Mario Balotelli è un’isola remota. Una di quelle isole così distanti dalla terraferma da essere disegnate in un riquadro a parte, ai bordi della mappa, circondate dalla solitudine del mare blu. Purtroppo chi abita in quei lembi di terra emersi in mezzo al vuoto – come capitava agli indigeni pescatori dell’Isola di Pasqua – si sente autorizzato a credersi il centro del mondo. Mario, qualche volta lo è stato, sebbene dentro alle geometrie di un perimetro più rumoroso e più ingannevole, lo Stadio del Grande Rito. Che gli ha danzato intorno da quando, a 15 anni, giocava centravanti nel Lumezzane, incantando i cacciatori di stelle del football. Ai quali, mancandogli ancora due anni per varcare i cancelli dorati della Serie A, già diceva: “Sono pronto a diventare il giocatore più forte del mondo”.
Non è andata così. Ma le isole remote sono pur sempre il sogno di tutti i ragazzini di terraferma che anche crescendo continuano a giocare nel cuore degli adulti. Per questo i lampi di Mario Balotelli, i suoi sorrisi disarmanti, le sue formidabili diagonali al volo, illuminano così a lungo le nostre e le sue inconsolate illusioni. Anche ora che la sua parabola sta per toccare la soglia dei 30 anni, i primi cinque di alta carriera intermittente, gli altri di intermittente declino, il tutto scandito da sette maglie – Inter, Manchester City, Milan, Liverpool, Nizza, Marsiglia, Brescia – a dirne l’irrequietezza elettrica, così incline al corto circuito. Che lo ha fatto transitare dai 28 milioni di euro del primo ingaggio internazionale, al milione e mezzo domestico dell’ultimo. Profetizzò il presidente Moratti: “Il suo è un suicidio in pubblico”.
Eppure, tra un blackout e l’altro: centocinquanta gol, quattordici in Nazionale, una dozzina di coppe vinte, compreso il campionato e la Champions con l’Inter di Mourinho, milioni di euro guadagnati e spesi, milioni di foto, la copertina del settimanale Time che dopo gli Europei 2012 lo celebra come migliore attaccante in campo. E insieme le espulsioni, le ammonizioni, le ripicche, i litigi in campo e fuori dal campo, le Bentley e le Ferrari guidate con la stradale alle calcagna, i cori razzisti che lo assediano dagli spalti – “scimmia!”, “negro!”, “buffone!” – e lui che risponde col dito alzato e su Instagram con una foto, mentre imbraccia un fucile verso chi guarda e dice: “Un bacio a chi mi odia”, l’ennesimo fallaccio di Super Mario.
Tutto comincia nella polvere di un sera di scirocco del 12 agosto 1990, quando Mario Baruwah nasce a Palermo, secondo di quattro figli di Thomas e Rose, immigrati dal Ghana, lavori precari, niente soldi, molta assistenza sociale e medica. Mario, a tre anni, è il più fragile di tutti, deve essere operato all’intestino, e per questo viene dato in adozione a una tale famiglia Balotelli di Brescia, che diventerà la sua famiglia per sempre e insieme lo specchio della sua ferita mai rimarginata: “Sono loro i miei genitori veri, gli altri mi hanno abbandonato su un letto d’ospedale”.
Cresce nel verde benestante di Brescia con un pallone in mano. Parla, gioca e pensa come un bresciano. Ma ha il marchio della pelle che i coetanei gli fanno pagare: “Da bambino, in casa, cercavo di lavarmi quel colore col sapone”. Non è timido. In pubblico ha coraggio da vendere, non si tira mai indietro. E il fisico lo aiuta. Il suo peso forma è 88 chili per 1,89 di altezza, il tutto moltiplicato dai muscoli e dalla rabbia.
In campo rivela un talento esplosivo. Corre come un fulmine, quando corre: si porta via il centrocampo e i difensori, semina il panico in area di rigore, tira di destro e castiga di sinistro. Solo che un sacco di volte si ferma, cincischia, non gli va di passare la palla, mandando in bestia i compagni di squadra, i tifosi, gli allenatori. “Si piace troppo” ha detto di lui Roberto Mancini, l’allenatore che gli ha voluto più bene e che ha deluso di più, fino a una rissa in allenamento. E Mourinho: “Se lavora al 25 per cento come pensa di diventare un campione?”. E Patrick Vieirà, allenatore del Nizza: “Non è adatto al gioco di squadra”. Persino Fantantonio Cassano, il monello nazionale, detta la sentenza dal suo pulpito: “È un bambino che non cresce”.
Esiste un intero genere giornalistico che da anni si dedica a spiegare Balotelli a Balotelli, tutti filosofi, pedagoghi, fisiatri, compresi i cronisti sovrappeso e ammalati d’alcol che predicano a Mario la retta via ogni giorno. Lui non dà retta e volentieri va a schiantarsi contromano. Per esempio frequentando più le discoteche degli allenamenti. Mettendosi nei guai con femmine da rotocalco. Comprando auto milionarie e abbandonandole sul ciglio della strada, come la Maserati rimossa 27 volte per divieto di sosta, nella sola stagione al Manchester City. E poi le freccette tirate ai ragazzini della Primavera del Liverpool, gli scherzi telefonici, i 2 mila euro per convincere un tizio a lanciarsi con lo scooter dentro le acque del porto di Napoli, con video e incorporata denuncia per “istigazione a delinquere”.
Celebra la sua forza fisica, ma gli brucia tutto il resto. Gli brucia la ricchezza e si vede da come la dissipa. Gli brucia la solitudine e si vede da come la riempie. Gli bruciano le offese alla sua pelle. Al suo carattere smargiasso. Alla sua insofferenza per i tifosi che ha sempre provocato scegliendo ingaggi in squadre tra loro arci nemiche: l’Inter e il Milan, il Nizza e il Marsiglia, il City e il Liverpool. Non ammette cedimenti alla retorica della maglia, né alle esultanze del dopo gol: “È soltanto il mio lavoro. Un postino esulta dopo aver consegnato una lettera?”. Come se davvero esistessero postini milionari, con cresta planetaria e narcisismo adeguato.
Fa di tutto per non essere mai indispensabile, per andarsene senza l’inchino. Il Brescia ora lo licenzia in tronco. Al prossimo mercato i giornali titoleranno “Balotelli, ultima occasione”. E sarà la centesima volta che Mario resterà nella sua isola remota, abbandonando tutti per non essere abbandonato.