Io “Balo” da solo: il talento imprigionato nello Stadio del Grande Rito

Mario Balotelli è un’isola remota. Una di quelle isole così distanti dalla terraferma da essere disegnate in un riquadro a parte, ai bordi della mappa, circondate dalla solitudine del mare blu. Purtroppo chi abita in quei lembi di terra emersi in mezzo al vuoto – come capitava agli indigeni pescatori dell’Isola di Pasqua – si sente autorizzato a credersi il centro del mondo. Mario, qualche volta lo è stato, sebbene dentro alle geometrie di un perimetro più rumoroso e più ingannevole, lo Stadio del Grande Rito. Che gli ha danzato intorno da quando, a 15 anni, giocava centravanti nel Lumezzane, incantando i cacciatori di stelle del football. Ai quali, mancandogli ancora due anni per varcare i cancelli dorati della Serie A, già diceva: “Sono pronto a diventare il giocatore più forte del mondo”.

Non è andata così. Ma le isole remote sono pur sempre il sogno di tutti i ragazzini di terraferma che anche crescendo continuano a giocare nel cuore degli adulti. Per questo i lampi di Mario Balotelli, i suoi sorrisi disarmanti, le sue formidabili diagonali al volo, illuminano così a lungo le nostre e le sue inconsolate illusioni. Anche ora che la sua parabola sta per toccare la soglia dei 30 anni, i primi cinque di alta carriera intermittente, gli altri di intermittente declino, il tutto scandito da sette maglie – Inter, Manchester City, Milan, Liverpool, Nizza, Marsiglia, Brescia – a dirne l’irrequietezza elettrica, così incline al corto circuito. Che lo ha fatto transitare dai 28 milioni di euro del primo ingaggio internazionale, al milione e mezzo domestico dell’ultimo. Profetizzò il presidente Moratti: “Il suo è un suicidio in pubblico”.

Eppure, tra un blackout e l’altro: centocinquanta gol, quattordici in Nazionale, una dozzina di coppe vinte, compreso il campionato e la Champions con l’Inter di Mourinho, milioni di euro guadagnati e spesi, milioni di foto, la copertina del settimanale Time che dopo gli Europei 2012 lo celebra come migliore attaccante in campo. E insieme le espulsioni, le ammonizioni, le ripicche, i litigi in campo e fuori dal campo, le Bentley e le Ferrari guidate con la stradale alle calcagna, i cori razzisti che lo assediano dagli spalti – “scimmia!”, “negro!”, “buffone!” – e lui che risponde col dito alzato e su Instagram con una foto, mentre imbraccia un fucile verso chi guarda e dice: “Un bacio a chi mi odia”, l’ennesimo fallaccio di Super Mario.

Tutto comincia nella polvere di un sera di scirocco del 12 agosto 1990, quando Mario Baruwah nasce a Palermo, secondo di quattro figli di Thomas e Rose, immigrati dal Ghana, lavori precari, niente soldi, molta assistenza sociale e medica. Mario, a tre anni, è il più fragile di tutti, deve essere operato all’intestino, e per questo viene dato in adozione a una tale famiglia Balotelli di Brescia, che diventerà la sua famiglia per sempre e insieme lo specchio della sua ferita mai rimarginata: “Sono loro i miei genitori veri, gli altri mi hanno abbandonato su un letto d’ospedale”.

Cresce nel verde benestante di Brescia con un pallone in mano. Parla, gioca e pensa come un bresciano. Ma ha il marchio della pelle che i coetanei gli fanno pagare: “Da bambino, in casa, cercavo di lavarmi quel colore col sapone”. Non è timido. In pubblico ha coraggio da vendere, non si tira mai indietro. E il fisico lo aiuta. Il suo peso forma è 88 chili per 1,89 di altezza, il tutto moltiplicato dai muscoli e dalla rabbia.

In campo rivela un talento esplosivo. Corre come un fulmine, quando corre: si porta via il centrocampo e i difensori, semina il panico in area di rigore, tira di destro e castiga di sinistro. Solo che un sacco di volte si ferma, cincischia, non gli va di passare la palla, mandando in bestia i compagni di squadra, i tifosi, gli allenatori. “Si piace troppo” ha detto di lui Roberto Mancini, l’allenatore che gli ha voluto più bene e che ha deluso di più, fino a una rissa in allenamento. E Mourinho: “Se lavora al 25 per cento come pensa di diventare un campione?”. E Patrick Vieirà, allenatore del Nizza: “Non è adatto al gioco di squadra”. Persino Fantantonio Cassano, il monello nazionale, detta la sentenza dal suo pulpito: “È un bambino che non cresce”.

Esiste un intero genere giornalistico che da anni si dedica a spiegare Balotelli a Balotelli, tutti filosofi, pedagoghi, fisiatri, compresi i cronisti sovrappeso e ammalati d’alcol che predicano a Mario la retta via ogni giorno. Lui non dà retta e volentieri va a schiantarsi contromano. Per esempio frequentando più le discoteche degli allenamenti. Mettendosi nei guai con femmine da rotocalco. Comprando auto milionarie e abbandonandole sul ciglio della strada, come la Maserati rimossa 27 volte per divieto di sosta, nella sola stagione al Manchester City. E poi le freccette tirate ai ragazzini della Primavera del Liverpool, gli scherzi telefonici, i 2 mila euro per convincere un tizio a lanciarsi con lo scooter dentro le acque del porto di Napoli, con video e incorporata denuncia per “istigazione a delinquere”.

Celebra la sua forza fisica, ma gli brucia tutto il resto. Gli brucia la ricchezza e si vede da come la dissipa. Gli brucia la solitudine e si vede da come la riempie. Gli bruciano le offese alla sua pelle. Al suo carattere smargiasso. Alla sua insofferenza per i tifosi che ha sempre provocato scegliendo ingaggi in squadre tra loro arci nemiche: l’Inter e il Milan, il Nizza e il Marsiglia, il City e il Liverpool. Non ammette cedimenti alla retorica della maglia, né alle esultanze del dopo gol: “È soltanto il mio lavoro. Un postino esulta dopo aver consegnato una lettera?”. Come se davvero esistessero postini milionari, con cresta planetaria e narcisismo adeguato.

Fa di tutto per non essere mai indispensabile, per andarsene senza l’inchino. Il Brescia ora lo licenzia in tronco. Al prossimo mercato i giornali titoleranno “Balotelli, ultima occasione”. E sarà la centesima volta che Mario resterà nella sua isola remota, abbandonando tutti per non essere abbandonato.

I Nomadi riprendono il viaggio: “Da luglio torniamo dal vivo”

57 anni di Nomadi. Una delle band più longeve del mondo. Più di 15 milioni di dischi venduti, oltre 100 fan club che alimentano il mito del “Popolo Nomade”. Io vagabondo, Dio è morto e tanti altri inni. Cantavano Noi non ci saremo, ma sono ancora qua. Un’inossidabile macchina da concerti. “Cominciamo a gennaio e finiamo a dicembre” ci dice Beppe Carletti, tastierista, fisarmonicista e cofondatore. Non stupisce, allora, che la sveglia alla ripartenza della musica dal vivo dopo la quarantena l’abbia suonata proprio lui, questo quasi 74enne che custodisce l’anima delle origini del gruppo, dopo la scomparsa di Augusto Daolio nel 1992.

Mentre buona parte dei musicisti tace o rimanda al 2021, l’11 luglio riprende la tournée infinita dei Nomadi. L’appuntamento inaugurale è a Carmignano di Brenta, in provincia di Padova, e sarà solo la prima di una trentina di date. Per spazi da mille persone sedute, rispettando tutti i protocolli di sicurezza. “Siamo abituati a questa dimensione. Unico neo, i nostri spettatori non potranno ballare e togliersi la mascherina per cantare”. I Nomadi si ridurranno il cachet, “mentre lo stipendio di tecnici e operatori resterà invariato, l’abbiamo fatto anche per loro, siamo un’unica famiglia”. Non c’è stato giorno, durante il lockdown, che Carletti non abbia pensato al ritorno sul palcoscenico, “è dalla metà degli anni sessanta che ci salgo, i nostri piccoli schermi televisivi sono sempre stati gli stage di provincia, dove c’è un calore pazzesco”.

Un vero Nomade non avrà mai una natura stanziale, e i concerti in streaming sono, per lui, un pannicello caldo. “Qualsiasi musicista è stimolato dal pubblico”. I Nomadi non sono gente da metropoli. “Da quando esistiamo, tutti i componenti hanno avuto una costante: abitiamo in un paese. Conduciamo esistenze tranquille, consapevoli di avere avuto una fortuna immensa: vivere di musica”. Sempre al riparo da bolle divistiche. “Non ci siamo mai montati la testa”. Uno scudo che li ha protetti anche nei momenti di sconforto. “Negli Anni ’80 nessuna casa discografica ci voleva. Diventammo i primi artisti indipendenti”. Ve li immaginate i Nomadi protagonisti di un talent? “Sono le balere della nuova generazione. Però volete mettere l’atmosfera di una festa di piazza a Reggio Calabria”. Mai stati di moda, sempre di moda. E i giovani continuano ad affollare i loro concerti. “Le nostre canzoni non invecchiano… La nostra musica ha sempre voluto arrivare al cuore di tutti. Non siamo mai stati i più bravi: siamo diversi”.

Piccolo Teatro, grandi guai: lavoratori contro direttore

Il Piccolo di Milano: un teatro nato sfondando la porta con un calcio. Era il calcio di Giorgio Strehler, mentre ora a scalciare è l’Assemblea dei lavoratori che denuncia la “mancanza di una guida artistica di eccellenza” del primo Stabile italiano, per età (dal 1947), fatturato e caratura artistica, tanto da ricevere dal Mibact statuto e trattamento privilegiato – in quanto “Teatro d’Europa” – con più autonomia e budget di tutti gli altri in Italia.

Richiamandosi all’altro fondatore, Paolo Grassi, i lavoratori – con una lettera pubblica alle autorità – attaccano duramente il direttore Sergio Escobar e la dirigenza in generale: “Da anni manca una identità artistica che sia all’altezza della storia (del Piccolo, ndr) e del suo prestigio, nazionale e internazionale. È un’assenza grave per il primo teatro stabile in Italia, inaccettabile soprattutto in questo momento in cui servono idee… Pensiamo che, in vista della prossima scadenza del mandato ultraventennale del direttore Escobar, e a cinque anni dalla morte di Luca Ronconi, il Piccolo abbia diritto ad avere una nuova guida, una personalità da ricercarsi attraverso una procedura di selezione chiara e trasparente”. Per la cronaca: il direttore del palcoscenico più importante del Paese non viene scelto con bando pubblico, ma nominato formalmente dal Mibact, su proposta (quella che conta) del Cda della Fondazione teatrale.

Stando alle indiscrezioni della stampa, anche i dirigenti si stanno in questi giorni lamentando per segnalare problemi organizzativi e il pessimo clima al lavoro. Per parte sua, invece, Sergio Escobar non ha voluto rispondere, così come Stefano Massini, da anni consulente artistico, succedendo al ruolo prestigioso che fu di Ronconi: lo scrittore e drammaturgo non è neppure menzionato esplicitamente nella comunicazione sindacale, come a dire forse che “si vede più in tv che a teatro”.

Direttore del Piccolo dal 1998, dopo la morte del patriarca Strehler, Escobar ha un contratto in scadenza a settembre, a titolo gratuito perché pensionato: “Punta a essere riconfermato”, dicono i bene informati, nonostante la sua carica violi la legge Madia (che prevede un solo anno di lavoro extra per i dirigenti pubblici in pensione). Ma per lui, dal 2016, è stata fatta una deroga, e così, dopo quasi 23 anni di direzione e 6 da pensionato, potrebbe diventare il direttore del Piccolo più longevo di sempre, anche nella storia dei teatri pubblici italiani.

A scegliere il prossimo direttore sarà – come detto – il Cda della Fondazione “mista”, rinnovato nel luglio del 2019: il presidente Salvatore Carrubba e Marilena Adamo (indicati dal Comune di Milano), Angelo Crespi ed Emanuela Carcano (Regione Lombardia), Marco Accornero (Camera di Commercio), Andrea Cardamone (Mibact). Il Comune, insomma, è il “socio di maggioranza”, che più incide – per peso e numeri – sulla nomina del futuro dirigente, ma né il sindaco Giuseppe Sala né l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno hanno voluto per ora esprimersi.

Il Cda, viceversa, ha mandato una solerte nota di rammarico, in cui “prende atto con stupore della lettera trasmessa dalla Rsu (Rappresentanza sindacale unitaria, ndr) dei lavoratori e sottolinea l’importante ruolo svolto durante il suo mandato dal direttore, Sergio Escobar, che ha rafforzato la qualità artistica e la proiezione internazionale del teatro… e il cui impegno si è dimostrato ancora più prezioso nei mesi drammatici seguiti all’esplosione dell’emergenza sanitaria”.

Martedì è prevista la nuova convocazione del Cda, costretto a rivedere l’ordine del giorno perché verosimilmente non s’aspettava il coup de théâtre dei lavoratori: oltre al bilancio consuntivo, saranno avviati, “in perfetto accordo col direttore Escobar, i passi necessari per giungere, d’intesa con i Soci fondatori e con il Ministero, alla designazione del direttore”. Cioè: la designazione del nuovo direttore sarà “in perfetto accordo” con il vecchio direttore.

“Anche io da ragazza ho rischiato di diventare una Storia maledetta”

Con lei è sempre meglio il ruolo dell’intervistatore rispetto a quello dell’intervistato; in caso contrario, la situazione è grave.

Iconica come pochi altri, amata, seguita, attesa, Franca Leosini non definisce mai il suo percorso di “successo”, perché “io piuttosto porto risultati”; lei non legge, “io studio”; non usa le parole, “le posseggo”. E non lo spiega con arroganza, alterità, supponenza o ogni altra manifestazione poco nobile dell’animo, parla con la smaccata sincerità di chi sa e constata; di chi ha costruito una carriera attraverso l’approfondimento, la lenta e costante stratificazione, il rispetto delle sue Storie maledette, il sottile equilibrio tra un rischio voyeuristico e la reale discesa “negli inferi insieme ai protagonisti delle puntate, per cercare di capire qual è il momento di rottura con il viver comune”.

Da questa sera la Leosini torna su Rai3 con il suo programma, “solo due puntate rispetto alle quattro previste, e a causa della pandemia; (sorride) Claudio Baglioni mi ha appena mandato un messaggio bellissimo di in bocca al lupo”.

Con Baglioni è stata ospite a Sanremo.

Fu lui a chiamarmi e mi prese di sorpresa: non avrei mai immaginato una richiesta del genere, e quell’esperienza, in particolare l’uscita sul palco, ha generato un’emozione speciale.

È raro vederla in altri contesti oltre a “Storie maledette”.

È una questione di riserbo, non voglio affliggere le persone con un’overdose della mia presenza: per me è sbagliato, si tramuta in una forma di invadenza o di presunzione. Preferisco non esserci.

Ha chiesto consigli su come stare sul palco del Festival?

No, assolutamente.

Normalmente li cerca?

Ricordo una frase: “Non datemi consigli, sbaglio bene da sola”; però se c’è una dote che mi riconosco è l’umiltà, ma non sto li a domandare, se qualcuno mi suggerisce qualcosa, lo accetto come un regalo, e sono pronta farne tesoro.

Chi riconosce come suo maestro o ispiratore?

Nessuno, e capisco che può apparire come una presunzione.

Quindi…

Ribadisco: ho sempre ascoltato tutti, ma chi si ispira a qualcun’altro rischia di diventare il suo clone o la brutta copia. E sarebbe un grave errore.

Cambiamo prospettiva: prima di iniziare “Storie maledette” da chi ha imparato?

Ho sempre osservato, e so osservare, e ognuno di noi, anche involontariamente, assorbe da ciò che lo circonda; ma ribalto la questione: secondo lei imito mai qualcuno?

I suoi miti da ragazza.

Non guardavo molta televisione, ero più concentrata sui libri, amavo Pirandello e non sono mai stata un’appassionata di noir, di mistero, di gialli.

Ah, no?

Sono arrivata a Storie maledette attraverso un percorso letterario, di cultura, di curiosità: non mi interessa solo la dinamica del delitto, ma la strada che porta a quel momento; così ho scoperto che nel noir ci sono rappresentate le grande passioni della vita, scorrono i sentimenti, anche se con esito drammatico.

Non si è mai occupata di camorra o mafia.

Non mi interessano per il programma; cerco le persone comuni che a un certo punto della loro esistenza cadono nel vuoto di una storia maledetta.

E scende con loro negli inferi…

Non solo, li trascino nell’Inferno del loro passato per ricostruire le differenti fasi che portano la persona a compiere quel gesto; i miei protagonisti sono soggetti con una precedente esistenza normale.

Con alcuni mantiene i rapporti.

Sento spesso Rudy Guede (unico condannato del delitto di Perugia con vittima Meredith Kercher): quasi ogni settimana mi manda la “buona domenica”…

Anche con Pino Pelosi il rapporto era molto stretto.

Fu lui a cercarmi per confidare la sua verità rispetto al delitto di Pasolini; una verità magari parziale. Mi disse: “Desidero che sia lei a spiegare cosa è accaduto quella notte”.

Pelosi ha cambiato molte volte versione.

Ha mentito sempre anche rispetto al suo rapporto con Pasolini…

Cioè?

Fino a quando l’ho conosciuto ha parlato di “relazione estemporanea” nata la sera dell’omicidio, invece con me, e da subito, ha inquadrato la situazione come differente: si frequentavano da mesi.

Ha seguito Pelosi nelle ultime fasi della sua vita.

L’ho protetto fino all’ultimo, mi suscitava una forma di pietas: era un uomo finito in una storia decisamente più grande di lui; la prima volta che ci siamo incontrati è stato in un bar di periferia, come due amanti clandestini, e poi abbiamo proseguito il discorso in altre occasioni.

Da lui, in particolare, cosa cercava?

I nomi dei presenti, perché in quella notte in cui Pasolini è stato ucciso, Pelosi non era solo.

E…

Mi ha fatto capire che era vero, ma non me li ha mai confidati.

Secondo Aldo Grasso lei ha due ossessioni: il sesso e il linguaggio barocco.

Lo rispetto moltissimo ma parlo l’italiano di una persona che ha letto molto, ha studiato e studia; poi conosco l’uso degli aggettivi e volte pure dei sostantivi.

Il sesso?

Quasi tutte le storie che affronto sono attraversate da delle “passioni”, con passioni scritto tra virgolette, e come spiegavo prima non tratto mai vicende generate da professionisti del crimine, né casi basati su aspetti economici.

Non le interessano.

Forse ho una vocazione per le passioni: una vita senza emozioni, è come il deserto Atacama (posto celebre perché non piove da 400 anni).

Lei a scuola.

Brava ma non secchiona, non aspiravo al primo banco.

Non era la prima della classe?

La detestavo.

I suoi temi?

In italiano prendevo 9 o 10, mentre vivevo la matematica come un’opinione sbagliata, così gli insegnanti me la regalavano: si erano arresi e non potevano bocciarmi visti i risultati nelle altre materie.

Permetteva agli altri di copiare?

A scuola sempre; (sorride) per questo detestavo la prima della classe: durante i compiti di matematica piazzava le mani a mo’ di barriera e impediva di sbirciare.

All’università?

Laureata in Lettere Moderne con una tesi su Francois Villon; sul mio libretto c’era un solo 28.

Lo studio è stata una forma di emancipazione?

No, era un percorso che mi interessava; studiare permette di sottrarsi dalla schiera degli sprovveduti e degli imbecilli, e serve in ogni campo, anche riguardo alle storie d’amore; e poi sono nata in una culla agevolata.

Un punto chiave della sua vita?

Non bluffo mai. Pure per Storie maledette realizzo molte meno puntate di quelle richieste dalla Rete, ma devo approfondire, leggere ogni carta possibile, ed è necessario del tempo. Un giorno sono andata a un convegno di magistrati e a un certo punto ho detto: “Leggo le carte come voi”. E dalla platea: “No, molto più di noi!”.

Impiega mesi.

Non improvviso nulla, però quando incontro l’intervistato non anticipo mai le domande, non concordiamo niente.

Giustifica le bugie bianche?

Ogni protagonista tende a edulcorare la realtà, ma ho il dovere primario di riportare la verità processuale.

Sì, ma qual è il suo rapporto con la bugia?

Forse mi chiamo Franca per un segno del destino: le menzogne mi infastidiscono, al limite preferisco il silenzio.

Suo marito la segue molto nelle occasioni pubbliche.

Chi è impegnato in un mestiere come il mio, deve avere accanto persone di grande qualità, pazienti e comprensive.

È così complicato?

Tre quarti delle mie colleghe hanno situazioni sentimentali disastrate o sono sole: non è facile sopportare e supportare la nostra quotidianità; (cambia tono) quando arrivi in un posto diventi protagonista, e solo un uomo di qualità può accettare una situazione del genere.

Suo marito…

Massimo è orgoglioso di me, mi rispetta. (ci pensa) La vita privata di Oriana Fallaci rispetta lo stato di molte colleghe.

È mai stata una ragazza o una donna spericolata?

Non mi sembra, sono sempre stata abbastanza equilibrata.

Proprio mai?

(Cambia tono) Prima di sposarmi ero fidanzata con un neurochirurgo italiano professionalmente impegnato a New York. Io avevo vent’anni, lui 35. Pochi giorni prima del nostro matrimonio squilla il telefono, e dall’altra parte sento una voce di donna.

E…

Capisco che è una sua collega, che hanno una relazione, e arriva a minacciarmi: “Se ti presenti in chiesa, ti sparo sull’altare”.

E lei?

Nessuna esitazione, non sono caduta nel tranello della competizione tra donne, la menzogna di lui mi aveva reso determinata.

Immediatamente.

Sì, davvero, e non rimasi turbata dal tradimento: a quel tempo potevo comprenderlo, lui adulto e all’estero, io ragazza e a Roma; ciò che mi ha ferito è stata la menzogna, non aver cercato la mia complicità; (abbassa il tono della voce) chiusa la telefonata, per non essere vista da lui, uscii dal cortile di casa loro acquattata nel fondo di un’auto; (si ferma un paio di secondi) in qualche modo ho rischiato di diventare una “storia maledetta”.

Dopo di che?

Lui provò a cercarmi, a offrire delle spiegazioni, a sminuire il ruolo dell’altra…

È letteratura…

(Sorride) È vita; per convincermi a cambiare idea si mise di mezzo pure il delegato apostolico degli Stati Uniti.

Addirittura.

Prima con delle lettere, poi lo incontrai a Napoli, ma niente, mai vacillato: la vicenda era troppo grossa.

Quanto tempo ha impiegato per superare lo choc?

Pochi mesi dopo ho conosciuto Massimo, e la mia vita è cambiata; (sorride) ci siamo conosciuti a una festa, e lì mi disse: “Sai che hai belle gambe?” Risposi: “Con me l’adulazione non attacca”.

Perfetto.

Non si arrese.

C’è un personaggio della letteratura che l’accompagna da anni?

Ho cambiato eroe spesso, a seconda del libro che ho letto, dell’autore che mi ha appassionato.

Nel lockdown?

Ho studiato un processo e ho ripreso in mano Truman Capote: A sangue freddo è Storie maledette.

Un vizio.

Non fumo per scelta e nonostante la forte tentazione; l’unico che ho è la cioccolata al latte da assaporare la notte dopo l’ultimo telegiornale.

Scaramanzia.

Non sono legata a queste forme, però se posso evito di registrare una puntata il martedì o il venerdì, e quando capita mi racconto delle favole per non fissarmi sulla debolezza, per non giudicarmi.

Una fobia.

Alcuna, sono sempre forme di nevrosi.

Chi è lei?

Lo lascio giudicare agli altri; (ci pensa) ho il senso dell’amicizia e come regola di vita ho il rispetto umano.

 

Tel Aviv grida ‘no’ all’annessione

Sono arrivati da ogni parte di Israele. Con i bus, con auto private, moto e persino con i taxi, per rispondere all’appello per “la democrazia, contro l’annessione”. In quattro-cinquemila hanno marciato dal Museo dell’Arte alla piazza più iconica di tutto lo Stato di Israele, Rabin Square, nel cuore di Tel Aviv, dove nel 1995 venne assassinato da un estremista ebreo il premier-soldato che voleva la pace. Tutti in piazza contro l’annessione della Valle del Giordano annunciata per il 1° luglio dal premier Benjamin Netanyahu, e sostenuta dal presidente Usa Donald Trump. Una protesta pacifica, con tamburi, striscioni, cartelli, slogan e anche qualche bandiera palestinese. Sulla piazza gli spazi a terra sono stati contrassegnati per aiutare il distanziamento sociale che tanto “preoccupava” la polizia. La manifestazione “No all’occupazione, no all’annessione, sì alla democrazia” era stata inizialmente vietata dalla polizia, poi il divieto è stato annullato venerdì dopo gli incontri con gli organizzatori, partiti e movimenti di sinistra e la Joint Arab List, il cartello dei tre partiti arabi presenti alla Knesset, che avevano annunciato la protesta in ogni caso. “Non ci siamo arresi ai tentativi di zittirci”, ha detto uno degli oratori dal palco, “o di cedere all’annessione, che perpetuerà l’occupazione e vanificherà la soluzione a due Stati”. Il leader della Joint Arab List Ayman Odeh ha mandato un videomessaggio perché in isolamento preventivo per il coronavirus. “Non mi sorprende che l’unica dimostrazione che la polizia ha cercato di vietare sia questa arabo-ebraica contro l’annessione e per la democrazia”. Anche l’ex candidato Usa alla presidenza Bernie Sanders ha mandato un video di sostegno alla protesta.

Dopo più di un anno di stallo politico e due elezioni inconcludenti, Netanyahu e il rivale Benny Gantz in aprile si sono uniti in un governo di coalizione e sotto il loro accordo, dal 1° luglio Netanyahu può proseguire con il suo progetto di annessione. Gran parte della comunità internazionale – Cina, Russia, UE, ONU – ha già espresso una netta opposizione. Sul fronte interno dopo le contrarietà del leader dei coloni della Cisgiordania, anche due ministri del governo Netanyahu, Rafi Peretz e Yuval Steinit, hanno espresso perplessità: inaccettabile l’idea di un mini-Stato palestinese su ciò che resta della Cisgiordania. Tutti i Paesi arabi si dicono a fianco del presidente palestinese Abu Mazen nel contestare il piano Trump, che dà a Israele il via libera per annettere gli insediamenti ebraici e la Valle del Giordano, in un territorio che è parte del negoziato nell’accordo sui “due Stati”. I palestinesi in Cisgiordania venerdì si sono radunati per celebrare 53 anni dalla “Guerra dei sei giorni” del 1967 e protestare contro l’annessione. Manifestazioni in gran parte pacifiche, ma di fronte a un atto così unilaterale come quello del 1° luglio la violenza potrebbe esplodere.

Aerei da guerra al Cairo, ma Roma fa finta di nulla

Il governo ha autorizzato una vasta vendita di armamenti all’Egitto del generale Al Sisi, ma non sa come dirlo agli italiani. Si tratta di una commessa che comprende, secondo quanto riportato già lo scorso febbraio dal settimanale panarabo The Arab Weekly, 6 fregate tipologia Fremm e 20 pattugliatori d’altura di Fincantieri, 24 caccia Eurofighter Typhoon e 20 velivoli da addestramento M346 di Leonardo, più un satellite da osservazione, per un valore totale fra i 9 e gli 11 miliardi di euro. Già da un anno l’Egitto è il miglior cliente dell’industria bellica italiana con 871 milioni di euro spesi nel 2019, eppure resta il regime autoritario e non democratico che non collabora con i magistrati romani nella ricerca della verità sull’uccisione del ricercatore universitario Giulio Regeni e che appena due mesi fa, senza validi motivi, ha arrestato il giovane Zaki, il cittadino egiziano che studiava a Bologna. Se ciò non bastasse, l’Egitto è schierato sul fronte opposto in Libia: il Cairo foraggia il generale Haftar, mentre Roma è al fianco del governo tripolino di Al-Sarraj. Gli adempimenti tecnici sono superati e l’Italia potrebbe declamare l’esportazione come di solito avviene col suo corollario di benefici per il prodotto interno lordo e per l’occupazione, stavolta il governo tergiversa – o almeno si dichiara titubante – perché teme l’indignata reazione dell’opinione pubblica.

I partiti di maggioranza tentano di scansare le responsabilità, soprattutto perché a lungo, dalle comode postazioni all’opposizione, hanno sostenuto la linea dell’intransigenza con l’Egitto per onorare la memoria di Regeni. Ci sono politici, come quelli di sinistra di LeU, che fino a ieri si sono dissociati dal governo di cui fanno parte per le sinergie belliche con Al Sisi. Qualcuno dovrà spiegare alla famiglia Regeni e agli italiani che armare l’Egitto non impedisce di cercare giustizia per Giulio. Ci vuole coraggio. Ma la faccenda si complica ancor di più perché il Cairo ha fretta e vuole subito due fregate Fremm. In pratica bisogna togliere due navi alla Marina militare italiana, le ultime due delle dieci ordinate: la “Spartaco Schergat” e la “Emilio Bianchi”. Una scelta che ha sconcertato lo Stato maggiore in un momento di impegni particolarmente significativi. Tra l’altro venerdì il governo ha trasmesso alle Camere il documento sulle missioni internazionali 2020 che ne prevede una nuova per la Marina, il pattugliamento del golfo di Guinea. Al momento non si sa come e con cosa verranno sostituite la “Schergat” e la “Bianchi”. E comunque ci vorranno almeno tre anni. Per assorbire le polemiche esterne e interne, il governo ha deciso di aspettare un consiglio dei ministri per dare il nullaosta definitivo alla vendita di armamenti, un modo per includere tutti i ministri e tutti i partiti. Una formalità, anzi un’espediente mediatico, poiché la trattativa va avanti da dicembre e risulta tecnicamente conclusa da settimane.

E poi gli egiziani paganti non tollerano ulteriori ritardi né umiliazioni: attendono la ratifica del contratto entro la metà di giugno. Come ormai sedimentato nella letteratura politica, il negoziato con l’Egitto è stato avviato da Palazzo Chigi, direttamente dal premier Giuseppe Conte coadiuvato dal consigliere militare Carlo Massagli. Il ministero degli Esteri di Luigi Di Maio è stato coinvolto dopo, ragion per cui l’ex capo dei Cinque Stelle è tra i più prudenti e scettici. La questione non riguarda unicamente la vicenda iconica di Regeni, ma la legge 185 del ’90 che disciplina le esportazioni belliche: le norme impediscono di armare Paesi in guerra come l’Egitto. Quest’aspetto peculiare, e non simbolico, non sfiora neanche il governo. I ministri e i partiti sono concentrati su come sigillare l’affare con Al Sisi senza intaccare il consenso politico. I dubbi di leggi rimangano ai legulei. La 185 del ’90 è un retaggio del passato. Spesso calpestata, ormai a brandelli.

La marcia Washington condanna il razzismo ma c’è un nuovo caso Floyd

Nel giorno della grande marcia a Washington per gridare la voglia di giustizia degli afroamericani dopo la morte di George Floyd a Minneapolis per mano di un poliziotto, ancora una denuncia per la fine violenta di un giovane di colore, Manuel Ellis. L’episodio è avvenuto il 3 marzo ma solo ora è stato reso disponibile il video girato da una donna che aveva assistito alla scena, avvenuta a Tacoma, nello stato di Washington; le immagini non chiariscono perché, da una apparente discussione senza tensioni fra Ellis e gli agenti, questi ultimi gli si avventino contro, tanto che la stessa testimone grida: “Arrestatelo e basta ma smettete di picchiarlo”. Anche per Ellis, come Floyd, le ultime parole sono state: “Non posso respirare”. Questa nuova denuncia non ha compromesso il corteo di Washington; per gli organizzatori quella di ieri è stata “una delle più grandi marce della storia della capitale”, vissuta come una sfida non solo al razzismo della polizia ma anche al presidente Trump, costretto a rimanere blindato dentro la Casa Bianca. Una spaccatura fra il palazzo del potere e la piazza che appare insanabile. The Donald sa bene che la protesta può mettere a rischio la sua elezione, ma conta sullo zoccolo duro dell’elettorato repubblicano, che vede la violenza nelle strade come ennesimo motivo per affidarsi a lui.

Più insegnanti, meno poliziotti: le “scuole dei neri” si ribellano

Il cartello, esibito con le braccia ben tese in alto da una ragazzina tra le medie e il liceo, è esplicito: “Professori, non poliziotti”. È la richiesta degli studenti di Chicago, radunatisi – tante mascherine, ma pure tanta ressa – davanti all’ingresso (chiuso, causa pandemia) della Colman Public School, edificio di pregio e istituto scolastico storico della “città del vento”: in America, vuol dire che data della prima metà del XX secolo. L’uccisione, a Minneapolis, il 25 maggio, di George Floyd ad opera di una pattuglia di poliziotti – uno, Derek Chauvin, gli ha tenuto il ginocchio premuto sul collo per quasi nove minuti, altri tre sono rimasti a guardare –, e le proteste che ne sono seguite, le violenze che se ne sono innescate – c’è stato un morto, a Chicago – e l’atteggiamento degli agenti, teso più a reprimere che a gestire rabbia e frustrazione, hanno incrinato negli Stati Uniti il rapporto tra scuole pubbliche e polizia.

Le scuole pubbliche sono le più frequentate da neri e ispanici – chi ha abbastanza soldi manda i figli alle scuole private, che costano, ma offrono una migliore preparazione – e spesso vi si sente bisogno di protezione: per evitare che i dintorni della scuola diventino luoghi di spaccio e controllare – talora ci sono metal detector all’ingresso – che qualche ragazzo arrivi in classe armato. Complice il coronavirus, quest’anno scolastico anomalo è stato segnato da relativamente poche sparatorie. Ma è ancora viva la memoria del massacro alla Marjory Stoneman Douglad High School di Parkland, in Florida: il 14 febbraio 2018, un ex studente vi fece 17 vittime. Dopo la strage, facilitata dalla vigliaccheria d’un agente di polizia in servizio fuori dall’istituto, che, uditi gli spari, s’acquattò invece d’intervenire, il presidente Donald Trump non trovò di meglio che suggerire d’armare professori e bidelli, così da trasformare la prossima incursione in una sfida all’O.K. Corral. Il segnale delle tensioni tra le “scuole dei neri” e la polizia è partito da Minneapolis, città epicentro di quest’ondata di proteste razziali: le scuole pubbliche hanno rescisso il contratto col Dipartimento di polizia per la sicurezza degli istituti e dei loro 35.000 studenti. La decisione segue una dura presa di posizione contro gli agenti di Minneapolis: “Non possiamo continuare a collaborare con chi ha una cultura di violenza e razzismo. Dobbiamo essere solidali con i nostri studenti afro-americani”, ha spiegato ai media locali uno dei consiglieri del distretto scolastico. Minneapolis è stata poi imitata da Portland, nell’Oregon.

Ma il movimento di Chicago fa più rumore sui media, perché Chicago, con nove milioni e mezzo d’abitanti, è il terzo agglomerato urbano dell’Unione, dopo New York e Los Angeles (Minneapolis, con tre milioni e mezzo, è intorno al 15° posto); perché Chicago è la città degli Intoccabili, ma è anche la città di Barack Obama; e perché Chicago è tornata a essere, negli ultimi anni, una capitale dell’America violenta. Immediatamente prima dell’uccisione di Floyd a Minneapolis, c’erano state diverse sparatorie, otto morti e 24 feriti, nel lungo week-end del Memorial Day, il più sanguinoso degli ultimi quattro anni.

La richiesta delle scuole, espressa in manifestazioni con migliaia di partecipanti, studenti, genitori, professori, è che gli agenti non prestino più servizio nelle scuole pubbliche: ci sono stati raduni e cortei, per spiegare che la presenza dei poliziotti a scuola, invece di fare sentire i ragazzi più sicuri, li rende più ansiosi.

Una petizione per rimuovere gli agenti ha raccolto 20 mila firme. Alicia Kamil, una studentessa, dice alla Np, la radio pubblica Usa: “Abbiamo i numeri, abbiamo l’energia, abbiamo il coraggio e abbiamo la passione perché finalmente ci ascoltino”. Le autorità scolastiche prenderanno in esame la richiesta, pur esprimendo timori per la sicurezza degli e negli edifici scolastici. E la polizia intende migliorare l’addestramento e la preparazione degli agenti di servizio nelle scuole. Dopo l’uccisione di Floyd, il movimento per “liberare” le scuole dalla polizia s’è accelerato, ancora prima che si conosca l’esito d’un questionario distribuito a famiglie e studenti. L’opinione pubblica non è del resto unanime su questo punto: numerose famiglie considerano la presenza dei poliziotti nelle scuole come parte del programma educativo dei loro ragazzi. Oltre il 75% dei 93 licei dell’area di Chicago hanno agenti al loro interno: il contratto tra il Chicago Board of Education e la polizia locale vale 33 milioni di dollari l’anno, ma non è chiaro quanto sarà effettivamente dovuto quest’anno, con le scuole chiuse per l’epidemia. Il pagamento della polizia è un elemento controverso. Richard M. Daley, sindaco per sei mandati consecutivi, fino al 2010, non faceva pagare alle scuole la presenza dei poliziotti. Il suo successore Rahm Emanuel, un ex braccio destro di Barack Obama in campagna elettorale e alla Casa Bianca, costrinse le autorità scolastiche a contribuire a risanare il bilancio del Dipartimento di Polizia.

Il broker dei mille magheggi: dagli affari maltesi al Vaticano

Nella storia italiana, il finanziere d’avventura è una figura ricorrente, che attraversa tutte le grandi vicende economico-finanziarie degli ultimi decenni. Chissà se Gianluigi Torzi ambisce a far parte di questa storia a suo modo grandiosa. Per ora, ha avuto il raro privilegio di essere arrestato dalle autorità vaticane, con le accuse di estorsione, peculato, truffa aggravata e autoriciclaggio: per aver fatto svanire almeno 15 milioni di euro in una complessa operazione iniziata nel 2014 che ruota attorno alla compravendita di un immobile di pregio in Sloane Avenue a Londra. Sarebbero però oltre 400 i milioni dell’Obolo di San Pietro finiti nei magheggi di Torzi e dei suoi compagni d’avventura, il finanziere Raffaele Mincione e due responsabili dell’amministrazione vaticana, monsignor Alberto Perlasca e Fabrizio Tirabassi. “Un malinteso”, secondo gli avvocati di Torzi, Ambra Giovene e Marco Franco.

Intanto Torzi esce dalle pagine finanziarie per entrare in quelle della cronaca. Chi è Torzi? Broker, molisano, basato a Londra. La sua immagine su Twitter è un mojito o comunque un cocktail variopinto. È nato a Guardialfiera, in provincia di Campobasso, dove mantiene le cariche nelle società di famiglia, tra cui la Microspore di Larino, che produce fertilizzanti. Le cronache locali si occuparono di lui per un’inchiesta giudiziaria (poi finita con un’archiviazione) sull’acquisto di una villa sul mare, a Termoli, per l’ex presidente della Regione Paolo Di Laura Frattura (Pd). Poi la sua base è diventata Londra, il suo indirizzo il 33 di Bruton Place, a Mayfair, a due passi da Hyde Park, dove risultano basate molte delle sue società. Comincia come broker, poi passa all’investment banking e alla finanza corporate. Il Fatto quotidiano s’imbatte in lui nel luglio 2019, quando racconta alcune operazioni tentate (invano) dal consigliere delegato della Popolare di Bari, Vincenzo De Bustis, per “rafforzare” la banca. Emissione di un titolo per far entrare 30 milioni di euro. E sottoscrizione di quote di un fondo lussemburghese, Naxos, per far uscire 51 milioni di euro. Il titolo per 30 milioni doveva essere sottoscritto da una società maltese, la Muse Ventures Ltd, controllata da Torzi, nata nell’ottobre 2017 e con un capitale di soli 1.200 euro. L’operazione non si chiude, perché l’istituto di credito coinvolto nell’emissione dei titoli, Bnp Paribas, rileva problemi di trasparenza e di gestione dei rischi finanziari. Anche dentro la Popolare di Bari si nota “la sproporzione tra i mezzi propri del sottoscrittore” (la Muse) “e l’importo della sottoscrizione dei titoli”. Il meccanismo s’inceppa: Muse non sgancia un euro, in compenso Naxos fa causa alla Popolare di Bari per 51 milioni. Si muove il Servizio antiriciclaggio interno alla banca: rileva che “l’anagrafica e l’identificazione della società in discorso”, cioè la maltese Muse di Torzi, “risultano incomplete, essendo carenti le informazioni relative al titolare effettivo e al codice fiscale”. Dopo qualche approfondimento, emerge anche che l’amministratore di Muse, Gianluigi Torzi, insieme al padre Enrico, è nelle liste nere: presente “nelle liste mondiali di bad press (WorldCheck) per diverse indagini a suo carico avviate dalle Procure di Roma e Larino per reati di falsa fatturazione e truffa”. Risulta che anche la Procura di Milano abbia chiesto informazioni e documentazione su di lui. Risultato: l’operazione con questo personaggio è classificata “ad alto rischio” e con “evidenza antiriciclaggio negativa”. Altra storia che lo vede protagonista è quella che ha a che fare con la compagnia assicurativa romana Net Insurance. Sotto osservazione, un ammanco di titoli di Stato scoperto dal nuovo amministratore delegato di Net Insurance, Andrea Battista, relativo all’emissione di obbligazioni realizzata dalla gestione precedente e curata da Torzi.

Il nome del finanziere molisano era spuntato anche a proposito di 14 milioni incamerati nel 2018 da due sue società londinesi (Sunset Enterprice e Odikon Service) come mega-commissione per la cartolarizzazione del credito di 80 milioni vantato dal Fatebenefratelli di Roma nei confronti della Regione Lazio. Ora l’arresto in Vaticano. Se le accuse saranno confermate, Torzi rischia di entrare davvero nella galleria dei personaggi della storia della finanza all’italiana.

Quel conformismo nascosto dietro il muro della satira

L’atto divertente è rivoluzionarioquando è sintomo di un’opposizione, ovvero non è indifferente al suo riferimento. Non si tratta di fare comicità politica, ma di fare comicità politicamente: nella Cecoslovacchia occupata dai nazisti, l’umorismo macabro fatto dalle vittime corroborava la propria resistenza (Orbdlik, 1942). Ne sono un altro esempio le battute sul muro di Berlino che, nella Germania Federale, facevano il verso alla retorica di regime: “Perché è stato stupido costruire il muro per proteggere il comunismo? Perché, se non fosse per il muro, nessuno vorrebbe scappare in Occidente”. Nei totalitarismi di destra e di sinistra, le battute satiriche contro la soppressione delle libertà civili sono spesso simili (Banc & Dundes, 1986), ma fare battute contro un partito o un leader non significa automaticamente fare resistenza (Warneken, 1978): per esempio, nella Germania Federale, scuole del partito, istituzioni, e cabaret di regime (comeDie Distel, Il Cardo) creavano e diffondevano battute satiriche allo scopo di controllare il discorso contro-culturale (Stein, 1989). In apparenza, quelle battute criticavano, ma di fatto stabilivano letture addomesticate della situazione, e facevano da innocua valvola di sfogo del malcontento: “Perché qui a Berlino Est non ci sono allarmi anti-smog e a Berlino Ovest invece sì?” “Perché i nostri confini sono più sigillati”.La battuta banalizza il problema dell’inquinamento (“c’è anche di là”). “Una guardia di confine a Berlino Est vede un uomo che sta cercando di scavalcare il Muro. Gli dice: – Scendi, compagno. Non lo sai che anche dall’altra parte c’è il socialismo? – L’uomo scende subito, dicendo: – Bè, questo schifo non lo voglio certo provare due volte!”. Qui si minimizza il comportamento delle guardie di confine (che invece sparavano ai fuggitivi, ottenendo un permesso-premio). Nella Germania nazista, le battute contro Hitler e il suo movimento a volte manifestavano una conoscenza dell’apparato nazista dall’interno: non era opposizione politica, ma uno sfiatatoio reazionario (Gamm, 1963).

Percezione e significatodella comicità e della satira sono determinati dal contesto, ovvero da chi fa la battuta, dove, con che uditorio, e con che interazioni: è il significato dovuto allaperformance (Oring, 1987). La scritta “Lasciare libera l’uscita” è politicamente neutra su qualunque porta; ma, come graffito sul Muro di Berlino, era satira fatta politicamente.

Comicità e satira possono essere usate in modo reazionario per rafforzare il conformismo. Ne è un esempio lo sfottò contro chi si oppone alle disuguaglianze, come fanno i media di destra quando chiamano “gretini” chi sostiene l’attivista ecologista Greta Thunberg. Anche l’estetica di un’arte come mero gioco combinatorio è reazionaria, nel suo esibito disimpegno dall’etica e dalla politica. Fu l’approdo di Calvino: a un certo punto della sua carriera, preferì ignorare che ogni estetica ha una politica, e viceversa (Ranciè̀re, 2004); e che la scelta continuamente differita (qualità esaltata nelleLezioni americanecon una lettura angusta del “preferisco di no” dello scrivano Bartleby), ovvero l’indugio perenne, è uno dei modi dell’immoralità (Jankelevitch, 1960). Dunque non sorprende che, in un saggio del 1967, Calvino scriva di non trovare congeniale la satira perché non gli piace il moralismo di chi si crede superiore agli altri: non solo confonde moralismo ed etica, ma mostra di non conoscere Lenny Bruce, che rivoluzionò il genere satirico togliendogli il complesso di superiorità: “Sono corrotto come il cardinal Spellman, ma è lui che vuol fare il cardinale”. Nabokov, che scrisse satire feroci contro la tirannide (aveva dovuto subire quella bolscevica e quella nazista), stimava Lenny Bruce (Appel, 1953). La satira giudica, critica, oppone resistenza, trasgredisce, perché chiede giustizia; e l’insubordinazione contro il discorso egemonico (l’ortodossia di regole, gerarchie, mode, versioni ufficiali) è il suo compito più nobile, perché sprona a una rigenerazione. Togli questo afflato etico alla satira e otterrai una comicità da caffè, attenta a evitare ogni forma di conflitto. Alla fine degli anni ’70, i comici delComedy Store di Los Angeles scioperarono per i propri diritti. Jerry Seinfeld no, e oggi in un monologo dice divertito che in quel periodo lavorò gratis: la confessione di crumiraggio non lo turba. E’ nella prassi che ci si riconosce dalla stessa parte (Melandri, 1968). In Italia, poi, domina l’istinto per il compromesso, sicché perfino della satira di Leopardi si fraintese volentieri l’estremismo ideologico, in modo da censurare la sua critica culturale e la sua filosofia morale (Luporini, 1947).

La satira è spesso una rabbia di tipo costruttivo, che permette il restauro del sé offeso, dei legami sociali, del dialogo. Alla fine dell’Oresteadi Eschilo, le Erinni punitrici diventano le benevole Eumenidi: è il percorso di questa satira nobile, che si fonda sull’amore per l’altro-da-sé. “Solo una persona che ama, quando vede una persona che cambia, sta in pena per il suo cambiamento. Uno che non ama se ne frega” (Pasolini, 1974). Esiste, inoltre, una satira che è solo vendetta, animata dalla rabbia implacabile dell’occhio per occhio contro chi ci ha fatto un torto, o sta attentando al nostro status: l’offesa pare inesauribile, il desiderio di risarcimento non viene mai soddisfatto. È la rabbia dei ribelli, quando il monologo Io-esso, che reifica l’altro, non matura verso la consapevolezza rinnovata dell’Io-Tu; ed è la rabbia degli identitari, nevrotici di una integrità personale e sociale che è irreale, dato che l’Ioe ilTusi tengono a vicenda (Buber, 1943). La contestazione dei ribelli e degli identitari è reazionaria, interna al sistema: è “per la modifica del sistema, ma perché esso viva. Il rivoluzionario invece nega il sistema sul piano reale, e gli contrappone una prospettiva utopistica” (Pasolini, 1966). C’è infine una satira che, rabbiosa contro l’assurdità della vita, è mero sberleffo. L’autore satirico di questo genere si diverte a fare il cinico, oppure il cazzaro, oppure lo stronzo. Lo sbocco infame di questa tendenza è lo sfottò fascistoide, che percula vittime vere di carnefici veri: Pietro Germi si ispirò a Don Pino Puglisi per la figura del Sassaroli(Alessandro Gori). Lo sfottò fascistoide si fa forte del sapere violento della violenza, ma non si può essere violenti e uscirne come niente fosse. Ne è un altro esempio la vignetta aberrante su Anna Frank.

(7. Continua)