La preoccupazione per ciò che sta provocando in questi giorni il sequestro preventivo (non eseguito) della sede di CasaPound a Roma, è alta. Soprattutto nei confronti del pm titolare dell’indagine Eugenio Albamonte, tanto che in Procura in queste ore si valuta se richiedere una scorta. L’allarme è nato dopo la gogna mediatica scatenata sul web per una bandiera dell’Anpi (l’Associazione nazionale partigiani) che il magistrato ha pubblicato sul proprio profilo Facebook. Lo “scoop” è di Primato nazionale, “quotidiano sovranista italiano” che definisce Albamonte “antifascista, di sinistra e pro-immigrazione”. Niente di meno. Nel pezzo, tra le altre cose, si spiega: “Lo scorso 25 aprile ha deciso pure di pubblicare sul suo profilo Facebook una bella bandiera dell’Anpi”. Foto poi rimossa. L’articolo ha così preso il volo su Twitter, diventando di lì a poco un caso. Rilanciato anche sul profilo Facebook di CasaPound Italia, attira commenti, da chi vuole organizzare una manifestazione a Piazzale Clodio, sede degli uffici giudiziari romani, a chi parla ovviamente di toghe rosse, a chi non ha dubbi: “I nemici non sono paragonabili agli avversari, vanno abbattuti senza alcuna pietà”, scrive un utente. In questo quadretto non poteva mancare la politica. Maurizio Gasparri accusa Albamonte di negligenza rispetto a sue vecchie denunce per insulti sul web. “Ho l’impressione – spiega Gasparri a Il Giornale – che Albamonte non abbia indagato perché io gli faccio schifo e quindi riteneva giusto che mi insultassero”. Non si dà per vinto e annuncia “un’interrogazione al ministro per denunciare la mancata indagine”. In tutto questo, nel silenzio totale della magistratura (non una parola né dall’Anm, di cui Albamonte è stato presidente, né dal Csm), in Procura a Roma la preoccupazione è alta, soprattutto per la foto del pm pubblicata su parecchi siti: insomma ormai è riconoscibile per strada. Per questo si valuta di chiedere una scorta.
Immuni, tra la notifica e il test: medici di base e 48h di tempo
Il primo giorno di Immuni, la app di tracciamento, è arrivato: ieri è partita la sperimentazione in quattro Regioni, dove almeno in teoria è tutto pronto per gestire quei cittadini a cui dovesse essere notificato di aver avuto un contatto a rischio. Superati ormai i dubbi sulla piattaforma, ora che anche Huawei ha dato il via libera al download, resta il passaggio più critico: cosa accade tra l’eventuale notifica, la quarantena e l’eventuale test. Abbiamo cercato di capirlo.
Liguria. La Regione, nelle ultime settimane, è schizzata in vetta alla classifica dei decessi in rapporto alla popolazione. Secondo le statistiche elaborate dall’epidemiologo Valerio Gennaro (Medici per l’Ambiente) dal 31 maggio al 6 giugno si sono raggiunti i 21,3 decessi ogni milione di abitanti, più del Piemonte (17,4) e della Lombardia (16,9). E adesso c’è l’incognita del turismo, lombardi e piemontesi in Riviera come lo scorso weekend. La Regione, pur sottolineando che il coordinamento delle operazioni è nazionale, ha approntato una tabella di marcia: appena la app avviserà dell’avvenuto contatto con un positivo, scatterà una segnalazione al servizio di medicina generale e alle Asl. E oltre alla quarantena sarà disposto un tampone. Per il momento non ci sono state assunzioni per il servizio; il decreto Rilancio potenzierà la sanità territoriale.
Marche. Tampone o esame sierologico entro massimo 48 ore dal rilevamento del presunto contatto con un soggetto positivo. “La persona potrà chiamare il medico di base che farà da filtro con il servizio sanitario territoriale – spiega il governatore delle Marche e assessore alla Sanità, Luca Ceriscioli –. La filiera consentirà di effettuare il tampone o l’esame sierologico nel giro di 24-48 ore, non tre settimane come ipotizzato da qualcuno”. La speranza è che almeno la metà dei marchigiani (750mila circa) scarichi l’applicazione. “Parliamo di uno strumento molto importante”, dice Ceriscioli.
Puglia. Chi dovesse ricevere la notifica di un contatto a rischio ha l’obbligo di informare il medico curante, che trasmetterà tutto all’Asl di competenza attivando la macchina che, secondo le previsioni della Regione, dovrebbe concludersi in brevissimo tempo con l’esecuzione di un tampone e con i risultati. Il tempo è il fattore sul quale la Puglia guidata da Michele Emiliano ha lavorato: al momento vengono effettuati tra 1.500 e i 2.000 tamponi al giorno, ma la Regione è in grado di raggiungere quota 3.500. Potenziata, inoltre, la rete di laboratori per l’analisi: sono 15, alcuni considerati “super laboratori” come quello dell’ospedale “Di Venere” che dalla sua trasformazione da laboratorio oncologico a laboratorio anti Covid è riuscito a raggiungere un volume di oltre 300 tamponi analizzati al giorno. “L’opportunità di sperimentare la app Immuni – commenta il direttore del Dipartimento Politiche per la Salute, Vito Montanaro – consentirà di avviare il ‘Progetto territorio’ con medici e pediatri. Interagiranno per primi con i pugliesi per illustrare l’utilità epidemiologica e sanitaria dell’app”.
Abruzzo. Ieri in Abruzzo non è stato registrato nessun nuovo positivo o decesso per coronavirus. Un quadro clinico e astrale ideale per l’avvio dell’app Immuni. Le Asl abruzzesi sono abilitate a inserire nell’apposita piattaforma i dati relativi ai contagi. Se per essere efficace l’applicazione dovrà essere scaricata da almeno il 60% della popolazione, fatti due calcoli si parla di quasi 700 mila abruzzesi. La partenza di ieri è stata però in salita. “Sono giorni che tento di installarla, ma il mio sistema operativo non è compatibile”, ha detto all’Ansa una ragazza di Montesilvano, vicino Pescara. Ancora ignoti i numeri dei download. Quello abruzzese è un territorio in cui, nelle aree interne più impervie, anche un semplice 3G è un miraggio. “Vogliamo raccomandare l’uso dell’app anche ai turisti che sceglieranno di trascorrere le loro vacanze in Abruzzo”, spiega l’assessore regionale alla Salute, Nicoletta Verì.
L’accordo Diasorin annullato dal Tar. Atti ai pm contabili
Il Tar della Lombardia annulla l’intesa tra il Policlinico San Matteo di Pavia e la Diasorin sullo sviluppo dei test sierologici per la ricerca degli anticorpi neutralizzanti al SarsCov2, i test finora utilizzati finora dalla Regione Lombardia per i suoi screening di massa dopo averne acquistati mezzo milione senza gara a 4 euro l’uno e averne svolti fino al 5 giugno 171.000 circa, con un ritardo sulla tabella di marcia che ne prevedeva 200mila entro il 30 maggio.
Motivazioni dell’accoglimento del ricorso di un’azienda concorrente, la Technogenetics di Lodi: l’accordo Policlinico-Diasorin siglato con la supervisione scientifica del professore Fausto Baldanti avrebbe violato i principi della libera concorrenza; il Policlinico, si legge nel provvedimento firmato dal giudice estensore Fabrizio Fornataro, del collegio presieduto dal giudice Domenico Giordano, non si è limitato a validare un kit pronto, ma ha compiuto “una molteplicità di attività di analisi, di ricerca e di studio, dirette sia a consentire il passaggio dai prototipi forniti dalla società a dei prodotti finiti, sia a realizzare dei kit molecolari e sierologici espressamente descritti come “sviluppandi”. Dunque, ha messo a disposizione risorse pubbliche in favore di un privato, Diasorin, che così ha acquisito “un illegittimo vantaggio” – di qui la decisione di inviare le carte alla Corte dei conti, mentre la Procura di Milano ha già aperto da settimane un fascicolo conoscitivo – tramite un accordo che non è una semplice ‘validazione’. Ed una delle prove di questo sarebbe proprio nel meccanismo delle royalties decennali che la Fondazione San Matteo incasserà sulle vendite future del prodotto in cambio di ulteriori attività “clinico-osservazionali” sui dispositivi medici in commercio.
Diasorin e Policlinico rivendicano la correttezza del proprio operato e annunciano ricorsi al Consiglio di Stato, mentre l’assessore al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera, si limita a un ‘no comment’: “Si sono già espressi il presidente Fontana e il San Matteo”. E cosa ha detto il governatore della Lombardia? Poco o nulla. “Io non sono parte attiva della faccenda”. Tutto a sua insaputa anche in questo caso, come per i camici.
Fontana e Gallera però dovrebbero fornire risposte e chiarimenti ad alcune curiosità e interrogativi che la sentenza del Tar fa riemergere prepotentemente: per quale ragione ad aprile la Lombardia ha acquistato a scatola chiusa e senza gara 500 mila test sierologici Diasorin a 4 euro – con estrazione del sangue e analisi di laboratorio – dopo aver impedito lo sviluppo di altri progetti e boicottato il tentativo di partire con screening attraverso i kit “pungidito”, negli stessi giorni in cui Gallera rifiutava i test rapidi donati da Technogenetics? Lo ha fatto sulla base delle garanzie di attendibilità poggiate sull’accordo con il Policlinico di Pavia bocciato dal Tar? E perché tanta fretta per acquistare quantitativi di test che si fatica ad effettuare? Ed ora che fine farà l’accordo quadro per altri due milioni di test “vinto” da Roche con un test qualitativo (che indica solo la presenza dell’anticorpo) a soli 1,42 euro? E siccome Diasorin a questa gara ha offerto il kit a 3,3 euro, è possibile ipotizzare uno ‘sconto’ sulle sue forniture da completare? Domande che il Pd e il M5s avanzano in comunicati e interrogazioni. “Ridurre il prezzo dei prossimi test di Diasorin è il minimo sindacale” commenta il pentastellato Massimo De Rosa. Per ora il primo effetto concreto della sentenza è il tonfo in Borsa di Diasorin: meno -3,86% a 159,6 euro.
Camici, inchiesta aperta a Milano. A Como arriva un’altra denuncia
La Procura di Milano ha un fascicolo aperto sulla fornitura di camici e altro materiale sanitario offerti alla Regione Lombardia dalla Dama spa, l’azienda controllata da Andrea Dini e da sua sorella Roberta, moglie del presidente lombardo Attilio Fontana.
Giornata pesante, quella di ieri, per il presidente, che in mattinata ha visto il Tar annullare l’accordo della Regione con Diasorin sui test sierologici. Poi il Fatto ha dato notizia dell’indagine sui camici: un fascicolo per ora a modello 45, senza indagati e ipotesi di reato. Riguarda la fornitura ad affidamento diretto, che la Regione accetta ad aprile 2020, di materiale sanitario per 513 mila euro, che Dama spa ha fatturato in data 30 aprile.
La vicenda è stata raccontata domenica dal Fatto Quotidiano, anticipando una inchiesta giornalistica di Giorgio Mottola andata in onda ieri sera nel programma Report di Rai3.
Fontana ha passato la giornata di ieri a difendersi, sostenendo che si è trattato non di una fornitura commerciale, ma di una donazione. “Non c’è stato alcun equivoco. Sono stati comprati tutti i camici di tutti quelli che li producevano perché ne avevamo bisogno. Da parte dell’azienda di mio cognato i camici sono stati donati. Quindi non c’è alcun problema”.
Eppure l’affidamento diretto a una azienda controllata dalla moglie e dal cognato del presidente della Regione configura un imbarazzante conflitto d’interessi. Potrebbe in astratto comportare anche un’ipotesi d’accusa di abuso d’ufficio, ma la Procura milanese, in attesa di compiere accertamenti, ha aperto soltanto un fascicolo a modello 45, cioè senza indagati né ipotesi di reato. All’ufficio diretto dal procuratore Francesco Greco era arrivata nelle scorse settimane una segnalazione proveniente dall’interno di Aria, la centrale acquisti della Regione Lombardia. Una segnalazione da Aria risulta sia arrivata anche alla Procura di Como.
Dama spa compare regolarmente nell’elenco fornitori della società regionale Aria. Ma a differenza di altre aziende fornitrici, non ha sottoscritto il “patto d’integrità” del 2019, che comprende anche la dichiarazione di assenza di conflitti d’interesse. Così, in piena emergenza Covid, l’azienda aveva potuto presentare un’offerta commerciale alla Regione per la fornitura di camici, copricapi e calzari sanitari. Aria aveva accettato l’offerta, firmato l’ordine di fornitura il 16 aprile e il 30 aprile aveva ricevuto una regolare fattura, con pagamento previsto a 60 giorni.
Soltanto il 22 maggio (dopo che il giornalista di Report aveva chiesto spiegazioni a Dini e Fontana) erano cominciate ad arrivare in Regione note di storno di Dama spa che annullavano le richieste di pagamento. Ma le donazioni prevedono tutt’altra procedura, spiega uno specialista, l’avvocato Mauro Mezzetti: “Intanto non basta la decisione del solo rappresentante legale: è necessaria una decisione del consiglio d’amministrazione di cui deve essere informato il collegio sindacale, perché sia garantito che la donazione non danneggia l’azienda donatrice. Poi, se non si tratta di una donazione di beni di modico valore (e mezzo milione di euro non mi pare sia un valore modico)”, continua l’avvocato Mezzetti, “ci vuole un atto notarile, sottoscritto con la presenza di due testimoni e la redazione di una nota firmata da chi dona, da chi riceve e dal notaio”. Non solo: “L’atto di donazione va registrato entro venti giorni – conclude Mezzetti – altrimenti scattano sanzioni, perché le donazioni sono sottoposte a un’imposta dell’8 per cento, con pene pecuniarie per chi non paga”.
Titoli di Stato per le famiglie. Arriva “Futura”
U n titolo di Stato rivolto al 100% ai piccoli risparmiatori individuali. Si chiamerà Btp Futura, il nuovo titolo di Stato dedicato al cosiddetto mercato retail, che il Ministero dell’Economia e delle Finanze è pronto a lanciare da lunedì 6 a venerdì 10 luglio. Lo strumento era stato annunciato, ed evocato da diverse parti politiche. Ieri il Tesoro lo ha presentato, spiegando che sarà dedicato a finanziare le spese previste dai provvedimenti varati dal Governo per affrontare l’emergenza da Covid-19 e sostenere la ripresa nazionale. Il nuovo Btp avrà durata tra gli 8 e i 10 anni e il collocamento avrà luogo sulla piattaforma Mot – il mercato telematico delle obbligazioni e titoli di Stato di Borsa Italiana- attraverso due banche dealers, Banca Imi del gruppo Intesa Sanpaolo e Unicredit. Btp Futura avrà una struttura cedolare pensata per premiare i risparmiatori che lo deterranno fino alla scadenza. Infatti le cedole saranno calcolate in base a dei tassi prefissati e crescenti nel tempo – con il meccanismo cosiddetto ‘step-up’. Ma tra le novità più importanti del nuovo Btp c’è un premio fedeltà che rifletterà la crescita economica nazionale. Il premio – corrisposto soltanto a chi acquisterà il titolo nei giorni di emissione e lo deterrà fino a scadenza – avrà infatti un valore minimo pari all’1% del capitale investito, ma potrà aumentare fino al 3% dell’ammontare sottoscritto, sulla base della media del tasso di crescita annuo del Pil nominale dell’Italia registrato dall’Istat nel periodo di vita del titolo. Non sono previsti tetti o riparti: la domanda, a partire da un lotto minimo di 1.000 euro, sarà infatti totalmente soddisfatta.
Lavoro, i dati della grande crisi in arrivo
La stagnazione di fine 2019, le tenui prospettive di ripresa del 2020, i modelli previsionali per l’anno. Poi, l’inedita emergenza creata dal Coronavirus e la velocità degli effetti sull’economia: l’Istat si è dovuto adattare, raccogliere nuove basi di dati rapidamente ed effettuare nuove analisi per le sue Prospettive per l’economia italiana 2020-2021. E l’esito è drammatico (nonostante la “luce in fondo al tunnel” che intravede il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri), soprattutto per il mercato del lavoro.
Punto fermo: le previsioni dell’Istituto di statistica sono valide se reggono l’assenza di contagi, gli impegni di spesa e una politica monetaria accomodante. Altrimenti potrebbe andare anche peggio. Si prevedono sia una marcata contrazione del Pil nel 2020 (-8,3%) sia un rimbalzo parziale nel 2021 (+4,6%). Lo spiraglio è nutrito dalla lieve rivitalizzazione dell’economia registrata alla fine del lockdown: “Gli indicatori disponibili per il mese di maggio – si legge – mostrano alcuni primi segnali di ripresa in linea con il processo di riapertura delle attività” e una “inversione di tendenza nei consumi di energia elettrica calati in misura marcata nel mese di aprile”.
Intanto, cala la domanda interna (-7,2 %), crollano i consumi delle famiglie (-8,7%) e gli investimenti (-12,5%), aumenta dell’1,6% della spesa delle Amministrazioni pubbliche. Crolla anche l’export: il ridimensionamento del commercio mondiale, si legge, “influenzerà il commercio estero italiano durante tutto l’anno”. Le esportazioni diminuiranno del 13,9% nel 2020 per poi aumentare del 7,9% nel 2021. Proprio ieri, alla Farnesina, è stato firmato un “Patto per l’export” con la speranza di rilanciare grazie alla comunicazione (bando da 50 milioni disponibile da qui a settembre) e al ricorso ai mercati digitali il “brand” Italia nel mondo. Il rallentamento dell’attività economica e il calo degli acquisti nella prima parte dell’anno dovrebbero determinare, invece, una flessione delle importazioni del 14,4% nel 2020 e poi un aumento del 7,8% nel 2021. Il Pil, insomma, viene rivisto al ribasso di 9 punti percentuali e comunque la si guardi ci vorranno almeno due anni per tornare ai livelli pre-Covid. Se tutto va per il meglio.
Ancora più tragica la ricaduta occupazionale. Già a marzo e aprile si era registrato un calo dell’occupazione di 400mila unità nonostante il blocco dei licenziamenti, quindi derivato per lo più dall’estinzione di contratti di lavoro a termine e dall’assenza di turnover. Prima che ai tassi di occupazione e disoccupazione, occorre guardare alle ore lavorate: “Il numero di ore settimanali pro-capite ha segnato una decisa riduzione nei mesi di marzo e aprile quando si è attestato a 22 ore (34,2 la media del 2019)” spiega l’Istat. Ne è stato perso circa un terzo e non andrà meglio. Le unità di lavoro (misurate in dipendenti occupati a tempo pieno, quindi per 8 ore al giorno), nel 2020 avranno una “brusca riduzione”, pari al -9,3%. Se si considera che nel 2019 erano circa 2,4 milioni, parliamo di un calo che di almeno due 2 milioni di posti di lavoro. Uno scenario terrificante. Gli inattivi sono già aumentati di mezzo milione (di 1,5 milioni in un anno), più accentuato nella fascia di età 35-49 (+10,4%, 278mila unità) e 25-34 anni (+8,8%, 172mila unità) in attesa, ad agosto, della fine del blocco dei licenziamenti.
Banche: milioni già spesi, ma ai truffati neppure 1 euro
Il fondo indennizzo risparmiatori, in sigla Fir, non ha indennizzato neanche un risparmiatore truffato dalle banche. Però la struttura che lo gestisce brucia già milioni di euro. Il fondo fu creato con l’ultima (e unica) legge di bilancio del governo di Cinque Stelle e Lega nel dicembre 2018 e irrorato con 1,5 miliardi di euro distribuiti in un triennio. Era una misura a lungo evocata, già illustrata in decine di comizi leghisti e grillini, alla fine fu sincronizzata con la campagna elettorale per le Europee con un messaggio apodittico contro il centrosinistra: voi mandate imprese e famiglie in malora, noi ci prendiamo cura delle vittime delle banche. Al contrario delle intenzioni, il voto del maggio 2019 spezzò l’alleanza gialloverde e il Fir si arenò nelle sabbie del Papeete di Matteo Salvini. Nel mezzo della baruffa politica tra un governo e un altro, il 22 agosto entrò in vigore il decreto attuativo per il Fir e si avviò la poderosa macchina dei rimborsi affidata a Consap, la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici, controllata dal ministero del Tesoro.
Come informa l’acronimo, Consap si occupa di assicurazioni, ma da un po’ di anni è diventata uno strumento del sistema bancario. Quello più malandato, si intende. Oltre al Fir, i governi hanno rifilato a Consap anche le Gacs, che sono le garanzie statali sulle “sofferenze bancarie”, cioè i prestiti elargiti e non più recuperabili. Il fondo indennizzo risparmiatori, invece, riguarda i titolari di obbligazioni subordinate o di azioni semplici di banche poste in liquidazione da novembre 2015 al gennaio 2018: le famigerate popolari Etruria e Marche; le Casse di risparmio di Chieti e di Ferrara; le due venete, popolare di Vicenza e Veneto Banca. Si disse: dopo la vergogna, le proteste, le inchieste, ecco lo Stato che risarcisce i truffati dalle banche. Per presentare le domande era stata fissata la scadenza a marzo di quest’anno, subito posticipata ad aprile e per la pandemia al 18 giugno. A Consap sono pervenute a oggi 112.000 domande, le previsioni dicevano almeno 300.000, ma neppure un euro è arrivato ai cittadini. “Dal 25 maggio abbiamo richiesto ulteriori riscontri all’Agenzia per le Entrate su pratiche già avviate. Non manca molto per poter liquidare le prime somme”, fanno sapere. In compenso, Consap ha investito 750.000 euro per la piattaforma che raccoglie le stesse domande e, in uno stabile nella periferia romana, ha preso in affitto 100 postazioni di lavoro per 640.000 euro l’anno e altre fruibili al prezzo di 1.000 euro ciascuna al mese. Tutti lavoratori esterni, in gran parte collegati da remoto (e il virus non c’entra), che sono coordinati da una trentina di dipendenti. Già da luglio scorso è attiva la commissione tecnica nominata dal Tesoro, otto membri più il presidente, deputata a ratificare i pagamenti. Soltanto di emolumenti, la commissione costa 190.000 euro all’anno, 30.000 per il presidente e 20.000 per gli altri. Per ogni volta che si riunisce, però, è previsto un gettone di presenza: 300 euro per il presidente e 200 per gli altri. Nel giro di un paio di mesi, il Tesoro dovrà rinnovare i vertici di Consap. Dall’ormai preistorico 2011, l’amministratore delegato (e poi anche presidente) è Mauro Masi, l’ex direttore generale della Rai in epoca dei feroci dissidi tra Annozero di Michele Santoro e il governo di Silvio Berlusconi. Masi ha trascorso il mandato che sta per terminare, il terzo, con a fianco l’avvocato Vittorio Rispoli nel ruolo di dg. La Consap di Rispoli ha ampliato le proprie funzioni che esorbitano dalle competenze assicurative. Dall’inizio della pandemia, per esempio, nella sede di Consap c’è circa il venti per cento dell’organico, come succede ovunque, ma in ufficio ci sono anche una trentina di impiegati esterni che si occupano della sospensione dei mutui.
Cosa sarà di Consap lo deciderà il ministro Roberto Gualtieri. Lo schema ricalca quello utilizzato per le recenti nomine di Stato: presidente (donna) ai 5S, amministratore delegato al Pd. Il favorito per la carica più importante è Andrea Peruzy, manager romano vicino a Gualtieri, già segretario generale della fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema, attualmente capo di Acquirente unico spa. Chiunque capiti dalle parti di Consap si ricordi che ci sono 1,575 miliardi di euro per i truffati delle banche.
Pulcini, “tose” e topi: Zaia non si ferma più
Lo strappo più evidente lo ha consumato il giorno dopo che Matteo Salvini, in crisi d’astinenza di selfie e bagni di folla, a Roma ha marciato per via del Corso, incurante dell’obbligo di indossare la mascherina. Luca Zaia, il 2 giugno, in piazza non c’è andato. Neppure a Mestre, dove si è tenuto un piccolo flash mob. Aveva promesso ai giornalisti che avrebbero comunque avuto la sua foto con il tricolore. Nulla, se non un commento affilato: “C’era il rischio di qualche assembramento e trovarsi in mezzo avrebbe trasformato la manifestazione in una mega polemica contro chi prima firmava ordinanze e poi va in piazza”.
Istituzionale, affidabile, a tratti formale, il presidente del Veneto ha voluto marcare la differenza. Ovvero, le due facce della Lega di lotta e di governo. Tanto Salvini è sanguigno, anti-sistema, in stato di conflitto permanente effettivo con Conte, tanto Zaia, l’ex promoter di feste in discoteca, il politico veneto di più lungo corso, vuole apparire raziocinante e positivo, un amministratore pratico, che non si fa travolgere dalle crisi (come invece il suo collega lombardo Attilio Fontana), anzi le cavalca.
Consenso. Ha così preferito restare imbullonato alla sedia, nella sede della Protezione civile a Marghera, dove da 110 giorni va in scena, a seconda dell’evolversi della pandemia, il più drammatico, realistico, serissimo show di una comunicazione politica che si trasforma anche in surreale caravanserraglio di opinioni, chiacchiere minimaliste, informazioni a buon mercato, frizzi e lazzi. Uno spettacolo in cui fa nascere i pulcini in diretta, mette all’asta uova di Pasqua, mostra i disegni dei bambini e dialoga a distanza con le “tose di Zaia”, giovani donne che lo amano. Dipendesse da lui, fino al giorno delle prossime Regionali non si alzerebbe più da quella sedia su cui ogni dì a mezzogiorno e mezzo racconta ai veneti la battaglia contro il Coronavirus, la bravura dei veneti, l’eccellenza della sanità (veneta), la generosità veneta nelle collette, la prudenza veneta nel rispettare regole e indossare mascherine. Altro che ombrellone in spiaggia a Jesolo – con distanziamento –, la tintarella lui continuerebbe a prenderla lì, discettando di tutto, sotto i riflettori, con alle spalle Chiara Scipione, che traduce le parole nella lingua dei segni, perché anche i non udenti sono elettori.
Più trascorrono le settimane e le terapie intensive si svuotano (ieri, solo un ricoverato positivo al Covid-19), più l’happening con la stampa si trasforma in kermesse elettorale. “E tutto a spese della Regione”, commenta Enrico Cappelletti, candidato M5S alle Regionali. Alessandro Bisato, segretario Pd veneto, aggiunge: “Da mesi c’è un uomo solo che parla”. E +Europa ne chiede l’interruzione: “Solo propaganda”.
Verso le Regionali. Le elezioni sono il secondo strappo con Salvini, che un mese fa riunì i parlamentari e disse: “Si vota in autunno”. Invece Zaia voleva le urne a luglio, ufficialmente per ragioni sanitarie, in realtà per usufruire dello scivolo formidabile di una notorietà acquisita sul campo. A Salvini sta bene uno Zaia in campagna elettorale, perché in autunno spera di assestare un colpo al governo. Per il segretario è il leghista più ingombrante. Troppo popolare, anche se gli giura fedeltà e resiste alle sirene (Financial Times, sondaggi di alto gradimento) che lo vorrebbero proiettato verso incarichi nazionali. “Devo finire il mio lavoro qui”, dice. L’estate la trascorrerà a inseguire la sua terza elezione, forte anche della conferenza stampa diventata simbolo di strapotere.
Scivoloni. Una macchina del consenso per far dimenticare alcune plateali scivolate. Quando all’inizio disse che la pandemia “è solo mediatica”. Che i veneti non si infettano perchè si lavano. Che i cinesi mangiano topi vivi. Oppure quando il 7 marzo contestò la prima “zona rossa” di Giuseppe Conte che comprendeva tre province venete: “L’emergenza non c’è”. Salvo implorare, due giorni dopo: “Tutti in casa, o in un mese avremo due milioni di contagi in Veneto”. Oppure quando lesse una “bellissima poesia” dell’inesistente storico Eracleonte da Gela sul “male nell’aria”. O quando ha sentenziato che il virus è mutato, quindi è stato creato in laboratorio, inducendo il suo mite avversario elettorale, il professore Arturo Lorenzoni, a dire: “Parla come Trump”. Poi Zaia ha decapitato in diretta la testa del povero professor Andrea Crisanti, il padre dei tamponi che hanno salvato il Veneto, reo di aver criticato il funzionamento della sanità regionale: in due giorni ha schierato un magic team di medici, ricercatori, primari, per dimostrare che il Coronavirus non è stato sconfitto da Crisanti, ma dallo staff del presidente Zaia. L’unico contro cui non muove un dito è Matteo Salvini. “Tranquilli, non si metterà contro di lui, perché non cerca rogne”, assicura Flavio Tosi, ex sindaco di Verona ed ex segretario della Lega Nord-Liga Veneta. Per questo i due, che non si amano appassionatamente, faranno vacanze separate.
Il vangelo leghista secondo Matteo o Luca
Rischia di essere un mojito amaro come una cicuta quello che Matteo Salvini sarà costretto a bere quest’estate. Non sappiamo ancora se il Capitano, nel suo giro d’Italia appena partito, ad agosto passerà per il suo amato Papeete. Molti lo sconsigliano, ma chi lo conosce sa bene che il Capitano adora quella parte di Romagna e difficilmente rinuncerà a trascorrere qualche giorno di relax nello stabilimento di Massimo Casanova, nel frattempo premiato con un seggio a Strasburgo. Un soggiorno, che, se avverrà, anche a causa del distanziamento sociale, sarà assai più sobrio rispetto a quello della pazza estate 2019, tra sbevazzate, dj set e cubiste in tanga.
Il problema è che Matteo Salvini ha paura. È terrorizzato dall’erosione del consenso. Teme che le preferenze degli italiani continuino a scivolargli via come sabbia tra le dita. Trema soprattutto al pensiero di fare la fine di Matteo Renzi: apice e discesa in un paio di giri di giostra, e tanti saluti. Altrimenti non si spiegherebbe la chiamata alle armi di ieri dalle pagine della Stampa, dove il leader leghista ha chiesto elezioni politiche a ottobre, insieme a Regionali e Comunali. Con un election day “monstre”, grandioso quanto impossibile visto che prima va fatto il referendum sul taglio dei parlamentari. Allora perché il capo della Lega se n’è uscito così?
La risposta sta nei numeri e in due personaggi che gli tolgono il sonno. I primi sono impietosi: nel giro di tre mesi, secondo Ipsos, la Lega è passata dal 32 al 24,3%. Quasi 8 punti lasciati sul terreno, che diventano più di 10 se pensiamo alle Europee del 28 maggio 2019, quando il Carroccio raggiunse il suo massimo storico, col 34,3%, oltre 9 milioni di voti. Sondaggi che continuano a scendere in maniera inversamente proporzionale a quelli di Fratelli d’Italia, data al 16,2%, più 4 punti rispetto a febbraio, tutti tolti al Carroccio. E alla popolarità di Luca Zaia, il primo competitor di Salvini da quando è segretario. Il governatore che, in epoca di emergenza Covid, a parte qualche gaffe, non ha sbagliato un colpo. Zaia che per ora esclude di voler scalare il partito (“non gli piace fare il capo, ma amministrare, da governatore e da ministro”, giurano in Lega), ma domani chissà. Tanto più che a Salvini hanno dato molto fastidio un paio d’interviste recenti in cui il Doge ha toccato quasi solo temi nazionali, alzando il tiro. “Salvini è populista, Zaia è popolare. La differenza è tutta qua”, ha detto l’ex sindaco di Verona Flavio Tosi, che conosce bene entrambi.
Il Capitano ha bisogno quindi di tornare al centro della scena e di riprendere la sua narrazione. Perché ormai se si pensa alla buona amministrazione, non solo sanitaria, il modello Veneto ha soppiantato il modello Lombardia. Ed è proprio la Lombardia il tallone d’Achille del Capitano, dove la vera “governatrice” si dice sia la sua ex compagna Giulia Martinelli, capo della segreteria di Attilio Fontana. Poteva essere il trampolino di lancio verso la conquista di Milano e invece si sta rivelando una Caporetto, come dimostra pure l’ultima tegola caduta sulla testa del presidente, con il conflitto d’interessi sulla commessa per i camici. “Se perdiamo consensi è anche per lo sciacallaggio mediatico sulla regione”, dicono dallo staff del leader leghista. “Il calo, però, era previsto perché con la pandemia abbiamo pagato la mancanza delle piazze e il contatto con la gente. Mentre Conte e il suo governo hanno tratto vantaggio dalla sovraesposizione dovuta all’emergenza”, si aggiunge. E così il Capitano è già ripartito come una trottola coi suoi tour, per vedere se il suo popolo c’è ancora.
Nel frattempo ha dettato la linea. “Protesta e proposta”, sarà il refrain dell’estate 2020. Incunearsi nelle difficoltà economiche e sfruttare al massimo l’insoddisfazione degli italiani in attesa dei soldi: imprese, autonomi, dipendenti in cassa integrazione. E poi vecchi cavalli di battaglia: lotta alla burocrazia sull’onda del modello Genova e flat tax. Di immigrati non si parla più e quindi non ne parla neanche lui, mentre sull’Europa “brutta e cattiva” userà bastone e carota, a seconda del momento. Perché il nuovo nemico numero uno, per lui, è il governo Conte che “affama gli italiani”. La sua Lega, dunque, tornerà stucchevolmente barricadera, come dimostra la nomina di Alberto Bagnai al dipartimento economico del partito (preferito a Claudio Borghi), con Giancarlo Giorgetti sempre più defilato, costretto a ululare alla luna.
Non solo. I rapporti con gli alleati si fanno sempre più tesi. In Puglia e in Campania Salvini farà di tutto per non candidare Raffaele Fitto (FdI) e Stefano Caldoro (FI), mentre Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, velenosi, non si oppongono alla candidata leghista in Toscana (Susanna Ceccardi), regione data per persa. E l’estromissione dell’unico assessore leghista (Luigi Mazzuto) dalla giunta molisana per volontà del governatore forzista Donato Toma contribuisce a incendiare gli animi.
Nessun ripensamento, invece, sulla scelta “nazionale”. “Invece Salvini dovrebbe tornare a guardare al suo territorio, a fare gli interessi del Nord, come fa benissimo Zaia”, osserva Stefania Piazzo, che ha ridato vita, sul web, a La Nuova Padania. “Meno populismo e più popolo, meno social e polemicuzze quotidiane, più visione politica, e in cima a tutto l’economia post Covid”, continua Piazzo. Che poi confida: “Matteo è un grande leader, ha salvato la Lega, ma ora mi sembra solo, circondato da ragazzini che sanno solo fare sì con la testa. Questo alla lunga si paga…”. E ora gli scontenti sanno dove guardare: verso est, verso San Marco, verso il Doge veneto.
Dopo 3 mesi arriva la Cig. Quella veloce a fine luglio
È la falla più grande delle misure messe in campo per fronteggiare l’emergenza Covid. Ma ora anche la promessa di rendere la cassa integrazione meno farraginosa e soprattutto più veloce rischia di trasformarsi in un altro passo falso. La spiegazione sta tutta nei numeri.
A fine marzo, presentando il Cura Italia, che ha esteso la cassa ordinaria e quella in deroga a tutte le imprese danneggiate, il governo aveva promesso il pagamento dei sussidi entro il 15 aprile. Ma tra ritardi, rimpalli, litigi, 21 diversi accordi, 21 diverse tempistiche e 21 diverse procedure regionali ci sono voluti ben 90 giorni per pagare l’indennizzo di marzo e aprile a 8,4 milioni di lavoratori. Sempre che l’ultima dichiarazione del presidente dell’Inps Pasquale Tridico si concretizzi: “Entro venerdì 12 giugno pagheremo tutte le 419.670 mila domande giacenti”, ha spiegato ieri a Repubblica. Una dichiarazione che tra i consulenti del lavoro desta più di qualche perplessità. Gli ultimi a ricevere la Cig saranno i lavoratori le cui aziende non hanno compilato correttamente il modello SR41 in cui ci sono i dati e l’Iban di chi è stato effettivamente messo in cig e non solo potenzialmente inserito nella domanda.
Da qui la promessa di un pagamento rapido della nuova cassa integrazione a partire dal mese di maggio. Nel dl Rilancio è stato infatti previsto un meccanismo che bypassa le Regioni, con la richiesta del sussidio che va fatta direttamente all’Inps che potrà così anticipare il 40% della somma dovuta in tempi definiti “veloci”. Ma anche questa procedura rischia di trasformarsi in un nuovo terreno scivoloso: solo entro la fine di luglio, i lavoratori otterranno l’acconto della Cig per poi dover aspettare i primi di settembre per ottenere il saldo. Per capire: con una Cig a zero ore e 800 euro netti al mese, si prenderanno 400 euro di acconto per 5 settimane. Poi in autunno arriveranno altri 600 euro.
“Anche se sarà solo l’Inps a gestire il meccanismo, la procedura resta complessa”, spiega il consulente del lavoro Enzo De Fusco. Dal 18 giugno (a 30 giorni dall’entrata in vigore del dl Rilancio), se verranno emanati i decreti interministeriali di Lavoro ed Economia e pubblicate le istruzioni da parte dell’Inps, le aziende avranno 15 giorni di tempo per presentare la domanda di Cig e altri 15 giorni avrà l’Inps per mettere in pagamento l’anticipo delle ore autorizzate relative a maggio. Con un enorme problema ancora in cerca di una risoluzione. “Le molte aziende che a metà giugno termineranno le vecchie 9 settimane di cig, rinnovate in 5+4 dal dl Rilancio, non potranno presentare le domanda prima di inizio settembre. Un buco di due mesi e mezzo che diventa ingestibile senza la cassa integrazione, perché il lavoratore non viene impiegato e allo stesso tempo non può essere licenziato, dato che fino al 17 agosto non si potrà mandare a casa nessuno”, spiega De Fusco.
Il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo negli scorsi giorni ha detto che punterà ad estendere al 31 dicembre sia la Cig che il blocco dei licenziamenti. In attesa che tra tre giorni vengono dati i primi soldi a 420 mila lavoratori che li aspettano da tre mesi.