Vampiri e mafia. Il morso seducente del male. Contro Dracula, servono Falcone e Borsellino

Bram Stoker faceva di mestiere l’amministratore teatrale per il famosissimo attore sir Henry Irving, al quale, pare, si sia ispirato per raccontare il suo personaggio immortale: Dracula. Vari dettagli li accomunano: vampirismo e teatro, sangue e palcoscenico.

Il fidanzato col quale ho appena visto al cinema il meraviglioso Dracula di Coppola, è un gran bel vampiro che mi succhia il sangue da tempo come “Gary Oldman-Vlad”, e io, proprio come “Winona Ryder-Mina”, sono vittima conquistata e consapevole. Gnam! Il morso del vampiro ti manda in estasi: è fatto di vertigini, di potere, di illusioni, di sussulti, di suggestioni di immortalità, eppure ti infetta e ti inaridisce. Facile essere “puncicati” dal vampiro, può succedere a molti, ma per diventare come lui bisogna accettare di berne il sangue; “Keanu Reeves-Jonathan”, sottomesso e vampirizzato da tre terribili diavolesse, non lo fa, decide di rimanere umano. È difficile decidere di rimanere umani, ci vuole coraggio, equilibrio, devi essere mosso dall’Amore. I film più belli sono quelli che ti influenzano i pensieri, li modificano, ti fanno capire le cose. In questi tempi sanguinosi, fatti di stragi e di eroi, mi sembra che il mio Paese sia contagiato e che molti siano soggetti al morso pericoloso, epidemico della “puncicata”. In Sicilia si usa chiamare un affiliato di Cosa Nostra “punciuto”! Bella e terribile questa parola no? Tanto più mostruosa quando finisce per riferirsi a chi non deve essere “punciuto”; a chi dovrebbe, con opere ed esempio, essere l’antidoto contro i morsi della mafia. La Storia giudicherà il contagio, farà la conta di caduti e “punciuti”, almeno lo voglio sperare. Quel genio di Stoker mi ha aiutata a capire che si può essere morsi e non diventare vampiri. C’è bisogno però di intelligenza e cultura. Chissà come avrebbe raccontato il film, Stoker, se prima avesse conosciuto Falcone e Borsellino.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

 

Vangelo e libertà. La Resistenza delle suore che anticiparono in convento il femminismo

Da lettore mi sento di essere grato ad Albarosa Ines Bassani, che si è presa il compito di raccogliere carte, documenti e lettere delle Suore Dorotee, Figlie dei Sacri Cuori di Vicenza, durante eventi tragici del secolo scorso, con l’espediente che consente all’ autrice del libro (La suore della Libertà, tra guerra e Resistenza) di costruire dal vero un libro di eventi che sono parti di Storia. Ma c’è un di più, in questo libro di ricostruzioni di fatti realmente accaduti, che deve essere notato. Viene narrata una presenza tenace, a momenti eroica in cui viene superata con fermezza l’eterna visione delle donne (delle suore!) come “ausiliarie”, come mani benevole a parziale sostegno delle imprese degli uomini. Si vede invece l’inizio e il diffondersi di un risveglio femminile che spinge le donne alla responsabilità e alla capacità di decidere, molto prima che nasca il fenomeno, considerato una rivoluzione fuori dai conventi, detto femminismo. Il femminismo infatti è, nelle sue forme più serie e meno frivole e nell’interpretazione risoluta e post ornamentale che va da Gloria Steinem a Susan Sontag, un modo per disincagliare la figura femminile da uno status di benevole e apprezzata inferiorità.

Il libro della Bassani apre porte che erano restate chiuse e illumina percorsi che erano rimasti nella più profonda delle ombre, quelle del luogo comune. Svela quante volte le donne – in questo caso suore, ma il senso del racconto per questa ragione diventa ancora più straordinario ed esemplare – prendono in mano situazioni rischiose e impossibili, ne fanno il proprio compito senza aspettare che qualcun altro decida, e sono pronte a fare ciò che in ogni altra storia e vicenda sarebbe stato compito e responsabilità maschile. Una lettura attenta dimostra che la presenza quasi costante di due ingredienti , in ciascuna delle storie che leggerete (il fare il bene, il salvare qualcuno, da un lato, e prendere decisioni che sono anche di organizzazione, di scelta politica, di guida morale) rendono ancora più importante e storicamente notevole la testimonianza resa dalla raccolta in volume di queste carte. Feriti, malati, bambini, spossessati, perseguitati non sono l’epicentro delle azioni che il libro racconta. L’epicentro è nella capacità e volontà delle suore di decidere, il fatto che non occorre un vescovo che ordini di accogliere una famiglia ebrea, di custodirne i bambini e di metterli insieme a tutti gli altri nelle loro scuole. Queste suore sanno guardare la vita, comprenderne la ferocia e affrontarla non come carità ma come naturale capacità di guidare, intervenire, salvare, soprattutto decidere.

Due dei capitoli hanno titoli esemplari: “Come un generale in guerra” (secondo capitolo). E “La militanza segreta delle suore” (terzo). Ma chi sfoglierà il libro, se fosse indeciso, noterà “Rifugio ad ebrei e fuggiaschi”, “Suor Felicitas e il partigiano” o “Suor Assunta e l’assalto alla cremagliera”. Se il femminismo è la storia delle donne che ritrovano se stesse smettendo di sentirsi adatte solo per compiti subordinati, questo è il modello storico che mancava: le suore come leader e protagoniste svelano la forza delle donne.

 

Le Suore della libertà

Albarosa Ines Bassani

Pagine: 160

Prezzo: 18

Editore: Gaspari

L’idea d’Italia che si nasconde tra i pasdaran del sì al Mes

La domanda non assilla certo i mercati rionali, eppure in un’opinione pubblica democratica meriterebbe maggior attenzione: perché mezzo arco parlamentare (Pd in testa), pezzi di establishment, la Confindustria e i meglio commentatori nostrani sono così ossessionati dal Meccanismo europeo di stabilità, il Mes?

In nessun Paese d’Europa il dibattito sull’ex fondo “Salva Stati” ha raggiunto simili livelli. O meglio, in nessun Paese esiste il dibattito. Tutti hanno già fatto sapere che non useranno le linee di credito “sanitarie” messe a disposizione dall’istituzione in base all’accordo dell’Eurogruppo. Il Mes è sostanzialmente una banca, partecipata dai 19 Paesi dell’eurozona, è fuori dalla cornice comunitaria, cioè non risponde a nessuna forma di reale controllo democratico (accountability, come dicono quelli di mondo). È nato nel 2012 per prestare soldi ai paesi che non riescono a finanziarsi sul mercato. Ad Atene ha mostrato cosa comportano i suoi memorandum: ricette di austerità fiscale (tagli e tasse) sorvegliati dai creditori (la Troika).

Ora il Mes, assicurano tutti, è stato “snaturato”: può prestare soldi “senza condizionalità”, basta usarli per “le spese sanitarie dirette e indirette” del Covid (che di per sé è una forte condizionalità). Da mesi non si parla d’altro sulla meglio stampa. La discussione è sempre posta sul piano tecnico: i 36miliardi sono a tassi bassi, possiamo risparmiare “580 milioni l’anno” (copyright Nicola Zingaretti). I rischi di lanciare un pessimo segnale al mercato, di cui sono ben consci i governi europei, non sono presi in considerazione. Diventa impossibile “rinunciare a soldi quasi gratis” (Berlusconi). L’idea che il bene sia un fatto tecnico maschera l’intento del dibattito: le decisioni politiche hanno sempre vincitori e vinti. Un pezzo del potere ha deciso che è meglio legare il Paese a un’istituzione che lavora monitorando la “sostenibilità” dei suoi creditori. Per usare le parole di Stefano Folli su Repubblica, grande aedo del governissimo, “ aderire al Mes significa entrare in un percorso ben definito, ancorando l’Italia a criteri precisi per la gestione futura del debito”. I criteri sono, ca va sans dire, un fatto tecnico. Poco importa ciò che pensano gli elettori.

Caos Calcio. Scudetto d’agosto, Serie A con l’elmetto: nuovi casi De Vrij in arrivo

Cosa succede da sempre, nel calcio, alla data del 30 giugno? Succede che una stagione si conclude, una nuova stagione si apre e che dall’1 luglio un giocatore in scadenza di contratto, o a fine prestito, smette di essere stipendiato dal vecchio club e passa in forza al nuovo. Semplice. Ebbene: cosa succederà quest’anno nel Belpaese dopo il 30 giugno? La domanda è scottante, anche se tutti continuano a far finta di niente. A differenza della Bundesliga, che avendo un format di 18 squadre invece che 20 (quindi 4 giornate in meno) chiuderà i giochi sabato 27 giugno, la Serie A si ritrova in un pasticciaccio brutto: finirà il campionato non prima del 2 agosto con l’impossibilità di rispettare le normali scadenze.

Un problema che tocca anche Liga e Premier League e che ogni Federazione dovrà a risolvere per conto proprio: la FIFA si è limitata infatti ad auspicare, né più né meno, che club e calciatori si accordino per prolungare le scadenze dei contratti. Situazione complicata. Da noi, i club vogliono tagliare da due a quattro mensilità ai calciatori e in questo clima si pretende che i calciatori dicano sì a prolungamenti di contratto che la controparte ha già deciso di non voler rispettare. Qualcosa non torna.

In Serie A, tra giocatori in scadenza di contratto (42) e a fine prestito (65) sono 107 quelli che si troveranno in un vero e proprio limbo. Tra i tesserati che hanno già formalizzato, del tutto regolarmente, il passaggio a un nuovo club c’è ad esempio Kulusevski, passato dall’Atalanta (via Parma) alla Juventus. Dopo il 30 giugno il giocatore può liberamente scegliere se protrarre di due mesi il contratto col Parma (anche se con la Juventus guadagnerebbe assai di più) oppure fermarsi e non prendere parte alle ultime 9-10 partite; un’opzione sicuramente gradita al suo nuovo club che eviterebbe il rischio di possibili infortuni. Ebbene, Kulusevski ha segnato gol decisivi al Torino, all’Udinese e al Genoa; che cosa direbbero questi tre club se il miglior giocatore del Parma sparisse dalla circolazione e non giocasse contro gli altri club impegnati nella lotta per non retrocedere? Lo stesso dicasi per Petagna, ceduto dalla Spal al Napoli, e per altri ancora.

Ci sono poi i giocatori a fine prestito. Tra quelli che il 30 giugno avrebbero dovuto tornare in forza ai quattro club primi in classifica ci sono Luca Pellegrini (Cagliari-Juventus), Badelj (Fiorentina-Lazio), Dalbert (Fiorentina-Inter) e Pessina (Verona-Atalanta). Come per i colleghi in scadenza di contratto, anche i “fine-prestito” sono liberi di decidere se protrarre di due mesi i loro contratti oppure dire stop al 30 giugno. Domanda: cosa succederebbe se si fermassero tutti tranne Dalbert e se Dalbert, in Inter-Fiorentina, provocasse un rigore decisivo a favore dell’Inter; o se si fermassero tutti tranne Pellegrini e se Pellegrini, in Cagliari-Juventus, incorresse magari in un autogol decisivo?

Alzi la mano chi non ricorda cos’è successo al povero Stefan De Vrij, in procinto di passare dalla Lazio all’Inter, nell’ultimo match del campionato scorso. In Lazio-Inter, ultima di campionato e spareggio per andare in Champions, provocò un rigore contro la Lazio che contribuì al successo dei nerazzurri (con cui avrebbe giocato a partire dall’1 luglio). De Vrij è un ragazzo onestissimo, ma per quel rigore venne massacrato. Qualcosa andrebbe fatto. Ma da tre mesi, qui, tutti dormono.

Ladro in divisa. Lo chiamavano “Sportina”. Per il vigile c’è più gusto a far la spesa gratis

C’è un paese in provincia di Brescia dalle amene attrazioni. Un piccolo fiume per gli amanti della pesca e delle escursioni. Una spiaggetta pimpante e affollata che risentirà purtroppo del distanziamento di stagione. Bar dagli aperitivi sfiziosi. Un nome degno delle novelle boccaccesche. E dimensioni a misura d’uomo, nel senso che non varca la fatidica soglia elettorale dei 15mila abitanti. E che proprio perché a misura d’uomo ha i suoi personaggi rinomati, le sue leggende intinte in memorabili soprannomi.

Vuole il caso che uno di questi sia stato mordacemente affibbiato dalla voce di popolo niente meno che a un vigile urbano. Il quale non è riuscito a toglierselo di dosso nemmeno indossando la nuova, più prestigiosa casacca di “polizia locale”. Glielo hanno cucito i commercianti locali, ormai entrati con lui in una certa familiarità di abitudini. Nel senso che sono oggetto delle sue premurose attenzioni mentre attendono alle proprie fatiche. Attenzioni manifestate, di questo bisogna dare atto al protagonista, non nella penombra ma alla luce del sole. È così che alcune mattine fa una signora, che attende il suo turno davanti a un negozio alimentare di qualche pregio, lo nota arrivare d’azzurro vestito. E si accorge con stupore che non è lì per controlli e nemmeno per fare la coda.

Con la sua divisa, infatti, il vigile infila un’entrata laterale e ne fuoriesce con una borsa bella gonfia. Allora quando tocca a lei la signora chiede al negoziante perché quello strano movimento. “È venuto per la stecca”, è la risposta sconfortata e ironica dell’interrogato. “Ma è vero o scherza?”. “Ma quale scherzo, viene sempre”. La signora partecipa a tutti i miei incontri sulla legalità in provincia di Brescia, così negli anni siamo diventati amici. Perciò mi telefona scandalizzata. E inizia a chiedere per negozi. “Ma sì, lo sanno tutti”, è la risposta. Uno ci mette la zampata irresistibile: “Ma certo, pensi che lo chiamano ‘Sportina’…”. La mia amica scrive allora al sindaco, brava persona, sostenitore della legalità, ma la risposta la delude. “Non ha preso un impegno chiaro a farmi sapere”, lamenta.

Non si dà pace che in un paese del nord progredito un vigile passi tranquillamente di negozio in negozio a riscuotere il pizzo, “fra l’altro non sorride mai”, dice un negoziante, “ma dico, ti regalo della roba, fammi almeno un’espressione di amicizia”. Un giorno l’amica tenace decide di andare a vederlo all’opera al mercato di piazza. Lo incrocia mentre si avvicina a un fruttivendolo, per virare via di lato con un bel bustone, che si aggiunge ad altri due. Lo indica dunque a una signora a un banco, che scatta come una molla: “Ma lo sa che alla festa di beneficenza, dove c’erano fette di torta e bicchieri di vino, anche lì è venuto? Io dico ‘prenditi anche tu i pezzi di torta come gli altri’. No, si è fatto fare il pacco a parte pure alla beneficenza”.

Ma, ecco la buona notizia, c’è qualcuno che ha saputo dir di no: una signora che vende indumenti. “Sì, è venuto anche da me, ha preso delle cose e se ne stava andando senza pagare. Allora io gli ho detto ‘oh, i soldi. Lei lavora e la pagano? Ecco, questo è il mio lavoro e voglio essere pagata”. Per dire che si può.

E qui si potrebbe aprire un grande dibattito. Giuridico, anzitutto: non c’è bisogno di dire nulla per creare assoggettamento e omertà, basta avere un cognome temuto o una divisa. Altro che quei processi in cui le “alici nel paese delle meraviglie” cinguettano “dove sono le prove?”. Sociologico, in secondo luogo: davvero la forza della mafia è fuori dalla mafia. Come è possibile accettare tutti insieme un comportamento predatorio invece che andare in massa dal sindaco? Perché un paese si fa soggiogare da una sola persona, per giunta con quel vezzoso, ma implacabile soprannome di “Sportina”? Misteri della democrazia….

 

Amore in lockdown. “Nozze vicine, ma chiusi in casa ci siamo conosciuti, detestati e lasciati”

 

Decreto Relazioni: “Disco verde agli spostamenti, e lui fugge via”

Cara Selvaggia, ora che è tutto finito posso raccontare cosa mi è successo durante la quarantena. No, non mi sono ammalata e nessuno che conosco è stato contagiato, sono perfino una privilegiata perché nel mio ufficio a Milano ci sono zero positivi – ufficialmente – nonostante i tanti dipendenti e l’intensa vita sociale di molti. A non sopravvivere è stata la mia storia d’amore, chiusa ufficialmente con l’apertura dei confini regionali: lui ha preso le sue valige fatte da giorni ed è tornato a vivere in Sicilia, che aveva lasciato 2 anni fa per stare con me. “Non ci conoscevamo abbastanza”, ha detto quando mi ha lasciata. E un po’ di ragione ce l’aveva, seppure io ora non possa che odiarlo. Vedi Selvaggia, io e lui ci eravamo conosciuti in vacanza, in Spagna. Quelle 3 settimane insieme, a Minorca, furono le più belle della mia vita, forse anche della sua: mare, serate sulla spiaggia e nei locali, l’amore fatto ovunque e in qualunque momento, il futuro da programmare insieme, tornati a casa. Perché lui aveva la possibilità di trasferirsi a Milano, suo cugino aveva un’attività qui e più volte gli aveva chiesto di raggiungerlo. Non ci abbiamo pensato molto. Dopo l’estate lui è venuto a stare da me e a 34 anni io, a 38 lui, credevamo di aver trovato l’amore della vita. Quello che G. forse non aveva capito è che io col mio lavoro in casa ci sto pochissimo. Ho liberi i weekend. Lui invece col suo (lavora col cugino in un ristorante), è proprio nei weekend che spariva e tornava a casa a notte fonda. Insomma, in questi due anni ci siamo visti poco. La cosa ha creato malumori, ma l’amore era grande e pensavamo che nel futuro uno dei due avrebbe potuto cambiare lavoro per sincronizzare di più le esigenze e i giorni liberi. Poi arriva il lockdown.

Io e G., per la prima volta in 2 anni, ci troviamo a discutere insieme di pranzo e cena, di film da vedere, di pulizie da fare (niente più donna delle pulizie), di quotidianità da spartirsi. Anche il sesso, che prima era una fiamma dopo ore, talvolta giorni di lontananza, si è spento. Ritrovarci lì disponibili l’uno per l’altra ogni momento del giorno e della notte ha ammazzato l’attrazione. Ci siamo scoperti irrimediabilmente diversi anche nei ritmi, lui la mattina si alzava tardi, io presto, lui non aveva neppure voglia di portare giù il cane, era svogliato e pessimista sul futuro, ha tirato fuori tutte le lamentele mai mosse in 2 anni, i motivi di insoddisfazione, mi ha accusata di averlo trascinato a Milano sapendo che non ci sarei stata mai e infine mi ha detto che in Sicilia era più felice. Così, senza giri di parole. “In Sicilia mi sentivo più io”, mi ha detto. Da animale ferito quale ero ho detto: “E allora tornaci”, facendo sprofondare entrambi nel mutismo per giorni, ad aprile. In una situazione già di dolore e difficoltà per il mondo, mi sono sentita sprofondare nel baratro della tristezza più profonda.

Da lì ho scoperto che molte cose di lui non mi piacevano e non le avevo mai notate: la sua sciatteria nel buttare i vestiti sporchi tra quelli puliti, la tv lasciata sempre a un volume immorale, l’incapacità cronica di pagare una bolletta perché tanto lo facevo io, la freddezza nelle comunicazioni con la famiglia del sud, giustamente in apprensione. Insomma, a dire “basta” ci ha pensato lui, ma mi è andata bene così. Abbiamo deciso che sarebbe tornato giù, appena riaperti i confini e così è stato. La nostra relazione era appesa alle decisioni di Giuseppe Conte. A un decreto. Inutile dire che sto soffrendo, ma non è questo che voglio far notare.

La vera domanda, dopo quello che è accaduto a me e a G., è: quante coppie non si conoscono davvero? Quante persone stanno insieme anni o forse una vita perché il tempo è occupato da altre cose, perché non si condivide la quotidianità ma dei ritagli infinitesimali di vite piene d’altro? Io e G., puoi giurarci, senza lockdown saremmo andati avanti ancora per anni. Forse ci saremmo persino sposati. Adesso in pochi giorni siamo già due estranei che si rivedranno chissà quando per spartire gli ultimi resti di cose comprate insieme, da dividere come fette di torte. In fondo, dovrei essere grata a questo lockdown: ha interrotto una finzione che si reggeva sulla passione tra 2 quasi estranei.

Come farò, però, in futuro a capire se conosco davvero l’altro? Dovrei cambiare lavoro e cercarne uno che mi lasci il tempo di condividere la quotidianità (almeno un pezzo) con la persona di cui mi innamorerò? O dovrò rassegnarmi all’idea di avere una storia che si misura poco con l’usura degli spazi e del tempo e che forse è più fragile di quello che sembra?

Natalia

 

Un tempo si rimaneva insieme perché ci si conosceva da quando si era bambini, oggi si rimane insieme perché non ci si conosce mai. Forse è questo il sunto di tutto, cara Natalia. Ad ogni modo, non credo di potere fornire qualche consiglio decente sulla questione, mi chiedevo però come fossero andate le vostre vacanze (a parte la prima, in cui vi siete conosciuti) in questi due anni. Io anche sono cascata in relazioni che mi parevano felici perché erano intervalli tra lavoro e altre cose, ma poi c’era la prova vacanza che restituiva verità alla faccenda con una rapidità commovente. Ricordo che un’estate partii per la montagna con un fidanzato che frequentavo da tre mesi, negli intervalli di tempo. Dovevamo fermarci dieci giorni, al primo autogrill prima di Aosta gli chiesi di riportarmi a casa. Dopo un’ora e mezzo di chiacchiere consecutive in macchina non interrotte da un mojito lo odiavo con un’intensità tale che credo non abbia provato neppure Enrico Letta quando Renzi gli ha dato la mano, al passaggio di consegne.

Selvaggia lucarelli

Stati Uniti. Donald Trump e il suo assalto alle tante verità

Nel libro “Donald Trump e il suo assalto alla verità”, tre giornalisti del Washington Post hanno dimostrato che il presidente degli Stati uniti, nei tre anni successivi alla sua elezione, ha inondato l’opinione pubblica con 16.241 affermazioni “esagerate, inventate, vanagloriose, intenzionalmente offensive, inconsistenti, dubbie e false”, in un crescendo parossistico: 6 in media ogni giorno nel 2017, 16 nel 2018, 22 nel 2019. Col tempo Trump sembra essersi convinto che il suo elettorato voglia proprio quello: balle. Balle che gli confermino i pregiudizi sull’umanità nemica; e ammicchino all’estremismo di idee e movimenti rintanati nel profondo del Paese. E’ anche possibile che Trump abbia finito per immedesimarsi nella propria maschera. Può un personaggio così costruito accettare di farsi da parte, se a novembre gli americani gli preferissero Biden? E può accettare la caduta sapendo che sarebbe per lui rovinosa? Opinionisti liberal del New York Times come Krugman o Cohen cominciano a dubitarne. Da Trump, scrivono, ormai ci si può attendere di tutto. Che alla vigilia del voto muova il suo Procuratore generale per incriminare Biden. Che dichiari le elezioni viziate da irregolarità e rifiuti di lasciare la Casa Bianca. Oppure, si potrebbe aggiungere, che profitti di qualche attrito militare per indossare i panni del war-president, e incassare lo stringersi pavloviano del Paese intorno al suo Capo. Nessuna di queste operazioni si presenta agevole per Trump. Ma se il presidente riuscisse ad evitare lo sfratto grazie ad uno ‘spin’ di produzione losca, avremmo la conferma di quel che l’irenismo progressista non vuol vedere: gli stati di diritto liberali sono work-in-progress più fragili di quanto si pensi. E se può pervertirsi una democrazia ancora in grado di sussultare per la morte del cittadino Floyd, figuriamoci cosa potrebbe accadere in un Paese che ha accettato con straordinaria flemma l’impunità per certe ubris poliziesche, fossero le sevizie al G8 di Genova o le gazzarre contro le famiglie degli Aldrovandi e dei Cucchi.

 

Vaticano. Tra scandali, caso Floyd e Trump la destra continua a fare la guerra a Francesco

Stavolta “l’ecumenismo dell’odio” – copy Spadaro e Figueroa tre anni fa sulla Civiltà Cattolica – ha come emblema il Trump “biblico” che si pavoneggia davanti alla St. John’s Church, antica roccaforte episcopale della capitale americana. Il presidente che alza la Bibbia nelle ore più drammatiche delle proteste per l’uccisione di George Floyd coniuga in modo dirompente fede e suprematismo nella campagna elettorale degli Stati Uniti, in una fase già segnata dal lockdown per pandemia.

Come se non bastasse, Trump ha poi raddoppiato andando insieme con la moglie Melania nel santuario cattolico di Washington dedicato a San Giovanni Paolo II. A questo punto è arrivata, forte e sorprendente, la condanna dell’arcivescovo locale Wilton Gregory, di origini afroamericane, che ha definito “sconcertante e riprovevole” il comportamento di Trump. Non solo. Lo stesso papa Francesco è stato duro con il presidente americano, con un chiaro riferimento alla influente lobby tradizionalista e prolife che ha contribuito alla sua elezione: “Non possiamo tollerare né chiudere gli occhi su qualsiasi tipo di razzismo o di esclusione e pretendere di difendere la sacralità di ogni vita umana”.

Si allargano dunque le divisioni nel campo cattolico tra i sostenitori della visione “misericordiosa” del pontefice e quanti invece lo odiano in nome della Dottrina e di un’idea guerriera della fede, quella che rimpiange le crociate, la messa in latino ed è contro le migrazioni. Certo, il fenomeno americano è più complesso e riguarda la miscela esplosiva tra destra tradizionalista anti-bergogliana e integralismo protestante, ma le conseguenze possono essere notevoli per il Vaticano. Se non altro perché la lobby conservatrice dei cattolici statunitensi è un pilastro dell’opposizione a Francesco, e che in più di un’occasione ha persino minacciato lo scisma. In prima fila nel sostegno a Trump ci sono i famigerati Cavalieri di Colombo, Knights of Columbus, che gestiscono il santuario intitolato a papa Wojtyla visitato dal presidente.

Potenti quanto l’Opus dei, i Cavalieri all’ultimo conclave hanno tentato invano di eleggere un “loro” papa. Uno dei candidati proposti da questo fronte era il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York, che qualche giorno fa ha pubblicamente ribadito la “leadership” di Trump. Il capo storico è il Cavaliere Supremo Carl A. Anderson, già nel board dello Ior e che vanta uno stipendio da oltre un milione di dollari annui. Il loro business è basato sulle polizze assicurative.

La politica dei Cavalieri oscilla tra il fondamentalismo e l’opportunismo bipartisan. In ogni caso hanno sempre appoggiato candidati repubblicani negli Stati Uniti e in Vaticano hanno da poco incassato, alla fine di maggio, l’annuncio che il loro fondatore Michael McGivney diventerà beato. E come ha scritto ieri Gianluigi Nuzzi sulla Stampa, lo scandalo dell’edificio londinese acquistato con i soldi dell’Obolo di San Pietro potrebbe costituire l’ultimo atto della guerra “americana” a Francesco.

Il clan dei Flic che sognano una società fatta di ariani

“Non c’è posto per il razzismo nella polizia repubblicana”, ha detto il ministro dell’Interno, Christophe Castaner, il 27 aprile scorso, in reazione ad un video in cui dei poliziotti davano del “bicot”, un modo spregiativo per dire “arabo”, all’uomo che stavano fermando a Île-Saint-Denis, nella banlieue di Parigi. La condanna morale del ministro ha avuto i suoi effetti: i due agenti sono stati sospesi e un’inchiesta è stata aperta. Ma c’è ancora molto da fare per ripulire i ranghi della polizia: Mediapart e ARTE Radio hanno avuto accesso a decine di messaggi vocali razzisti scambiati a fine 2019 su un gruppo WhatsApp da undici agenti o ex agenti in servizio a Rouen. Nei loro scambi, convinti dell’imminenza di una “guerra razziale”, questi poliziotti coprono di insulti i “nemici della razza bianca”: le donne sono tutte “puttane” (persino le poliziotte) e i neri dei “negri”, gli arabi li chiamano in senso peggiorativo “bougnoules”, i nomadi “maledetti zingari”, gli ebrei “figli di puttana che governano il paese”, e gli omosessuali sono tutti dei “pédés” (“froci”).

Questi fatti sono stati denunciati nel dicembre 2019 da un poliziotto di colore di 43 anni che chiameremo Alex, in servizio presso l’Unità di assistenza amministrativa e giudiziaria di Rouen. Anche il suo nome compariva in quegli scambi: 180 pagine solo per il periodo dal 4 novembre al 26 dicembre 2019. Alex ha inviato un rapporto ai superiori il 23 dicembre e sporto denuncia contro sei colleghi per “provocazione e istigazione alla discriminazione”. Un’inchiesta è stata aperta a metà gennaio dal procuratore di Rouen, Pascal Prache. I poliziotti in questione rischiano solo una multa fino a 1.500 euro. Un’inchiesta interna prevede inoltre il rinvio degli agenti davanti al consiglio di disciplina. Ma a questo stadio continuano tutti a esercitare il loro mestiere e alcuni si sono pure vantati di aver cancellato buona parte dei messaggi incriminati prima ancora di essere convocati. L’avvocato di Alex, Yaël Godefroy, teme “la perdita o l’alterazione delle prove”. Cinque mesi dopo la denuncia, Alex ha accettato di rompere il silenzio. Secondo lui il razzismo “esiste davvero” all’interno dell’istituzione, dice ad ARTE Radio, e rimane un “tabù”. Alcuni di quei messaggi razzisti lo prendono direttamente di mira. In uno viene criticato il “lavoro da negro che fa”. Una collega viene definita “la puttana dei negri”. In altri messaggi i poliziotti se la prendono con le “ragazze che vanno con quei bastardi” anziché coi “maschi bianchi”. Il loro vocabolario attinge spesso al repertorio nazista: “Gli ebrei e i gauchistes che dirigono questo paese fanno in modo che le donne preferiscano gli arabi o i negri. In Inghilterra e in Germania non è così. Lì le ragazze vengono educate per continuare la razza ariana”. Un altro agente si lamenta del fatto che nel suo reparto le donne siano “troppo colorate”: “Ci sono due bianche su dieci”. Discutono di “razza bianca” e ritengono che si debba “epurare” la Francia. Se la prendono con “quei figli di puttana della gauche” che si meriterebbero solo un “pallottola nella testa”: “Putin si occuperebbe di loro in quattro e quattr’otto. Ben venga la guerra civile. Saranno guai per la gauche. Bisogna eliminare quei figli di puttana. Un giorno o l’altro, quegli stronzi dovranno pagare”. Inventano degli slogan come “Make Normandy viking again” e teorie in stile alt-right: “Noi nazionalisti e razialisti dobbiamo essere più astuti di loro. Lasciamo che si eliminino tra di loro. Già si stanno spaccando tra pro-arabi e pro-ebrei. Di quelle puttane di femministe, dei finocchi LGBT e di tutta quella gente se ne occuperanno i musulmani. Quando femministe, LGBT, ebrei, arabi e i negri non musulmani cominceranno a farsi la pelle tra di loro, noi staremo a casa a mangiare popcorn davanti alla TV e ad affilare le armi. Basterà dare loro il colpo di grazia”. Uno sostiene di avere acquistato già un “fucile d’assalto”. Un altro dice di possedere “dieci armi a casa”. Due starebbero contrattando l’acquisto di “flashbang”, delle granate stordenti: “Ne prendo quattro, così ne metto due in borsa e due le tengo in casa”. Tra questi poliziotti c’è Gilles C., 46 anni, che è stato in servizio nel dipartimento Seine-Saint-Denis, banlieue parigina, prima di raggiungere la Normandia. Alex lo considera “il guru del gruppo”. Su WhatsApp Gilles C. condivide dozzine di link di Démocratie participative, il sito razzista e antisemita che farebbe capo a Boris Le Lay, un neonazista francese fuggito in Giappone dopo diverse condanne per incitamento all’odio razziale. Nascondendo la sua vera identità dietro uno pseudonimo a consonanza nordica, Gilles C. pubblica anche numerosi commenti su Internet.

Sul film “Jojo Rabbit”, una commedia satirica su Hitler del 2019, a settembre ha scritto: “Un altro film di propaganda ebrea”. Anche se ha chiuso il suo profilo Facebook, continua a pubblicare con lo stesso pseudonimo sul social network russo VKontakt (VK), molto popolare tra i militanti di estrema destra. Un altro membro del gruppo, Thibault D., parla nei suoi scambi di un canale YouTube su cui avrebbe pubblicato dei filmati su armi e survivalismo e si sorprende che la piattaforma li abbia soppressi per “incitamento alla violenza”. I colleghi gli consigliano di cambiare canale di diffusione, ma per Thibault D. sul piano della “monetizzazione” sono meno interessanti di YouTube. E chiude così: “Ad ogni modo non posso dire tutto quello che voglio, devo mantenere una certa correttezza perché sono flic. E se un giorno mi dovesse piombare addosso la gerarchia, non ci deve essere niente che mi possa essere rimproverato, niente di illegale o amorale, che non mi possano sanzionare”. A fine dicembre, alcuni membri del gruppo ricevono una convocazione in commissariato. Sospettano che sia a causa degli scambi su WhatsApp, ma continuano lo stesso a discuterne sul social: “I capi stanno davvero cominciando a rompere i coglioni, sempre a cercar cavilli per rovinarti”, osserva uno di loro. Alcuni dicono di aver cominciato a sopprimere le discussioni. Gli agenti sono stati convocati il 6 gennaio scorso per “violazione dell’etica professionale” nell’ambito dell’inchiesta disciplinare. Alex, il poliziotto che ha sporto denuncia, dice di essere rimasto “scioccato” dal contenuto di quei messaggi. “Non dormivo più la notte. Ne ho parlato con mio fratello, con amici, ma è stata dura”. “Sono parole intollerabili per la loro violenza – aggiunge il suo avvocato, Yaël Godefroy -. Il mio cliente non è riuscito neanche a leggere tutto, ha chiesto a me di farlo”. “Per una settimana – racconta Alex – ho dovuto condividere gli stessi spazi con le persone che avevo denunciato, ma che non lo sapevano”. Al rientro dalle vacanze di Natale, Alex apprende che gli hanno cambiato servizio e raggiunge una pattuglia anti crimine. Da quando è entrato in polizia, nel 1999, deve ingoiare i commenti razzisti dei suoi colleghi. Degli “anni straordinari” nella banlieue di Parigi, fino al 2008, ricorda anche le “battute razziste”, delle “piccole frasi buttate lì”: “Mentre pattugliavamo, se incrociavamo un’auto con delle persone di colore dentro, dicevano: Guarda quelli, sono tutti dei bastardi figli di puttana. Ma tu non sei come loro. Tu hai deciso di essere come noi”. Le cose sono peggiorate una volta a Rouen, in Normandia. “Qui ci sono meno colleghi neri, delle Antille o di origini maghrebine. Si viene subito giudicati in base all’aspetto. Circondati da bianchi, ci si lascia andare più facilmente”. Da colleghi Alex ha appreso che alcuni lo avevano soprannominato “il Black” o “il negro”: “Non volevo farmi passare per vittima. Ma avevo fatto risalire l’informazione ai superiori e non c’è stato seguito”. Questa volta, consegnando un rapporto completo e sporgendo denuncia, Alex ritiene di aver preso la strada giusta e spera che i suoi sforzi saranno ricompensati. Mercoledì scorso il ministro Castaner ha promesso che “ogni errore, parola, frase razzista” pronunciata da un poliziotto sarà “sanzionata”.

(traduzione Luana De Micco)

La sai l’ultima?

 

Un volatile in tribunale: il pappagallo ripete le parole della donna assassinata

Il testimone chiave è un pappagallo. Nel processo sulla morte di Elizabeth Toledo, in Argentina, sono finiti agli atti i versi di un pennuto, che avrebbe assistito all’omicidio della sua padrona e iniziato a imitare le sue grida di aiuto. Come scrive La Nación, il primo soccorritore che è entrato nella stanza di Elizabeth e ha scoperto il suo corpo senza vita, è rimasto pietrificato nell’ascoltare la richiesta disperata della donna: “Ay por favor soltame”, ti prego lasciami andare. A ripetere queste parole non era ovviamente la salma, ma l’amato volatile della vittima. Un altro testimone, vicino di casa di Elizabeth, ha dichiarato di aver sentito lo stesso animale pronunciare questa frase: “Por qué me pegaste?”, perché mi hai picchiato?

Gli inquirenti si sono convinti che il pappagallo sia l’unico testimone diretto della violenza e dell’omicidio. Così le sue preziose parole – o meglio i suoi versi – saranno ascoltate in un’aula di tribunale.

 

La nonna è scatenata, festeggia la fine della quarantena con una corsa a perdifiato in sella al motorino elettrico

Un’anziana signora scozzese non ce la faceva più a stare chiusa in casa, il lockdown era davvero un inferno. Così quando finalmente la quarantena è finita, dopo tre mesi di clausura nella sua casa di Broxburn, la nonnina ha deciso di festeggiare la ritrovata libertà lanciandosi in una scatenata corsa allo skatepark, il parco giochi pieno di rampe dove gli skaters vanno a fare le acrobazie. Un particolare: la signora non si muove più autonomamente ma a bordo di un mobility scooter, un motorino elettrico per anziani. Una circostanza che evidentemente non ha frustrato l’amore per le passeggiate all’aperto. Il video della nonna che sfreccia sulle rampe con la mascherina, tra risate e gridolini di gioia, è stato caricato sui social dalla nipote Amy Penman con questa didascalia: “Nonna è fuori controllo”. È diventato incredibilmente virale: su Twitter ha collezionato 420mila visualizzazioni solo nelle prime 24 ore.

 

L’ultima crociata di Kim, niente sesso tra i giovani nord-coreani: “È un atto sovversivo, colpa del capitalismo”

Sapevamo già che Kim Jong-un, despota della Corea del Nord, fosse prima di tutto l’amico di Antonio Razzi, ma pure il dittatore sanguinario dello Stato più misterioso e isolato del mondo. Ora sappiamo pure che è un bacchettone: a Pyongyang da adesso in poi è vietato il sesso tra adolescenti. Kim e i suoi lo considerano una devianza immorale e pure un atto di sovversione politica. La decisione è stata assunta la scorsa settimana dal comitato centrale del partito comunista: il sesso tra ragazzi “è influenzato dagli stili di vita capitalistici”, è il cavallo di Troia dell’occidente per corrompere la gioventù nord-coreana. Il regime sta per approvare norme molto severe per impedire i contatti promiscui tra gli adolescenti e prevenire l’immorale fornicazione. Sono minacciati di punizioni esemplari coloro che devono vigilare sui bassi istinti degli adolescenti: i genitori e gli insegnanti. I ragazzi si consoleranno: Pyongyang è tanto bella in primavera. Ed è piena di altre cose da fare.

 

Dopo il Covid, le piaghe bibliche: Roma ora s’interroga sulla spaventosa moria di pesci nelle acque del Tevere

Siamo stati straziati dal Coronavirus e ora forse iniziamo a riprenderci, ma nel frattempo chissà cos’ha in serbo per noi il padre eterno. In attesa di rane, cavallette, longuste e altre piaghe bibliche, a Roma ci si chiede con un certo smarrimento per quale motivo il Tevere da giorni sia pieno di pesci morti. Le acque del fiume capitolino non brillano e non hanno mai brillato per trasparenza e pulizia, ma lo spettacolo di centinaia di piccole carcasse ammassate attorno alle banchine non ha lasciato indifferenti i romani. La prima spiegazione del fenomeno sarebbe nella siccità che affligge il corso d’acqua, ma una risposta al di là di ogni ragionevole dubbio non c’è. Anche l’Oipa, l’associazione animalista, sta svolgendo le sue verifiche, ma i risultati non sono ancora noti. Tuttavia negli eventi che riguardano Suburra a noi pare impossibile non ravvisare lo svolgimento di una precisa volontà divina (e un po’ perversa, se ci è permesso). Quindi aspettiamo pazienti le cavallette.

 

Scopre che il fidanzato da giovane era di destra e lo lascia una settimana prima del matrimonio

Meglio tardi che mai: una donna di Vicenza ha scoperto a un passo dall’altare che il marito aveva avuto un trascorso politico nell’estrema destra. Dopo tre anni di fidanzamento ha deciso di mollarlo lì, una settimana prima delle nozze. La vicentina è un’attivista dei diritti umani. Il fattaccio è avvenuto sfogliando vecchie foto insieme al fidanzato. Così è riemerso il suo passato nero, che fino a quel momento evidentemente era stato taciuto. E così la fidanzata è venuta a sapere anche di una vecchia denuncia per omofobia, finita con una archiviazione. Ad essere archiviate sono pure le nozze, come racconta l’agenzia di stampa Vista: a una settimana dal fatidico “sì” l’ex camerata è stato scaricato con una lettera. Nella quale la compagna – è il caso di dirlo – gli spiegava che con quel suo passato non ci poteva essere futuro. L’uomo ha tentato inutilmente di farle cambiare idea, ma almeno è riuscito a farsi restituire in tribunale i 30mila euro anticipati per il matrimonio.

 

Il cagnolino ha “violentato”il gatto di un’amica e la padrona diventa un personaggio nei programmi tv

Ognuno diventa famoso come può. In Gran Bretagna la signora Sandra Harrison è ormai un personaggio che gode di una certa popolarità sul web e in tv. Si appresta alla terza apparizione nella trasmissione Judge Rinder, una sorta di Forum in salsa brit, con il giudice Rinder nel ruolo che fu del mitico Santi Licheri. Miss Harrison è diventata famosa così: è stata convocata nel tribunale televisivo perché il suo cagnolino Max – un tibetano di taglia piccola – avrebbe costretto a un terribile e incestuoso rapporto sessuale il gatto di un’amica. Il micio – a quanto si apprende leggendo The Sun – è rimasto profondamente traumatizzato: per tranquillizzarlo la sua proprietaria ha dovuto spendere una fortuna in psicofarmaci. Così Sandra, al suo esordio televisivo, è stata condannata a pagare un risarcimento da 1.500 sterline per il valium del felino. Ora la donna si appresta a tornare da Judge Rinder ed è ancora per colpa dell’impenitente cane Max. Stavolta a causa delle nozze annullate con la cagnolina Diva.

 

Karateka trova una mosca sulla pizza e perde la testa. Picchia tutti, anche i poliziotti: condannato a 22 mesi

C’era una mosca nella sua pizza e il karateka non l’ha presa bene. Prima ha lanciato il piatto contro la vetrina del ristorante, poi ha cominciato a distruggere gli arredi del locale, dopodiché ha affrontato con successo i proprietari e infine ha messo a tappeto gli agenti di polizia che erano arrivati per calmare la situazione. Il 39enne campione di arti marziali è stato condannato a un anno e dieci mesi: per lui si sono chiuse le porte della pizzeria e si sono aperte quelle del carcere di Burla, a Parma (come racconta il sito ParmaToday). Aveva già precedenti penali e non è il tipo di persona che può accettare che gli si rovini la margherita. É la teoria del “butterfly effect”: si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo. In questo caso il battito di ali di una mosca ha scatenato una tempesta omicida in un ristorante di Parma. L’hanno sperimentata i due poliziotti che sono usciti dal locale con dieci giorni di prognosi a testa.