Il primo paziente affetto da covid-19, Martina Benedetti, non lo scorderà mai. Nessun nome: per lei, 27 anni infermiera all’ospedale Noa di Massa Carrara, era il “Signor A”. Un paziente zero, come il Mattia di Codogno. Eppure, racconta Martina, quella persona che necessitava di un’incubazione per respirare “era un uomo con nome e cognome, un figlio, un padre, un fratello, un marito di qualcuno, un qualcuno al momento costretto tra le mura di casa”. Quel “signor A” aveva bisogno di aiuto. Del suo aiuto. E allora arriva il momento di “vestirsi” per la prima volta, che per Martina non significa scegliere l’outfit per il sabato sera, ma il metodo per indossare lo scafandro, le mascherine e le tute da usare in terapia intensiva. “La prima volta ho chiesto a una collega di guardarmi per evitare di fare errori” scrive la giovane infermiera ricordando quei momenti. Poi la paura di sbagliare qualcosa nei protocolli, il timore di quel virus quasi sconosciuto e i dati terribili degli operatori sanitari contagiati in tutta Italia. Nel mezzo “tantissime domande, dubbi, perplessità, tutte lasciate in sospeso in quei primi momenti”.
Questi sono i pensieri, solo alcuni, tra quelli che Martina Benedetti ha scritto sotto forma di diario quando tornava a casa dal turno di lavoro e il contenuto di una lunga conversazione, tramite messaggi e e-mail, con l’amica criminologa di Forte dei Marmi, Anna Vagli. Insieme, terminata l’emergenza covid-19, hanno deciso di raccogliere le emozioni e le paure di quei mesi così difficili in un libro dal titolo emblematico: “Non siamo pronti. Lettere digitali dal fronte covid-19” (edito da Meligrana Editore). Scrivere e confrontarsi con l’amica sulle sensazioni e le paure legate alla situazione che stava vivendo, è stato di grande aiuto per Martina: “È stato qualcosa di spontaneo e direi che i miei scambi epistolari con Anna per me sono stati terapeutici – racconta l’infermiera al Fatto Quotidiano – ho sempre amato scrivere, mi rilassa e mi è servito per mettere in ordine quello che stava succedendo in ospedale: per me è stata una specie di terapia”. Il libro ha anche un’altra finalità: “Spero che possa servire per il presente e per il futuro – continua Martina – vedo che in giro ci sono persone scettiche secondo cui questo virus non sarebbe reale. Ecco, magari leggendo i miei pensieri di quelle settimane, possono cambiare idea”.
Nella sua testimonianza, il lettore rimane colpito dal lavoro estenuante che gli infermieri degli ospedali italiani hanno vissuto nella fase più critica dell’emergenza, quando arrivavano decine e decine di pazienti ammalati di covid-19 ogni giorno: “Al Noa di Massa facevamo anche turni di 8-9 ore senza mai una pausa – continua Martina – non si poteva mai staccare perché, soprattutto all’inizio, avevamo poco materiale. Le tute, le mascherine, gli occhiali e le visiere sono monouso: quindi dovevamo tenercele strette per un unico turno e non potevamo permetterci di cambiarle. A volte era impossibile anche andare in bagno o bere un sorso d’acqua”. Soprattutto all’inizio dell’emergenza, gli operatori sanitari venivano mandati “in guerra senza armature”, come scrive Martina in un capitolo del libro raccontando la vita complicata “nelle mura dell’ospedale”: “In quei giorni ho lavorato quasi sempre con maschere FFP2, non indicate per le manovre invasive che effettuavo – scrive in un passaggio del libro – Lo sapevo bene, ma era ciò che mi veniva fornito. Che cosa potevo fare Anna? Rifiutarmi di entrare? Restare a casa come qualcuno ha fatto? No, non mi sarei mai sentita in pace con me stessa, con la mia coscienza e così varcavo quella porta con la paura costante addosso. Avevo paura ma ho continuato a lavorare ogni giorno… Come potevo fidarmi di chi non ci stava dando risposte valide in quel momento? Di chi ci diceva ‘tranquilli, andrà tutto bene’ non avendo mai messo nemmeno il naso nelle nostre realtà? Abbandonata Anna, mi sentivo abbandonata e sola, con la piccola speranza, in cuor mio, che alla fine ognuno avrebbe dovuto fare i conti con le responsabilità riconoscendo i propri limiti ed errori. Arriverà mai quel momento?”.
Nei suoi messaggi con l’amica, l’infermiera di Massa racconta anche del suo rapporto con i pazienti, non solo sofferenti ma soprattutto soli. “La Regione Toscana ci ha sempre abituati alle terapie intensive aperte – racconta oggi – ma in quel momento i pazienti erano costretti all’isolamento totale e noi eravamo l’unico tramite con la famiglia. Psicologicamente è stato molto difficile”.
Oggi le terapie intensive dell’ospedale di Massa sono Covid-free e Martina può tornare a godersi un po’ la sua famiglia e i suoi amici, sempre nel rispetto delle norme di sicurezza. E non è facile tornare indietro a quei momenti: “Nei mesi scorsi non c’è stato nemmeno tempo e modo per pensare a cosa stesse succedendo – dice Martina – adesso è il momento dell’elaborazione: non nascondo che in alcuni momenti sia più difficile adesso perché prima il pensiero era andare a lavoro e fare il mio dovere mentre adesso ogni tanto sei costretto a fermarti e ripensare alle dure sofferenze di cui siamo stati testimoni. Con molti colleghi forse avremmo bisogno di un periodo di stacco e di riposo”.
Poi non nega la preoccupazione per il clima da “liberi tutti” di questi giorni: “Temo che la situazione possa tornare a peggiorare – conclude – tanti vogliono tornare alla normalità, ma purtroppo in giro vedo molti comportamenti scorretti, basti pensare alle manifestazioni politiche di inizio giugno a Roma: gli assembramenti non sono stati rispettosi per il nostro lavoro e per tutte le vittime del coronavirus”. Per questo “bisognerebbe essere più cauti” perché la “normalità deve tornare gradualmente”: “Con una seconda ondata il nostro sistema non reggerebbe – conclude Martina – perché adesso siamo stremati e stanchi”.