Complotti e omicidi: tra le nevi norvegesi il noioso sci di fondo è una pista di sangue

Anne Holt si diverte in maniera sadica a disseminare quadretti inquietanti sin dall’inizio. Un uomo nudo che sta per essere stritolato dalle pareti mobili di una cella. La sceneggiatura di alcuni dialoghi drammatici tra una psicologa e un paziente. Poi le scene centrali: una campionessa di sci di fondo, di origini cinesi, incastrata da qualcuno per doping. E soprattutto lei, la cinquantenne Selma Falck, avvocato di grido, moglie di un deputato e già olimpionica di pallamano. Ha perso tutto – marito, figli, casa, lavoro – da un momento all’altro, per colpa del suo vizio di giocare. In Borsa ma anche a poker. Più di una decina di milioni di corone. Ora vive in un appartamento lurido e il suo gatto non fa che scovare e ammazzare topi. L’unica persona con cui si confida è un ex poliziotto diventato clochard.

Già ministro della Giustizia norvegese negli anni Novanta, Anne Holt è una delle più famose autrici del giallo scandinavo. In Italia è conosciuta per due serie – la coppia Vik & Stubø e l’ispettrice Hanne Wilhelmsen – cui adesso si aggiunge quella di Selma Falck, alle prese con la sua prima indagine intitolata La pista, pubblicata sempre da Einaudi con la traduzione di Margherita Podestà Heir. L’uomo che ha scoperto vizi e ammanchi di Selma è un cliente-amico ed è il papà della sciatrice incastrata per doping, cioè una banale pomata per eczemi e herpes. Le chiede di salvare la figlia in cambio del silenzio. Nel frattempo un altro big della specialità, figlioccio della stessa Falck, viene ucciso. L’autopsia rivela la stessa sostanza proibita della pomata, il clostebol. Da buoni mediterranei si resta ammirati dall’abilità di Holt nella costruzione di una trama serrata attorno a una disciplina noiosa come lo sci di fondo. Guai a dirlo però, ché lì in Norvegia è lo sport nazionale, “l’essenza stessa dell’essere norvegesi”.

 

La pista

Anne Holt

Pagine: 530

Prezzo: 20

Editore: Einaudi

La giustizia ha perso la “Strada di casa”

Tutto comincia un sabato di inizio novembre, di pomeriggio. “Alla fine Jack Burdette tornò a Holt. Nessuno di noi se l’aspettava più. Erano otto anni che se n’era andato e per tutto quel tempo nessuno aveva saputo niente di lui”. In quegli otto anni, Holt aveva fatto fatica a riprendere la vita di sempre, tentando di dimenticare quanto quell’uomo troppo grande per quel piccolo mondo aveva compiuto. Ma alla fine il tempo e la routine avevano avuto il sopravvento. Fino alla Cadillac rossa che, pur rimanendo un’automobile “pacchiana”, scintillava sotto il sole, “come se avesse trascorso tutto il giorno a lucidarla prima di mostrarcela”. Parte da qui, da quel “colore di una ferita aperta”, il secondo romanzo di Kent Haruf, La strada di casa, pubblicato finalmente in Italia da NN (dal 18 giugno).

Holt è un luogo familiare, quella provincia del Colorado che potrebbe ritrovarsi in un qualsiasi entroterra del nostro Pianeta. La cittadina in cui tutti si conoscono, i rapporti umani sono veri quanto viziati dal perbenismo di facciata; il giardino curato in cui i panni sporchi si lavano in casa. E Jack Burdette è uno di quei panni. Oltre-misura fin da ragazzino, allergico alle regole e proprio per questo affascinante, croce e delizia della scuola e idolo della povera Wanda Jo Evans, che lo ama e gli fa il bucato: “una brava ragazza con poco senso dell’umorismo”, secondo la versione scanzonata dello stesso Burdette. La sua vicenda umana trova spazio nelle pagine del libro attraverso i ricordi dell’io narrante, Pat Arbuckle, direttore dell’Holt Mercury, che ha il compito di raccontarci perché Holt ha preso a odiare quel suo vecchio amico.

Dalla scuola all’università, sempre insieme, e se per uno (Pat) la vita scorre lineare e monocroma almeno fino alla perdita dell’unica figlia, per l’altro l’esistenza è un mozzico e chi se ne frega delle conseguenze sugli altri. E così al diavolo Wanda Jo Evans, meglio un matrimonio dall’oggi al domani con Jessie, conosciuta per caso, amata per poco. È proprio lei l’ago della bilancia nella tagliente penna di Haruf – frasi brevi, immagini nitide –, che la fa crescere pagina dopo pagina: da sciacquetta conosciuta a un convegno e catapultata nella cittadina a donna forte, volitiva, che agli ipocriti abitanti di Holt insegna cos’è davvero la dignità. La strada di casa scorre su una bascula, in cui man mano che di Jack si scoprono furti e malefatte ai danni della comunità, di Jessie si apprezzano l’onore e il disinganno. Come dietro un obiettivo, modificando la messa a fuoco, prendono corpo i protagonisti sullo sfondo. Il bullo affascinante diventa quasi un povero Cristo da compatire. La ragazzetta slavata diventa protagonista da amare (e Pat lo sa) e da rimpiangere.

Cosa ha compiuto realmente Jack? E cosa è tornato a fare a Holt? Non importa svelarlo qui. Quel che conta per Haruf è il senso della giustizia, inadeguata o sommaria, che decide la vita di ognuno. Ogni giorno. In ogni provincia del mondo. Ma, pur con questa consapevolezza, lo scrittore non ci costringe mai ad abbandonare la speranza. Al contrario: tutti noi, con Pat, speriamo che Jessie si sia salvata e sia, da qualche parte, ancora viva.

 

La strada di casa

Kent Haruf

Pagine: 208

Prezzo: 18

Editore NN

E pure Richard Gere entra nel mondo della serialità (con pentimento)

Da Al Pacino a Meryl Streep, da Anthony Hopkins a Helen Mirren, la lista delle star di Hollywood che hanno fatto il salto in tv è lunghissima. L’ultimo arrivato è Richard Gere: dopo un ruolo minore in Kojack, tre decenni fa, il sex symbol di American Gigolò e Pretty Woman torna in televisione a 70 anni con un ruolo da protagonista. La miniserie in otto episodi si chiama MotherFatherSon ed è stata creata da Tom Rob Smith (L’assassinio di Gianni Versace): andrà in onda su Sky Atlantic e Now Tv dall’8 giugno.

Al centro della vicenda ci sono un padre, l’americano Max Finch, proprietario di un impero editoriale, e suo figlio Caden, l’erede designato: la loro relazione sbilanciata è ispirata, pare, a quella fra Rupert e James Murdoch. La madre di Caden, ex moglie di Max, si chiama Kathryn ed è una ricca ereditiera britannica. Le interpretazioni di Gere nella parte di Max e di Helen McCrory (Peaky Blinders) nei panni di Kathryn sono il valore aggiunto di MotherFatherSon.

La trama. Max atterra a Londra alla vigilia delle elezioni: la sua scelta di supportare l’uno o l’altro candidato potrebbe spostare l’esito del voto. Ma il viaggio oltreoceano serve anche a risolvere qualche problemino. A Caden il papà ha dato in mano la gestione del National Reporter, la testata più importante del gruppo, ma il giovane Finch non è riuscito a trattenere la prima firma del quotidiano. Kathryn, invece, fa volontariato in una comunità e si è invaghita di un senzatetto. Sullo sfondo ci sono la sparizione di una ragazza e l’omicidio di un investigatore privato: i due eventi sembrano collegati e minacciano, insieme all’instabilità di Caden che soffre il confronto con il padre, di far crollare l’impero dei Finch.

Prodotta dalla Bbc, MotherFatherSon ha un problema con i dialoghi, spesso ridondanti: forse qualche episodio in meno le avrebbe fatto bene. Pure Gere sembra essere rimasto un po’ deluso dall’esperienza. “Le riprese sono durate sei mesi, è stato come girare quattro film indipendenti interpretando lo stesso personaggio. Non credo che lo farò di nuovo” ha dichiarato alla fine delle riprese.

 

Curon, il supenatural adesso parla italiano

Una giovane donna, madre di due gemelli adolescenti, torna dopo 17 anni nel paese in mezzo ai boschi dov’è cresciuta: un luogo che nasconde un segreto terribile, sconosciuto anche alla maggior parte dei suoi abitanti. Comincia così Curon, la prima serie italiana soprannaturale di Netflix, disponibile dal 10 giugno negli oltre 190 Paesi in cui è attiva la piattaforma.

Al centro ci sono i temi dell’identità e del doppio. “Siamo partiti dalla location perché c’era già dentro tutto: il tradimento originario, le anime italiana e tedesca, il paese vecchio e quello nuovo, le leggende legate al campanile” spiega Giovanni Galassi, che ha scritto Curon insieme a Ezio Abbate, Ivano Fachin e Tommaso Matano. La serie è ambientata e girata a Curon Venosta, in provincia di Bolzano: nel 1950 l’antico borgo fu distrutto, sommerso da un lago artificiale e ricostruito a poca distanza, ma il vecchio campanile rimase in piedi e ancora oggi troneggia in mezzo al lago di Resia (e sulla locandina della serie). “Ci siamo fatti guidare e suggestionare dai luoghi. Abbiamo riflettuto molto su come renderli visivamente: volevamo restituire una natura forte e drammatica, ma nello stesso tempo dolce e piena d’amore” dice Fabio Mollo, regista della serie con Lyda Patitucci. “Abbiamo cercato di essere specifici ma non campanilisti, globali ma non generici” aggiunge Matano.

Anna Raina (Valeria Bilello) è scappata da Curon da ragazza, dopo il suicidio della madre. Ci torna a distanza di tanti anni con i due figli gemelli, Daria e Mauro, ma deve subito fare i conti con il rifiuto del padre Thomas, un uomo cupo che vive in un hotel abbandonato, e con quello della comunità. La famiglia Raina è infatti malvista in paese, perché ritenuta responsabile dell’allagamento che ha cancellato per sempre l’antico abitato. Quando poi Anna scompare nel nulla, il principale indiziato è l’ex fidanzato Albert, che non è mai riuscito a dimenticarla: ma la faccenda si rivelerà molto più complicata di così.

In bilico fra thriller e storia di formazione, Curon entra in un terreno decisamente poco frequentato dal cinema e dalla serialità italiani: il supernatural. “Non avevamo mai scritto un horror: per noi ha rappresentato una grande sfida e un’occasione di crescita” dice l’head writer Ezio Abbate. Una sfida doppia, visto che nel cast compaiono molti attori giovani alle prime esperienze: come Giulio Brizzi nella parte di Giulio, Luca Castellano che interpreta Lukas e Margherita Morchio. “Alla mia età, aver partecipato a una serie che verrà trasmessa in più di 190 Paesi mi sembra un cosa folle” ammette la 19enne che in Curon è Daria.

Nel primo episodio si avverte una certa ansia da prestazione. Tra flashback inquietanti e misteriosi blackout, rave party, giochi alcolici e baci lesbo, gli autori paiono preoccupati più di stupire che di rendere il racconto credibile. È grazie a una frase, poi, se tutto comincia ad acquistare un senso: “Dentro di noi vivono due lupi. Uno è il lupo calmo, gentile. L’altro è il lupo oscuro, rabbioso, spietato” dice Klara, la professoressa di liceo dei gemelli. A Curon tutti possiedono una doppia anima: saranno Daria e Mauro a scoprire il mistero che si nasconde in questo paese sperduto fra i boschi.

Con il primo supernatural italiano, Netflix sembra voler replicare il successo mondiale di Dark, la serie tedesca che il 27 giugno tornerà con la terza e ultima stagione. Curon non riesce però a raggiungere lo stesso livello di profondità né di realismo, anche per via di alcune situazioni (il pranzo di famiglia a base di canederli in brodo) e di alcuni dialoghi (“Solitamente cervello e muscoli non vanno d’accordo”) che suonano troppo stereotipati. Gli accenti, poi, non aiutano: a parte i rari scambi in tedesco, gli attori parlano ognuno un italiano diverso. Da Gomorra a Skam Italia, le serie italiane più apprezzate degli ultimi anni hanno basato le loro fortune sulla credibilità, partendo proprio dalla lingua. Con Curon, forse, si è scelto di privilegiare il pubblico straniero.

 

Curon

Dal 10 giugno su Netflix

A Bologna si alza il sipario sul sedicesimo “Biografilm”

Coinciderà con la possibilità di riapertura delle sale cinematografiche, fissata al 15 giugno, la cerimonia di premiazione del 16° Biografilm Festival – International Celebration of Lives e per questo sarà celebrata in presenza fisica nello spazio Pop Up Cinema Medica Palace di Bologna. Un vero e proprio evento “sociale” e non solo culturale quello voluto come gala finale dalla rassegna emiliana dedicata al cinema biografico che – tuttavia – è ancora costretta a svolgersi in streaming avendo alzato ieri sera il sipario, e quindi ancora in piena chiusura dei cinema. Questo non ha comunque ridotto il tradizionalmente vasto programma della kermesse creata da Andrea Romeo ma da quest’anno diretta dalla finlandese Leena Pasanen: 41 i film selezionati da 25 Paesi, quattro le sezioni (Biografilm Art & Music, Contemporary Lives, Biografilm Italia e Concorso internazionale) a cui si aggiunge la neonata Meet the Masters e soprattutto il contenitore Directors Notes in cui i pubblico potrà incontrare online registi del calibro di Rithy Pahn (che accompagnerà la visione del suo ultimo lavoro, Irradiés) e Mika Kaurismaki (fratello minore del mitico Aki, che presenterà Master Cheng). Tra i titoli proposti quest’anno accanto a Faith di Valentina Pedicini – chiamata ad inaugurare le danze festivaliere – anche Tuttinsieme, il nuovo documentario di Marco Simon Puccioni, La nostra strada di Pierfrancesco Li Donni e Gli anni che cantano di Filippo Vendemmiati. I film (in lingua originale con sottotitoli), come gli incontri, sono visibili gratuitamente sulla piattaforma di MyMovies previa creazione di un account.

Gli spari sopra sono per loro: l’America brucia

Certo, da un regista che ha diretto Transporter 3, e che in ossequio alla bomba di Hiroshima – è nato vent’anni più tardi, il 6 agosto 1965 – mollò il cognome Fontana per il più sobrio Megaton, non è lecito aspettarsi troppo, fosse pure emulare il connazionale Luc Besson. E, per rimanere in tema, nemmeno si può chiedere a Anna Brewster di mettersi in scia a Milla Jovovich. Tantomeno a un fumetto senza eccessive pretese, creato nel 2009 da Rick Remender e Greg Tocchini, di partorire chissà che immagini e immaginario.

Eppure. L’eponimo The Last Days of American Crime arriva su Netflix nel momento migliore, ovvero peggiore per il Paese che ha dato i natali alla piattaforma streaming: i riots conseguenti all’assassinio dell’afroamericano George Floyd per mano di più poliziotti bianchi non si placano, l’America brucia. C’è chi criminale s’infiltra, chi criminoso ne approfitta: devastazioni, saccheggi, morti e feriti.

Il titolo c’azzecca assai, qualcuno alla Casa Bianca potrebbe sperarlo, e confidare nella soluzione finale prospettata da Remender e Tocchini e perfezionata dallo sceneggiatore Karl Gajdusek, già showrunner della prima di Stranger Things: un segnale propalato dal governo che condizioni le menti e inibisca qualsivoglia atto criminale. Manca poco, pochissimo perché le autorità lo effondano, ma forse c’è tempo per un ultimo colpo, un’improntitudine a scopo di lucro, il canto del cigno del libero arbitrio. Il duro è il rapinatore di banche Graham Bricke (Édgar Ramírez, il Carlos di Olivier Assayas), lo schizzato figlio di papà Kevin Cash (Michael Pitt, The Dreamers di Bernardo Bertolucci), e spetta a loro l’iperbole delinquenziale. Concertano un heist da mozzare insieme il fiato e le probabilità, e mentre gli States sparano – letteralmente – le ultime cartucce loro s’ingegnano per fare il botto: ce la faranno?

Il triangolo, cui Pitt è stato svezzato proprio da Bertolucci, lo garantisce Shelby Dupree (Brewster): lei merita, e ci resta pure la tenerezza, complici le notti en plein air e plaid con il rude epperò dolce Graham. Gemme, si fa per dire, in un mare di inverosimiglianza, cialtroneria e kitsch involontario, ma il timing, ovvero lo Zeitgeist, si fa perdonare quasi tutto: vetrine spaccate, tumulti, spari per strada sembrano strappati alla cronaca, la polizia – e i federali – canaglia, vigliacca e omicida lo certifica.

Di anti-eroi come Graham ne abbiamo visti a bizzeffe, ogni volta si alzino le temperature (hard-boiled) o si pecchi metropolitano (Sin City), di spurghi psicopatici quali Kevin idem (per esempio, il Joker di Jared Leto), ma il copia & incolla stavolta riguarda prioritariamente la realtà: per intenderci, il poliziotto incarnato da Sharlto Copley chi vi ricorda? Gli spari sopra sono per noi, anzi, per loro, gli umiliati e offesi quali Floyd e i suoi fratelli. Insomma, la pandemia prima e i riots dopo ascrivono al cinema la preveggenza. Fosse pure bello da vedere, chiediamo troppo?

Bonjour Sagan: trovato l’ultimo romanzo inedito

Ritratto dell’artista da vecchia: “Nella mia vita ci sono state moltissime virgolette, dei punti esclamativi (la passione), dei punti interrogativi (la depressione), dei punti di sospensione (la noncuranza)”. Anche in virtù, forse, di questa noncuranza, I quattro angoli del cuore di Françoise Sagan (all’anagrafe Quoirez, 1935-2004) è rimasto negli scatoloni per molti anni, finché il figlio, Denis Westhoff, non l’ha riesumato nel 2007, sistemato ed editato e pubblicato in Francia nel 2019 (Éditions Plon).

Venerdì, con i tipi di Solferino, questo romanzo inedito e incompiuto uscirà anche in Italia; la traduzione è di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio, mentre la prefazione del succitato Denis: “Ho un ricordo piuttosto vago di come il dattiloscritto sia arrivato nelle mie mani… Il romanzo, tutt’altro che voluminoso, era tenuto insieme solo da una rilegatura di plastica ed era in due volumi”. Da quelle bozze era stato ricavato anche un primo adattamento cinematografico, ma poi tutto era rimasto nel cassetto fino alla pubblicazione curata dal figlio e dall’editore francese. Ora, la mano esterna si sente un poco, soprattutto in certe lungaggini descrittive che annacquano la sferzante e biforcuta penna della Sagan, ma l’opera è di per sé un tesoretto amabile, anche solo per la curiosità e l’affetto che si concedono a un vecchio cimelio di famiglia ritrovato.

Sono passati 66 anni dal debutto folgorante della diciannovenne Françoise nel mondo delle Belle lettere: da quel Bonjour tristesse (1954) l’autrice non s’è mai emancipata, trascorrendo tutta la vita – di carne e su carta – tra Lividi sull’anima (1972) e Il letto disfatto (1977), “temporali immobili” e “guinzagli” vari.

Il disimpegno pensoso di quella donna che si lavava via la depressione con “un buono shampoo” sostanzia anche i Quattro angoli del cuore, un fogliettone amoroso-velenoso: cosa aspettarsi, del resto, da una artista che si è scelta come pseudonimo un personaggio proustiano?

Siamo nella tenuta di “Cressonnade”, nella Turenna: magione del patriarca Henri Cresson, che ha fatto fortuna con il commercio “del crescione, dei ceci e di altri ortaggi”. Un demi-monde paesano e benestante, “dal cattivo gusto costosissimo”, popolato da uomini e donne il cui unico interesse è coltivare se stessi: al giardino ci penserà Voltaire.

Questa è la storia insomma di parvenu, di provinciali arricchiti, che si trastullano tra corna, segreti e bugie. La solita Françoise, ma il triangolo no; quattro più uno più uno sono infatti i protagonisti: il signor Henri e la sua seconda moglie Sandra (la prima è morta di parto) col fratello Philippe; l’erede Ludovic Cresson e la moglie Marie-Laure insieme con la di lei madre Fanny. Tutte, o quasi, “persone che non alzano lo sguardo né su un volto né su un paesaggio: hanno senz’altro qualcosa che non va”.

Gli intrecci tra le due coppie e i due parenti sono dei più inaspettati, fin ridicoli se a raccontarli non fosse la luciferina e lieve Sagan, capace di immaginarsi amplessi tra vecchie e giovani quando ancora non si sapeva come chiamare le milf e i toy boy. E le prostitute erano signore distinte e sagaci di quasi settant’anni, avvezze alle confidenze e all’educazione sentimentale dei propri amanti.

In questo tourbillon di “amori clandestini come gli adolescenti che fumano di nascosto”, la seduzione e la femminilità sono protagoniste: uomini imberbi pazzamente innamorati di donne attempate, come solo le francesi sanno riuscirci; romanzi rosa come bonbon al cianuro, come solo le francesi sanno scriverli.

Lo chef di Putin e lo spot omofobo

“Dove sta mia madre?”. Lo chiede sulle scale dell’orfanotrofio un bambino pallido che stringe la mano del padre adottivo appena conosciuto, che gli risponde: “Eccola”. Quando il bambino alza lo sguardo rimane sgomento: ad accoglierlo non c’è una donna, ma un uomo truccato che agita un vestitino femminile che vuole fargli indossare. La voce fuori campo chiede: “È davvero questo ciò che volete? Decidete per il futuro del Paese, emendate la Costituzione”. Il filmato, commissionato dalle autorità russe è al centro di critiche feroci dell’opposizione. In seguito alle rumorose proteste degli attivisti per i diritti gay e Lgbt, la piattaforma Youtube ha deciso di rimuovere il filmato “per istigazione all’odio di genere”. Ma lo spot è “perfettamente in regola con la legge che vieta “la propaganda gay”, non è un’offesa agli omosessuali, ma un inno alla sacralità della famiglia” ha detto Nikolay Stolyarchuk, a capo di Patriot, l’agenzia che l’ha girato, un media di proprietà di Evgeny Prigozin, lo “chef di Putin”, già proprietario dell’Ira, Internet Research Agency, la fabbrica dei troll di San Pietroburgo, accusata di ingerenza nelle elezioni americane nel 2016.

Il filmato è stato prodotto per spingere i cittadini della Federazione a votare a favore delle modifiche alla Costituzione russa, in vigore dal 1993. Tra i cambiamenti alla legge suggeriti dal governo c’è quello che riguarda l’articolo 72 che “tutela la famiglia, la maternità e paternità dell’infanzia”, una norma che, se emendata, vieterà in futuro i matrimoni tra persone dello stesso sesso e le adozioni di orfani da parte di coppie gay. Il voto nell’era della pandemia sarà elettronico solo a Mosca e Nizhny Novgorod. Il referendum, in precedenza programmato per il 22 aprile scorso, è stato rimandato ufficialmente al primo luglio prossimo. Alle urne i cittadini si esprimeranno sul limite complessivo di due mandati consecutivi per ogni presidente, un emendamento che consentirebbe a Putin di rimanere al potere fino al 2036 e azzererebbe i suoi anni precedenti al vertice del Cremlino, perché i mandati verrebbero calcolati solo dalla data di approvazione del nuovo testo di legge. Non solo l’opposizione: il Partito comunista, Russia Giusta, dei silenziosi e anonimi dissidenti di Russia Unita, il partito di Putin, stanno però remando contro la volontà della Duma. Appelli e petizioni contro cambiamenti che rappresentano “una minaccia per l’esistenza dello Stato russo” sono stati condivisi e firmati da quasi trecento politici delle 85 regioni russe. L’operazione di propaganda per il referendum è comunque cominciata.

Parigi e Caracas litigano, è tutta colpa di Guaidó

“Juan Guaidó è rifugiato nell’ambasciata di Francia in Venezuela”. Ma non è vero. O forse si? Conferme e smentite, poi avallate definitivamente dall’entourage del leader dell’opposizione in Venezuela, sono rimbalzate ieri tra Caracas e Parigi. Prima le accuse di Jorge Arreaza, ministro venezuelano degli Esteri, in un’intervista a Union Radio. Alla giornalista che gli chiede di Guaidó e di un’altra figura di spicco dell’opposizione al regime di Maduro, Leopoldo Lopez, che sarebbe ospitato nell’ambasciata di Spagna a Caracas, Arreaza risponde: “Non possiamo entrare nelle ambasciate degli altri paesi, in questo caso di Francia e Spagna, per far sì che la giustizia li porti via con la forza. Non è possibile. Che vergogna – ha aggiunto – per le diplomazie di questi paesi”. A Parigi la prima smentita arriva al sito del magazine L’Obs dal responsabile della comunicazione di Guaidó, che dice: “Guaidó è a casa sua, a Caracas”. Poco dopo c’è la conferma del ministero francese degli Esteri: “Monsieur Guaidó non si trova in nessuna delle residenze dello stato francese a Caracas”.

Lo stesso Guaido conferma sul suo profilo Twitter: “Sono come sempre con la gente”. Anche Maduro alcuni giorni fa aveva suggerito che Guaidó si fosse “nascosto in un’ambasciata”. Perché il leader dell’opposizione avrebbe dovuto cercare protezione? Nessun mandato di arresto noto pesa contro di lui. Maduro lo chiama “il fuggitivo”. Lo accusa regolarmente di complottare contro di lui e gli promette il carcere. L’ultimo motivo potrebbe riguardare il tentativo naufragato del 3 maggio di “invadere” via mare il Venezuela. Il 5, il procuratore generale del Venezuela, Tarek Saab, lo ha accusato di aver “reclutato mercenari” per fomentare l’operazione (poi rivendicata da un gruppo ribelle che avrebbe agito in modo autonomo) con la complicità degli Stati Uniti. Tra le 45 persone arrestate, due sono cittadini statunitensi. Washington ha smentito. A marzo Saab aveva già convocato Guaidó per “tentato colpo di stato”. Perché Parigi? La Francia è tra i cinquanta paesi che riconoscono in Guaidó il vero presidente del Venezuela dopo i presunti brogli allo scrutinio del 2018 che si è concluso con la rielezione contestata di Nicolás Maduro. Da mesi Parigi e Caracas sfiorano la crisi diplomatica. Primo incidente a gennaio. Guaidó era uscito clandestinamente dal Venezuela per un viaggio a tappe, tra cui l’Europa. Il 14, Macron annuncia di averlo accolto all’Eliseo e pubblica una foto in cui gli stringe la mano scrivendo: “La Francia sostiene l’organizzazione rapida di elezioni presidenziali libere e trasparenti”. Era seguito un twitt, in francese, del ministro Arreaza: “Un governo sordo e arrogante non può dare lezioni di democrazia a nessuno, di sicuro non al Venezuela”. Arreaza faceva riferimento ai lunghi mesi di caos per le proteste contro la riforma delle pensioni e dei Gilet gialli prima. Secondo incidente a febbraio. L’11, rientrando in Venezuela dal “tour” europeo, Guaidó viene accolto in aeroporto da diversi diplomatici, tra cui l’ambasciatore di Francia Romain Nadal. In un twitt, Arreaza accusa Parigi di “ingerenza politica” e la invita “a rinfrescarsi la memoria sul contenuto dell’articolo 41 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche”, che vieta appunto agli Stati di intromettersi negli affari interni altrui. La risposta di Parigi è secca: “Lo scopo della sua presenza era di promuovere la soluzione politica sostenuta dalla Francia in Venezuela”. Arriviamo a maggio. Il 2, in piena crisi sanitaria, due pattuglie di agenti del Sebin, i servizi segreti venezuelani, cominciano a sorvegliare la strada dove vive l’ambasciatore, a Caracas. Il 3 alla residenza vengono tagliate la luce e il gas. La situazione è “allarmante”, scrive l’agenzia France Presse. Il 14, Parigi convoca l’ambasciatore del Venezuela: “La Francia condanna queste misure che attaccano il normale funzionamento della nostra rappresentanza diplomatica”.

Altra violenza, a Buffalo due agenti feriscono un anziano

Proprio nel giorno in cui il presidente Trump, nel tentativo di recuperare terreno alle sue dichiarazioni disastrose dei giorni scorsi, dichiara che “ogni americano deve ricevere un uguale trattamento da parte della polizia”, è arrivata l’ennesima denuncia per la reazione violenta da parte di due agenti, a Buffalo: la vittima stavolta è un anziano di 75 anni, ricoverato in ospedale. La coppia di poliziotti è stata sospesa senza stipendio; a inchiodarla, un video che mostra come abbia spinto a terra la vittima nel corso delle proteste per la morte di George Floyd. Byron Brown, sindaco di Buffalo, si è detto “profondamente turbato” dal video. Il governatore di New York, Andrew Cuomo, ha confermato di aver parlato con il sindaco ed è d’accordo sul fatto che gli agenti coinvolti debbano essere sospesi in attesa di un’indagine formale. “I poliziotti devono far rispettare la legge, non abusarne”.

Il filmato, ripreso dalla giornalista della radio locale WBFO e poi rilanciato su Twitter, è diventato virale sui social, scatenando polemiche e critiche. Nelle immagini si vede un uomo con i capelli bianchi che si avvicina a un gruppo di agenti in tenuta antisommossa: un poliziotto lo spinge con un bastone e un altro con la mano e l’uomo cade all’indietro sbattendo la testa sul marciapiede. Intanto aumenta l’insofferenza per la politica muscolare del presidente Trump e la polemica politica si svolge proprio a Washington; la sindaca Muriel Bowser ha inviato una lettera a Trump chiedendo il ritiro delle forze militari inviate in città; Bowser conferma di aver revocato lo stato di emergenza, dato che le proteste sono pacifiche e afferma che la presenza di queste forze armate pone “rischi di sicurezza” e contribuisce ad alzare la tensione. La stessa Bowser poi ha annunciato che ha deciso di dedicare alle rivendicazioni degli afroamericani la sezione della 16esima Strada NW di fronte alla Casa Bianca: per il sindaco di Washington quel tratto prenderà il nome di “Black Lives Matter Plaza.” A New York “tutti i poliziotti che saranno scoperti a maltrattare i manifestanti verranno sospesi”, dichiara il sindaco Bill de Blasio. Ieri Minneapolis, la città dove l’agente ha ucciso Floyd, ha abolito la stretta al collo. Inoltre ai poliziotti è richiesto di intervenire quando si vede un uso della forza non autorizzato o eccessivo da parte di altri colleghi.