La Serie A finisce sul campo. Oppure ai playoff. O al limite con l’algoritmo. Siamo ancora alla tripla, insomma. Però la Federcalcio ha stabilito che il campionato in qualche modo darà i suoi verdetti, e venerdì finalmente si gioca, Coronavirus permettendo. Prima la Coppa Italia questo weekend, poi a partire dal 20 giugno la Serie A. Sempre sotto la spada di Damocle del Covid, perché resta l’obbligo di quarantena collettiva per tutta la squadra in caso di positività. Basta un infetto per far saltare tutto. Gli scenari sono ancora tanti, probabilmente troppi per avere le idee chiare sul destino della stagione. Di base le soluzioni stabilite ieri dalla Figc sono tre: 1) Conclusione regolare del torneo: si gioca e si arriva in fondo; 2) Playoff e playout: se il campionato non riesce a riprendere il 20, oppure si interrompe di nuovo, verrà finito entro il 2 agosto con un format più breve, degli spareggi, probabilmente per fasce (ad esempio, le prime 4 per il titolo); 3) Algoritmo: se non ci sarà tempo nemmeno per i playoff, per i piazzamenti si applica una formula matematica, la media fra punti in casa e in trasferta (sulla classifica attuale avrebbe l’unico effetto di escludere il Milan dall’Europa League in favore del Verona). In ogni caso lo scudetto sarà assegnato solo sul campo. Adesso il calcio è pronto più o meno a ogni eventualità. Forse è la vittoria del presidente Figc, Gabriele Gravina (ma fino a quando il campionato non si conclude, è presto per esultare). Sicuramente è la sconfitta di Urbano Cairo, che insieme alle piccole di Serie A aveva chiesto il blocco delle retrocessioni, proposta naufragata in Consiglio. Ma il fatto che ancora oggi ci si accapigli su playoff e algoritmi dimostra che nemmeno i presidenti scommettono più di tanto sulla conclusione del torneo. La vera partita resta quella sulla quarantena, da giocare col governo. Oggi festeggiano davvero solo Vicenza, Reggina e il Monza di Berlusconi, promosse in Serie B in ogni caso.
Mail box
Il caso Floyd è orribile: ricorda il nostro Cucchi
Sono rimasto veramente scosso dalle immagini della morte di George Floyd. Pur essendo contrario a ogni forma di violenza, mi chiedo: se non ci fossero state quelle reazioni, si sarebbe saputo di questa disgrazia o, come tante, sarebbe passata in sordina? Purtroppo il razzismo in America non accenna a sparire, anzi. Se quello che si ritiene d’essere il Paese più democratico del mondo continua con questo odio sociale è triste e preoccupante. Gli psicologi poi dovrebbero spiegarci perché, fra le persone che portano una divisa, si verificano queste forme disumane di violenza. Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo esempi simili: basti pensare a quello che è successo in Italia durante il G8, i cui protagonisti (negativi) rivestono ancora posti di comando, o al caso Aldrovandi, archiviato con una serie di offese e ingiurie alla madre che disperatamente cercava di far emergere la verità, o al caso di Serena Mollicone… L’unico caso che ha avuto risalto è stato quello di Cucchi, soprattutto per merito della sorella e di un film. Affianchiamoci al desiderio di papa Francesco e delle persone che insegnano la pace per implorare comprensione e amore.
Nino Apolloni
Alla Meloni interessa solo allungare la carriera
Giorgia Meloni è molto critica con l’esecutivo in carica: è fortemente convinta che M5S e Pd stiano insieme per interesse e per spartizione del potere. La presidente di Fratelli d’Italia non giustifica le politiche di emergenza del governo e non perde occasione per prospettare la strabiliante “bontà” delle sue proposte su immigrazione e famiglia (rigorosamente naturale). Meloni, nemmeno in un tempo di crisi, concederebbe una pur minima apertura a Conte: “A me non interessa allungare la carriera del premier”. Lei è tutta protesa a perpetrare all’infinito la sua carriera politica, che dura ormai da più di venti anni.
Marcello Buttazzo
Covid-19: il peggio è passato, ma attenzione
La dottoressa Gismondo è sempre molto attenta a fornirci notizie e modi di comportamento in questo periodo in cui molti non riescono a negarsi la movida o una corsetta, mentre l’intera nazione dovrebbe essere in lutto… Ok il pericolo sta passando, ma come spesso dice la virologa, dobbiamo agire con consapevolezza, ognuno singolarmente. Ci hanno detto quello che serve per non infettarsi, seguiamo le istruzioni, non facciamoci influenzare dai proclami, soprattutto se provengono dai presidenti di Regione. I peggiori.
Silvio di Giuseppe
Lo scandalo dei fondi pubblici ai giornali
Che un partito abbia il suo giornale è più che legittimo, e attacchi o difenda il governo a seconda che sia all’opposizione o nella maggioranza. Che la direzione del giornale sia in mano a un “padrone” che detta la linea politica ci sta perché il “padrone” fa il suo interesse, non quello dei cittadini. Che i giornalisti facciano a gara a “sparare” titoli non è nulla di scandaloso. Che il lettore scelga di leggere un giornale vicino alle sue idee è sacrosanto. Ma che tutto questo sia finanziato con soldi pubblici faccio fatica a capirlo.
Mario Nozza
Il virus ha certificato l’incapacità della Lega
Al di là di tutti i guai che ci ha portato e di tutti i morti che piangiamo, paradossalmente va ascritto alla pandemia un piccolissimo “merito”: infatti in questo periodo come in nessun altro abbiamo potuto certificare con mano come la classe dirigente leghista (con qualche eccezione come Zaia, anche se i meriti non sono proprio tutti suoi) non sia all’altezza del compito affidatole nelle Regioni che gestisce. Ne è un esempio preclaro il presidente della Lombardia Fontana che, insieme al suo assessore alla Sanità Gallera, ci ha dimostrato senza ombra di dubbio la sua incapacità. Non capisco perché i cittadini lombardi non chiedano in massa le dimissioni di un personaggio così e della sua giunta che ha collezionato una quantità di errori tali che non è più possibile e decente sopportare.
Leonardo Gentile
Aiutiamo Cuba: la crisi lì è più che drammatica
Vorrei segnalare la drammatica situazione che sta vivendo l’isola di Cuba. Grazie all’inasprimento dell’embargo di Trump la gente sta letteralmente morendo di fame. Ho ricevuto una lettera da una amica che mi chiedeva se potevo almeno ricaricarle il telefono! Ha dovuto lasciare la sua casa perché non poteva pagare l’affitto. Lei è una guida turistica e in questo momento naturalmente senza lavoro. La tessera alimentare le consente 128 grammi di pollo al mese, un chilo e mezzo di riso e altrettanto di fagioli. Se qualcuno potesse portare a conoscenza questa situazione forse sarebbe un aiuto, visto che loro quando abbiamo avuto bisogno non si sono tirati indietro. Grazie.
Marina Dondero
Regioni: l’autonomia non sia fine a se stessa
Caro Direttore, sono passati 50 anni dall’istituzione delle Regioni nate per rendere l’amministrazione più vicina ai cittadini e per dare risposte puntuali e su misura. Purtroppo si è spesso equivocata l’autonomia con la gestione del potere fine a se stesso e la pandemia ha evidenziato questo vizio di sostanza. Questa deformazione istituzionale andrebbe sanata.
Amedeo Giustini
In Lombardia. Mostrare una lapide per nascondere un cimitero intero
Gentile Direttore, questa è una lettera aperta. È una lettera scritta da Bergamo, epicentro mondiale di questa pandemia, da chi questa guerra la sta ancora combattendo, sul campo. Bergamo e Brescia: rivali da sempre, la Città dei Mille e la Leonessa d’Italia. Due province che non hanno mai amato i riflettori. E che, da sole, creano una larghissima fetta del Pil della Lombardia (e se la Lombardia è il motore economico dell’Italia, Bergamo e Brescia sono i suoi cilindri e pistoni). Qui abitano poco più di due milioni e trecentomila persone. E sempre qui, a oggi, i contagi superano i 28mila casi (e parliamo di casi conclamati, riconosciuti coi tamponi, inutile dire quanti pochi ne siano stati effettuati, e solo su pazienti sintomatici: si stima che in alcune valli la popolazione entrata in contatto col virus superi il 60%). Dall’inizio della pandemia abbiamo pianto, e piangiamo tuttora, più di 20mila morti: circa 4mila persone in più rispetto alla capienza dello stadio Rigamonti di Brescia e mille meno dello stadio di Bergamo (sono sicuro che col paragone calcistico, si possa avere un’idea più concreta). Chi non vive in queste due province non può neanche lontanamente immaginare ciò che abbiamo vissuto (e spero per voi che non lo dobbiate vivere mai). Sirena, campana a morto, sirena, campana a morto, sirena, campana a morto… Sono arrivato in un giorno solo a contarne 108, di sirene di ambulanze. Questa è stata la colonna sonora del nostro lockdown. Nessuno qui ha mai cantato dai balconi; semmai si piangeva. Bergamo e Brescia sono diventate un sacrario, una Caporetto, la prima linea di un fronte che fortunatamente per tutti i nostri connazionali ha retto. Ma ci vuole poco a passare dalla disperazione alla rabbia, ed è proprio quello che sta succedendo.
Le Frecce Tricolori hanno volato su Codogno. Si pensava sarebbero passate anche da noi, per tributare un onore dovuto a queste due province (non paesi) che hanno pagato così tanto. E invece no. Quando si parla di morti per Covid in Lombardia si fa sempre riferimento a Codogno. La zona rossa? Codogno! L’ospedale? Codogno! I morti? Codogno! Cos’hanno Bergamo e Brescia di sbagliato? Io, la mia teoria ce l’ho: qui tutto quello che poteva essere sbagliato è stato sbagliato. E l’ammissione di colpa è una cosa rara in politica, figuriamoci le scuse. Senza nulla togliere ai morti di Codogno, come a qualsiasi altro morto al mondo, stanno mostrando una lapide per nascondere il cimitero che c’è dietro.
Stefano Fusco, vicepresidente
Comitato “Noi denunceremo”
La proposta di Zinga: non è tutto ovvio quello che luccica
“Babbo c’è un imbianchino vestito di nuovo/ C’è la pelle di un vecchio serpente/ Appena uscita da un uovo/ E c’è un forte rumore di niente/ Un forte rumore di niente…”. Sono parole, magistrali, di Francesco De Gregori. È improbabile che nel vergarle pensasse a Zingaretti (Nicola), ma l’immagine “rumore di niente” lo racconta appieno. E non è neanche detto che sia per forza un male, tenendo conto della cacofonia perdurante che caratterizza le mosse di Salvini e Renzi.
Forse però Zingaretti insegue sin troppo il minimalismo. Vien sempre da domandarsi, le rare volte in cui ci si ricorda che Zingaretti è davvero il segretario del Partito democratico, cosa mai passi per la testa del governatore del Lazio. Ieri, nella relazione alla direzione, l’ineffabile Zinga è tornato a parlare. I passaggi più forti sono anche stati i più fumosi, e anche questo è normale perché Zingaretti è tipo da non dire niente anche quando dice tutto (e viceversa).
“Bene gli Stati generali, ma attenzione al rispetto dei tempi certi” è la classica frase che non vuol dire nulla. Così come l’allusione al bivio tra “un’Italietta e un nuovo modello di sviluppo”. Scontata pure l’affermazione “fondamentale la lotta alle disuguaglianze”.
Quindi l’ineffabile Zinga ha parlato a vuoto? Sì e no. In primo luogo, ha (a suo modo) blindato il governo. Lo ha fatto dando l’impressione di apprezzare ancora Conte, ma più che altro constatando come non ci siano al momento alternative praticabili. Come a dire: l’entusiasmo è altrove, ma questo passa il convento. Che è poi quel che pensano anche i 5 Stelle. Zingaretti ha parlato di “necessità per tutti di un salto di qualità” e di una “decisiva svolta” da imprimere “con gli alleati”, perché “siamo a un momento cruciale in cui si giocano i destini della legislatura e il futuro”. Siamo sempre nel regno dell’ovvio travestito da quasi rivoluzione, uno dei nowhere preferiti dal segretario Pd.
Zingaretti ha però indovinato due passaggi. Il primo è stato questo: “So quante difficoltà abbiamo dovuto affrontare nel rapporto con gli alleati e soprattutto con il M5S, restano temi spinosi in cui le posizioni restano lontane come la giustizia e un certo fondamentalismo su temi come l’economia e la giustizia, ma nel governo è prevalso un approccio nuovo e certe barriere si sono incrinate. Noi abbiamo fatto prevalere il rapporto con l’Ue e in quella sede ci siamo presentati uniti”. Un passaggio chiave, che ha verosimilmente ispirato il secondo rivolto proprio al M5S: “Non ostacolate nei territori le alleanze che si potrebbero creare, l’obiettivo è battere le destre. Se siamo qui, non travolti dalla demagogia populista della destra, è perché abbiamo fatto la scelta di dare vita a questo governo Conte, tentando una strada fatta di alleanze tutte nuove. Se non avessimo fatto questa scelta avremmo avuto un governo di destra presieduto da Salvini, e vi lascio immaginare in quale isolamento l’Italia si sarebbe trovata. Probabilmente non avremmo ottenuto nulla dall’Europa”. È qui che Zingaretti risulta impeccabile e costringe il M5S a una risposta inequivocabile: ferme restando le differenze talora marcate tra Pd e 5Stelle, di fronte a una destra quasi sempre becera e irricevibile, voi da che parte state? Se il M5S risponderà no a prescindere, regalerà il Paese a Salvini. Se il M5S accetterà senza fiatare l’alleanza ovunque, si snaturerà e morirà. Ma se costringerà a sua volta il Pd a svecchiarsi anche a livello locale, liberandosi di trasformisti e carampane, allora sarà un win win. E Salvini proseguirà nella sua esaltante erosione di consensi.
Che male c’è a coinvolgere (sempre) il popolo sovrano?
Dai suoi maestri Mario Dogliani e Gustavo Zagrebelsky, il costituzionalista torinese Francesco Pallante ha preso – oltre la straordinaria la preparazione – la vocazione all’intervento nel discorso pubblico. La differenza generazionale (è nato nel 1972) gli ha risparmiato ogni collateralità alla lunga stagione del Centrosinistra, e dunque il suo sguardo è particolarmente libero, oggettivo. Lo si capisce bene dal suo ultimo libro, esplicito fin dal titolo: Contro la democrazia diretta (Einaudi 2020). È un saggio capace di scontentare tutti gli attori politici degli ultimi anni, perché non vi si trova nulla che permetta di dividere il campo tra buoni e cattivi. C’è, invece, un’analisi profonda dello slittamento culturale che ha portato l’intero quadro politico ad allontanarsi sempre di più dall’idea di democrazia della Costituzione del 1948. Capitolo dopo capitolo, incalzati da titoli ficcanti (Dall’ecclesìa alle primarie o Conformismo a 5 stelle), si comprende come siamo arrivati al deserto culturale attuale.
Si capisce che non esiste soluzione di continuità tra il plebiscitarismo delle primarie di Veltroni e la richiesta di pieni poteri di Salvini, passando per la tentata riforma costituzionale Renzi-Boschi e per il taglio dei parlamentari dei Cinque Stelle. Il che non vuol dire affatto che tutti costoro siano uguali, o equivalenti, ma che tutti hanno cavalcato “il coinvolgimento popolare diretto nelle decisioni politiche, a discapito delle tradizionali forme di mediazione e controllo”. Che male c’è a coinvolgere il popolo sovrano? L’intero libro risponde a questa domanda, dimostrando come ogni invocazione della democrazia diretta finisce per generare una restrizione della rappresentanza, una riduzione dei contrappesi, una concentrazione delle decisioni in poche mani. Di fatto, una riduzione della democrazia. “La democrazia diretta – spiega Pallante – ci affascina perché promette di realizzare l’ideale dell’auto-governo. In realtà, espone ciascun cittadino al rischio del dominio di una maggioranza avversa – maggioranza che, oltretutto, ha diritto di imporsi semplicemente in quanto tale, a prescindere da ogni considerazione sul merito delle questioni, secondo una logica di puro decisionismo. La democrazia della maggioranza, o democrazia maggioritaria, è una maschera sotto cui si cela il volto della dittatura della maggioranza, con la sua attitudine alla sopraffazione. Lo spiega, in maniera forse un po’ cruda ma senz’altro efficace, Matteo Salvini …: ‘chi vince governa, chi perde non rompe le palle’”. C’è un unico rimedio a questa doppia deriva – presidenzialismo di fatto e democrazia diretta – solo apparentemente divergente, ed è proprio quello che essa aborre: più rappresentanza, più ascolto, più conflitto trasparente e leggibile. Insomma, più Parlamento.
Pallante non si fa illusioni: “Occorre essere realisti. La rappresentanza politica non è di per sé salvifica. È una scommessa, può fallire. Funziona se si crede che il pluralismo sociale sia un valore, non una minaccia, e che il conflitto rivolto al compromesso sia il solo strumento idoneo ad assicurare uguale libertà a tutte le posizioni. Uguale libertà sul piano sostanziale, non meramente formale”. Perché non è certo un caso che distruzione della democrazia rappresentativa e aumento delle diseguaglianze abbiano conosciuto la stessa crescita: esponenziale. Comprenderne le ragioni vuol dire anche provare a combatterle. A questo serve, egregiamente, il libro di Francesco Pallante.
Quel che manca a Conte, ai 5S e al Pd per la “fase 3”
Travaglio e Padellaro hanno ragione a irridere i retroscenisti, spesso non innocenti, che strologano sulle intenzioni più o meno segrete di Conte. Specie quando si spingono sino alle bizzarrie, tipo la candidatura a sindaco di Roma o alle Suppletive di Sassari. È ragionevole e auspicabile che Conte coltivi ben altre ambizioni. Per sé, per il governo, per l’evoluzione del sistema politico. Mi spiego: il problema del futuro politico di Conte esiste e va messo in relazione con l’esigenza più volte accennata dal saggio Bersani, che pure è il più convinto sostenitore del governo, di applicarsi a dargli respiro e orizzonte politico. Il direttore ricorderà le mie perplessità all’atto del repentino cambio di maggioranza e governo, con la conferma della premiership di Conte. Pur avendo sempre auspicato l’intesa M5S-Pd, obiettavo che quel passaggio fosse troppo brusco, estemporaneo, difficile da raccontare prima ancora che da gestire. Mi sbagliavo. Oggi mi iscrivo tra coloro che giudicano positivamente l’azione del governo nel fronteggiare il dramma che ci ha investito e tremo al solo pensiero che a gestirlo avrebbe potuto essere la destra nostrana. Si pensi solo alla Lombardia o alla manifestazione del 2 Giugno. Ma la fase della ricostruzione esige un salto di qualità. E la qualità dipende anche dall’orizzonte politico, dalla visione del premier e delle forze che lo sostengono. Anche perché, checché si favoleggi, maggioranze alternative in questo Parlamento non ci sono e a elezioni – complici emergenza, referendum e semestre bianco – non ci si può andare. Quattro sono le condizioni per operare tale scatto.
1) Un chiarimento politico identitario dei 5Stelle, che ponga fine all’ambiguità della teoria che li vorrebbe né di destra né di sinistra. Solo chi nutre un invincibile pregiudizio può negare il loro processo di maturazione rispetto alla stagione movimentista e meramente oppositiva, ma neppure si può ignorare che siano necessari ulteriori passi: nei fondamentali di politica estera, nella cultura di governo, nella qualità della classe dirigente (auspico che cada il limite dei due mandati, per non dissipare positive esperienze nelle istituzioni, correggendo così la residua riserva verso la politica intesa come attività dotata di una sua tecnicalità che si apprende facendola).
2) Il Pd dovrebbe fare il “congresso” che non ha mai fatto e fare i conti col deragliamento del renzismo. Cioè con quella curiosa miscela di populismo light e di schiacciamento sull’establishment. Alla luce dell’approdo di Renzi alle posizioni (e ai comportamenti) di FI, come non domandarsi come sia stato possibile che, a lungo incontrastato dalla quasi totalità del gruppo dirigente tuttora Pd, egli abbia potuto proporsi come leader della sinistra? Eppure non è un mistero che una parte del Pd tuttora la pensa come Renzi e qualche suo dirigente ancora risponde a lui. Di nuovo ha ragione Bersani: si deve aprire un cantiere davvero nuovo, che muova da un’onesta, comune autocritica, che sia per tutti una sfida non indolore al cambiamento. È una condizione per fare dell’attuale collaborazione di governo un’alleanza strategica.
3) Il capitale politico e di fiducia accumulato da Conte. Non so come lo spenderà: se come leader riconosciuto del M5S, o con una sua autonoma formazione, o al modo di Prodi come uomo di governo privo di un suo organico partito di riferimento (handicap che Prodi pagò). Ma Conte sbaglierebbe se non si interrogasse su come investire quel capitale.
4) Penso non sia fuori luogo un allargamento del cantiere politico ad altri attori, per attrezzarsi a una sfida difficile con una destra oggi favorita. Due esempi: anche a me non piace il “pierinismo” di sindaci e presidenti di Regione (quando la si finirà di chiamarli governatori?) che, ancor prima del secondo mandato, già occhieggiano a Roma, ma un loro contributo può essere utile; o penso a Calenda, il cui stile nel fare opposizione è di gran lunga più composto di quello (programmaticamente ricattatorio) con cui Renzi sta (si fa per dire) nella maggioranza. Calenda sembra aver compreso che non esistono governi con dentro tutti, non è sospetto di collusioni con la destra e batte un chiodo giusto: quello, annoso, del know how, della implementazione delle decisioni pubbliche. Faccia cadere le sue pregiudiziali ideologiche e la maggioranza gli offra l’opportunità di cooperare. Il cantiere politico dev’essere aperto e largo e Conte ha i titoli per esserne attore-protagonista. Fregandosene delle gelosie di chi, anche in queste ore, muovendo critiche pretestuose agli annunciati “stati generali dell’economia” (a me pare una buona idea che va nel senso di una visione), gli contesta un improprio protagonismo. Alle manovre ispirate a miopi egoismi di partito egli riuscirà a sopravvivere solo se deciderà di vivere alzando la posta. Senza dimettere la mediazione, la fase prescrive l’esercizio della leadership. Anche per Conte si profila la sfida di una fase 3: da avvocato a premier e ora – se gli riuscirà – a leader.
Fare le mèches è mestiere serio: Crimi al massimo può fare il parlamentare
Le Sardine diventano una corrente del Pd (FQ, 27 maggio 2020)
L’anno zero del PD riparte con un manifesto valoriale per promuovere “l’attività politica come attività politica”. Stretto fra le sconfitte elettorali del passato e l’alleanza con i grillini, il Pd in questi anni ha navigato a vista, lasciando che pistoleri come Renzi devastassero i suoi saloon. “Siamo stati determinanti per le vittorie elettorali dei Cinquestelle. Grillo poteva almeno offrirci una pizza”, ha detto Fassino, con il broncio del bambino che dà le totò all’oggetto contro il quale s’è fatto la bua.
Incerti sul proprio futuro, con un partito molto ramificato, ma dalle basi poco solide, i pidini hanno lanciato un sondaggio per testare il sentiment degli ultimi attivisti (due): più del 58% è convinto che serva “una politica finalmente di sinistra”, mentre il 23% sogna “la creazione di un soggetto politico autonomo”. L’autore del sondaggio è stato epurato. “Ah ah ah! Credono di essere noi”, ha sghignazzato Grillo dal suo parrucchiere, uno specialista delle meches su capelli bianchi. Uno specialista? Ma come, non era “uno vale uno”? Non scherziamo. Fare le meches è un mestiere impegnativo, ci vuole gente seria. Uno come Crimi al massimo può fare il parlamentare.
La vicina di mia zia, una cicciottella maneggiona e ambiziosa che una volta per scommessa risalì a nuoto le cascate del Niagara, ne ha combinata un’altra delle sue. Poiché il carburante serve a chiunque, e quello verde è venduto sovrapprezzo grazie ai sussidi per le energie rinnovabili, si è comprata un colosso energetico che ricava biodiesel dall’olio di palma: le sue raffinerie, situate in un’oasi del Wwf, distillano 259mila tonnellate di biodiesel all’anno, la metà della produzione italiana. L’olio di palma le viene fornito da un gruppo di jihadisti salafiti, che deforestano la giungla indonesiana illegalmente, e macinano i frutti della palma coltivata in terreni fuorilegge nella Riserva di Singkil-Bengkung, a nord dell’Isola di Sumatra. In materia di trasparenza anti-deforestamento, la sua azienda adesso ha il punteggio più basso nella classifica della London Greenwood Society: a pari merito c’è Bono Vox, che ha disboscato mezza Amazzonia per piantarci gli avocado del suo guacamole, con cui riempie la piscina a Saint Barth per farci i fanghi.
La vicina di zia dovrebbe verificare se le piantagioni sono certificate o meno, ma non ci pensa proprio. Le servono soldi: cinque mesi fa ha perso il contenzioso sul suo “Green Diesel”, appellativo che l’Antitrust ha giudicato ingannevole, vietandone l’uso e comminandole una multa di 5 milioni di euro. I giudici non si sono lasciati infinocchiare dalla pubblicità Saatchi & Saatchi dove Don Matteo beveva un cicchetto di biodiesel dichiarandolo potabile. Se si contabilizza la CO2 rilasciata dalla deforestazione, e quella delle scoregge di Don Matteo da quando ha bevuto il biodiesel, il “petrolio verde” della vicina di mia zia contribuisce al disastro climatico più dei combustibili fossili. L’Ue, dal 2030, non considererà più l’olio di palma come energia rinnovabile. La vicina precorre i tempi: “Fra cinque anni vendo tutto, e mi metto a produrre bastoncini surgelati di cuccioli di foca”.
La matematica ha fallito
Come ha affermato Donato Greco (epidemiologo dell’Iss oggi in pensione), “in nessun’altra epidemia della storia degli ultimi cinquant’anni, v’è stata una tale produzione di modelli matematici sull’epidemia” e, aggiungerei, tanti modelli smentiti dai fatti. Questo virus li ha fatti fuori a uno a uno. Il Cnr il 22 febbraio pubblicava l’articolo Coronavirus. Rischio basso, capire condizioni vittime, in cui si asseriva: “È bene ricordare che 19 casi su una popolazione di 60 milioni di abitanti rendono comunque il rischio di infezione molto basso”. Persino l’Oms tendeva a contenere la previsione sulla casistica. Il virus ci ha smentiti. L’Imperial College of London è l’istituto che produce i modelli matematici più seguiti al mondo, ma nel caso di Covid-19 ha fallito. Il modello prevedeva nel nostro Paese oltre mezzo milione di morti per Covid-19 se non si fossero presi provvedimenti e “solo” 283 mila decessi applicando, come è stato fatto, il più rigido lockdown. Lo stesso modello stimava, in presenza di lockdown, fino a 30mila decessi in una settimana di picco con altrettanti ricoveri in terapia intensiva. Fortunatamente questo dramma non si è realizzato in quelle dimensioni. Le stime dell’Imperial per il Regno Unito e gli Usa erano, nello scenario migliore, circa dieci superiori a quello che poi si è verificato. Le previsioni dell’Imperial College per l’epidemia di influenza aviaria del 2005 preannunciavano fino a 150 mila morti nel solo Regno Unito, a fronte di 282 registrati nel mondo nell’anno 2009. In occasione dell’influenza suina del 2009, grazie sempre alle previsioni del famoso istituto londinese, la ministra della Salute britannica dell’epoca aveva mobilitato l’esercito per la preparazione di fosse comuni capaci di ospitare i 65 mila cadaveri: i morti veri furono 457. In questi giorni, ignari di questi insuccessi, vediamo epidemiologi affermare con certezza che ci sarà una seconda ondata di Covid-19 e altrettanti che non ci sarà. Consiglierei di essere cauti e di non fare più previsioni: il rischio di essere smentiti è in agguato. Ciò che è importante è essere preparati, non solo nel prossimo autunno, ma sempre.
Le Chiacchiere insopportabili in tempi incerti
Qualcuno ha scritto che l’incertezza è il rifugio della speranza, e in tempi quanto mai incerti (e confusi) mi aggrappo (ci aggrappiamo) alla speranza del decreto Semplificazioni. Perché è davvero arduo, gentile presidente del Consiglio, leggere che più di un milione di lavoratori sono ancora in attesa dell’assegno (quasi sempre magro) della cassa integrazione. O dei prestiti garantiti dallo Stato che sono ancora un quarto rispetto alle domande presentate. O del piano di ripartenza dei cantieri, da velocizzare evitando abusi e infiltrazioni criminali. Se, come assicura il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, entro venerdì la Cig sarà liquidata a tutti sarebbe una grande notizia: anzi la “notizia”. Perché c’è qualcosa di insopportabile nella chiacchiera, a tratti imbecille, su stati generali, partitini di Conte, maldipancia pidini, sbronze salviniane e pappalardi vari, mentre c’è un Paese che sopravvive e a cui manca il respiro nell’attesa dell’autunno che sarà.
Con l’attenuarsi del Covid-19 avevamo avanzato la modestissima proposta di un bilancio settimanale, in diretta tv sui numeri aggiornati della ripresa: su ciò che è stato fatto, su ciò che manca e su ciò che sarà fatto. Un ministro, o chi per lui, delegato a spiegare progressi e ritardi dell’annunciata ricostruzione in un civile confronto con l’informazione. Temiamo di non aver detto una castroneria, e di non vivere nel mondo della favole poiché quelle stesse notizie le ritroviamo in ordine sparso sulla stampa, spesso deformate da prevenzione e faziosità, il che non fa che accrescere il senso di smarrimento. Per chi scrive, la semplificazione delle norme e il disboscamento della burocrazia rappresentano, insieme alla lotta all’evasione fiscale e al prossimo scudetto della Roma, i traguardi impossibili di una vita. Calderoli con il lanciafiamme che incenerisce cataste di leggi fu un incubo terrificante. Adesso tocca a lei presidente Conte: ci faccia sognare.
A Potenza c’è il processo. Ma per Renzi è tutta “fuffa”
Domenica sera, Matteo Renzi ospite a Non è l’Arena non ha dubbi: l’indagine su Tempa Rossa, diretta dall’ex pm e poi ex capo del Dap Francesco Basentini, è stata un’inchiesta “fuffa”, “assurda”. Che cosa ha prodotto? “Zero dal punto di vista giudiziario, un’ecatombe dal punto di vista politico”, tira dritto il leader di Italia Viva.
Il tema dell’indagine di Potenza viene fuori mentre si parla delle dimissioni di Basentini, ex capo del Dap travolto dalla bufera del caso sulle scarcerazioni dei boss in pieno periodo Covid. Evidentemente a Matteo Renzi non deve essere piaciuta quell’indagine di cui Basentini era titolare insieme alla pm Laura Triassi. Forse perché ad aprile del 2016 portò alle dimissione di Federica Guidi. Mai indagata, l’ex ministro del governo Renzi lasciò dopo l’iscrizione del suo ex compagno e la pubblicazione di alcune intercettazioni.
Ma vediamo come è finita realmente l’inchiesta “fuffa”. “Quella indagine – ha tuonato Renzi in collegamento con Massimo Giletti – non è arrivata a nulla, ma non a un procedimento, non è arrivata neanche in fase di indagine”. Non è proprio così.
L’inchiesta è stata scorporata, per competenza, in due parti: una è finita a Roma e una parte, invece, è rimasta a Potenza. I filoni rimasti in Basilicata sono a dibattimento in primo di grado. Uno riguarda il caso legato al comune di Corleto Perticara, dove tra gli imputati, per alcune vicende legate alle assunzioni, c’è l’ex sindaco Rosaria Vicino, accusata di peculato, concussione e corruzione. È in primo grado anche il filone sullo smaltimento illecito degli scarti di produzione del Centro oli dell’Eni di Viggiano che vede imputati due ex responsabili del distretto meridionale dell’Eni, Ruggero Gheller ed Enrico Trovato, accusati di traffico illecito di rifiuti. La requisitoria del pm è prevista per fine giugno.
Se a Potenza si è quindi in fase di dibattimento, a Roma invece è stato tutto archiviato. Nella Capitale molto tempo fa è arrivato il fascicolo sul cosiddetto “quartierino romano”, di cui secondo gli investigatori di Potenza faceva parte, anche l’ex compagno dell’ex ministro Guidi, Gianluca Gemelli, inizialmente accusato di traffico di influenze illecite e poi archiviato.
Da Potenza gli atti sono stati inviati a Roma dopo la decisione della Procura generale che aveva dato ragione al legale di Ivan Colicchi, l’ex presidente della Compagnia delle Opere di Roma, accusato anche lui di traffico di influenze illecite e anche questi archiviato. Era forse questa la parte dell’indagine che per Matteo Renzi aveva prodotto zero risultati. Evidentemente ha informazioni incomplete. Oppure ha dimenticato il processo in corso a Potenza.