con un Paese che non rientra nei canoni della legge 185 del ’90 sull’esportazione di armi. In cambio di forti introiti per l’industria bellica, le fornisce a un Paese che foraggia l’esercito di Haftar che in Libia bombarda il governo tripolino di Serraj, sostenuto da Roma. Inusuale la cessione delle fregate già destinate alla nostra Marina, motivata forse dall’urgenza del Cairo di potenziare la flotta. Il confronto con la Turchia si gioca in Libia, ma anche sul mare, per il controllo della piattaforma continentale dove sono stati individuati giganteschi giacimenti di gas. Acquistando navi ancora da costruire il Cairo avrebbe dovuto aspettare tre anni, grazie al governo giallorosa farà prima.

L’Accademia dei Lincei e i test sugli animali. “Irrinunciabili per la ricerca, via il decreto”

Non è soltanto la mancanza di fondi. A danneggiare la ricerca italiana è anche il decreto 26/2014 relativo ai test sugli animali. Così nel suo documento, la Commissione Salute dell’Accademia Nazionale dei Lincei “ritiene necessario e urgente sollecitare al governo la rapida eliminazione del decreto” che li blocca. Per i Lincei, infatti, “a sei anni dalla sua approvazione, questo decreto continua a danneggiare molteplici aspetti importanti della nostra ricerca scientifica, per esempio rendendo difficile la collaborazione con colleghi stranieri di prestigio, necessaria per ottenere fondi europei; scoraggiando il rientro da altri Paesi dei ricercatori italiani più brillanti; rendendo impossibile la presenza in Italia dei laboratori preclinici delle industrie farmaceutiche multinazionali”. Questo perché, secondo l’Accademia, nonostante gli strumenti alternativi, come i modelli matematici, i test sugli animali sono ancora “un aspetto fondamentale e irrinunciabile della ricerca biomedica” combattuto da gruppi di animalisti che, senza valide argomentazioni, hanno promosso leggi che la ostacolano in base a problemi etici”.