Non solo Floyd: la rabbia nera di chi non ha futuro

A maggio, la marea della disoccupazione da epidemia di coronavirus, salita ad aprile al 14,7%, ha già cominciato a defluire negli Stati Uniti ed è scesa al 13,7%, con un recupero di 2,5 milioni dei posti di lavoro perduti, oltre trenta milioni. Il dato resta il peggiore di ogni altra recessione del secondo dopoguerra, ma l’inversione di tendenza è un segnale che la riapertura delle attività sta dando i suoi frutti, specie nei settori del commercio al dettaglio e della ristorazione. Per molti, soprattutto bianchi e ispanici, ma non per gli afroamericani.

Il miglioramento della situazione, così repentino che ha colto di sorpresa gli analisti, non tocca, infatti, i neri. Fra di loro, che rappresentano circa il 13% della popolazione, oltre 40 milioni d’individui, il tasso di disoccupazione a maggio è ancora salito, al 16,8% – 16% per gli uomini, 17,5% per le donne. Anche gli asiatici non traggono ancora profitto dalla ripresa: i loro senza lavoro sono, però, ‘solo’ il 15%.

Invece, i bianchi adulti disoccupati sono scesi dal 14,2 al 12,4% gli uomini, 13,6% le donne. E gli ispanici, che erano arrivati al 18,9% di senza lavoro, sono scesi al 17,6%: in assoluto, i ‘latinos’ stanno ancora peggio degli afro-americani, ma i loro settori d’attività, l’edilizia, il turismo e il tempo libero, sono in forte ripresa, dopo essere rimasti totalmente bloccati. Il fatto che a maggio i neri abbiano continuato a restare senza lavoro e a perderlo, mentre bianchi e ispanici ritrovavano i posti perduti e tornavano a guadagnare, è una componente da non sottovalutare della frustrazione degli afroamericani che, innescata dalla violenza gratuita e letale della polizia nei confronti di George Floyd, ucciso il 25 maggio, a Minneapolis, è esplosa incontenibile nelle proteste massicce e a tratti violente degli ultimi dieci giorni. Per i neri, la pandemia ha segnato un momento terribile: hanno subito, e tuttora subiscono, l’impatto più drammatico del coronavirus, perché hanno condizioni di vita e di salute mediamente peggiori dei bianchi e non possono permettersi assicurazioni sanitarie adeguate, di qui il fatto che il tasso dei contagi e dei decessi è più alto fra di loro. Vale per tutti i gruppi socialmente sfavoriti: i Navajo, la cui Nazione vive a cavallo tra Arizona, Utah e New Mexico, ha avuto il tasso di contagi e morti più alto di tutta l’Unione. Tra marzo e aprile, gli Stati Uniti, che hanno visto ‘evaporare’ oltre trenta milioni di posti di lavoro in poche settimane, in un Paese dove gli ammortizzatori sociali non hanno una dimensione europea, hanno assistito al formarsi di vaste sacche di nuovi poveri; e gli afroamericani indigenti hanno pure dovuto subire l’inattesa concorrenza di bianchi mai visti in fila alle mense e ai ‘banchi alimentari’.

A New York e altrove, s’è fermato il mercato immobiliare delle case di lusso – e fin qui poco male – e sono partiti gli scioperi degli affitti di locatari impossibilitati a pagare: si stima che due su cinque non abbiano saldato, ma pochi sono stati cacciati: tanto, chi fosse venuto dopo non avrebbe potuto pagare lo stesso. Nei locali e nei ristoranti sprangati, i dollari ricordo appesi alle pareti, spesso autografati da clienti più e meno famosi, sono stati staccati e distribuiti al personale lasciato a casa; e banche alimentari e mense dei poveri hanno visto affluire una ‘clientela’ più numerosa che mai e composta fino al 70% da persone che non s’erano mai messe in coda prima, chef, camerieri, baristi, trainer, estetiste, commessi, perfino dipendenti di studi di professionisti, tutte categorie paralizzate dai lockdown. Numerose, in particolare, le mamme sole, di ogni etnia: senza lavoro, non riuscivano a mantenere la famiglia; ora, se tornano al lavoro, non sanno a chi affidare i figli, con scuole e centri estivi chiusi. Il New York Times ha tracciato una mappa dei nuovi poveri negli Stati Uniti, che sono andati a fare concorrenza, nella ripartizione degli aiuti, ai poveri tradizionali, soprattutto neri e ispanici: persone che si sono trovate di colpo in una situazione drammatica, dopo avere lavorato per tutta la vita. Come racconta il giornale, nelle parole di Samantha Pasaye, di Los Angeles, molti hanno avuto bisogno “di mettere da parte il proprio orgoglio” e di chiedere aiuto.

E quando la cronaca, la polizia, il razzismo hanno fornito un motivo per sfogare risentimento e frustrazione, la rabbia è esplosa.

In Spagna i giudici condannano l’Aragona per le mascherine. E cade la prima testa

Mentre il premier spagnolo Pedro Sánchez sta ancora lottando per gestire la pandemia, è stata emessa la prima condanna nei confronti della Pubblica amministrazione per le direttive impartite nel contenimento del Covid-19. La Corte sociale del Tribunale di Teruel ha accolto la richiesta del pm basata sulla denuncia dei sindacati dei medici contro il governo autonomo di Aragona per violazione dei diritti degli operatori sanitari non avendo fornito loro materiale di protezione sufficiente e adeguato. Il processo ha avuto questo esito perchè il giudice si è persuaso che i massicci contagi verificatisi in Spagna fossero “prevedibili”, come sostenuto dalla Procura. Secondo il magistrato inquirente, quanto accaduto non solo era “prevedibile” ed “evitabile” a rigor di logica ma era stato predetto dall’Oms che già il 30 gennaio scorso aveva raccomandato una sorveglianza attiva all’interno del settore sanitario. Il verdetto dichiara che “i diritti dei lavoratori nella prevenzione dei rischi professionali sono stati violati, mettendo a repentaglio le loro vite e quelle della cittadinanza”. Inoltre viene ordinato che vengano fornite a tutti gli operatori dei centri sanitari regionali, non appena disponibili, le attrezzature appropriate. “La necessità di fornire dispositivi di protezione individuale a coloro che lavorano nelle strutture sanitarie era prevedibile, poiché era anche prevedibile che la pandemia avrebbe raggiunto il nostro paese in misura maggiore o minore, prima o poi”, ha affermato il giudice Elena Sindaco.

L’imprevedibilità asserita dal governo del socialista Javier Lambán “è smentita dai numerosi avvertimenti e raccomandazioni dell’Oms e delle agenzie sanitarie europee dal gennaio 2020, aumentati poi a febbraio, nonché dalle relazioni del governo centrale dal 23 gennaio”. Ieri intanto è caduta la prima testa: si è dimessa la consigliera per la Sanitá aragonese, Pilar Ventura che aveva avuto la sfrontatezza di asserire che “per i sanitari costruirsi da soli le mascherine e protezioni è uno stimolo”.

La sentenza – e questa è la sua caratteristica più pesante – condanna le autorità della comunità autonoma, essendo questa a detenere i poteri in materia di Salute. Ma al di là della sentenza, le affermazioni sulla prevedibilità dell’epidemia possono essere estese al ministero della Salute, a Madrid insomma. In numerose occasioni il giudice cita le riunioni di coordinamento dello stesso ministro Salvador Illa con le zone autonome. Inoltre, il ministero riferisce che a gennaio e febbraio erano già stati raccolti dati sufficienti per prevedere la necessità di materiale.

Mail Box

 

Meloni e soci hanno “sfruttato” il 2 Giugno

Caro Travaglio, non credo alla ingenuità della Meloni: come rappresentante di lungo corso delle istituzioni e come capo politico non può ignorare che alcune cerimonie come l’onorare il monumento al Milite ignoto spettano al presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità della nazione. Non paga di manifestare contro il governo presieduto da Conte insieme alla triade del centrodestra il 2 Giugno – già questo disdicevole –, ha pure la sfacciataggine di avanzare la richiesta di una seconda cerimonia. È innegabile che scendere in piazza nel giorno della festa della Repubblica e della ritrovata unità nazionale, costata dolore indicibile e fiumi di sangue, è a dir poco strumentale per la Meloni e soci, solo per incassare migliaia di like. Condivido pure le virgole dell’emozionante e lucido articolo di Furio Colombo.

Franca Giordano

 

Pur da sardo, condivido le critiche di Fini

Egregio Direttore, le darei 30 e anche la lode per tre motivi: 1) perché ha pubblicato la lettera di Massimo Fini; 2) perché la ha pubblicata per intero; 3) perché, dopo aver visitato posti meravigliosi, viene a perdersi in Sardegna per le sue ferie. Come avrà capito sono sardo, e dopo aver girovagato per i cinque continenti per lavoro e anche per piacere, sono tornato, dopo decine d’anni a riprendermi la mia isola, e ci vivo. Io sostengo per intero le opinioni del Dott. Fini e mi congratulo con lui per l’acuta analisi della sua “notice” turistica… Comunque, poiché la Corsica è molto vicina, se il Dott. Fini cambiasse idea, sarei lieto di invitarlo a pranzo e offrirgli un buon bicchiere di vino… Ecco la lode, Direttore, deve essere veramente coraggioso per pubblicare un articolo del genere e poi venire a passare le ferie da noi.

Cristoforo Corda

 

Conte: un bravo leader. E non “per caso”

Caro Travaglio, ho seguito il suo intervento ad Accordi e Disaccordi la settimana scorsa: mille plausi per la Raggi. Le hanno fatto di tutto, ma lei è ancora lì a difendere la legalità, e scusi se è poco, di questi tempi. Si intravede poi una luce che si farà più forte: il nostro presidente del Consiglio, sì, quel professorino senza partito, il cosiddetto “premier per caso”… L’opposizione, i cui latrati si fanno più lontani, lo chiama con disprezzo “Giuseppi”: non sanno, poveracci, che sta diventando un diminutivo affettuoso di vicinanza e fiducia.

Paola Zucca

 

Magistrati, non sempre sono d’accordo con voi

Gentilissimo Travaglio, sono abbonato al Fatto da molti anni e condivido molte delle vostre “campagne concettuali”. Desidero però manifestare una certa contrarietà sulle posizioni espresse sui temi giudiziari. Pur condividendo quanto ribadito sull’opportunità di restituire indipendenza e autonomia a tutti i magistrati inquirenti, riterrei, da cittadino, opportuna una serie di misure: 1. Il coordinamento della magistratura venga affidato, sotto la guida del presidente della Repubblica, a un organo terzo costituito da soggetti competenti (docenti universitari, magistrati in quiescenza…) estratti a sorte. 2. Separazione delle carriere. 3. Responsabilità diretta sull’errore giudiziario… Il lavoro dei magistrati è complesso, lo è nondimeno quello di altri professionisti che però rispondono alla comunità di ogni loro atto. Tutto ciò nel pieno rispetto della funzione giudiziaria e di chi nella stramaggioranza dei casi la garantisce con responsabilità e dedizione che non deve essere così fortemente screditata da eventi scandalosi come quelli di questi giorni.

Leonardo Sechi

 

Proposta: regaliamo il “Fatto” agli amici

Credo che la gran parte dei cittadini italiani apprezzi molto “il libero pensiero” e rifugga “dall’untuosità delle pagine dell’inchiostro riverente e ipocrita” (debbo le espressioni a un lettore del Fatto), ma la storia, come sappiamo, la scrivono i “vincitori”: grandi lobby proprietarie della comunicazione che gestiscono gran parte dell’informazione a proprio uso e consumo e dei politici di riferimento. E molti abboccano. La proposta ai lettori: perché non regaliamo a un amico o a un parente un abbonamento al Fatto? Un regalo che servirà anche per riequilibrare, in minima parte, la micidiale potenza di fuoco mediatico dei grossi gruppi finanziari.

Giancarlo Faraglia

 

Dal Vaticano belle parole, ma pochi aiuti

Papale papale: sono sicuro che Francesco sia un gran Pontefice e ne ammiro la modestia, l’umiltà e l’umanizzazione ancor più dell’umanità. Vorrei però chiedergli cos’ha voluto significare, parlando del virus, con la frase: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. Voleva dire che non siamo capaci di intendere il disegno divino? Inoltre, quell’altra frase – “curare le persone è più importante di curare l’economia” – è un’accusa al giro immondo di interessi in ogni settore, calcio in primis?… La mia domanda a Sua Santità è: ma il Vaticano, ovvero il più ricco Stato del mondo, cosa fa, al di là delle parole, per soccorrere in concreto i colpiti dalla pandemia? Alcuni miei amici sostengono che il Papa destina migliaia di aiuti e sostegni senza “sbandierarlo”. Ma, se è così, non sarebbe giusto per la Chiesa rivelare la grandezza delle proprie azioni di assistenza e misericordia?

Gianni Basi

Venezia. Per farla rivivere non serve un corso di laurea in “Hospitality”

 

Un commento sull’articolo di domenica su Venezia: i veneziani non sono né piccoli né sparuti e senza l’orda dei turisti abbiamo splendidamente tirato il fiato, anche in tempo di Covid. Non esiste solo il corso di laurea Hospitality, che ancora (e ancora) ci vuole insegnare il turismo sostenibile (vai a capire cosa significhi), ma anche il corso di laurea di Ca’ Foscari Environmental Humanities, che approfondisce il rapporto uomo e ambiente e la costruzione di città (e non turismo) sostenibili. Perché a Venezia i nostri figli, sempre troppo pochi, che non vogliono fare i baristi, i camerieri, i gondolieri, i tassisti o le guide turistiche, né riattualizzare i vecchi mestieri polverosi o desiderare di aprire la bottega aggiusta cose rotte o di vendita maschere di carnevale, l’unica alternativa che hanno è andarsene via, depauperando sempre più il tessuto rigenerativo di questa città. Giovani che hanno studiato, che si sono laureati e che non hanno alcun orizzonte se non quello di spennare in modo più o meno etico un turista. Venezia senza i turisti starebbe benissimo se diventasse una città del futuro, integrata nel suo delicato territorio, con abitanti e case per loro al posto di turisti e b&b, ripensata e riprogettata in una rete di attività smart e intangibili da fare invidia a Steve Jobs e Palo Alto. E per questo non ci vogliono i porti, i commerci, i conta-turisti, le grandi navi ma solo grandi pensieri, quelli che nascono nei cervelli, che purtroppo se ne vanno.

Daniela Costantini

 

Gentilissima, Venezia è già una città del futuro, un ordine delle forme (Simmel), un confronto quotidiano tra uomo e natura: tutto sta a tradurre questo in pratica. Il turismo non può né deve scomparire, ma essere arginato: anch’io penso che non serva un corso di laurea in Hospitality (non l’ho votato), ma la ricerca da promuovere in altre direzioni, immateriali e non solo, ha bisogno di spazi adeguati per aule, laboratori, studenti. E poi per rigenerare un tessuto produttivo ci vuole anche una politica di lungo periodo che parta dai vincoli alla destinazione d’uso degli immobili (sciaguratamente tolti sub divo Maximo quando i soloni di oggi cianciavano di “privati illuminati” e aprivano la strada ai b&b e ai Benetton), tuteli i locali attraendo futuri residenti, e valorizzi le esperienze “grassroots” di associazioni e cittadini che non si rassegnano.

Filippomaria Pontani

Cent’anni di Fellini e Sordi: chi li ha visti?

Come una stella cadente è passato su Rai Movie I vitelloni, il capolavoro in cui Fellini e Alberto Sordi entrano insieme nella storia del cinema. Di entrambi ricorrerebbe il centenario; ma quei centenari, chi li ha visti? Su Sordi, Rai1 se l’è cavata con un inguardabile biopic (inguardabile, ma esemplare: la fiction tv ha ucciso la commedia all’italiana, e ne ha preso il posto). Tra una replica e l’altra di Paulo Roberto Cotechinho, passa qualche titolo dell’ultimo Albertone, quello invaghito di Valeria Marini. Come omaggiare Totti con la replica della Partita del Cuore.

A Fellini va un po’ meglio. Rai Movie gli dedica un ciclo il mercoledì sera, e rivedere I vitelloni, La dolce vita, Otto e 1/2 è un’esperienza quasi medianica. È esistito un cinema pensato per il buio e per il grande schermo, proiezione del proiettore e dell’inconscio. Un cinema capace di raccontare il suo tempo e il suo paese, di rivelare un popolo a se stesso. Un cinema di regia fatto di visioni privatissime e immaginario collettivo. Sembra passato un secolo, e in effetti è passato. Oggi le regie sono diventate cabine, a Palazzo Chigi come a Hollywood, e certi capolavori passano davanti ai nostri occhi come stelle cadenti, luci trascorse, vive solo nella nostalgia, come il secolo che li generò.

Le guerre fredde dei nuovi Trump

Neanche troppo intimidito dalle recenti performance fallimentari del presidente degli Stati Uniti alle prese con la pandemia Covid e con la protesta per l’omicidio di George Floyd, anche in Italia agisce un magmatico blocco d’interessi filo-Trump.

A lui si ispirano, naturalmente, i sovranisti nostrani, sostenitori dello Stato-nazione guidato dall’“uomo forte” capace di far strame della cultura liberale. Ma non solo. La prospettiva di un nuovo atlantismo, vassallo dell’unilateralismo americano, solletica per convenienze economiche e strategiche anche simpatizzanti dal profilo meno sgangherato, bene inseriti nell’establishment.

Scommettere sulla rielezione di Trump, il novembre prossimo, o quanto meno mantenersi in cauta attesa, potrebbe risultare loro conveniente.

E pazienza se ciò assesterebbe un ulteriore colpo alla tenuta delle democrazie europee già divenute più fragili.

Fra i numerosi leader che, facendo leva sull’ideologia populista, hanno impresso ai loro regimi un’impronta personalistica, ai limiti dell’autoritarismo (metteteci i Putin, gli Erdogan, i Bolsonaro, i Modi, per non parlare del presidente a vita cinese Xi Jinping), risalta un terzetto che si contraddistingue per speciale affinità culturale e per organica coincidenza di interessi: Donald Trump, Benjamin Netanyahu e Victor Orbán. Non a caso si tratta delle icone carismatiche cui Matteo Salvini e Giorgia Meloni tributano un omaggio di deferente ammirazione. Sono il loro “vorrei ma non posso”.

Poco importa il ruolo diverso occupato negli equilibri mondiali da questi tre personaggi: Trump è a capo della più grande potenza planetaria; Netanyahu è il premier più longevo d’Israele, ferreo garante degli interessi occidentali in Medio Oriente; Orbán, seppur alla guida di una piccola nazione, l’Ungheria, figura da battistrada della destabilizzazione dell’Unione europea. Pur nella sproporzione, che sia per ragioni simboliche, o per la funzione concreta cui ciascuno di essi si presta, i tre si piacciono, comunicano una speciale sintonia, confidano l’uno nell’altro, e soprattutto dichiarano di avere gli stessi nemici.

I nemici comuni su cui Trump, Netanyahu e Orbán concentrano la loro propaganda sono almeno quattro. Se proviamo a metterli in fila, ci risulteranno familiari: l’islam, la magistratura del loro paese, l’Unione Europea, George Soros.

Islam. Il travel ban con cui ha bloccato l’immigrazione negli Usa da otto paesi islamici è stato il primo clamoroso provvedimento dell’Amministrazione Trump. Seguito dal riconoscimento di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico e dal via libera all’annessione di parte dei territori palestinesi occupati. La comunanza d’interessi in materia è evidente, così come la condivisione della leggenda nera propagata da Orbán: l’Europa sarebbe esposta al pericolo di invasione islamica e le barriere anti-immigrati servirebbero a scongiurarla.

Giudici. Gli attacchi all’autonomia della magistratura, colpevole di indagare sull’operato dei politici eletti dal popolo sono un altro tratto comune fin troppo evidente. Insieme alle modifiche costituzionali miranti all’etnocentrismo.

Ue. Per ragioni diverse, è un altro bersaglio condiviso. Trump si augura che alla Brexit seguano altre secessioni. Netanyahu spregia Bruxelles in quanto succube degli arabi. Orbán ignora le direttive comunitarie ergendosi a vittima della Commissione e fomentando il nazionalismo magiaro.

Soros. È la bestia nera di tutti e tre. Trump lo accusa di finanziare campagne d’opinione mirate al suo impeachment. Netanyahu blocca i finanziamenti di Open Society alle Ong che operano nei territori palestinesi, addita Soros come ebreo nemico d’Israele e finge di non riconoscere l’impronta antisemita della ossessiva demonizzazione di Soros orchestrata da Orbán nel suo paese natale. Tutti e tre, colpendo il finanziere cui la destra suprematista cuce addosso la caricatura di burattinaio dei flussi migratori, amano presentarsi come paladini tradizionalisti della lotta contro i disvalori del progressismo “liberal”.

Più complessa è la relazione intrattenuta con un altro, decisivo, nemico: la superpotenza cinese. Israele e Ungheria non disdegnano gli investimenti di Pechino, ma Trump sta mettendo in atto forti pressioni per dissuaderli e averli al fianco anche nella nuova guerra fredda.

È facile constatare quanto simili argomenti possano suonare attraenti alle orecchie dei sovranisti di casa nostra. Poco prima che scoppiasse la pandemia Covid, alla National Conservatism Conference tenutasi all’Hotel Plaza di Roma, Giorgia Meloni rese omaggio all’ideologo sovranista israeliano Yoram Hazony promettendogli di diffondere in Italia le sue tesi. Per capirci: “Mai cedere il più infinitesimale frammento della nostra libertà a qualsivoglia organismo straniero, o a sistemi normativi estranei non determinati dalla nostra nazione di appartenenza”. Seguiva un elenco delle istituzioni del famigerato “ordinamento imperiale” cui bisognerebbe sottrarsi: fra le altre l’Ue, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’Organizzazione mondiale del commercio e la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Mancava l’Organizzazione mondiale della sanità, ma ha provveduto Trump a boicottarla.

Ora che l’Italia attende con ansia i finanziamenti dell’Ue e della Bce per curare le gravi ferite della sua economia, sarei curioso di vedere se Meloni manterrà la promessa fatta a Hazony. Ma, tant’è, i suoi numi tutelari restano Trump, Netanyahu e Orbán, conditi con le spezie della “democrazia illiberale”.

Resta da chiedersi se i trumpiani d’Italia siano confinati in un’opposizione incoerente rispetto agli stessi principi che proclama, o se invece la rielezione di Trump alla Casa Bianca potrebbe assecondare interessi meno dichiarati ma più concreti.

Dietro a chi cavalca, anche sui nostri giornali, la nuova guerra fredda americana contro la Cina, puntando a un allineamento disciplinato dell’Ue ma mettendo nel conto anche la sua disgregazione, non è difficile riconoscere gli spazi di mercato che diverse imprese italiane punterebbero a salvaguardare. O ad allargare. Vale per il settore degli armamenti, della farmaceutica e dell’automotive, per cominciare.

Nel riequilibrio mondiale in atto, la stessa nozione di Occidente ha perso significato. A riproporla, insieme al mito perduto della lealtà atlantica, sono queste leadership aggressive che hanno avuto accesso al potere col voto popolare, ma che sembrano disposte a trincerarvisi con espedienti spregiudicati, fino a stravolgere le Costituzioni liberali.

I trumpiani, dichiarati e non, saranno una presenza insidiosa anche fra noi.

Grandi opere e vincoli: il liberismo spacca l’Italia

“Al Matteo a gh’è scapà la vaca in tal prà”, avrebbe detto un lumbard. “Gli è scappata la vacca nel prato”, nel senso che in piazza del Popolo, Matteo Salvini le ha sparate grosse, le più grosse possibili: sulle grandi opere niente gare d’appalto, niente controlli tecnici, niente intralci di vincoli, niente di niente, si fanno e basta.

Sentendolo parlare, anzi blaterare in quel modo, in piazza del Popolo, gioiello della pianificazione urbanistica napoleonica, mi sono venute alla mente le immagini agghiaccianti della Liguria che, a ogni pioggia appena più violenta, subisce ovunque alluvioni devastanti. Perché? Perché – come mi spiegò negli anni Sessanta il grande geografo Lucio Gambi – “stanno tagliando con le gallerie dell’autostrada la costa a metà senza curarsi di farci studiare e quindi incanalare il corso delle acque sotterranee, così queste, trovando ostruito il cammino verso il mare, prenderanno le direzioni più impensate scassando il sottosuolo e anche il suolo…”. Facile profezia purtroppo mentre in Liguria dilagavano le seconde e terze case di milanesi e torinesi. Diecimila vani in più all’anno solo a Rapallo che Giorgio Bocca sul Giorno chiamò sarcasticamente “Lambrate sul Tigullio”.

Del resto il Verbo paesaggistico di Matteo Salvini è questo da anni. Due anni fa, in campagna elettorale, discutendone con l’allora sottosegretario Pd, Maria Elena Boschi, disse che lui le Soprintendenze le avrebbe abolite. Era furibondo con un soprintendente lombardo che aveva bocciato una nuova variante sul Lago di Como, la Tremezzina. E Maria Elena gli aveva fatto presente che anche il Pd era d’accordo nel ridurre i poteri di interdizione e di vincolo delle Soprintendenze.

Ecco il punto: dov’è la sinistra o il centrosinistra alternativo alla barbarie del centrodestra salviniano?

Moggi e Lippi, che delizioso il quadretto di Calciopoli

Che delizioso quadretto familiare, l’intervista su Libero di Luciano Moggi e Marcello Lippi. Due vecchi amici che si ritrovano su un giornale: quanti ricordi, quanta nostalgia. Lavoravano gomito a gomito nella Juventus dal 2001 al 2004. Vincevano, ah se vincevano! Certo, due anni dopo è venuto giù tutto: i metodi di Moggi hanno portato la Juve a patteggiare una retrocessione in serie B con penalizzazione di 9 punti (onde evitare guai persino peggiori). Intanto Lippi diventava eroe Nazionale e salvava il calcio italiano dall’onda anomala di Calciopoli: campioni del mondo e chiudiamo un occhio sul resto. Al vecchio amico, Marcello non ha mai voltato le spalle, nemmeno quando era diventato impresentabile: “Luciano è il dirigente più competente che abbia mai conosciuto”.

Due uomini, due papà: il figlio di Lippi (Davide) e il figlio di Moggi (Alessandro) erano soci nella Gea, la più potente società di procuratori del calcio italiano. Pure lì i metodi erano discutibili, diciamo. Non andò benissimo: Moggi sr. e i due figli di papà finirono a processo. Per il pm Luca Palamara (!) quella società era un’associazione a delinquere. Davide Lippi fu assolto, i Moggi no. Ma erano bazzecole: niente associazione a delinquere, “solo” violenza privata. Diciotto mesi per Luciano, cinque per Alessandro: tutti belli che indultati.

Gli anni passano, le amicizie restano, la memoria collettiva svanisce. Oggi Moggi scrive su Libero (ha una rubrica: “le interviste di Luciano”), Lippi volentieri si presta. Parlano di virus e pallone, l’ex ct ha un’opinione forte: “In Italia forse siamo stati troppo timidi e riflessivi”. E poi una battuta su Andrea Agnelli: “Sta contribuendo a dare sostanza al detto ‘buon sangue non mente’”. Ecco, non serve aggiungere altro.

Giustizia, i quattro punti sui quali la Casellati sbaglia

Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, sulla Giustizia dixit (Corriere della Sera, 30.5).

1) “Occorre introdurre il sorteggio per i membri togati del Csm”.

Il metodo del sorteggio non è ammissibile perché la Costituzione non prevede il gioco del lotto per l’elezione dei membri magistrati del Consiglio superiore bensì la loro elezione diretta dove, democraticamente, tutti votano per tutti, scegliendo tra gli appartenenti alle varie categorie (art.104/4).

2) “Va introdotta la non obbligatorietà dell’azione penale”.

L’azione penale obbligatoria, uno dei cardini della nostra Costituzione (art. 112), è posta a presidio dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, garantendo in pari tempo l’indipendenza del pm dal governo. In Francia, dove l’azione penale non è obbligatoria il pm (Parquet) dipende dal ministro della Giustizia, autorità politica di cui deve seguire le istruzioni. In Germania il pm dipende dai ministri della Giustizia dei singoli Länder nei quali l’azione penale risponde al “principio di opportunità”. Nel Regno Unito l’azione penale viene esercitata dalla Polizia, dipendente dal ministero dell’Interno, sulle cui iniziative vigila il Crown Prosecution Service, una sorta di pm nominato dall ’Attorney General (ministro della Giustizia) il quale decide autonomamente se esse vanno proseguite o meno. In conclusione: l’azione penale non obbligatoria equivale dovunque a discrezionalità politica, una scelta che si colloca solo ad un passo prima dell’arbitrio.

3) “Occorre prevedere la separazione delle carriere” (tra giudici e pm).

La separazione tra giudici e pm è già prevista dalla Costituzione (art.107/4) ed è unicamente quella tra le funzioni (giudicanti, requirenti e di legittimità).Per ogni altro profilo del loro status, va ricordato che, per la stessa Costituzione, al pari dei magistrati giudicanti, i pubblici ministeri, sono nominati per concorso (art.106/1), sono indipendenti (art.104/1) e inamovibili (art.107/1), vengono amministrati dal Csm per le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari (art.105); sono titolari dell’elettorato attivo e passivo nel Csm dove siede come membro di diritto il Procuratore generale della Corte di Cassazione (art. 104); sono soggetti all’azione disciplinare del ministro della Giustizia (art. 107/3); godono delle garanzie previste dall’ Ordinamento giudiziario in relazione alle loro specifiche funzioni (art.107/4).

In conclusione: se non si vuole – cambiando la Costituzione – trasformare il pm in un funzionario alle dipendenze dal governo, cioè dalla politica, è meglio, molto meglio per i cittadini lasciarlo dov’è.

4) “Divieto di porte girevoli dalla magistratura alla politica e viceversa”.

Posto che i magistrati, come tutti i pubblici dipendenti, hanno il diritto di presentarsi alle elezioni per accedere alle Camere e a ogni altra carica elettiva in condizioni di uguaglianza, di rimanere in aspettativa per tutta la durata del mandato (art.31 dello Statuto dei lavoratori) e, al suo termine, di conservare il loro posto di lavoro (art.51 della Costituzione), il mezzo per evitare le “porte girevoli” esiste ed è molto semplice: basta non candidarli alle elezioni, ma questa scelta spetta ai partiti ai quali, pertanto, la presidente del Senato dovrebbe rivolgere il suo monito.

Ma la app “Immuni” non può garantire immunità a nessuno

 

“Nella società dell’algoritmo svaniscono garanzie che avrebbero dovuto mettere le persone al riparo dal potere tecnologico”

(da “Il diritto di avere diritti” di Stefano Rodotà – Laterza, 2012 – pag. 403)

 

Mettiamo da parte, per un momento, la tutela della privacy che pure ha la sua rilevanza, giuridica e civile, perché non riguarda soltanto l’ipotetico cittadino assenteista, gay o magari fedifrago, bensì il diritto fondamentale alla riservatezza personale. E concentriamo piuttosto l’attenzione sull’attendibilità e sulla funzionalità dell’App Immuni che sarà sperimentata da lunedì prossimo in quattro regioni italiane (Liguria, Marche, Abruzzo e Puglia). Serve davvero questa Applicazione, autorizzata ora dal Garante sulla Privacy, per combattere il coronavirus? È utile e soprattutto efficace il cosiddetto “contact tracing”? E quanto possono contare nel tracciamento della popolazione la “digital inclusion” e il “digital divide”, cioè la parità di accesso alle nuove tecnologie, la maggiore o minore uniformità fra le classi sociali, la consuetudine delle generazioni più giovani e di quelle più anziane? È chiaro che se tutti i cittadini italiani, o almeno tutti quelli adulti, disponessero di un moderno smartphone, con il sistema operativo aggiornato e il Bluetooth attivato; se fossero sottoposti ripetutamente ai test sierologici o meglio ai tamponi, il cui numero – come ha raccontato ieri Il Fatto – è calato negli ultimi giorni per occultare i contagi; se installassero l’App Immuni e la mantenessero costantemente in funzione, allora il tracciamento avrebbe senz’altro una validità e un’efficacia. Ma così non è. E paradossalmente, lo conferma “a contrario” il fatto che l’applicazione non è obbligatoria, ma viene (opportunamente) rimessa all’adesione volontaria dei singoli.

La verità è che in queste condizioni l’App Immuni, a dispetto del suo stesso nome, non può garantire l’immunità a nessuno. Anzi, rischia di risultare addirittura controproducente, dispensando una promessa o un’illusione di immunità e distogliendo l’attenzione precauzionale. Tra falsi positivi e falsi negativi, asintomatici e paucisintomatici, senza uno screening diagnostico per registrare lo stato di salute individuale e senza un database continuamente aggiornato, questa applicazione sarà utile poco più di un videogame. Lo dimostra l’esperienza della Corea del Sud, dove peraltro il contagio è risalito non appena interrotto il lockdown: il software, fondato sull’uso dei tamponi su larga scala e sul tracciamento massiccio dei contagi, pubblica tutti gli spostamenti dei positivi, rivelando qualche relazione clandestina o frode assicurativa e distruggendo diverse reputazioni. Un caso, insomma, da “Grande Fratello” di orwelliana memoria.

Sappiamo tutti del resto quanto possa risultare invasiva e persecutoria perfino la più innocua pubblicità digitale: basta cliccare una volta su un qualsiasi sito di e-commerce, per avere l’inquietante sensazione di essere “spiati” e poi bombardati da annunci o messaggi promozionali. E nonostante le cautele e gli accorgimenti, conosciamo tutti i rischi dell’e-commerce o dell’home banking. Per non parlare qui dello scandalo Facebook-Analytica, quando finirono online i dati personali di 267 milioni di utenti con tante scuse di Mark Zuckerberg.

L’App Immuni, dunque, potrebbe servire allo scopo e garantire l’immunità a condizione che fosse obbligatoria e che il suo uso venisse imposto a tutti 24 ore su 24. Ma questo in realtà è materialmente impossibile. E comunque, sarebbe uno scenario da Stato di polizia