Ma il Pd non sa dove andare: Franceschini silenziato da Zinga

Il Pd non può segare il ramo sul quale è seduto. Eppure il ramo è pericolante e per giunta piuttosto scomodo. La prima direzione (in streaming) dell’era Covid dei Democratici sancisce l’immobilismo. Per quel che riguarda l’appoggio al governo Conte, ma anche rispetto alle dinamiche interne. Fine della contrapposizione frontale sugli Stati generali annunciati dal premier in solitaria. Perché il governo deve darsi una mossa, ma “tocca a Conte accorgersene”. E anche rinvio a data da destinarsi del congresso. Era previsto in autunno, non ci sono le condizioni per farlo. Nicola Zingaretti traccia la linea: “Servono scelte nuove e una decisiva svolta da compiere insieme ai nostri alleati, solo questo è stato il cuore del confronto in queste ore, utile, che continuerà”. Il tentativo è quello di chiarire che “non è più consentito permettersi degli errori”, come vanno ripetendo vari big dem negli ultimi due giorni. Ma poi sottolinea: “Con Conte non c’è stata nessuna contrapposizione ma la necessità di un salto di qualità necessario”.

Si va avanti. A meno che il quadro sociale non precipiti. A meno che un incidente non porti la legislatura a una fine per ora imprevedibile. Il 20 settembre si vota per amministrative e referendum sul taglio dei parlamentari. Ergo, sarebbe pure l’ultima data utile per elezioni politiche che portino in Parlamento lo stesso numero di deputati e senatori di oggi. Ma il Pd per ora punta ad andare avanti. La direzione scorre via abbastanza tranquilla, pure se piuttosto partecipata. Si nota la presenza silenziosa di Dario Franceschini, nonostante l’attesa per la sua posizione. Il capo delegazione resta convinto che al momento non c’è alternativa (che gli convenga) a Conte. E nel nome di questa certezza sta affrontando anche una battaglia silente. Come dimostra l’attivismo sul tema degli ultimi giorni, Luigi Di Maio punta a portare alla Farnesina la delega al Turismo, sottraendola al Mibact (ce l’ha Lorenza Bonaccorsi). Franceschini per ora non reagisce frontalmente rispetto alle invasioni di campo: il timore è che tra le rivalità dello stesso Di Maio con Conte e le divisioni nei Cinque Stelle, il quadro non tenga.

Non parlano i ministri di Area Dem e di Base Riformista. Andrea Orlando, il vice segretario, prende la parola a lungo in appoggio alla linea: studia da leader dem, ormai non è un segreto per nessuno. Spiccano, viceversa, gli interventi di Roberto Gualtieri, Paola De Micheli e Francesco Boccia. Rivendicano l’azione del governo. “Stiamo facendo cose storiche che cambiano il paese”, dice il titolare del Mef. Risponde a Matteo Orfini che parla di “un racconto trionfalistico” che “stride con un Paese in cui cresce la sofferenza sociale e la gente rischia di morire di fame”. Qualche intervento critico, oltre al suo, c’è. Gianni Cuperlo esplicita: “Dobbiamo decidere se limitarci a proseguire l’azione di sostegno della maggioranza. Oppure se non dobbiamo mettere in campo una maggiore autonomia nel disegnare l’Italia del dopo Covid. La mia opinione è che dobbiamo imboccare la seconda strada”.

Su questa linea anche il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio e Maurizio Martina. Tra gli elementi problematici, l’assenza del Pd dal punto di vista comunicativo. Per Br da notare la puntualizzazione del coordinatore Alessandro Alfieri. Risponde al segretario che nella relazione aveva fatto una battuta sull’unità nelle minoranze finché non c’è un candidato alternativo: “L’unità va di pari passo con la condivisione delle scelte e con il pluralismo”. Ecco anche spiegato il senso dell’assemblea che Zingaretti annuncia per luglio: serve un voto sulla linea politica, dopo che in segreteria è entrata Br. Con mille delegati, chi lo sa se si riuscirà a fare. Per adesso, punto e a capo. Zingaretti lancia un affondo sulla necessità del Mes, ma al Nazareno aspettano di capire come e quando Conte deciderà di fare gli Stati generali. Il partito si adeguerà.

Non solo Mes: i dubbi giallorosa. E anche Colao non convince

Tutto il Pd riunito canta la stessa canzone: “Non si può tirare a campare, basta chiacchiere”. E da Palazzo Chigi, la casa del presidente del Consiglio sempre più terzo rispetto ai partiti, filtra un’unghiata: “Forse dà fastidio l’altissimo consenso di cui gode Giuseppe Conte”. Ed è già questa la fotografia di una maggioranza che sta assieme per forza. “Navighiamo a vista” riassume una fonte di governo del M5S, dove non mancano i critici del premier, anzi. Ma tanto “un’alternativa non c’è, anche con un minimo rimpasto verrebbe giù tutto” sostiene il grillino di rango. Figurarsi se tirassero giù il Conte che piace a pochi ma di cui nessuno può fare a meno.

Perché un vero piano B non c’è. E poi perché è davvero troppo forte nei sondaggi. Quello di Sky domenica raccontava che un M5S guidato dall’avvocato risalirebbe al 20 per cento, sopra il Pd. Un dato che ha colpito molto i big 5 Stelle e che ha suscitato altri mal di pancia tra i dem. E comunque a complicare le cose c’è anche e innanzitutto il Mes, il fondo Salva-stati che anche ieri Nicola Zingaretti ha descritto come “una leva straordinaria”. Provocando la replica del Movimento: “L’insistenza del Pd sul Mes non scalfisce la nostra posizione, semmai rischia di indebolire la posizione dell’Italia in Europa”. Ma non basta, perché in serata dal M5S urlavano contro “il blitz vergognoso di Pd e centrodestra nelle Marche, che a tre mesi dalle Regionali vogliono modificare la legge elettorale per impedire che i candidati presidenti eletti in Consiglio siano solo i primi due”.

Un’altra risposta al curaro al segretario dem: “Si presume che Zingaretti non ne fosse al corrente quando oggi faceva un appello a non ostacolare nei territori le alleanze…”. Non proprio un buon viatico per Conte, che ieri sera ha riunito i capidelegazione di maggioranza, assieme al ministro per l’Economia Gualtieri e al sottosegretario Riccardo Fraccaro, per raccontare cosa ha in mente per gli Stati generali per l’economia, che inizieranno a Roma giovedì. Il premier ha illustrato a grandi linee gli obiettivi e il programma, dicendosi disposto anche a invitare le opposizioni. Un modo per ricucire innanzitutto con il Pd, che lo aveva accusato di “non averci detto niente prima”. Nel frattempo ieri dalla task force guidata da Vittorio Colao è arrivato il rapporto per la “ripartenza” di un’Italia “resiliente”. Peccato che molta della nostra capacità di difenderci da “futuri choc di sistema”, dipende da parole d’ordine che sentiamo da qualche decennio: innovazione, digitalizzazione, parità di genere, inclusione e “rivoluzione verde”. A Palazzo Chigi l’hanno già liquidata come la scoperta dell’acqua calda. Ma forse non hanno ancora letto le 121 schede di lavoro. Perché hanno ragione – Colao e i suoi – a dire che “questo non è un libro bianco, sono azioni concrete”. Che siano in linea con l’esperienza giallorosa, è tutto da vedere.

La prima riguarda l’annosa questione su cui Confindustria minacciava barricate: “Escludere il contagioCovid-19 dalla responsabilità penale del datore di lavoro per le imprese non sanitarie”, recita il rapporto Colao, che esonera le aziende anche nel caso in cui l’Inail riconosca l’infortunio al lavoratore. Altre – come la deroga per il 2020 al decreto Dignità, che amplia i rinnovi dei contratti a termine – le avevamo già sentite. Altre pure, ma in tempi non sospetti: tipo la voluntary disclosure – ovvero, il condono – per lavoro nero e redditi non dichiarati. Una prece sul passato, mentre per il futuro tornano gli antichi incentivi all’uso del contante e il bando alle banconote sopra i 100 euro. Poi c’è la proroga delle concessioni: si citano le spiagge ma pure le autostrade, il gas, l’energia. E sempre le concessioni vengono evocate per “beni immobiliari di valore storico e artistico” da trasformare in alberghi. Si immagina un divieto di opposizione degli enti locali per infrastrutture di “interesse strategico”. E semplificazioni al Codice degli appalti. Decisioni che – spiegano dal governo – saranno solo “una base di partenza” per il piano di rilancio. Che riguarda anche concorsi pubblici, dottorati di ricerca e asili nidi aperti anche nei festivi. Peccato che il sabato del villaggio, a occhio e croce, sia soprattutto quello delle solite lobby.

Casa Fontana

Senza offesa per Sandra & Raimondo, dobbiamo confessare che i primi episodi della sit-com Casa Fontana fanno quasi più ridere di Casa Vianello. E rischiano di oscurare le gag dell’altro astro nascente del cabaret milanese: Giulio Gallera. Sulla fornitura di camici, calzari e copricapi medicali affidata il 16 aprile dall’agenzia regionale Aria Spa a Dama Spa (azienda controllata dal cognato e partecipata dalla moglie del presidente della Regione) per 513 mila euro e tramutata in donazione solo il 22 maggio (quando già Report indagava), con storno delle fatture già emesse, sono uscite in 48 ore una mezza dozzina di versioni ufficiali che si contraddicono l’una con l’altra. E stridono con i documenti scoperti da Report, usciti sul Fatto e mai smentiti da alcuno. Ma soprattutto trasformano Casa Fontana in una sceneggiatura con finali multipli, come Parasite, Black Mirror: Bandersnatch e Signori, il delitto è servito.

Versione 1. Nota ufficiale del portavoce di Fontana, interpellato da Report: “Della vicenda il presidente non era a conoscenza…”. Milano, 16 aprile 2020, interno giorno. Il presidente lumbard rincasa e trova la moglie Roberta Dini che parla al telefono col di lei fratello Andrea Dini della fornitura da 513 mila euro appena affidata alla loro azienda dalla Regione presieduta dal marito e cognato. Ma l’Attilio non fa caso a quel che dicono, preso com’è dallo sdegno per quella presenza indesiderata. La donna protesta di essere sua moglie, fra l’altro la seconda, da un pezzo. Ma lui non ammette repliche. “Mai avuto mogli, né dunque cognati. Fuori da casa mia o la denuncio per violazione di domicilio!”.

Versione 2. Nota ufficiale del portavoce di Fontana: “…Sapeva che diverse aziende, fra cui Dama Spa, avevano dato disponibilità a collaborare con la Regione per reperire con urgenza… mascherine e camici per strutture sanitarie”. Milano, palazzo della Regione, interno sera. Fontana (che non sa, ma sa) ringrazia Dama Spa per la disponibilità a collaborare con la Regione, ma non sa che Dama Spa è dei fratelli Dini; o, in alternativa, ignora che i fratelli Dini siano suo cognato e sua moglie. Infatti non avverte né loro, né Dama Spa né Aria Spa di fare tutto gratis, per non incappare in un mega-conflitto d’interessi che gli costerebbe la faccia. O, in alternativa, complice quella maledetta mascherina, non sa di avere una faccia.

Versione 3. Dichiarazione di Andrea Dini a Report: “Effettivamente… i miei… quando non ero in azienda durante il Covid… chi se ne è occupato ha male interpretato. Ma poi me ne sono accorto e ho subito rettificato tutto perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione”.

Varese, 30 aprile, Dama Spa, colosso italo-svizzero della moda titolare del marchio Paul&Shark, interno giorno. La donna delle pulizie, che durante il lockdown sostituisce il Ceo Andrea Dini (in giro non si sa dove né perché) e due settimane prima ha siglato con l’agenzia regionale Aria Spa il contratto da mezzo milione, riceve una telefonata dal principale. Che le ricorda di non emettere fattura, perché è una donazione. Ma la linea è disturbata, così la donna capisce di dover emettere una fattura da 513 mila euro. Quando poi il 22 maggio il Ceo lo scopre, parte il cazziatone: “Ma ti pare che mi faccio pagare per queste cose? Fai subito una nota di credito”. E lei: “Ma per trasformare una vendita in un regalo non dovremmo consultare il Cda e la proprietà in Svizzera? E che dirà il collegio sindacale? Siamo una Spa…”. E lui: “Ma che ne sai te delle Spa… Fai come ti dico. Storna la fattura”. E lei: “Guardi che i 513 mila euro sono scritti nell’ordinativo che abbiamo concordato con Aria, infatti quelli dicono che ci pagano fino all’ultimo euro!”. E lui: “Digli che se insistono a pagarmi, mi offendo! Vatti a fidare delle donne delle pulizie…”.

Versione 4. Ricostruzione di Alessandro Sallusti sul Giornale: “Un’azienda, nel pieno dell’emergenza Covid, dona oltre 350mila euro di materiale sanitario agli ospedali lombardi e finisce nel tritacarne degli odiatori mediatici. La colpa? Essere parenti del presidente Fontana. A quelli di Report e ai loro cugini del Fatto Quotidiano la Lombardia proprio non va giù… La moglie del governatore – per mere questioni familiari – è socia al 10% dell’azienda… La Regione fatturò come da procedura, ma la fattura venne ‘stornata’, cioè respinta perché, come da accordi, si trattava di donazione… Ma, invece degli applausi, piovono sospetti e fango… un’autentica porcata… spazzatura… danza sui morti”. Milano, Aria Spa, interno giorno. Arriva una chiamata del Dini che offre in dono materiali sanitari per 350mila euro, ma per i soliti problemi di campo i dirigenti regionali capiscono fornitura per 513 mila euro. E compilano l’affidamento diretto con fatture a 15 giorni e pagamenti a 60, senz’avvertire Fontana né come presidente, né come marito, né come cognato. Quindi la donna delle pulizie è innocente: è tutta colpa dell’agenzia regionale. Infatti, appena lo scopre grazie al Fatto, Fontana non ringrazia: anzi ci querela e diffida Report.

Versione 5. È la prossima scena: Gallera, vedendosi scavalcato da Fontana e pensando di far cosa gradita, posta un video in cui spiega l’affaire dei camici col suo infallibile modello matematico: “Con l’Rt a 0,50, per avere un camice gratis bisogna comprarne almeno due!”.

“Striminzitic e contenti: è uno show da(l) salotto”

“Sono nato figlio della Lupa e poi sono stato chierichetto nella chiesa di Gesù e Maria a Foggia. Seguivo le messe dei morti perché mi svegliavo tardi, ma chiedevo perdono a Dio. Poi sono stato repubblicano, seguendo le orme di mio nonno, discendente di Carlo Cafiero. E poi ancora, con D’Agostino, sono stato uno dei protagonisti del riflusso per cancellare gli Anni di piombo, i terribili anni Settanta. Adesso sto aspettando di capire cosa sarà il post coronavirus. Mi definisco un vichiano, nel senso di Giambattista Vico, il filosofo del ’700 che ha analizzato i corsi e i ricorsi storici”. Quando parli con Renzo Arbore, sai come cominci ma non sai dove vai a parare. Non esistono singole etichette per definire la sua arte e la sua incredibile capacità comunicativa. Soprattutto, non esistono barriere anagrafiche che possano frenare la sua instancabile voglia di stabilire un contatto con il pubblico. E così si scopre che anche i periodi bui e difficili come quelli che stiamo vivendo possono trasformarsi in occasione di risate. Anzi, di sorrisi.

E infatti il suo “Striminzitic Show”, che parte stasera in prime time su Rai2 (per poi trasferirsi da domani in seconda serata, sempre su Rai2, una puntata al giorno dal lunedì al venerdì), nasce dal suo seguitissimo programma “50 sorrisi da Napoli”, che ha tenuto compagnia agli italiani durante la quarantena sul canale renzoarborechannel.tv.

Arbore, non si è fermato neanche durante la quarantena?

Qualche mese fa ho avuto la broncopolmonite. Mi sono spaventato e sono dovuto rimanere a lungo in casa. Non so se è stato coronavirus. Per fortuna sono guarito. Per la pandemia ho dovuto annullare tutti i concerti sold out e sono preoccupato per i miei orchestrali. Ma non sono stato fermo e adesso ho una scommessa da vincere. Non dico che vincerò perché è un’affermazione che ha sempre portato sfiga.

E cos’ha fatto durante il lockdown?

Ho riscoperto e sistemato il mio archivio, che era molto disordinato. Trasferendo le videocassette in dvd, ho ritrovato un patrimonio. E non parlo (solo) di “Indietro tutta” e “Quelli della notte”: ho fatto 18 format televisivi, cominciando da “Speciale per noi”, il primo talk show in assoluto, e tre radiofonici (“Bandiera gialla”, “Per voi giovani” e “Alto gradimento”). Una volta scoperte le chicche del mio archivio, sia il mio storico autore Ugo Porcelli sia il mio discepolo e collaboratore musicale Gegè Telesforo mi hanno chiesto: perché non facciamo un programma?

Anche perché lei, nel frattempo, stava realizzando gli appuntamenti quotidiani di “50 sorrisi da Napoli”.

Che hanno avuto un successo inaspettato, e non soltanto al Sud. Centomila visualizzazioni in media, con punte fino a un milione – accoppiate ai social – con Maurizio Casagrande che ha rifatto Ma la notte no.

Lei, classe 1937, che “spacca” su Internet…

Sono partito nel 2007 a esplorare la Rete, con una diretta dall’Auditorium di Roma. E ancora adesso sono un grande navigatore notturno. Resto un talent scout: nel programma ci saranno anche alcune nuove scoperte.

Ce le può anticipare?

Avremo un giovane doppiatore, per esempio, Stefano De Santis che viene dall’Officina Pasolini: doppia Mattarella, Conte, e De Luca. E poi la Song ‘e Napule Original Band (Sob): un gruppo di professionisti che rivisita in chiave ironica canzoni di Carosone. E l’attore comico pugliese Uccio De Santis.

Però ci saranno anche i suoi amici, una sorta di “Arbore and friends”.

Certo, ma pure friends senza Arbore: Elio e Lillo&Greg fanno uno sketch in sintonia con le mie corde, quindi li ho presi. Non voglio realizzare un programma storico, ma un programma di malefatte.

Dove girate?

A casa mia. Siamo asserragliati nel mio condominio. È un programma di difficile confezione: saremo io e Gegè, con il regista Gianluca Nannini e due operatori.

Ma si riderà.

Da me tutti si aspettano il sorriso, mica vado nei talk show ad aumentare la canizza politica. Anche se mi è stato chiesto.

Cosa abbiamo imparato da questo periodo?

Abbiamo riscoperto il valore della competenza e dell’educazione: ovviamente non parlo di come si sta a tavola, ma del modo in cui abbiamo recepito e rispettato le indicazioni governative. Abbiamo riflettuto, cercato la verità tra le fake news. E poi abbiamo riscoperto la bellezza dei nostri territori, la loro originalità. Ci stiamo convincendo che siamo fortunati a essere nati in un Paese dalla bellezza concentrata. E adesso la retorica non ci fa più paura.

Turismo. Mentre il settore attraversa una crisi nerissima, ci si scanna sulle poltrone dell’Enit

Nel momento più buio del turismo italiano, tra stranieri che esitano a varcare i confini e connazionali che non se la sentono di andare in vacanza o non hanno più i soldi per farlo, l’Enit, l’agenzia pubblica che il turismo dovrebbe promuovere e incrementare, sembra “nave sanza nocchiere in gran tempesta”.

Zero strategia e parecchia improvvisazione condita da episodi di bassa cucina, come l’aumento di stipendio in piena era covid a metà dei dipendenti e un super aumento di oltre il 10 per cento al direttore finanziario, Leonardo Francesco Nucara. O come la nomina, sempre in era covid, del nuovo responsabile della sede di Shangai, il pesarese Cristiano Varotti, nonostante fosse chiaro a tutti che la stessa sede sarebbe stata off limits per mesi. Eppure per questo guscio vuoto si è scatenata una guerricciola di potere di tutti contro tutti. Obiettivo: le poltrone che contano.

Il ministro della Cultura e del Turismo, Dario Franceschini (Pd), sta cercando di monopolizzare l’Agenzia con esponenti della sua estesa filiera di potere che si interseca in molti punti con quella della Regione Lazio del segretario del partito, Nicola Zingaretti, di cui è portabandiera la sottosegretaria al Turismo Lorenza Bonaccorsi. Franceschini ha infilato nel decreto Rilancio un articolo ad hoc (il 179) per riformare l’Agenzia con l’intento finale di nominare un nuovo consiglio tutto di stretta osservanza franceschiniana con amministratore delegato un dirigente fidato, Giovanni Bastianelli, attualmente direttore esecutivo.

Ai 5 Stelle però la manovra non piace. Il deputato Mattia Fantinati che di professione è ingegnere ambientale, ma come politico si è sempre occupato di turismo avendo pure scritto per il Movimento la parte turistica del programma di governo, ha presentato un emendamento che intralcia le mire del ministro e punta a contenere l’occupazione franceschiniana del vertice Enit. Fantinati vuole che almeno uno dei consiglieri sia scelto dalle associazioni di categoria tra le quali la più potente e influente è Federturismo guidata da Marina Lalli. In alternativa a Bastianelli, come amministratore i 5 Stelle preferirebbero Marco Palumbo, ex stretto collaboratore proprio di Franceschini, finito però in un cono d’ombra per aver osato criticare l’intoccabile ex capo Enit, Evelina Christillin.

In questa faida c’è anche un terzo incomodo: il presidente Giorgio Palmucci, che non se la sente di fare la fine del tacchino a Natale. Sa di dover sloggiare essendo stato nominato dal precedente ministro, il leghista Gian Marco Centinaio, ma prima intende prendersi qualche soddisfazione insieme agli attuali consiglieri. Palmucci ha inviato una lettera al direttore esecutivo e futuro amministratore in pectore Bastianelli in cui gli chiede conto di numerose scelte, compresa quella della digitalizzazione del ricco archivio storico fotografico Enit. Un anno fa l’Università di Roma avrebbe fatto il lavoro gratis, ma all’Enit hanno preferito spendere e stanno preparando una gara con una base d’asta di 200 mila euro.

Il mercato non è la panacea, però il monopolio è peggio

La Lega, molti 5 Stelle, Fratelli d’Italia, e Liberi e Uguali sono uniti nella lotta contro “i mercati”, senza di solito specificare molto, tanto ci si intende. Intanto è notevole la convergenza tra destra e sinistra, che invece dovrebbe provocare qualche riflessione. Proviamo ore una timida difesa, molto poco “politically correct”, di cosa è anche il mercato (senza volerne negare le contraddizioni).

1- Il libero mercato, cioè la concorrenza, è meglio del monopolio, che sottrae risorse alla collettività e ne deprime la crescita. Uno può giustamente preferire il socialismo (il mercato è basato sull’egoismo, che non è un bel sentimento). Ma se non si fa la rivoluzione socialista (“vaste programme” direbbe De Gaulle), intanto è meglio che si combattano i monopoli, pubblici e privati.

2- È una forma in cui si esprimono le preferenze dei cittadini, quindi, insieme al voto, è una manifestazione di democrazia. Le dittature invece decidono cosa produrre e consumare.

3- Ha aumentato pericolosamente le diseguaglianze all’interno dei singoli paesi, ma le ha enormemente diminuite a livello globale. Negli ultimi 50 anni, con la globalizzazione, siamo passati da 4 miliardi di abtianti, di cui 2 facevano la fame, a quasi 8, di cui meno di uno fa la fame. E questo grazie alla crescita di paesi come India e Cina, il cui reddito è cresciuto molto più rapidamente di quello dei paesi sviluppati. Il prezzo dei beni alimentari di base in termini reali è diminuito rispetto a 50 anni fa.

4 – Il libero mercato storicamente è cresciuto insieme alla democrazia. Certo con molte eccezioni, ma sembra difficile che sia proprio un caso, visto che entrambi i fenomeni si basano sulla libertà di scegliere.

5- Una fake-news (cara anche a Papa Bergoglio) fa coincidere “mercato” con “profitto”. Falso. La coincidenza è tra mercato e ricerca del profitto. Si vedono solo i profitti perché tutti quelli che falliscono o si mangano il capitale spariscono dallo schermo. Anzi, se i profitti sono eccessivi, c’è la quasi-certezza che si tratti di rendite di monopolio, cioè il contrario del libero mercato, che per definizione i profitti li riduce. Le super-multinazionali basate sul web sono uno dei problemi ricorrenti della tendenza alla formazione di monopoli, che deve essere combattuta, come lo è sempre stato. Lo “Sherman Act” del 1885 per la lotta ai monopoli nacque in America nel periodo di massimo trionfo dei monopoli, e provocò la furia dei monopolisti colpiti (all’inizio le ferrovie dei “rail barons”), ma ancora nei film degli anni ’30 del secolo successivo, finanziati dai baroni del tabacco o del petrolio, risuonavano duri attacchi all’Antitrust americana. Trump fa di tutto per diminuirne il potere, e anche da noi la Lega e alcuni gruppi industriali attaccano come “enti inutili” le Autorità di tutela della concorrenza (e questa è una buona notizia: se i monopolisti non protestano, è segno che l’azione di chi deve combatterli è troppo debole).

6- I capitalisti detestano il mercato, nonostante si affannino a dire il contrario. Lo aveva capito anche Adamo Smith, il massimo teorizzatore dei vantaggi del libero scambio. Le rendite monopolistiche sono molto meglio, costano poca fatica, e consentono anche di essere usate in parte per “comprare” i lavoratori del monopolio, che così lotteranno al fianco dei padroni, se qualche malintenzionato tentasse di aumentare la concorrenza. Lo sosteneva un signore che si chiamava Lenin.

7- Il capitalismo, anche quello monopolistico, per nostra fortuna ha bisogno dei consumatori, per poter cercar di fare profitti. Cerca sempre nuovi mercati da sfruttare. Altri regimi se ne possono fregare molto di più. Nell’Unione Sovietica (e chi scrive ha fatto in tempo a controllarlo di persona) c’erano enormi quantità di prodotti invenduti e invendibili, ma entravano lo stesso nelle statistiche della produzione.

8- Tornando alle origini, non sono solo nate insieme (e quasi nello stesso posto nel nord dell’Inghilterra) democrazia e libero mercato, ma anche la rivoluzione industriale, che ha fatto crescere in 250 anni la popolazione mondiale da 750 milioni a 8 miliardi. Secondo alcuni, è un male (cfr. la crisi ambientale). Io non sono sicuro lo sia: l’equilibrio demografico precedente che teneva bassa la crescita della popolazione, era fatto da fame, mortalità infantile e malattie.

Per concludere, ricorderei una poesia famosissima del 1800, che inizia coi versi “io me ne andavo un giorno a spigolare, quando vidi una barca in mezzo al mare…”.

“Spigolare” vuol dire raccogliere a mano i chicchi di grano caduti durante la mietitura, per macinarli e mangiare. Poetico, ma anche inquietante.

Ecobonus 110%. Tutti lavori gratis (per davvero) però tanti paletti

Deve ancora diventare operativo e già ne è stato richiesto il prolungamento fino a dicembre 2022 e l’estensione a seconde case e alberghi, compresi gli immobili unifamiliari. Il superbonus del 110% – il bazooka dell’ediliza previsto per gli interventi di riqualificazione energetica (ecobonus) e antisismici (sismabonus) – è previsto dal dl Rilancio per far ripartire l’economia all’insegna della sostenibilità. Ma è veramente così facile riuscire a ristrutturare casa gratis con lo Stato che su 100 mila euro di lavori restituirà 10 mila in più oltre a quelli spesi?

Il punto da cui partire è chiaro: per ottenere il 110% bisogna effettuare specifici interventi sulla parte esterna degli edifici. Non valgono quelli sulle singole unità immobiliari. Paletto che, insieme ai tetti di spesa specifici, rischia di limitare il raggio d’azione del superbonus. Danno il via libera alla detrazione il rifacimento del cappotto termico (60mila euro a unità immobiliare); la sostituzione degli impianti invernali con impianti centralizzati di riscaldamento ad alta efficienza (30mila euro a unità immobiliare); gli interventi di messa in sicurezza nelle zone sismiche (96mil euro a unità); l’installazione degli impianti fotovoltaici (48mila euro). Per avere il bonus, la classe energetica dell’edificio deve aumentare di due classe energetiche. Per essere più chiari, il superbonus non riguarda le ristrutturazioni degli appartamenti, rispetto alle quali restano in vigore le normali detrazioni: bonus verde al 36%; bonus ristrutturazione al 50%; ecobonus dal 50 al 75% a seconda dell’efficientamento energetico ottenuto; sismabonus dal 70 all’85%; bonus facciate al 90%.

Sul fronte dei rimborsi ci sono due possibilità: il recupero in 5 anni delle spese sostenute che vanno portate in detrazione in aggiunta al 10% di scontro extra (è escluso chi è nella no tax area) oppure fare i lavori gratis con la cessione del credito alla ditta che esegue i lavori (che applicherà uno sconto in fattura immediato), alle banche o agli altri intermediari finanziari. In questo caso non si ha diritto al bonus extra. Anche i lavori tradizionali, tra cui l’installazione di un nuovo condizionatore o il cambio di infissi, possono usufruire della cessione del credito e dello sconto in fattura. Tutto in attesa che il dl Rilancio diventi legge e che venga pubblicato un provvedimento attuativo dell’Agenzia delle Entrate.

 

Mascherine: si guadagna pure col “prezzo politico”

Giusto una settimana fa, celebrando su queste pagine il 60esimo compleanno di Produzione di merci a mezzo di merci (Einaudi, 1960) di Piero Sraffa, l’economista Antonella Stirati ci aveva detto questo: “Sraffa mette in discussione i fondamenti della teoria marginalista e le loro conseguenze, per esempio il fatto che i prezzi di mercato siano in grado di determinare un’allocazione ottimale delle risorse”. Solo una parola dovrebbe venirci in mente a questo punto: mascherine. E poi alcune altre: prezzo calmierato a 50 centesimi più Iva per quelle chirurgiche.

Breve riassunto. Quando a febbraio scoppiò l’epidemia di Covid-19 anche in Occidente, le benedette mascherine chirurgiche – che fino ad allora andavano via a 20-30 centesimi al pezzo – divennero introvabili o, quelle che si trovavano, avevano prezzi da capogiro. All’epoca la posizione “marginalista” venne mirabilmente riassunta su Twitter – e lo citiamo perché si tratta di uno tra i più importanti economisti italiani – da Tommaso Monacelli, professore alla Bocconi: “Ha pienamente senso che il prezzo delle mascherine si impenni – scrisse a fine febbraio – I prezzi più alti servono ad allocare le mascherine a chi ne ha veramente bisogno. E a scoraggiare quelli meramente ansiosi. Non è sciacallaggio. È razionalità”.

Seguì, di fronte alla perplessità dei più, non l’intendenza, ma Alessandro Manzoni e la sua “rivolta del pane” che, per aver spinto il governo di Milano a ribassare i prezzi, portò la Milano dei Promessi Sposi al rapido esaurirsi delle scorte di farina, a una carestia ancora peggiore e in definitiva al propagarsi della peste. Così, si diceva, sarà delle mascherine se il prezzo sarà deciso dal governo: forse aveva ragione Meuccio Ruini quando prendeva in giro “l’amico Einaudi” alla Costituente definendo il liberismo “la scienza dell’Ottocento”.

Come che sia, oggi possiamo dire – nonostante il prezzo sia stato fissato per legge a 50 centesimi più Iva ad aprile – che non solo non è aumentata la carestia dei dispositivi, ma chi vende mascherine a “prezzo politico” ci sta guadagnando: il margine è più o meno 11-12 centesimi a pezzo da spartirsi tra intermediario e venditore su milioni di pezzi venduti. Ve la facciamo breve: vendendo 3 milioni di mascherine al giorno si produce un margine di 2,5 milioni di euro a settimana. Se pensate che siano numeri esagerati, basti dire che le sole tabaccherie, tra maggio e giugno, viaggiano al ritmo di oltre 1,5 milioni di mascherine vendute al giorno (più delle farmacie).

Forse è il caso di riavvolgere il nastro perché ormai non se ne parla più: spariti i marginalisti, spariti quelli che “non si può vendere sottocosto”, sparita Federfarma che chiedeva all’Antitrust di bloccare i provvedimenti anti-mercato del commissario all’emergenza Domenico Arcuri. Una premessa: nel sistema italiano gli approvvigionamenti di materiale sanitario spettano alle Regioni per il mercato pubblico e alle farmacie o parafarmacie per il privato. Questo sistema, schiacciato dalla pandemia, andò in tilt subito: pochissime mascherine negli ospedali o per i medici, pochissime per la vendita al dettaglio e a prezzi assurdi. Risultato: molte piccole e medie imprese senza know how tentarono di riconvertire la produzione; molti intermediari si diedero da fare non sempre nel perimetro della legalità; i prezzi andarono alle stelle anche all’ingrosso.

Questa situazione di caos è durata qualche settimana, poi il governo centrale ha trovato canali di fornitura e stretto accordi con alcune imprese: a ieri erano state trasferite alle Regioni per le necessità del settore pubblico (il fabbisogno nazionale è circa 90 milioni di pezzi al mese) e privato 223 milioni di mascherine chirurgiche; 63,7 milioni di Ffp2 e 2 milioni di Ffp3 (più 86,4 milioni “mascherine di comunità”, quelle che filtrano poco o nulla insomma).

Soprattutto in vista delle riaperture, però, si è posto il problema di rifornire anche i cittadini a prezzi ragionevoli visto che le mascherine sono obbligatorie per legge in molte circostanze: 61 centesimi, 50 più Iva, il doppio o più di quanto costavano a dicembre. Apriti cielo: farmacisti inferociti che denunciavano il tentativo di farli fallire vendendo “sottocosto”, imprese auto-riconvertite pure, economisti che prevedevano sfracelli e media al seguito.

Poi il silenzio: è bastato un accordo di risarcimento parziale e sono spuntate forniture al prezzo giusto per 20 milioni di pezzi a settimana per le farmacie e circa 8 milioni per le tabaccherie (che ne ricevono 1,5 milioni anche dal commissario). Nel frattempo il governo, cioè Arcuri, ha stretto accordi con 135 aziende per stimolare una produzione nazionale di mascherine (ora dipendiamo dai Paesi asiatici): con 20 imprese c’è un contratto di fornitura a 41 centesimi al pezzo; le altre, in cambio degli incentivi statali, si impegnano a vendere prioritariamente al commissario.

Poi, c’è l’arma “fine del mondo”: l’acquisto da parte dello Stato di 51 macchinari per produrre mascherine che saranno consegnati tra luglio e agosto. La gestione industriale sarà appannaggio di Fca e Luxottica: la capacità produttiva dovrebbe superare i 30 milioni di pezzi a settimana al costo unitario di 11 centesimi a dispositivo. L’idea è che in autunno, con l’apertura delle scuole che farà salire ulteriormente la domanda, l’Italia sia autosufficiente. E Manzoni muto.

La questione razziale è (anche) di classe sociale

Gli Stati Uniti sono al punto di rottura? Oltre 110mila morti per coronavirus, 40 milioni di nuovi disoccupati (ora in discesa), tensioni sociali a livelli altissimi. La morte di George Floyd pare solo la scintilla che ha acceso una rabbia repressa, fomentata dalle disuguaglianze che piagano il Paese e alimentano la frustrazione di chi vede solo l’altra faccia del sogno americano.

Nella pandemia che ancora imperversa, ad esempio, i neri americani sono il gruppo etnico più colpito: secondo il Pew Research Center gli afroamericani, pur essendo solo il 13% della popolazione, rappresentano il 24% delle vittime americane del Covid-19. Per gli esperti, ciò è dovuto a condizioni di salute peggiori, a disuguaglianze di vecchia data nell’accesso alla sanità e a fattori socioeconomici sfavorevoli. Sì, perché secondo i dati dell’Ufficio del Censimento Usa, gli afroamericani sono l’etnia – dopo i nativi – che soffre di più la povertà: il 22,5% è sotto la soglia di povertà, quasi 9 milioni di persone che vivono alla giornata, molti grazie ai buoni pasto distribuiti dal governo. Forse è anche per questo che il tasso di incarcerazione dei neri è molto più alto rispetto a bianchi e ispanici. Nonostante sia in calo negli ultimi anni, è pari all’1,5%, quasi il doppio rispetto ai latinos (0,8%) e oltre cinque volte quello dei bianchi (0,27%).

Fra condizioni economiche e condizioni sociali c’è un circolo vizioso duro da spezzare. Qualcuno lo chiama “razzismo sistemico”. Basti pensare che il reddito medio pro-capite di un nero è di 23mila dollari all’anno, quasi la metà rispetto ai 40mila dollari che un bianco non ispanico riesce a guadagnare. Inoltre, una ricerca delle università di Stanford e Harvard svela che i giovani uomini neri, anche quelli cresciuti nelle famiglie più ricche e nei quartieri più benestanti, guadagnano molto meno dei coetanei bianchi che hanno retroterra simili e rischiano molto di più di perdere la loro posizione sociale.

Tutto ciò alimenta la rabbia e le frustrazioni della minoranza nera. Per esempio, dalla ricerca Race in America 2019 emerge che oltre la metà degli afroamericani crede che l’appartenenza etnica abbia ostacolato il suo percorso di vita. E la differenza di percezione con i bianchi è notevole quando si tratta di razzismo e rapporti con gli altri gruppi. Allo stesso tempo, i neri vedono la loro appartenenza etnica come un elemento molto più centrale per la loro identità rispetto agli altri.

Nonostante l’apparente unità spirituale all’interno della comunità nera, in realtà essa è più segnata dalla disuguaglianza interna rispetto alle altre etnie. I bianchi e gli ispanici hanno comunità più eque. Inoltre, secondo elaborazioni basate sui dati del censimento Usa e le definizioni dell’Ocse, più di un nero su due appartiene alla lower class, la classe più povera, contro una media nazionale del 34%. E ai neri manca un vero ceto medio. Mentre il 45% degli americani appartiene alla middle class, solo un afroamericano su tre ne fa parte. Un altro problema non da poco: le società con una forte classe media tendono infatti ad avere tassi di criminalità più bassi e migliori livelli di vita, dove invece si crea una polarizzazione fra ricchi e poveri, la tensione cresce. È quel che è successo in America negli ultimi 40 anni: un Paese in cui la spesa per il welfare in rapporto al Pil è scesa , quella per l’ordine pubblico è raddoppiata.

Insomma, non è solo un luogo comune che la maggioranza dei neri negli Stati Uniti sia più a rischio povertà, più esposta alle malattie e alla violenza. La morte inaccettabile di George Floyd, quella di molti altri afroamericani nel corso degli anni e in generale la violenza della polizia hanno innescato la reazione, ma non è un caso che le proteste siano esplose così intensamente proprio durante una enorme recessione. La questione razziale, si diceva una volta, è anche questione di classe.

“Se torna il Patto di Stabilità per l’Eurozona sarà il disastro”

Joseph Stiglitz è uno degli economisti più brillanti d’America: 77 anni, laureato al MIT, ha vinto il premio Nobel nel 2001, uno dei pochi economisti critici ad esserselo aggiudicato. Critico dell’euro e della globalizzazione neoliberista, recentemente ha pubblicato Popolo, potere e profitti (Einaudi), in cui sostiene l’idea di un capitalismo progressista.

Partiamo dalle proteste negli Stati Uniti: hanno anche natura economica?

Gli Stati Uniti sono al punto di ebollizione da molto tempo. Le tensioni razziali e la brutalità della polizia sono parte dell’America da 150 anni. Si dice che la schiavitù è il peccato originale dell’America che non abbiamo mai davvero superato. Abbiamo fatto progressi negli ultimi 50 anni, ma il presidente Trump ha disfatto molti di essi. Questa pandemia ha esposto le profonde disuguaglianze nella società e nell’economia, nella sanità e nel reddito: ha esposto il divario razziale. Con un presidente che ha così poca empatia, con la brutalità della polizia che continua e con le immagini portate davanti agli occhi di tutti dai social media, non è una sorpresa che il malcontento sociale ribolla.

In questa crisi da coronavirus quali sono le somiglianze e le differenze fra gli Usa e l’Europa?

Nella maggior parte d’Europa non ci sono queste tensioni razziali, non c’è la stessa disuguaglianza che c’è negli Stati Uniti e c’è un sistema di protezione sociale molto migliore. Nella pandemia, più colpiti sono stati i Paesi guidati da figure autocratiche che non credono nella scienza e nella competenza: Brasile, Russia e Stati Uniti. Ma c’è un altro aspetto del fallimento americano rispetto all’Europa: abbiamo speso molti soldi, ma li abbiamo spesi male. I Paesi europei hanno fatto un lavoro molto migliore nel mantenere occupati i lavoratori, mentre gli Usa hanno fallito: il risultato sono stati 40 milioni di nuovi disoccupati in 10 settimane. Non era mai successo. Per di più le imprese ricche e ben connesse hanno preso più soldi di quelle che erano davvero vulnerabili. Quel che vediamo ci dà l’impressione che il sistema è corrotto. Alcuni si comportano da banditi, mentre le persone normali sono lasciate a se stesse.

Per quanto riguarda l’eurozona, pensa che il Recovery fund possa essere un punto di partenza per un bilancio federale?

Spero di sì. Ma è già un grande passo avanti che i vari Paesi abbiano acconsentito a emettere di fatto eurobond: è preoccupante, però, che sia stato così difficile far approvare la proposta e che ci si sia riusciti soprattutto a causa della leadership della Merkel, che però sta lasciando la scena. Restano poi tutta una serie di divisioni: ogni economista direbbe che i soldi devono essere dati all’Italia a fondo perduto, ma alcuni paesi del Nord Europa dicono che l’Ue non è un’unione fiscale. Così si torna alla discussione di dieci anni fa. Si discute se ci debba essere un bilancio federale europeo per pagare gli interessi sui titoli. Dal mio punto di vista bisogna avere tasse europee: un’imposta minima sulle imprese, tasse ecologiche, tasse sui guadagni finanziari. Ma alcuni Paesi stanno ancora facendo resistenza. Si discute poi su quante condizionalità mettere per avere i soldi: a quanta indipendenza dovrebbe rinunciare l’Italia?

Cosa accadrebbe se il Patto di Stabilità e Crescita fosse riattivato dopo la crisi?

Sarebbe un vero disastro. Alcuni Paesi infatti avrebbero debiti molto più alti, debiti su cui andrebbero pagati gli interessi. Finché i tassi rimanessero molto bassi, non sarebbe un problema, ma i tassi potrebbero salire. A quel punto se il Patto di Stabilità fosse invocato, ciò avrebbe effetti recessivi sull’economia e costringerebbe i Paesi all’austerità. L’Europa ha formulato un’idea molto positiva su dove vuole andare col Green Deal. Ma se il Patto di Stabilità fosse riattivato, non ci sarebbe alcun modo per metterlo in atto.

Come sarà l’economia post-Covid?

Sarà una ripartenza molto dura. Oggi quasi nessuno pensa che sarà una ripresa a V. Quanto sarà dura e lunga dipenderà da quale tipo di assistenza daranno i governi. Il governo degli Usa ha fatto uno sforzo ingente, ma è stato impressionante quanto male questo sforzo è stato progettato. Non ha affrontato questioni come la sanità, la protezione dei vulnerabili e dei posti di lavoro: non è stata formulata una visione del futuro dopo la crisi. E i repubblicani sono molto esitanti ad accettare un altro round di spesa. Non stanno assicurando ai disoccupati che i sussidi rimarranno attivi finché il tasso di disoccupazione rimarrà alto: questo rende le persone nervose e riluttanti a spendere. Sotto l’attuale amministrazione ci sarà una recessione molto lunga e non ci può essere una forte ripresa globale finché l’economia Usa è debole. Inoltre non sono state stanziate risorse per i mercati emergenti, che sono stati il motore della crescita dopo la recessione del 2010. Gli Stati Uniti non hanno sostenuto la proposta di spendere i diritti speciali di prelievo dell’Fmi, che avrebbero aiutato i mercati emergenti.

E l’Europa?

Ha fatto un passo nella giusta direzione e i singoli Paesi hanno programmi molto meglio strutturati, ma c’è un interrogativo che pende su di essa. L’Italia ovviamente non ha da spendere le risorse che hanno gli Usa: a meno che non ci sia una forte resistenza delle economie di Italia, Spagna e degli altri Paesi più colpiti, sarà difficile vedere una ripresa robusta.

Quali dovrebbero essere il ruolo e lo spazio d’intervento dei governi nella ricostruzione?

Devono giocare un ruolo centrale. Lo scenario principale che vedo è uno in cui i bilanci delle imprese sono via via distrutti tanto più dura la pandemia, i bilanci delle famiglie vanno in fumo, le imprese falliscono, ci sono grandi ristrutturazioni aziendali, i posti di lavoro non tornano. Centri commerciali, settore immobiliare, trasporto aereo saranno colpiti molto duramente. Ci sarà molta più incertezza, il che renderà le persone molto più attente nello spendere: avremo un’insufficienza di domanda aggregata e quindi un’economia debole. L’azione del governo è l’unico modo per uscirne: un’azione collettiva per condividere i rischi, così che le persone abbiano meno paura di spendere, e per stimolare l’economia.

Cos’altro ci servirà?

Una nuova leadership negli Stati Uniti per ripristinare la fiducia. Non si può far ripartire l’economia se si ha un dissenso sociale così evidente come nell’ultima settimana. Oltre all’incertezza sulla pandemia, abbiamo l’incertezza economica, quella politica e ora quella relativa all’instabilità sociale che si alimentano a vicenda. L’assenza di leadership a Washington sta esacerbando il problema e gettando benzina sul fuoco: quel che succederà in America avrà implicazioni per tutti gli altri Paesi.