Dario Franceschini vuole arrivare al 2022 sostenendo Giuseppe Conte, ma i due potrebbero essere in competizione per il Quirinale, il posto al quale il ministro della Cultura aspira davvero. Qualcosa però potrebbe rompersi prima: il capo-delegazione dem – nei primi tempi del governo giallorosso il più vicino al premier – ha avuto in questi mesi con lui più di un contrasto (dalla gestione della chiusura all’inizio dell’emergenza Covid alle nomine).
Nicola Zingaretti e Andrea Orlando, stando fuori dal governo, hanno bisogno di marcare la propria visione. Con il vicesegretario che conquista forza nel partito e cerca di spostarlo a sinistra. Ancora. Dentro al Pd tutto, cresce la convinzione che sarebbe necessario un rimpasto, per quanto rischioso per la tenuta del quadro. Mentre circola un certo malumore, visto che il partito è inchiodato al 20%: non sarà perché la scelta del sostegno “responsabile” al premier non paga? La domanda serpeggia da settimane. Così come la voglia di condizionare Conte, di legarlo sempre più ai dem, staccandolo da M5S. Anche in questo complesso di umori e di ambizioni personali va ricercata la scelta dei dem di andare allo scontro con il premier venerdì pomeriggio sugli Stati generali dell’Economia.
Al Pd non è piaciuto l’annuncio dell’iniziativa fatto in conferenza stampa, senza avvertire nessuno (“Abbiamo i sondaggi in poppa”, pare sia stata la spiegazione data da Rocco Casalino, a quanto raccontano i dem). Così come al Pd non gradiscono il fatto che il premier pubblicamente continui a esprimere dubbi sull’uso del Mes, per loro indispensabile. Anche visto che il Front loading (ovvero l’anticipo del Recovery Fund) per ora è stimato sui 2 miliardi e mezzo e potrebbe arrivare al massimo a 4, mentre l’Italia sperava in 11. In generale, Conte si muove troppo in solitaria, insomma. Tutto questo è esploso venerdì. Con Zingaretti che ha consegnato il suo sì senza se e senza ma all’uso della linea di credito sanitaria, con un intervento sul Sole 24 ore, mentre, dopo la proposta della Commissione europea sul Recovery Fund, la linea era quella di aspettare la fine del negoziato per riprendere il dibattito.
E con Franceschini e Lorenzo Guerini (tra i big dem quello più vicino al premier) pronti a fermare le uscite in solitaria di Conte: “Gli Stati generali devono essere un percorso, non una cosa improvvisata. Altrimenti rischiano di essere un boomerang per lo stesso governo. Perché sono la base della politica macroeconomica dei prossimi anni”. Il giorno dopo si tende ad abbassare la portata del diverbio. Ma in realtà i toni sono stati parecchio alti.
Le tensioni sotto traccia, dunque, si accumulano. C’è una competizione strisciante tra Conte e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Perché quest’ultimo gestisce tutte le partite economiche. Un ruolo troppo forte per il premier. Ora, poi, che arriveranno i soldi del Recovery Fund, sarà una gara a cercare di ottenerli tra i ministeri. Si tratta di presentare progetti di riforma: sulla carta dovrebbe essere una gara virtuosa. Ma i dubbi che non sarà così sono più d’uno. Conte e Gualtieri saranno tenuti a collaborare: a Palazzo Chigi toccherà la parte strategica e di coordinamento, al Mef quella Finanziaria. Esiste già un gruppo integrato di tecnici, ma politicamente la strada si preannuncia in salita.
E poi, dietro al conflitto di questi giorni, c’è anche il dialogo sempre più fitto tra Zingaretti e Berlusconi. Lavorano insieme sulla legge elettorale, per un proporzionale. E sul Mes, che Forza Italia voterà. La tentazione del Pd è quella di utilizzare il supporto di FI per una sorta di “stress test” nei confronti dei Cinque Stelle: quanti sarebbero disposti a dire no al Mes, seguendo una linea considerata essenzialmente di Luigi Di Maio? E ancora. Il rinnovo delle presidenze delle Commissioni parlamentari è imminente: tensioni garantite, fibrillazioni che si annunciano continue. Senza però la volontà di arrivare allo strappo: ieri Zingaretti ha riunito ministri e capigruppo per decidere la linea. Che ha preso forma così: “Non è emersa alcuna volontà di contrapposizione con il presidente Conte. Piuttosto è stata confermata l’esigenza di costruire da subito un percorso per affrontare in maniera adeguata le grandi sfide economiche e sociali che abbiamo dinnanzi ma che sia un percorso serio e concreto”. Tradotto: “Il Pd è leale a Conte, ma non può portargli l’acqua con le orecchie”. Che è poi quello che il segretario dirà domani, nella prima direzione dell’era Covid.