Il Pd non può segare il ramo sul quale è seduto. Eppure il ramo è pericolante e per giunta piuttosto scomodo. La prima direzione (in streaming) dell’era Covid dei Democratici sancisce l’immobilismo. Per quel che riguarda l’appoggio al governo Conte, ma anche rispetto alle dinamiche interne. Fine della contrapposizione frontale sugli Stati generali annunciati dal premier in solitaria. Perché il governo deve darsi una mossa, ma “tocca a Conte accorgersene”. E anche rinvio a data da destinarsi del congresso. Era previsto in autunno, non ci sono le condizioni per farlo. Nicola Zingaretti traccia la linea: “Servono scelte nuove e una decisiva svolta da compiere insieme ai nostri alleati, solo questo è stato il cuore del confronto in queste ore, utile, che continuerà”. Il tentativo è quello di chiarire che “non è più consentito permettersi degli errori”, come vanno ripetendo vari big dem negli ultimi due giorni. Ma poi sottolinea: “Con Conte non c’è stata nessuna contrapposizione ma la necessità di un salto di qualità necessario”.
Si va avanti. A meno che il quadro sociale non precipiti. A meno che un incidente non porti la legislatura a una fine per ora imprevedibile. Il 20 settembre si vota per amministrative e referendum sul taglio dei parlamentari. Ergo, sarebbe pure l’ultima data utile per elezioni politiche che portino in Parlamento lo stesso numero di deputati e senatori di oggi. Ma il Pd per ora punta ad andare avanti. La direzione scorre via abbastanza tranquilla, pure se piuttosto partecipata. Si nota la presenza silenziosa di Dario Franceschini, nonostante l’attesa per la sua posizione. Il capo delegazione resta convinto che al momento non c’è alternativa (che gli convenga) a Conte. E nel nome di questa certezza sta affrontando anche una battaglia silente. Come dimostra l’attivismo sul tema degli ultimi giorni, Luigi Di Maio punta a portare alla Farnesina la delega al Turismo, sottraendola al Mibact (ce l’ha Lorenza Bonaccorsi). Franceschini per ora non reagisce frontalmente rispetto alle invasioni di campo: il timore è che tra le rivalità dello stesso Di Maio con Conte e le divisioni nei Cinque Stelle, il quadro non tenga.
Non parlano i ministri di Area Dem e di Base Riformista. Andrea Orlando, il vice segretario, prende la parola a lungo in appoggio alla linea: studia da leader dem, ormai non è un segreto per nessuno. Spiccano, viceversa, gli interventi di Roberto Gualtieri, Paola De Micheli e Francesco Boccia. Rivendicano l’azione del governo. “Stiamo facendo cose storiche che cambiano il paese”, dice il titolare del Mef. Risponde a Matteo Orfini che parla di “un racconto trionfalistico” che “stride con un Paese in cui cresce la sofferenza sociale e la gente rischia di morire di fame”. Qualche intervento critico, oltre al suo, c’è. Gianni Cuperlo esplicita: “Dobbiamo decidere se limitarci a proseguire l’azione di sostegno della maggioranza. Oppure se non dobbiamo mettere in campo una maggiore autonomia nel disegnare l’Italia del dopo Covid. La mia opinione è che dobbiamo imboccare la seconda strada”.
Su questa linea anche il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio e Maurizio Martina. Tra gli elementi problematici, l’assenza del Pd dal punto di vista comunicativo. Per Br da notare la puntualizzazione del coordinatore Alessandro Alfieri. Risponde al segretario che nella relazione aveva fatto una battuta sull’unità nelle minoranze finché non c’è un candidato alternativo: “L’unità va di pari passo con la condivisione delle scelte e con il pluralismo”. Ecco anche spiegato il senso dell’assemblea che Zingaretti annuncia per luglio: serve un voto sulla linea politica, dopo che in segreteria è entrata Br. Con mille delegati, chi lo sa se si riuscirà a fare. Per adesso, punto e a capo. Zingaretti lancia un affondo sulla necessità del Mes, ma al Nazareno aspettano di capire come e quando Conte deciderà di fare gli Stati generali. Il partito si adeguerà.