“Il mio diario-terapia: inerme e sola ad affrontare il virus”

Il primo paziente affetto da covid-19, Martina Benedetti, non lo scorderà mai. Nessun nome: per lei, 27 anni infermiera all’ospedale Noa di Massa Carrara, era il “Signor A”. Un paziente zero, come il Mattia di Codogno. Eppure, racconta Martina, quella persona che necessitava di un’incubazione per respirare “era un uomo con nome e cognome, un figlio, un padre, un fratello, un marito di qualcuno, un qualcuno al momento costretto tra le mura di casa”. Quel “signor A” aveva bisogno di aiuto. Del suo aiuto. E allora arriva il momento di “vestirsi” per la prima volta, che per Martina non significa scegliere l’outfit per il sabato sera, ma il metodo per indossare lo scafandro, le mascherine e le tute da usare in terapia intensiva. “La prima volta ho chiesto a una collega di guardarmi per evitare di fare errori” scrive la giovane infermiera ricordando quei momenti. Poi la paura di sbagliare qualcosa nei protocolli, il timore di quel virus quasi sconosciuto e i dati terribili degli operatori sanitari contagiati in tutta Italia. Nel mezzo “tantissime domande, dubbi, perplessità, tutte lasciate in sospeso in quei primi momenti”.

Questi sono i pensieri, solo alcuni, tra quelli che Martina Benedetti ha scritto sotto forma di diario quando tornava a casa dal turno di lavoro e il contenuto di una lunga conversazione, tramite messaggi e e-mail, con l’amica criminologa di Forte dei Marmi, Anna Vagli. Insieme, terminata l’emergenza covid-19, hanno deciso di raccogliere le emozioni e le paure di quei mesi così difficili in un libro dal titolo emblematico: “Non siamo pronti. Lettere digitali dal fronte covid-19” (edito da Meligrana Editore). Scrivere e confrontarsi con l’amica sulle sensazioni e le paure legate alla situazione che stava vivendo, è stato di grande aiuto per Martina: “È stato qualcosa di spontaneo e direi che i miei scambi epistolari con Anna per me sono stati terapeutici – racconta l’infermiera al Fatto Quotidiano – ho sempre amato scrivere, mi rilassa e mi è servito per mettere in ordine quello che stava succedendo in ospedale: per me è stata una specie di terapia”. Il libro ha anche un’altra finalità: “Spero che possa servire per il presente e per il futuro – continua Martina – vedo che in giro ci sono persone scettiche secondo cui questo virus non sarebbe reale. Ecco, magari leggendo i miei pensieri di quelle settimane, possono cambiare idea”.

Nella sua testimonianza, il lettore rimane colpito dal lavoro estenuante che gli infermieri degli ospedali italiani hanno vissuto nella fase più critica dell’emergenza, quando arrivavano decine e decine di pazienti ammalati di covid-19 ogni giorno: “Al Noa di Massa facevamo anche turni di 8-9 ore senza mai una pausa – continua Martina – non si poteva mai staccare perché, soprattutto all’inizio, avevamo poco materiale. Le tute, le mascherine, gli occhiali e le visiere sono monouso: quindi dovevamo tenercele strette per un unico turno e non potevamo permetterci di cambiarle. A volte era impossibile anche andare in bagno o bere un sorso d’acqua”. Soprattutto all’inizio dell’emergenza, gli operatori sanitari venivano mandati “in guerra senza armature”, come scrive Martina in un capitolo del libro raccontando la vita complicata “nelle mura dell’ospedale”: “In quei giorni ho lavorato quasi sempre con maschere FFP2, non indicate per le manovre invasive che effettuavo – scrive in un passaggio del libro – Lo sapevo bene, ma era ciò che mi veniva fornito. Che cosa potevo fare Anna? Rifiutarmi di entrare? Restare a casa come qualcuno ha fatto? No, non mi sarei mai sentita in pace con me stessa, con la mia coscienza e così varcavo quella porta con la paura costante addosso. Avevo paura ma ho continuato a lavorare ogni giorno… Come potevo fidarmi di chi non ci stava dando risposte valide in quel momento? Di chi ci diceva ‘tranquilli, andrà tutto bene’ non avendo mai messo nemmeno il naso nelle nostre realtà? Abbandonata Anna, mi sentivo abbandonata e sola, con la piccola speranza, in cuor mio, che alla fine ognuno avrebbe dovuto fare i conti con le responsabilità riconoscendo i propri limiti ed errori. Arriverà mai quel momento?”.

Nei suoi messaggi con l’amica, l’infermiera di Massa racconta anche del suo rapporto con i pazienti, non solo sofferenti ma soprattutto soli. “La Regione Toscana ci ha sempre abituati alle terapie intensive aperte – racconta oggi – ma in quel momento i pazienti erano costretti all’isolamento totale e noi eravamo l’unico tramite con la famiglia. Psicologicamente è stato molto difficile”.

Oggi le terapie intensive dell’ospedale di Massa sono Covid-free e Martina può tornare a godersi un po’ la sua famiglia e i suoi amici, sempre nel rispetto delle norme di sicurezza. E non è facile tornare indietro a quei momenti: “Nei mesi scorsi non c’è stato nemmeno tempo e modo per pensare a cosa stesse succedendo – dice Martina – adesso è il momento dell’elaborazione: non nascondo che in alcuni momenti sia più difficile adesso perché prima il pensiero era andare a lavoro e fare il mio dovere mentre adesso ogni tanto sei costretto a fermarti e ripensare alle dure sofferenze di cui siamo stati testimoni. Con molti colleghi forse avremmo bisogno di un periodo di stacco e di riposo”.

Poi non nega la preoccupazione per il clima da “liberi tutti” di questi giorni: “Temo che la situazione possa tornare a peggiorare – conclude – tanti vogliono tornare alla normalità, ma purtroppo in giro vedo molti comportamenti scorretti, basti pensare alle manifestazioni politiche di inizio giugno a Roma: gli assembramenti non sono stati rispettosi per il nostro lavoro e per tutte le vittime del coronavirus”. Per questo “bisognerebbe essere più cauti” perché la “normalità deve tornare gradualmente”: “Con una seconda ondata il nostro sistema non reggerebbe – conclude Martina – perché adesso siamo stremati e stanchi”.

Assisi e il turismo: ormai è la città di Bernardone

“M a Assisi non appartiene a una regione, è una regione un luogo privilegiato della Terra, in cui non si può mai abitare, ma vi si arriva sempre. E quando si riparte è come essere usciti da una civiltà che ti si è rinchiusa alle spalle a catenaccio”. Queste ispiratissime parole di Cesare Brandi rischiano di avverarsi come una triste profezia: Assisi è ormai una città in cui non si può abitare. Come le grandi sorelle Venezia e Firenze, anche Assisi assiste impotente al divorzio tra pietre e popolo.

“Assisi – mi ha scritto Carlo Cianetti – è sempre più la città di Bernardone: la dimensione sociale è terribilmente impoverita, le dinamiche di mercato sono parassitarie. Mancano politiche abitative, tutela e valorizzazione vera dell’ambiente e dell’arte”. Cianetti è il direttore di una rivista online che si chiama AssisiMia, luminoso esempio di riflessione a più voci sul presente e sul futuro della città. E le sue parole sono forti e chiare come capita solo quando sono mosse da un amore profondo per l’oggetto delle critiche. Nessuna immagine potrebbe essere più eloquente: commerciando senza ritegno la città di Francesco, si è finito per costruire la città di Bernardone, il ricco padre mercante del santo. È la morale universale dell’overtourism, il suo profondo paradosso: quello di ridurre nel suo contrario l’oggetto di questo amore smodato, possessivo e infine, suo malgrado, violento. Così l’armoniosa Firenze è diventata una città volgare, e Venezia, la cui bellezza non ha paragoni al mondo, è diventata dozzinale. Assisi, dunque, rovesciata in ciò che di più lontano può esistere dallo spirito di San Francesco: una città senza cuore, ma solo col portafoglio. Un Disneyland serafica, come è stata amaramente, quanto efficacemente, definita.

Il fiume di denaro seguito al terremoto del 1997 doveva portare a un “nuovo Rinascimento”: perché la retorica del dopo-catastrofe è sempre la stessa, come sempre uguale è la conclusione. Il recupero degli edifici ha prodotto altrettanti contenitori vuoti, senza scopo e senza popolo: come se, partito la sera l’ultimo autobus di pellegrini compulsivi, gli assisani semplicemente non avessero una vita. Particolare eloquente: solo ora (dopo quasi 25 anni!) si restaura il Teatro Metastasio!

Ebbene, in queste settimane Assisi è di fronte ad un’altra crisi, non meno dura: tre mesi di confinamento hanno spezzato l’economia effimera che si reggeva su una monocultura, quella di san Francesco. Spariti i torpedoni, la città si chiede da dove ricominciare: è la grande occasione di voltare pagina, un’occasione che potrebbe essere l’ultima.

Nel 2026 si celebrerà l’ottavo centenario della morte del Poverello: parafrasando il Vangelo, ci si può chiedere se quell’anno troverà ancora un popolo, tra le mura di Assisi. Perché la risposta sia positiva occorre innanzitutto un vero dibattito pubblico (non solo locale: il destino di Assisi riguarda tutti gli italiani), e quindi una stagione in cui la politica sappia fare delle scelte: innanzitutto a favore della residenza popolare nella città storica, e a sostegno di una diversificazione dell’economia.

Ma, non nascondiamocelo, ad Assisi la voce delle comunità religiose è una voce potente. In particolare, il Sacro Covento, a buon diritto definito l’“acropoli di una mistica Atene”, non può assistere in silenzio (o addirittura collaborare attivamente) all’agonia della città che lo circonda e lo abbraccia. Ha scritto lucidamente Cianetti: “Può il clero, la chiesa di Papa Francesco, che chiede dall’inizio del suo pontificato di aprire le porte alla gente, ai poveri, ai meno abbienti, far finta di nulla? Può il clero continuare a rimanere rinchiuso nei suoi conventi e monasteri e osservare con disincanto la morte della città, ormai dissanguata e abbandonata alle dinamiche spregiudicate del neo-liberismo? Cosa racconterà questo clero ai giovani e agli studiosi che verranno a discutere dell’economia di Francesco in Assisi, il prossimo novembre? Che messaggio darà la chiesa di Papa Francesco, dalla città di San Francesco, al mondo? Come si giustifica il fatto che conventi e monasteri sono per la gran parte alberghi a tutti gli effetti? Perché la chiesa non si spoglia di quei beni e li dona alla città, ai suoi figli più poveri, che ne hanno un gran bisogno? Come farete a parlare di povertà, di giustizia sociale, di redistribuzione delle ricchezze al mondo che verrà ad ascoltarvi?”

È una domanda che la comunità francescana non può e non deve eludere: se non vuole sentirsi dire, a ragione, “medico, cura te stesso!”. Durante il confinamento abbiamo tutti capito che senza le chiese aperte, le città italiane non sono più loro. Ma anche senza le città le nostre chiese non hanno senso, a meno di non trasformarle definitivamente non in musei, ma direttamente in luna park a pagamento. Le pietre di Assisi reclamano il loro popolo: che qualcuno le ascolti.

“Se fossi il Salvini nero la pacchia finirebbe: ma per i cari lumbard”

Lei da questo momento è mister Pacchia.

“Cioè devo far finta di essere leghista?”

Mettiamo che Aboubakar Soumahoro, da sindacalista che organizza i braccianti agricoli, i sans papiers, i senza diritti, divenga salviniano intransigente, durissimo. Ricordate lo slogan? “La pacchia è finita!”.

Sarà una conversione inaspettata e potente che la conduce a gridare forte il nuovo alfabeto, il vocabolario di un’Italia italianissima. Deve mostrare a Salvini cos’è l’ortodossia, la purezza.

Possiamo iniziare col dire che sono un italiano diversamente abbronzato, così addolcisco il tratto.

Vero, così intriga, desta curiosità e annulla in me l’idea di un distanziamento oggettivo.

Prima gli italiani? Allora io dico di più. I varesotti a Varese. E questo tempo del Covid che ha fatto alzare i muri deve proseguire anche fisicamente. Un muro che tenga i calabresi al loro posto, un altro che isoli Milano dalla contaminazione anti lumbard. E i torinesi a Torino.

Torino senza meridionali è come una farfalla senza ali. Significa che vuole condurla alla morte.

Interpreto Salvini. Semplicemente. Ciascuno con la sua razza e il suo dialetto, i suoi usi e costumi. Ci vuole rigore filologico e politico. L’ortodossia non ammette devianze né dubbi e mediazioni.

Lei così mi viene troppo leghista

La purezza è propria degli spiriti convinti.

Aboubakar vuole strafare

Il cibo? Ciascuno cucini ciò che sua nonna gli ha insegnato.

Così rotoliamo nella più disperata autarchia, in un sovranismo troppo spinto. Lei deve intendere il leghismo con più approssimazione, altrimenti si finisce a carte quarantotto

Vede? La magia non funziona perché l’idea cattiva della separazione, se portata alle sue conseguenze naturali, produce un disastro, un mondo invivibile, inaccettabile.

Intanto l’Italia non accetta più migranti. Porti chiusi.

C’è un aerosol collettivo che sprigiona particelle di razzismo. Non è più il sottofondo di una società tollerante, ma il coperchio che occlude ogni discussione e nasconde il sentimento che si priva di ogni pudore e legittima non più episodi isolati ma un’idea razziale della società. Nella pandemia tutti ci siamo preoccupati di difenderci dal virus. Anzi abbiamo detto che il pericolo siamo noi, ciascuno di noi è potenzialmente l’untore.

Vero, il pericolo siamo noi.

E però l’Italia ha reso per legge i migranti senza permesso di soggiorno “immuni” da qualunque virus. Loro semplicemente non esistono, e seppure esistono non possono contagiare. Lo dice la politica rifiutando qualunque presa di coscienza della realtà, della giustizia, della stessa Costituzione della Repubblica. Perciò nega loro la possibilità di avere un’identità certificata, una tessera sanitaria con la quale bussare alla porta di un medico, chiedere di farsi curare. Loro non tossiscono mai, non si ammalano mai.

Sono appunto invisibili.

Invisibili non solo i braccianti, ma tutti i nuovi senza diritti. I riders per esempio, le tante partite iva, il numero poderoso dei nuovi precari, coloro che non hanno nulla.

Non solo migranti e non solo barconi.

Capita, non sempre ma capita, che quando il datore di lavoro viene convocato dal sindacato (io rappresento l’Ubs) si siede al tavolo e chiede chi lo stia costringendo al negoziato. Gli fanno cenno con la mano che sono io il sindacalista, quello diversamente abbronzato, e allora vedo spalancare gli occhi.

Quando ha scelto di migrare aveva in testa un luogo preciso, un Paese?

Io amavo l’Italia, ero innamorato pazzo del calcio italiano, della moda italiana. Guardavo tutte le partite di Champions, i miei idoli erano Zola, Baggio, Maradona. Ritagliavo le figurine, sapevo tutto di voi.

Ha avuto il tempo di laurearsi in Sociologia (110 su 110) alla Federico II di Napoli.

Ma il primo incontro è stato con la Lombardia, dalle parti di Seveso. Un freddo cane, come non avrei mai immaginato. Poi la discesa a sud.

Poi la laurea.

Poi ogni lavoro possibile.

Poi il sindacato

Non è un mestiere fare il sindacalista. Lo si è 24 ore al giorno, qualunque lavoro si faccia. Ci vuole connessione sentimentale con chi ti sta al fianco, avere in testa la ragion d’essere di un uomo, avere chiaro l’agire conseguente.

Di nuovo nelle braccia di Marx.

Guardi questa foto. Era al tempo di Bossi, e io con alcuni compagni teniamo in mano il verbo: la Padania.

Qui gatto ci cova.

Beh, li sfottevamo ma con eleganza.

Ex Ilva, ecco il nuovo piano di Arcelor. Sindacati: “Inaccettabile, scioperiamo”

Un piano ritenuto “inaccettabile” dai sindacati, presentato il 5 giugno da Arcelor Mittal al governo e che, seppur non ancora ufficializzato, ieri ha iniziato a circolare con tutti i dettagli (la prima a pubblicarne il contenuto è stata la Gazzetta del Mezzogiorno). Le 38 pagine di analisi e previsioni sull’acciaierie Ex Ilva, che il Fatto ha potuto visionare, confermano quanto trapelato nei giorni scorsi e ieri le segreterie nazionali di Fim, Fiom e Uilm, insieme alle Strutture Territoriali e alle Rsu del gruppo Arcelor, hanno dichiarato 24 ore di sciopero dalle 7 di domani, in tutti gli stabilimenti del gruppo e in parallelo all’incontro con il ministro dello Sviluppo Economico Patuanelli.

Il dossier è indicato come strettamente confidenziale, ha allegato uno studio sul futuro mercato dell’acciaio in Europa firmato McKinsey e di fatto spende tutta la premessa nello spiegare come l’emergenza scatenata dal Covid-19 abbia modificato le previsioni industriali di marzo, quando Arcelor Mittal – che già parlava di un cambiamento del mercato – e il governo si erano accordati (senza i sindacati) per riscrivere il contratto di locazione del 2017 e chiudere così il contenzioso al tribunale di Milano. Arcelor prevede che il 2020 si chiuderà con un calo nella domanda di acciaio del 25-30%, conseguenza della flessione negativa nei mercati automobilistico e delle costruzioni. Le spedizioni di acciaio passeranno da 5 milioni di tonnellate del 2019 a 3,5 milioni quest’anno. La prospettiva che risalgano a 8 milioni è collocata solo nel 2025 e solo se si tornerà ai livelli pre-emergenza Covid-19. Viene prospettato poi un aumento della sovracapacità produttiva che, secondo Arcelor, lascerà come unici sopravvissuti, sul lungo termine solo gli impianti più competitivi (70%).

Di conseguenza, il grafico dei dipendenti mostra il passaggio, per il 2020, dalle attuali 10.700 unità a 7.400 per poi assestarsi su 7.550 fino al 2025. Il calcolo è tarato sull’obiettivo delle 6 milioni di tonnellate per poi prevedere un ritorno alle 10.700 unità nel 2026, a braccetto con gli 8 milioni di tonnellate di produzione (implicitamente, con la copertura per mezzo degli ammortizzatori sociali nel mentre). Il rifacimento dell’altoforno 5 sarebbe previsto solo dopo il 2025, si proseguirebbe con l’utilizzo degli Altiforni 1,2 e 4. Nel 2023 si dovrebbe però chiudere il ciclo di vita di Afo2: il rischio è che gli altri due potrebbero non bastare. Al conto, vanno poi aggiunti anche i 1.800 lavoratori già in cassa integrazione e che attualmente sono stati assorbiti da Ilva in amministrazione straordinaria. In sostanza, gli esuberi arrivano a 5mila unità, il danno maggiore riguarderebbe lo stabilimento di Taranto.

Le richieste per finanziare il piano sono invece schematizzate sin da subito e sono presentate come imprescindibili: un prestito di 600 milioni di euro con garanzia statale, un mutuo ipotecario di 600 milioni di euro nel 2022 (a rifinanziare il prestito di garanzia statale), una indennità di 200 milioni di euro per i danni da Covid-19, 200 milioni (nel 2021 e 2022) dai certificati verdi e 55 milioni dal programma di Invitalia per coprire le aree secondarie e per le migliorie ai sistemi di aspirazione e di trattamento delle acque.

I sindacati, intanto, ritengono “inaccettabile il piano industriale presentato da Arcelor Mittal al governo” e rivendicano “la piena occupazione, gli investimenti e il risanamento ambientale oggetto dell’accordo sindacale del 6 settembre 2018”, quello sì raggiunto con i sindacati che aveva previsto l’assunzione immediata di 10.700 persone e l’assorbimento di tutto il resto entro il 2025. E proclamano lo sciopero: “È ancor più grave che le decisioni dell’azienda si basino su un accordo tra la stessa Arcelor Mittal e il governo siglato nello scorso mese di marzo, ma a tutt’oggi a noi sconosciuto”.

Il Pd si riunisce su Conte: con il premier, M5S al 20%

La sua relazione il segretario Nicola Zingaretti l’ha limata fino all’ultimo, lavorandoci per tutta la domenica. Perché la direzione del Pd di questa mattina alle 11 è assai delicata oltre che particolare: tant’è che si è deciso di ricorrere alla videoconferenza senza aspettare oltre, come si pensava originariamente per potersi riunire, in sicurezza, al Nazareno.

All’ordine del giorno la situazione politica, economica e sociale del Paese anche se, a sentire gli umori della vigilia, a tenere banco saranno, almeno indirettamente, gli Stati generali dell’economia convocati dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che hanno disorientato i vertici idem, per usare un eufemismo. Zingaretti, ma anche il suo vice Andrea Orlando, continuano a segnalare che senza un piano economico per la ricostruzione dopo il disastro prodotto dal coronavirus, l’appuntamento rischia di trasformarsi in una falsa partenza. O peggio in una passerella con le parti sociali che chiedono risposte subito.

Ma tra i dem è convinzione comune che Zingaretti mai potrebbe sabotare l’iniziativa di Conte e che al più “verrà presentata come una sorta di Fase 1, quella dell’ascolto del Paese: i giochi si faranno comunque nella Fase 2 quando i partiti della maggioranza, ognuno con il suo peso, decideranno come spendere le risorse”. Ma c’è un di più. Perché quello che ha stupito e disorientato maggiormente nel Pd è stato l’atteggiamento di Dario Franceschini. Anche lui che è assai potente nel partito, forse più dello stesso segretario, ha fatto trapelare il suo disappunto per la fuga in avanti di Conte. “Rinunciando per la prima volta dall’inizio dell’esperienza giallorosa al suo atteggiamento istituzionale. E allora forse la direzione del Pd di oggi servirà anche a capire la ragione vera di questo suo disagio. Quanto è profondo e dove ci porterà” sussurra uno dei parlamentari che gli è più vicino. Tra i dem c’è chi si è convinto che se Franceschini si è mosso così, al prezzo di rinunciare all’aplomb che lo rende il candidato più quotato per il Quirinale, lo può aver fatto solo per una ragione: “Avverte un rischio gravissimo per il Pd. E andava mandato un messaggio a Conte: il suo ruolo è quello di capo del governo e non è gradito che si dedichi a iniziative di natura politica per consolidare l’area che lo supporta”.

Insomma quel che preoccupa è la consistenza del volume specifico del premier, rivelata anche dall’ultimo sondaggio Youtrend per SkyTg24: se Conte ne fosse il leader, i 5 Stelle si rianimerebbero fino a sforare il 20 per cento, secondo partito dopo la Lega (al 26) e prima del Pd (che scenderebbe al 18,9). E così sarà pure vero che la direzione del Pd di oggi sarà tutta dedicata “alla ciccia, a partire dagli emendamenti al decreto Rilancio secondo quello che predica sempre Zingaretti che dice di occuparci di cose pratiche”, come suggerisce un esponente della segreteria. Ma c’è da scommettere che la video-conferenza su LifeSize servirà pure ad ascoltare le parole o i silenzi di Franceschini e dei suoi.

 

“Inaccettabile anche se fosse solo faciloneria”

“Nel migliore dei casi è segno di una faciloneria, di un dilettantismo che la Lombardia non può accettare”. Dario Violi è consigliere regionale del Movimento 5 stelle, dopo essere stato candidato presidente M5s alle ultime elezioni.

Rientrate anche voi nella commissione d’inchiesta.

Sì. Ma dopo l’ultimo caso emerso, quello dei camici di Fontana, è chiaro che la maggioranza deve dimostrare di voler fare davvero chiarezza. Non può impuntarsi sul nome del presidente. Noi, M5S e Pd, abbiamo trovato un accordo. I Cinquestelle hanno rinunciato alla presidenza perché vogliamo chiarezza, non poltrone. Se ci saranno veti, vorrà dire che Lega e Forza Italia non vogliono fare chiarezza su quello che è successo in Lombardia.

Quali sono le prime urgenze della commissione?

Noi non vogliamo vendette. Vogliamo giustizia e verità. Ce lo chiedono i cittadini. Dobbiamo cominciare ad audire i medici, gli infermieri, i direttori, i parenti delle vittime… in trasparenza. La presidente voluta dal centrodestra aveva anticipato che i lavori sarebbero stati segreti. È chiaro che alcune audizioni dovranno essere segrete, ma i lavori dovranno essere trasparenti. Ci sono parenti che dicono che ad Alzano non è stata fatta la sanificazione, che non c’è stato tracciamento… Dobbiamo capire quali sono state le responsabilità politiche (a quelle penali ci penseranno i magistrati) e che cosa non ha funzionato. E poi dobbiamo sanare le falle della sanità lombarda che si sono dimostrate più gravi di quello che potevamo immaginare.

L’ultimo caso emerso è quello dei camici.

Io spero che il presidente Attilio Fontana riesca a spiegare tutto. Ma anche se fosse vera la spiegazione della donazione e del disguido, la vicenda dimostra la come hanno gestito l’emergenza: sottovalutazione, dilettantismo, in una regione come la Lombardia. Non ce lo meritiamo: devono trarne le dovute conseguenze.

“Non è un caso isolato: se ne sono viste tante”

Jacopo Scandella, consigliere regionale lombardo del Pd, è il candidato delle opposizioni a diventare presidente della commissione regionale d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza sanitaria in Lombardia. “Si riparte, dopo la rinuncia di Patrizia Baffi, che era stata eletta con i voti della maggioranza. Il presidente delle commissioni d’inchiesta spetta per regolamento alle opposizioni. Lega e Forza Italia avevano ritenuto di votarsi una presidente che ritenevano più malleabile, ma questo aveva messo in stallo i lavori della commissione. Ora si riparte, perché c’è una domanda di chiarezza e verità che è trasversale, che viene anche dagli elettori leghisti”.

Sarà lei il presidente?

Sono stato indicato dalle opposizioni (Pd e Cinquestelle). Ma non importa il nome, io o un altro non è un problema. Importante è che si cominci a fare chiarezza su che cosa è successo in Lombardia durante l’emergenza coronavirus.

Quali saranno le prime mosse della commissione d’inchiesta?

Non si tratta tanto di sentire l’assessore Giulio Gallera, che in questi mesi abbiamo sentito anche troppo, ma dobbiamo riuscire ad avere le carte, i documenti per capire che cosa è successo. Abbiamo finora fatto tanti accessi agli atti, sia noi sia il M5s, senza risposte. Ora ci dovranno far vedere quali sono state le scelte della Regione negli ospedali, ad Alzano Lombardo ma no solo, nelle residenze per anziani, per l’ospedale in Fiera, per i test e i tamponi…

Intanto è scoppiato lo scandalo dei camici e dei parenti del presidente Fontana.

Aspettiamo che Fontana ci venga a spiegare che cosa è successo. Ma non c’è solo questo caso: durante l’emergenza hanno deciso affidamenti diretti per milioni di euro. Dovranno renderli trasparenti.

“Andremo in onda e il presidente dovrà ringraziarci”

“Non vedo proprio perché non dovremmo andare in onda. In fondo raccontiamo un bel gesto. Senza di noi e senza il Fatto Quotidiano nessuno avrebbe infatti saputo che l’azienda del cognato del presidente della Lombardia ha donato ai suoi cittadini materiale sanitario. Prendiamo atto della discrezione di casa Fontana: il governatore che aveva elogiato pubblicamente Giorgio Armani per aver donato camici alla Sanità lombarda tace sulle buone azioni di casa propria”.

Sigfrido Ranucci, conduttore di Report, commenta con una battuta l’intimazione alla Rai del presidente della Regione Lombardia e le richieste della Lega in Commissione di Vigilanza Rai di bloccare la messa in onda stasera dell’inchiesta (raccontata dal Fatto) sulla fornitura di camici ad Aria Spa (la centrale di acquisto pubblico della Regione Lombardia) da parte di Dama Spa, azienda il cui amministratore delegato è Andrea Dini, fratello di Roberta Dini, moglie di Attilio Fontana, la quale detiene il 10% della società: “C’è una lettera di acquisto senza gara d’appalto di Aria, inviata alla Dama Spa, di 75 mila camici e 7000 tra cappellini e calzari. Il tutto per un valore di 513 mila euro – racconta Ranucci -. La società pubblica della Regione Lombardia specifica che il pagamento avverrà tramite bonifico entro 60 giorni dalla data di fatturazione. Poi, dopo circa 40 giorni, il 20 maggio, Dama spa comunica ad Aria Spa. di aver deciso di trasformare il contratto di fornitura del 16.04.2020 in una donazione, cosa che effettivamente si concretizza il 22 maggio. Cos’è successo in questi 40 giorni”?

A voler essere maliziosi si potrebbe raccontare come Report avesse iniziato ad occuparsi della vicenda pochi giorni prima che l’equivoco di casa Fontana si chiarisse: “Avevamo ricevuto una segnalazione, un operatore aveva già registrato del materiale. E a voler essere ancora più maliziosi – conclude Ranucci – dal momento che Fontana sostiene di essere stato all’oscuro di tutto, possiamo dire che tutto sia avvenuto a sua insaputa, sia in Regione che in casa. Insomma credo debba ringraziarci. Se non ce ne fossimo occupati noi avrebbe continuato a non sapere nulla”.

“Può anche essere che Fontana sia in buona fede, per carità – aggiunge Giorgio Mottola, l’autore del servizio di Report – però c’è un fatto quantomeno curioso: quando abbiamo chiesto conto alla centrale di acquisto della Regione Lombardia notizia di questo appalto, Aria ci ha consigliato di rivolgerci direttamente all’ufficio stampa della presidenza della Regione, il quale effettivamente, in una mail del 4 giugno, tre giorni dopo la nostra citofonata ad Andrea Dini ceo di Dama spa, ci ha fornito le informazioni richieste. In particolare, alla domanda ‘La società Dama spa e il presidente Fontana hanno informato Aria del potenziale conflitto di interesse prima di procedere all’acquisto della suddetta fornitura?’, la risposta è stata: “Se la procedura lo richiedeva, Dama lo avrà comunicato. Per quanto riguarda il presidente Fontana non ha fatto passi in tal senso non essendo a conoscenza della procedura negoziata in corso’. Il conflitto di interesse ci pare evidente – conclude Mottola – che ci siano stati dei dubbi sul fatto sulla necessità di comunicarlo è abbastanza singolare”. Senza contare che la domanda di Mottola fa espressamente riferimento a un “acquisto”, la risposta non fa alcun cenno a una donazione.

Il servizio di Report andrà comunque in onda: “Siamo sempre andati in onda”, commenta Ranucci, il quale – tra l’altro – ha ricevuto una telefonata dal neodirettore di Rai 3 Franco Di Mare, a cui ha fornito l’ovvia garanzia di aver in mano tutti i documenti in grado di confermare la corretta ricostruzione della vicenda.

Fontana agita le querele: “Non ne sapevo nulla” Poi conferma quasi tutto

Ad Attilio Fontana e alla Lega, ieri, sono saltati un po’ i nervi. Non è piaciuta affatto l’anticipazione di quanto Report racconterà stasera su Rai3 pubblicata ieri dal Fatto Quotidiano, ossia il caso di una fornitura di materiale medico per l’emergenza Covid che avrebbe dovuto essere una donazione, diventata nella realtà una procedura negoziata e, quindi, un affidamento diretto senza gara pubblica per mezzo milione di euro da parte di Regione Lombardia alla Dama Spa, società riconducibile direttamente alla famiglia della moglie di Attilio Fontana. Fornitura per la quale è stata emessa regolare fattura, prima che l’azienda decidesse di trasformare il contratto di fornitura in donazione, stornando la relativa fattura.

Il presidente della Lombardia ha subito reagito sdegnato: “Ho dato mandato ai miei legali di querelare Il Fatto Quotidiano – scrive in una nota – per l’articolo in cui si racconta di una donazione di camici per protezione individuale forniti alla Regione Lombardia. Si tratta dell’ennesimo attacco politico vergognoso, basato su fatti volutamente artefatti e scientemente omissivi per raccontare una realtà che semplicemente non esiste. Agli inviati di Report – prosegue Fontana – avevo spiegato che non sapevo nulla della procedura e che non sono mai intervenuto in alcun modo. Il titolo di prima pagina del Fatto e il testo mettono in connessione la ditta fornitrice con la mia persona attraverso la partecipazione azionaria (10%) di mia moglie e invocano un conflitto di interesse totalmente inesistente. Il testo del Fatto – conclude il governatore – in maniera consapevole e capziosa omette di dire chiaramente che la Regione Lombardia non ha eseguito nessun pagamento per quei camici e l’intera fornitura è stata erogata dall’azienda a titolo gratuito”.

Il presidente Fontana – che dichiara anche di aver “dato mandato a miei legali di diffidare Report dal trasmettere un servizio che non chiarisca in maniera inequivocabile come si sono svolti i fatti e la mia totale estraneità alla vicenda” – di prima mattina non deve aver letto bene il pezzo in questione, dal momento che ciò che egli sostiene essere dolosamente omesso è nell’articolo spiegato con chiarezza.

E infatti, più tardi su Facebook, il governatore corregge in parte il tiro: “Alla Dama SpA – scrive – il 16 aprile vengono ordinati 7.000 set costituiti da camice + copricapo + calzari al costo a 9 euro (prezzo più basso in assoluto) e 75.000 camici al 6 euro (anche questi i più economici). Le forniture iniziano il giorno dopo e vengono immediatamente distribuite (…). Nell’automatismo della burocrazia, nel rispetto delle norme fiscali e tributarie, l’azienda accompagnava il materiale erogato attraverso regolare fattura stante alla base la volontà di donare il materiale alla Lombardia, tanto che prima del pagamento della fattura, è stata emessa nota di credito bloccando qualunque incasso. Pertanto – conclude Fontana – nessuna accusa può esser fatta a coloro che nel periodo di guerra al Covid-19 hanno agito con responsabilità e senso civico per il bene comune”.

Insomma il presidente, legittimamente, si difende, ma la sua ricostruzione è per la quasi totalità la stessa di Report. Il punto da chiarire sarà: è stato solo un normale iter burocratico oppure lo storno della fattura (vedere pezzo a fianco) è stato in qualche modo “indotto” in un successivo momento?

Questioni di lana caprina per il partito di Salvini, in particolare dei suoi parlamentari in Commissione di Vigilanza Rai che in una nota congiunta hanno espresso “totale solidarietà e sostegno al presidente Fontana”, definendo “sacrosanta” la sua decisione “di trascinare in tribunale gli autori dell’ennesimo attacco mediatico nei suoi confronti. Allo stesso modo – concludono – ci auguriamo che la Rai non si renda a sua volta megafono dell’ormai evidente disegno politico studiato a tavolino per colpire il governatore della Lombardia”.

Notizie confortanti, intanto (un po’ meno per la Lombardia) dall’ultimo bollettino della Protezione Civile. Dopo l’impennata di venerdì, continua il calo dei nuovi contagiati Covid-19 in Italia: nelle ultime 24 ore i casi registrati sono 197, 53 le vittime, un dato che non si registrava dal 2 marzo. L’incremento dei nuovi contagiati è in calo anche in Lombardia, ma la Regione continua a fare corsa a sé: dei 197 casi totali ce ne sono 125, il 63,4% del totale. E ci sono 21 dei 53 morti, il 39,6% delle vittime di tutta Italia.

Fontana, in arte Scajola

Si dice che anche gli orologi guasti, due volte al giorno, segnano inevitabilmente l’ora esatta. Ma Attilio Fontana, presidente leghista della Regione Lombardia e noto caratterista del cabaret padano, fa eccezione: non riesce ad azzeccarne una neppure per sbaglio. Com’è noto ai lettori del Fatto, che l’ha anticipata ieri, stasera Report trasmetterà un’inchiesta di Giorgio Mottola su una commessa da 513mila euro per camici, copricapi e calzari medicali affidata senza gara dalla Regione alla Dama Spa, azienda di abbigliamento controllata e diretta dal cognato di Fontana, Andrea Dini, e partecipata dalla moglie di Fontana, Roberta Dini. L’affidamento diretto risale al 16 aprile, in piena emergenza Covid, firmato da Filippo Bongiovanni, nominato da Maroni a dg di Aria Spa, la centrale acquisti della Lombardia: “… in considerazione della vostra offerta, con la presente si conferma l’ordine” da mezzo milione. Fatture il 30 aprile, pagamento in 60 giorni (16 giugno).

Tutto resta top secret fino al 19-20 maggio, quando l’inviato di Report, scoperto il mega-conflitto d’interessi (e forse anche l’abuso d’ufficio patrimoniale), comincia a chiedere notizie e documenti al Pirellone. Poi intervista Andrea Dini, cognato di Fontana. Che gli risponde al citofono e nega tutto: “Non è un appalto, è una donazione, chieda pure ad Aria”. Clic. Mottola risuona spiegando di avere le carte che dimostrano l’ordine di fornitura. E Dini cambia versione, ammettendo ciò che non può più negare, ma precisando che tutto è avvenuto a sua insaputa: “Non ero in azienda durante il Covid… chi se ne è occupato ha male interpretato. Ma poi me ne sono accorto e ho subito rettificato tutto perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione”. “Subito” mica tanto: l’affidamento è del 16 aprile e la “rettifica” arriva solo il 22 maggio, quando già l’inviato della Rai è in giro a fare domande. Solo allora Dama inizia a stornare le fatture, cioè a restituire di fatto i soldi pubblici ad Aria. A quel punto Report interpella Fontana, che risponde tramite il portavoce con un altro capolavoro di insaputismo: “Della vicenda il presidente non era a conoscenza. Sapeva che diverse aziende, fra sui Dama, avevano dato disponibilità a collaborare con la Regione per reperire con urgenza Dpi (dispositivi di protezione individuale, ndr)”. Quindi Fontana sa che l’azienda di cognato e moglie può fornire la merce, allora introvabile, e si è offerta di procurarla alla Regione (e meno male, perché a lui non è venuto in mente di chiederla). Ma non raccomanda al cognato, alla moglie e all’agenzia regionale di fare tutto gratis, per non finire in conflitto d’interessi.

Anzi, l’agenzia regionale concorda con gli uomini di suo cognato (che in pieno lockdown in azienda non c’è e chissà dov’è) fatture per mezzo milione. E Fontana non ne sa niente, né come presidente della Regione né come marito né come cognato: Scajola gli fa un baffo. Non sa neppure che sta nascendo un clamoroso equivoco, perché la ditta di famiglia della sua signora vuol fare una mega-donazione alla sua Regione e quelli di Aria hanno capito di doverla pagare. In compenso sa che Armani vuole donare un milione di camici e lo ringrazia in varie conferenze stampa. Ma del gentile omaggio di Dama non dicono nulla né lui (che sostiene di non averlo saputo, almeno fino a ieri pomeriggio), né la società dei suoi parenti che, titolare del marchio di moda Paul&Shark, sarebbe interessata a far conoscere il suo beau geste gratuito.

Chi legge questa favoletta senza senso ne deduce che l’appalto da mezzo milione andava bene a tutti finché Report non l’ha scoperto. Poi s’è tramutato in donazione e le fatture in errore da “rettificare” ex post, in una corsa precipitosa a nascondere le tracce che moltiplica i sospetti anziché dissiparli. Avete mai visto un tizio accusato di rubare che, per dimostrare di non aver rubato, restituisce il maltolto al proprietario? Peggio la toppa del buco. Ma è solo la prima perché ieri Fontana, anziché dimettersi seduta stante come avverrebbe in un paese civile, ha diffidato Rai e Report “dal trasmettere un servizio che non chiarisca in maniera inequivocabile come si sono svolti i fatti e la mia totale estraneità alla vicenda” (cioè che non affidi il servizio direttamente a lui). Ha annunciato querela al Fatto per aver pubblicato “fatti volutamente artefatti per raccontare una realtà che semplicemente non esiste”: cioè l’affidamento per 513mila euro a Dama siglato dall’agenzia della sua Regione e le note di credito emesse oltre un mese dopo dalla ditta di cognato& moglie per stornare le fatture. Poi, in serata su Facebook, ha smentito sia se stesso (affermando di sapere tutto ciò che prima negava di sapere), sia suo cognato: nessun errore da “rettificare”, ma un normale “ordine” per “forniture” di Dpi, partite il 17 aprile e “accompagnate attraverso regolare fattura stante alla base la volontà di donare il materiale alla Lombardia, tanto che prima del pagamento della fattura, è stata emessa nota di credito bloccando di fatto qualunque incasso” (peccato che le note di credito siano arrivate solo il 22 maggio, 36 giorni dopo l’inizio delle consegne, proprio quando Report iniziava a indagare). Ma forse Fontana voleva soltanto anticipare la sua linea di difesa su questa e altre sue mirabolanti imprese degli ultimi mesi: l’incapacità di intendere e volere.