Il Pd vuole commissariare Conte e staccarlo dai 5S

Dario Franceschini vuole arrivare al 2022 sostenendo Giuseppe Conte, ma i due potrebbero essere in competizione per il Quirinale, il posto al quale il ministro della Cultura aspira davvero. Qualcosa però potrebbe rompersi prima: il capo-delegazione dem – nei primi tempi del governo giallorosso il più vicino al premier – ha avuto in questi mesi con lui più di un contrasto (dalla gestione della chiusura all’inizio dell’emergenza Covid alle nomine).

Nicola Zingaretti e Andrea Orlando, stando fuori dal governo, hanno bisogno di marcare la propria visione. Con il vicesegretario che conquista forza nel partito e cerca di spostarlo a sinistra. Ancora. Dentro al Pd tutto, cresce la convinzione che sarebbe necessario un rimpasto, per quanto rischioso per la tenuta del quadro. Mentre circola un certo malumore, visto che il partito è inchiodato al 20%: non sarà perché la scelta del sostegno “responsabile” al premier non paga? La domanda serpeggia da settimane. Così come la voglia di condizionare Conte, di legarlo sempre più ai dem, staccandolo da M5S. Anche in questo complesso di umori e di ambizioni personali va ricercata la scelta dei dem di andare allo scontro con il premier venerdì pomeriggio sugli Stati generali dell’Economia.

Al Pd non è piaciuto l’annuncio dell’iniziativa fatto in conferenza stampa, senza avvertire nessuno (“Abbiamo i sondaggi in poppa”, pare sia stata la spiegazione data da Rocco Casalino, a quanto raccontano i dem). Così come al Pd non gradiscono il fatto che il premier pubblicamente continui a esprimere dubbi sull’uso del Mes, per loro indispensabile. Anche visto che il Front loading (ovvero l’anticipo del Recovery Fund) per ora è stimato sui 2 miliardi e mezzo e potrebbe arrivare al massimo a 4, mentre l’Italia sperava in 11. In generale, Conte si muove troppo in solitaria, insomma. Tutto questo è esploso venerdì. Con Zingaretti che ha consegnato il suo sì senza se e senza ma all’uso della linea di credito sanitaria, con un intervento sul Sole 24 ore, mentre, dopo la proposta della Commissione europea sul Recovery Fund, la linea era quella di aspettare la fine del negoziato per riprendere il dibattito.

E con Franceschini e Lorenzo Guerini (tra i big dem quello più vicino al premier) pronti a fermare le uscite in solitaria di Conte: “Gli Stati generali devono essere un percorso, non una cosa improvvisata. Altrimenti rischiano di essere un boomerang per lo stesso governo. Perché sono la base della politica macroeconomica dei prossimi anni”. Il giorno dopo si tende ad abbassare la portata del diverbio. Ma in realtà i toni sono stati parecchio alti.

Le tensioni sotto traccia, dunque, si accumulano. C’è una competizione strisciante tra Conte e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Perché quest’ultimo gestisce tutte le partite economiche. Un ruolo troppo forte per il premier. Ora, poi, che arriveranno i soldi del Recovery Fund, sarà una gara a cercare di ottenerli tra i ministeri. Si tratta di presentare progetti di riforma: sulla carta dovrebbe essere una gara virtuosa. Ma i dubbi che non sarà così sono più d’uno. Conte e Gualtieri saranno tenuti a collaborare: a Palazzo Chigi toccherà la parte strategica e di coordinamento, al Mef quella Finanziaria. Esiste già un gruppo integrato di tecnici, ma politicamente la strada si preannuncia in salita.

E poi, dietro al conflitto di questi giorni, c’è anche il dialogo sempre più fitto tra Zingaretti e Berlusconi. Lavorano insieme sulla legge elettorale, per un proporzionale. E sul Mes, che Forza Italia voterà. La tentazione del Pd è quella di utilizzare il supporto di FI per una sorta di “stress test” nei confronti dei Cinque Stelle: quanti sarebbero disposti a dire no al Mes, seguendo una linea considerata essenzialmente di Luigi Di Maio? E ancora. Il rinnovo delle presidenze delle Commissioni parlamentari è imminente: tensioni garantite, fibrillazioni che si annunciano continue. Senza però la volontà di arrivare allo strappo: ieri Zingaretti ha riunito ministri e capigruppo per decidere la linea. Che ha preso forma così: “Non è emersa alcuna volontà di contrapposizione con il presidente Conte. Piuttosto è stata confermata l’esigenza di costruire da subito un percorso per affrontare in maniera adeguata le grandi sfide economiche e sociali che abbiamo dinnanzi ma che sia un percorso serio e concreto”. Tradotto: “Il Pd è leale a Conte, ma non può portargli l’acqua con le orecchie”. Che è poi quello che il segretario dirà domani, nella prima direzione dell’era Covid.

“Niente clinica, è solo un presidio”

Il presidente della Camera ci scrive in merito all’articolo pubblicato ieri a pagina 3 del Fatto Quotidiano (“Ora Camera e Senato si fanno la clinica anti-Covid: 5 milioni”) a proposito del bando per il servizio di assistenza medica e infermieristica nelle sedi parlamentari di Montecitorio e Palazzo Madama.

Gentile direttore, sono rammaricato per quanto pubblicato dal suo giornale rispetto a una immaginaria clinica Covid della casta.

La Camera dei deputati non ha mai interrotto la sua attività dall’inizio dell’emergenza per assicurare la continuità delle funzioni legislativa, di controllo e indirizzo e per fornire ai cittadini le risposte necessarie in un momento così delicato per il Paese. Abbiamo riorganizzato spazi e modalità di lavoro per tutelare la salute dei dipendenti e dei parlamentari. Lo abbiamo fatto in linea con quanto stabilito dalle autorità sanitarie a livello nazionale per minimizzare i rischi di contagio. Non abbiamo previsto nessun trattamento privilegiato.

Mi sono sempre comportato come qualunque cittadino che ha lavorato durante le prime fasi dell’emergenza. Ragion per cui non può appartenermi il progetto di una fantomatica clinica Covid, che dunque non esiste.

C’è invece un altro servizio, che la Camera ha da sempre e che dal 2014 è affidato tramite un bando pubblico: il presidio medico. Si tratta di un servizio di assistenza medica e infermieristica per la gestione delle emergenze, operativo per tutti coloro i quali accedono a Palazzo Montecitorio.

In questo periodo abbiamo seimila accessi a settimana. Mentre dall’inizio della legislatura ci sono stati circa 350mila visitatori, fra gruppi organizzati, scolaresche, partecipanti a convegni ed eventi, oltre a deputati, dipendenti e ditte esterne.

Il contratto per il presidio medico attualmente in corso scade a settembre e per la nuova assegnazione si è deciso di procedere con un bando congiunto con il Senato. Ed è quest’ultima la novità: si è scelto di procedere insieme all’altro ramo di Parlamento per uniformare e razionalizzare gli standard con un bando pubblico e trasparente. Dunque questo iter non ha nulla a che vedere con la gestione dell’emergenza Covid e non contempla l’introduzione di servizi aggiuntivi: è il rinnovo dal servizio già esistente.

In Lombardia Rt si avvicina a 1: “Non si dica che va tutto bene”

Sono i dati riferiti alla settimana tra il 25 e il 31 maggio, quindi “verosimilmente molti dei casi notificati hanno contratto l’infezione 2-3 settimane prima, ovvero durante la prima fase di riapertura (tra il 4 e il 18 maggio 2020)”, si legge nel report del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di Sanità. E soprattutto per la regione più colpita, la Lombardia, non c’è da fare i salti di gioia: l’incidenza settimanale – cioè l’aumento dei casi diagnosticati – è scesa da 16,68 a 15,4 ogni 100 mila abitanti, cioè dai 1.678 della settimana 18-24 maggio ai 1.549 della successiva. Sale però Rt, il tasso di riproduzione del virus (quante persone in media sono contagiate da un infetto): dallo 0,53 del 12 maggio allo 0,75 del 26 maggio fino allo 0,91 del 3 giugno, con un intervallo di confidenza tra 0.78 e 1.09. Se non è 1 poco ci manca. E non si parla, ripetiamo, della fase 3 iniziata appunto mercoledì 3 giugno con il via libera agli spostamenti interregionali.

Nelle altre regioni il Piemonte ha ancora un’incidenza settimanale di 9,16 per 100 mila abitanti (Rt 0,58), il Trentino 6,28 (Rt 0,86) la Liguria 4,84 (Rt 0,48), l’Emilia-Romagna 4,82 (Rt 0,58), la Val d’Aosta 4,77 (Rt 0,47), il Friuli Venezia Giulia 2,55 (Rt 0,76) ma poi cinque Regioni (Abruzzo, Lazio, Molise, Toscana e Veneto) sono appena sopra 1 nuovo caso ogni 100 mila abitanti e le altre (e l’Alto Adige) sotto 1. “In quasi tutta la Penisola sono documentati focolai di trasmissione attivi – si legge nel report di ministero e Iss –. Tale riscontro, che in gran parte è dovuto alla intensa attività di screening e indagine dei casi con identificazione e monitoraggio dei contatti stretti, evidenzia tuttavia come l’epidemia in Italia di Covid-19 non sia conclusa”. Restano la “generale diminuzione del numero di casi”, l’“assenza di segnali di sovraccarico dei servizi assistenziali” e anche il “forte miglioramento della qualità e dettaglio dei dati inviati dalle Regioni”.

Non ci sono, però, i dati sui tamponi. “Sarebbe bene che chi ha il maggior numero di casi facesse il maggior numero di test, invece non è così: nel Nord Est e del Nord Ovest osserviamo il contrario”, osserva il professor Nino Cartabellotta della Fondazione Gimbe, che da anni documenta i guasti della sanità pubblica e giorni fa rimproverava alla Lombardia gravi ritardi nei test. La Lombardia, nell’ultima settimana, ha circa il 2,4 per cento di positivi sui tamponi diagnostici effettuati (ma era al 3,8) mentre il Veneto lo 0,16 e l’Emilia-Romagna lo 0,78. Il ministro della Salute Roberto Speranza può dire che “siamo sulla strada giusta” ma invoca “prudenza e gradualità”. Il professor Giovanni Rezza, direttore della Prevenzione del ministero, osserva che “la capacità di risposta è globalmente migliorata” e invita a “mantenere alta la guardia e le misure di distanziamento sociale”. Aggiunge Cartabellotta: “Se passa il messaggio che va tutto bene rischiamo di dover richiudere”.

La notte dei lunghi dossier ad Aria Spa: Forza Italia vs Lega

Stare nella Giunta che guida la Regione Lombardia, in questa fase, non è un bel lavoro. Alle difficoltà oggettive, amplificate dagli errori commessi in serie, si aggiunge una sorta di notte dei lunghi coltelli che agita le due principali forze di maggioranza: la Lega e quel che resta di Forza Italia e del fu potere formigoniano (entità non del tutto sovrapponibili) e ha per luogo privilegiato in questa fase Aria Spa, la centrale unica degli acquisti regionale e i suoi peccati durante l’emergenza coronavirus. La vicenda dell’appalto per i camici che leggete qui accanto imbarazzerà assai il presidente Attilio Fontana e con lui la Lega, ma ormai i rubinetti degli acquisti folli si sono aperti e siamo probabilmente solo al primo atto.

Prima di passare ai fatti, converrà fare una fotografia ad Aria Spa: la centrale unica è nata nel luglio 2019 dalla fusione da due società simili Arca Spa e Lombardia Informatica, carrozzone caro al Celeste quest’ultima, sciolto a furor di popolo per sprechi e inefficienze denunciati pure dalla Corte dei Conti. Proprio da Lombardia Informatica viene il presidente di Aria, Francesco Ferri, già vicepresidente dei Giovani di Confindustria e poi per una stagione pupillo di Silvio Berlusconi: doveva diventare deputato nel 2018, ma all’ultima notte utile il suo nome uscì dalle liste, inviso – si dice – al duo Ronzulli-Ghedini. Fallito anche l’approdo in Giunta come assessore, nell’estate 2018 gli fu trovata la poltrona di consolazione da presidente di Lombardia Informatica, appunto, da cui è poi traslocato in Aria Spa. Suo contraltare interno è l’avvocato Filippo Bongiovanni, 26 anni nella Guardia di Finanza, manager in quota Lega fin dai tempi di Roberto Maroni: la convivenza tra i due, nelle ultime settimane, s’è fatta quasi impossibile.

La guerra dentro Aria Spa, però, è la guerra dentro la Giunta per chi pagherà la pessima figura di questi mesi: basterà crocifiggere l’assessore al Welfare Giulio Gallera (Forza Italia)? In questo clima, c’è la guerra del tutti contro tutti. Dei camici di Fontana abbiamo detto, ma c’è un’altra storia che riguarda la centrale degli acquisti e porta invece al mondo berlusconiano: quella delle mitiche mascherine Fippi, dette “pannolino” per via del fatto che l’azienda di Rho che le ha sfornate produce, appunto, pannolini. Furono l’assessore all’Ambiente Raffaele Cattaneo, già in Regione con Formigoni, e il vicepresidente Fabrizio Sala (in cordata dentro Forza Italia col coordinatore regionale Massimiliano Salini) i più attivi tra fine marzo e inizio aprile su quella partita: visto che Roma non ci aiuta, si diceva, produrremo noi le mascherine. Così è stato e la Fippi ha consegnato 18 milioni di pezzi intascando 8,1 milioni di euro: ora sappiamo, grazie all’accesso agli atti del consigliere regionale Marco Fumagalli (M5S), che la Regione ne ha distribuite solo 3,3 milioni e il resto (14,6 milioni di pezzi) sono stipate da settimane in un magazzino di Rho. Su questi prodotti, peraltro, c’è un’indagine a Milano aperta dopo un esposto di Adl Cobas Lombardia nato dalle lamentele del personale sanitario a cui erano state distribuite. “È la prima volta che rispondono a un mio accesso agli atti: il direttore generale Bongiovanni è stato esaustivo e molto gentile”, dice Fumagalli.

C’è anche un’altra indagine che coinvolge il ruolo di Aria (che comunque risponde, forse troppo, alla Regione): è quella sui test sierologici Diasorin, di cui Il Fatto s’è occupato spesso, nata dalla denuncia di un’azienda concorrente. Com’è noto, Aria aveva aperto una procedura di gara, ma ci aveva subito ripensato preferendo comprare direttamente dall’azienda di Saluggia 500 mila test a 4 euro l’uno (spesa totale: 2 milioni), poco prima che l’americana Abbott ne regalasse 150 mila al governo. Ora Il Fatto ha scoperto che, all’esito della gara in corso in Lombardia, Diasorin abbia offerto il suo test a 3,3 euro l’uno e che l’offerta economicamente più bassa (Roche) non arrivava a 1,5 euro. Ma la guerra delle carte in libera uscita è solo all’inizio.

Gli ultimi tre pazienti, poi addio Fiera Hospital

Quando anche gli ultimi tre (3) pazienti presenti oggi saranno guariti, l’ospedale alla Fiera di Milano chiuderà i battenti. O meglio, rimarrà formalmente aperto, ma non riceverà nuovi ricoveri, poiché i posti in terapia intensiva negli altri ospedali abbondano. È l’ennesimo paradosso dell’“Astronave” fatta atterrare da Guido Bertolaso al Portello, che di malati ne ha curati non più di una ventina, ma di milioni ne ha bruciati almeno 17,2 (ma il saldo sarà più alto).

La panacea per la crisi da Covid-19 si è così trasformata in una mina vagante per la giunta di Attilio Fontana, che si trova a dover scegliere se tenere aperta la struttura – ma investendo altri soldi per farla rientrare nelle severe linee guida del Comitato tecnico scientifico sugli ospedali Covid – oppure chiuderla, perdendo politicamente la faccia. Dal Pirellone fanno sapere che l’ipotesi più probabile è una “non decisione”: si penserebbe infatti di tenerla aperta, ma inattiva, almeno fino a ottobre, per poterla riutilizzare in caso di riesplosione dei contagi. E pensare che una possibile – e onorevole – via d’uscita all’assessore regionale al Welfare, Giulio Galera, era stata “regalata” da un gruppo di medici anziani del Pronto soccorso del Policlinico di Milano: trasformare quell’ormai inutile centro di terapie intensive in una struttura “a bassa intensità di cura” da dedicare ai pazienti Covid in via di guarigione, come si legge nel piano a firma del dottor Giuseppe Torgano che Il Fatto ha potuto consultare in esclusiva: “Propongo l’utilizzo della struttura per pazienti che non necessitano di Rianimazione. Questo permetterebbe la ripresa di attività ospedaliere fondamentali come interventi chirurgici, prestazioni specialistiche, gestione pazienti cronici ecc.”. L’idea del pool di sanitari, tra i quali Andrea Gori, direttore Malattie infettive del Policlinico e fratello del sindaco di Bergamo, è di raggruppare al Portello tutti quei pazienti che ancora oggi affollano gli ospedali perché portatori dei sintomi del virus, ma che sono costretti ad attendere l’esito dei tamponi anche per 36 ore nei pronto soccorso, gomito a gomito con altri sospetti positivi. Una condizione che favorisce il contagio. Perché non dirottare tutti questi casi “non gravi” alla Fiera, liberando gli ospedali?

L’operazione richiederebbe investimenti limitati: basterebbe aggiungere i bagni chimici, visto che oggi l’“Astronave” è priva delle toilette per i degenti. L’“Astronave” però così perderebbe la caratteristica di “struttura all’avanguardia della terapia intensiva”, per trasformarsi in una sorta di “casa della salute”. I medici del Policlinico avevano affidato il loro documento di proposta al consigliere regionale di opposizione Michele Usuelli oltre due settimane fa affinché lo presentasse al Pirellone. Racconta Usuelli: “Ne ho parlato con Gallera e gli ho girato la presentazione 13 giorni fa. L’assessore si era detto interessato, ma poi non si è fatto vivo con i medici. Martedì scorso ho denunciato la cosa in Consiglio regionale”.

Intanto si è capito che la elargizione di Silvio Berlusconi (10 milioni) non è mai arrivata sul conto della Fondazione Fiera presso Fondazione di Comunità Milano ed è invece entrata sul conto intestato a Regione Lombardia per l’Emergenza Covid, che ad oggi ha raccolto 106.627.097,27 euro. Mancano le evidenze che Berlusconi vi abbia effettivamente bonificato i 10 milioni, nonostante Il Fatto abbia chiesto di verificare le distinte di versamento ai responsabili di Forza Italia del Pirellone. L’unica cosa sicura è che all’ospedale in Fiera B. non ha dato neanche un centesimo. E forse ha fatto bene.

Finisce alla ditta di Lady Fontana l’ordine di 513mila euro di camici

Una fornitura di materiale medico per l’emergenza Covid che doveva essere una donazione, ma che nella realtà è diventata una procedura negoziata e quindi un affidamento diretto senza gara pubblica per mezzo milione di euro da parte di Regione Lombardia a una società di Varese riconducibile direttamente alla famiglia della moglie di Attilio Fontana. Un bel guaio per il presidente, recentemente archiviato dall’accusa di abuso d’ufficio nell’inchiesta sulle tangenti in Lombardia e oggi travolto dalle polemiche per come la sua giunta sta affrontando la pandemia. La notizia è merito del lavoro del giornalista di Report Giorgio Mottola.

Sentito sul punto, Fontana, attraverso il suo portavoce, ha fatto sapere alla trasmissione di Rai3: “Della vicenda il presidente non era a conoscenza. Sapeva che diverse aziende, fra cui la Dama Spa, avevano dato disponibilità a collaborare con la Regione per reperire con urgenza Dpi in particolare mascherine e camici per strutture sanitarie”.

Vediamo allora di capire fatti e protagonisti. Con una premessa temporale: il tutto inizia il 16 aprile con l’affidamento, e finisce attorno al 22 maggio quando la ditta stornerà quei soldi restituendoli di fatto alla Regione. Come dire: scusate, ci siamo sbagliati. Questo però cambia poco le carte in tavola e non cancella il pasticcio. L’affidamento diretto di denaro pubblico viene firmato da Aria, la centrale acquisiti della Regione, creata circa un anno fa su input dell’assessore al Bilancio, il leghista Davide Caparini. Negli elenchi dei fornitori presenti sul sito di Aria con molta difficoltà si trova la ditta Dama Spa. Compare il nome, ma non si comprende bene cosa si venda e a che prezzo. La Dama, però, è una società nota che detiene il famoso marchio Paul&Shark. Il suo ceo è Andrea Dini, fratello di Roberta, moglie di Attilio Fontana. La first lady regionale è poi parte attiva dell’impresa in quanto vi partecipa come socia al 10% attraverso la Divadue Srl. La Diva Spa, invece, detiene il 90% di Dama Spa. La Diva Spa inoltre ha come socio al 90% una fiduciaria del Credit Suisse che amministra un trust denominato “Trust Diva”.

Fatta luce sul risiko societario, ripartiamo dal 16 aprile. A quella data la Lombardia è nel pieno dell’emergenza. In tv sono passate le immagini dei morti di Bergamo portati fuori città dai camion militari. A Milano è già scoppiato lo scandalo delle Rsa. Nel frattempo, il 16 aprile Filippo Bongiovanni, direttore generale di Aria (di nomina leghista, “maroniano di ferro”), ex finanziere poi passato in Regione con ruoli di prestigio in Eupolis e Infrastrutture lombarde, firma un ordine di forniture e lo invia alla Dama Spa.

Scrive Aria: “Stante l’emergenza inerente all’epidemia Covid-19 (…) in considerazione della vostra offerta con la presente si conferma l’ordine”. Si tratta di 513 mila euro così ripartiti: 63 mila euro per 7 mila set di camici, cappellini e calzari. E altri 450 mila euro per 75 mila camici singoli. Secondo il documento, recuperato da Report, Dama deve iniziare le consegne a partire dal 16 aprile, mentre il pagamento avverrà a 60 giorni e il 30 aprile emetterà regolare fattura.

Insomma, il documento firmato da Bongiovanni è chiaro e conferma l’affidamento di forniture per mezzo milione di euro pubblici a un’azienda molto vicina a Fontana. Il quadro così ricostruito viene presentato dall’inviato ad Andrea Dini, che al citofono risponde: “Non è un appalto, è una donazione. Chieda pure ad Aria, ci sono tutti i documenti”. Davanti all’ordine di forniture, Dini mette giù. Poi è costretto ad ammettere: “Effettivamente, i miei, quando io non ero in azienda durante il Covid, chi se ne è occupato ha male interpretato, ma poi me ne sono accorto e ho subito rettificato tutto perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione”.

E così, in effetti, avviene. A partire dal 22 maggio, la Dama stornerà quelle fatture di fatto riportando il tutto a una donazione. Il che non cancella una brutta vicenda che ha sollevato la concreta ipotesi di un enorme conflitto d’interessi per il governatore Attilio Fontana.

Sogni d’oro

Il mondo cambia, l’Europa anche, gli italiani persino, tutti costretti dal Covid a correre per non ritrovarsi un’altra volta impantanati. Una sola cosa non cambia mai: il nostro establishment. I prenditori travestiti da imprenditori, ansiosi di arraffare i soldi pubblici stanziati dal governo e dalla Ue, usando i loro giornaloni come grimaldelli per scassinare il caveau. E i nostri vecchi politici, anche quelli che si credono giovani perché stanno in Parlamento solo da 10 o 20 anni, abituati a risolvere i problemi rinviandoli alle calende greche. Quando c’era Paolo Gentiloni, che non è neppure il peggiore della specie, lo chiamavano Er Moviola per i ritmi di lavoro non proprio frenetici e la rassicurante abitudine di staccare entro e non oltre le ore 19, orario ufficio. Non era un’usanza eccentrica, ma il modus operandi di un’intera generazione di politici, quella del vecchio Pd molto più simile alla Dc che al Pci, che si era liberato del corpo estraneo renziano ed era ben felice di archiviare quel triennio frenetico e ipercinetico (purtroppo impiegato dall’Innominabile a far danni) e di tornare placidamente alle vecchie liturgie al ralenti.

Quella mandria di bradipi polverosi e sonnacchiosi fu sconfitta alle elezioni del 2018 non solo per il vento “populista” e “sovranista”, ma anche perché l’andamento lento delle vecchie facce strideva ormai col nuovo metronomo dell’opinione pubblica, scandito dal “qui e subito” dei social. Nel bene e nel male, il governo gialloverde accelerò il ritmo delle decisioni, producendo in 14 mesi una mole di norme e riforme che sarebbe stata impensabile coi Moviola dei vecchi centrodestra e centrosinistra. L’estate scorsa, grazie alla mattana agostana di Salvini, nacque il governo giallorosa: un esperimento unico al mondo fra un movimento cosiddetto “populista” (i 5Stelle) e due partiti del vecchio establishment (Pd e LeU), un innesto ad alto rischio garantito da Giuseppe Conte: un prof e avvocato che, per temperamento, somiglia più all’antropologia pidina che a quella grillina; ma, per spirito di iniziativa, capacità di lavoro e di apprendimento, rapidità di decisione e movimento, lontananza dall’establishment e presenza mediatica è molto più pentastellato di quanto sembri. Nei primi tre mesi, ancora increduli di esser tornati al governo per grazia ricevuta e contro ogni aspettativa, i dem l’hanno sostenuto. Poi, appena iniziavano a rialzare il capino, è arrivato il Covid e son tornati a cuccia, ben lieti di lasciarlo solo a gestirlo (infatti Conte deliberò in solitudine le zone rosse a Codogno e a Vo’ e il lockdown dell’Italia intera, mentre tutt’intorno suggerivano di attendere ancora).

Se l’avesse azzeccata sarebbe stato merito di tutti, se avesse fallito sarebbe stata colpa sua. I dati e i confronti con l’estero dicono che la Fase 1 l’ha azzeccata. Nella Fase 2 il Pd ha continuato a fingersi morto e a mandare avanti Conte. Soprattutto in Europa, dove i dem si credono i mejo fichi del bigoncio e hanno sempre pensato che il premier avrebbe strappato nulla. Quando parlava di Eurobond e Recovery fund, sogghignavano: quello è matto, Germania e Francia ci faranno a pezzi, cara grazia se ci faranno l’elemosina col Mes. Un giorno Conte disse: “O ci danno quel che chiediamo o l’Italia farà da sola”. Quelli del Pd finirono sotto il tavolo per la paura e per la classica postura a 90 gradi modello Bruxelles: ma chi si crede di essere questo parvenu, la minaccia ci si ritorcerà contro, qui finisce male. Risultato: Eurobond sì, Recovery fund sì: 173 miliardi. Quanto basta, insieme alle ottime aste dei titoli di Stato, allo spread basso e al carico da 11 della Bce, a mandare in soffitta il Mes. Che non è il demonio, ma è un prestito troppo magro per i rischi che comporta: per i trattati Ue invariati (i paesi nordici potranno infilarci altre condizionalità ex post) e perché chiederlo sarebbe un pessimo segnale, visto che è fatto apposta per chi non riesce a finanziarsi sui mercati e nessun paese Ue lo vuole: neppure Spagna e Grecia (l’unica più indebitata di noi). Tant’è che un dibattito sul Mes esiste solo in Italia (e a Cipro!).
Ma chi cammina piegato a 90 gradi da una vita non può raddrizzarsi all’improvviso. È qui, non sulla “collegialità” o altre menate dettate ai giornaloni, che nasce la lite dell’altroieri tra Conte e i ministri Pd su “Stati generali” e “Piano di rinascita” (criticato per l’assonanza con quello di Gelli da chi nel 2011-‘14 ha governato col piduista B.). I dem (e il piduista) vogliono prendere subito gli spicci del Mes e “rinviare a settembre” (hanno detto proprio così) il piano di investimenti da presentare all’Ue per ottenere i 173 miliardi. Che hanno un’unica condizionalità: dire come li spenderemo. Infatti Conte, sempre dipinto come un democristiano indecisionista, vuole far presto (sostenuto una volta tanto dal M5S che, in crisi di identità, prende a prestito la sua). E ai bradipi spossati da mesi di vertici diurni e notturni che volevano andare in ferie per tre mesi, ha risposto: “Tra poco c’è il Consiglio europeo. L’Ue non aspetta, gl’italiani nemmeno. Abbiamo sabato, domenica, lunedì e martedì per mettere nero su bianco le nostre idee: mercoledì le raccogliamo e giovedì Stati generali”. Panico alla parola “giovedì”. Terrore alla parola “idee”: un partito normale ne avrebbe da vendere e le tirerebbe fuori non in quattro giorni, ma in quattro minuti. Però stiamo parlando del Pd.

Naufragar non è dolce in questo mare

“Le ravvolgeva il piede una scarpina/ ricamata, di porpora,/ lavoro perfetto di Lidia”. Sulle coste dell’Asia Minore, oggi, le calzature per bambini non sono più quelle raffinatissime cantate dalla lirica Saffo (VII sec. a. C.), ma quelle anonime dei migranti naufragati nel tentativo di sbarcare a Lesbo, e restituite dal mare alle rive turche di Ayvalik, di Babakale.

Se oggi quelle scarpe campeggiano al centro dei Magazzini del Sale (Shipwreck Crime), lo dobbiamo al reporter bolognese Italo Rondinella, che nel 2017 è andato in loco a fotografare e raccogliere pettini, giubbini, bavagli, portafogli, braccioli, biberon, jeans, berretti (“E tu mi chiedi un cappellino, Clèide,/ ricamato, di Sardi”): e ora giustappone foto e oggetti in un unico contesto, mettendo in sottofondo lo sciabordío del mare (dalla porta dei Magazzini entra l’acqua del Canale della Giudecca), e le voci allegre dei bagnanti (la zona di nordovest, fra Pergamo e Troia, è tra le più turistiche dell’Anatolia) – quasi un incongruo contrappunto al dramma umano di cui quelle épaves (relitti, ndr) rappresentano le mute reliquie. Perché sì, come mostrava Emanuele Crialese in Terraferma, il mare delle vacanze e dei naufragi è il medesimo.

Tutto, nel mondo dell’arte, è déjà-vu: Ai Weiwei inalbera gommoni e giubbotti sui monumenti di Firenze e Berlino; Sislej Xhafa e Graciela Sacco espongono scarpe di brechtiana memoria; gli Aquilizan raccolgono il bric-à-brac dell’esilio (Address); soprattutto, Isaac Julien dedica scene sublimi del Gattopardo (Western Union, Small Boats) allo iato vertiginoso tra le magliette e i cadaveri recuperati sulle spiagge siciliane e il vociare dei bagnanti alla Scala dei Turchi o nelle opulente dimore dei baroni. Ma Rondinella, che vive a Istanbul e i migranti siriani li conosce per davvero, non vuole fare l’artista, né lucrare popolarità sulle tragedie altrui: l’intento, concepito anche con un fine didattico per le scuole, è quello di tener viva l’attenzione sullo stillicidio di morti che da anni si consuma in quel braccio di mare – i “fortunati” che scampano alla traversata approdano poi, nell’agognata Europa, al lager di Moria.

Sono le acque cantate da Saffo e Alceo, ma anche le sponde che conobbero i naufragi e i massacri della guerra greco-turca: “Un giorno mia madre vide suo figlio caduto bocconi, quasi baciasse il suolo: era immobile, ed ella si avvicinò terrorizzata…”: sembra quasi che il romanziere Ilías Venezis (Terra d’Eolia), sradicato dalla natía Ayvalik nel 1922, prefigurasse il piccolo Aylan.

 

Italo Rondinella “Shipwreck Crime”

Magazzini del Sale, Venezia, fino al 19.07

“Lo scarafaggio” s’è fatto presidente: un dramma

“Lo scarafaggio”, un libro del famoso autore inglese Ian McEwan, pubblicato da Einaudi. McEwan riesce con un breve e accattivate scritto a unire due grandi geni: Franz Kafka e i suoi capolavori letterari e Jonathan Swift con la sua satira politica. Dal titolo, si capisce subito chi è il protagonista: un insignificante scarafaggio che si risveglia una mattina nelle vesti di un uomo, ma non una persona qualunque, bensì il primo ministro inglese. Si ritrova dunque a dirigere un Paese da un giorno all’altro, a presidiare i Consigli dei ministri, a fare discorsi, a occuparsi 24 ore su 24 dei problemi di un intero popolo che conta su di lui. Una perfetta satira del sistema politico di un Paese, l’Inghilterra, che prende spunto dai fatti realmente accaduti, come la Brexit, che devono essere trattati da un ex scarafaggio, che non è immune dalla voglia di vincere e di restare al potere. Ci suona familiare, Jim Sans, il nome del fu scarafaggio: diventa un vero politico e porta nuove idee, idee che non entusiasmano certo i colleghi di governo e quelli di altri Paesi; ad esempio, l’idea di un nuovo modello economico: colui “che spende guadagna e chi guadagna deve pagare”. Nel romanzo ritroviamo fatti storici accaduti, termini che già conosciamo e una linea di azione di fondo: come agire contro gli interessi di tutti. Il perché? Non si sa, ma è questa la politica che ci vuole far vedere Ian McEwan.

 

Lo scarafaggio

Ian McEwan

Pagine: 120

Prezzo: 16

Editore: Einaudi

Dalla catastrofe del virus sovrano ci salverà anche la bella filosofia

Si può filosofare sul Coronavirus? Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, lo fa con un libretto denso, quasi un abecedario dei concetti chiave che la pandemia ha sedimentato nelle nostre coscienze. Una diagnosi del “male che viene” tracciata con la consapevolezza dell’evento inatteso, un interruttore in grado di modificare in profondità il tempo e anche lo spazio.

L’approccio evenemenziale caratterizza il testo in cui, come echi di Walter Benjamin, il virus ci costringe a “tirare un freno” di fronte alla catastrofe. Di Cesare riflette su un’epidemia come “terzo grande evento del Ventunesimo secolo”, dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 e dopo la grave crisi del 2008. Le crisi consegnano una forte incapacità del nostro tempo, e delle nostre società, a immaginare il futuro che “appare chiuso, destinato nella migliore delle ipotesi a riprodurre il passato”. E così tramonta l’idea di progresso. Paradossalmente il virus ha imposto una “pausa” dall’asfissia capitalista, riproponendo la possibilità di guardare in faccia la “catastrofe alle porte” (ancora Benjamin) a condizione di vedere dietro la pandemia le conseguenza di una crisi ecologica devastante.

Non convince l’idea di “stato di eccezione” alla Agamben, per troppi aspetti novecentesco e poco adatto a cogliere i rovesciamenti della governance. La biopolitica si trasforma in immunopolitica e l’organismo, per uccidere il virus, rischia di uccidere anche sé stesso, in un’autodistruzione sovranista. Cambi di paradigma, allora. Con il virus occorrerà “coabitare”, in ambienti complessi difendendosi dal “fantasma dell’immunizzazione assoluta”. Filosofia, scorrevole, piacevole da leggere.

 

Virus sovrano?

Donatella Di Cesare

Pagine: 90

Prezzo: 9

Editore:Bollati Boringhieri