In uno dei più gustosi “NONC’ÈDICHE” dovuti in questo quotidiano alla geniale vis comica di Daniele Luttazzi, si rappresentava immaginificamente un’assemblea di alcuni Don, nel senso Puziano, riuniti per affrontare affari di giustizia e per giungere a una pacificazione armata (nel senso letterale) tra i contendenti delle diverse fazioni aggregate in “famiglie”. È facile supporre che in sottofondo echeggiassero le note , accreditabili a Nino Rota, del grande film con Brando, Pacino, Caan, Keaton, a suggellare la raggiunta mediazione. Qui cessa l’allegorico richiamo al delizioso siparietto del tutto inestensibile, nemmeno “ioci causa”, per totale estraneità oggettiva e soggettiva, alla questione che si sta per trattare. Se non per una coincidenza lessicale, data dal termine “mediazione”. Questo è stato utilizzato in una recente, molto partecipata trasmissione televisiva de la 7 da un ex componente togato del Csm, oggi sospeso cautelarmente dalle funzioni giudiziarie, per spiegare dinamicamente e in via generale la radice delle deliberazioni consiliari riguardanti nomine di dirigenti di impegnativi uffici oggetto di concorrenti aspirazioni tra candidati di alto profilo. L’intervistato si è infervorato nell’illustrazione delle ragioni fondanti la prospettiva mediatoria, chiaramente definendola come idonea a realizzare l’interesse pubblico alla preposizione alla funzione direttiva di persone capaci. Non può negarsi la forza suggestiva dell’argomento: se più candidati appaiono, almeno agli occhi degli ottimati consiliari (senza necessità di interpellare le opinioni individuali di tutti i consiglieri) in rappresentanza dei gruppi togati, dotati di caratteristiche professionali almeno simili, la miglior tutela del principio costituzionale di buon andamento dell’amministrazione sarebbe assicurata da un accordo largo e diffuso. E ciò perchè la vastità del consenso tra i votanti sarebbe di per sé, per il solo fatto di interpretare le cosiddette plurali sensibilità consiliari, la più solida polizza assicurativa della congruità della scelta. In effetti, la suggestione ha riscosso nel tempo tale successo da aver prodotto l’assuefazione, molto prossima alla narcosi, delle coscienze della maggior parte degli appartenenti all’ordine giudiziario. Conseguenza stimolata dalla visione “mediatrice” non poteva che essere quella della rincorsa di canali diretti a sostenere candidature che vantassero come decisivo titolo di merito quello, non della prevalenza attitudinale, della più spiccata capacità di raccolta del consenso in vista della “mediazione” finale. È da considerare come assodato che la predisposizione delle domande di partecipazione ai concorsi venga generalmente concepita in funzione “consensualistica-mediatoria”, vale a dire in termini di alta attrattività verso i colleghi consiglieri. Attrattività facilitatrice di nomine per ragioni che l’intervistato televisivo non ha reso esplicite, lasciandole all’esercizio di maligne fantasie, qui sognate: l’appartenenza alla corrente maggiormente rappresentata, la rotatività degli incarichi direttivi tra i vari gruppi, l’equilibrio delle presenze correntizie apicali in una stessa sede, la prefigurazione di future nomine, etc. Oggi tutti si accorgono che l’evocazione di un termine giuridicamente significativo come “mediazione” finisce con l’essere un sofisticato espediente verbale per dissimulare pratiche spartitorie e determinare l’affermazione di candidati meglio allocati nel panorama “consensualistico” rispetto ad altri tanto sprovveduti o disarmati (questa volta metaforicamente) da non aver compiuto lo sforzo di comprendere il funzionamento delle sregolate regole del gioco e da non aver fatto ricorso ai buoni uffici del paterno “mediatore” istituzionale. Non era facile prevedere che proprio dall’interno della sala macchine del potere sarebbe potuta provenire una narrazione in pari misura cruda ed esplicita del contaminato e diffuso sistema che in più di una occasione ha governato nomine e incarichi giudiziari: parlano la stessa lingua gli atti di Perugia a proposito di necessità di piazzare i “propri” da parte di chi è dubbiamente assurto a posti di comando, di imperiose intimazione a tener conto di liste di predestinati, di subliminali inviti a desistere da plausibili candidature, di tripudi tra commissari e candidati per il riuscito esito di un’operazione caldeggiata. E non si dica che non vi è materia per il varo di una riforma che trasferisca l’attività consiliare dal tristo momento della “mediazione” verso l’inderogabile adempimento del dovere di tener fede alla parità di condizioni, senza distinzioni basate su più o meno nascoste appartenenze, tra i partecipanti a un concorso. Si spera che parole e concetti come quelli ascoltati, sfortunatamente non di sola ed esclusiva pertinenza di chi li ha espressi, trovino sempre meno fertile accoglienza a Palazzo dei Marescialli o in cene eleganti chez etrangere.
I palestinesi estranei in Palestina come gli ebrei in Egitto?
Moked, “il portale dell’ebraismo italiano”, riprende la domanda retorica che chiudeva questa rubrica qualche giorno fa (“Il cameriere intasca 2 euro e ne restituisce 3 ai clienti. Così avranno pagato 9 euro ciascuno. Ora: 9 x 3, 27. Più i 2 che si è tenuto il cameriere, 29. Dov’è finito l’euro che manca?”). Oops, scusate, sbagliato domanda. Dicevo questa: “Sono il solo a vedere la contraddizione tragica fra la Pesach, che celebra la liberazione degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto, e la schiavitù in cui l’Israele di Netanyhau tiene il popolo palestinese? E per evitare la solita manfrina: sei un antisemita se quei sei milioni ti hanno fatto piacere, non se critichi la politica di apartheid del governo Netanyahu”.
Moked ne affida il commento a E. Calò, che scrive di non notare l’analogia, ma la differenza, “perché gli ebrei non chiesero al Faraone di vivere liberi in Egitto, ma di andarsene in Israele. Quindi, se il buon Luttazzi volesse essere irriverente per davvero, che costituisce poi la sua vera qualità, basterebbe essere più precisi, facendo dire ad Abu Mazen, come Mosè ma, soprattutto, come Charlton Heston: ‘Let my people go’ (‘Fai partire il mio popolo’), il che implica che si sentano estranei al territorio che li ospita.”
So che questo non è il punto di vista di tutto l’ebraismo italiano. I palestinesi dovrebbero sentirsi estranei in Palestina come gli ebrei in Egitto? Considerare i palestinesi come “ospiti” in Palestina è, come minimo, un lapsus freudiano. Haaretz, il più antico quotidiano israeliano, di orientamento liberal, definisce da anni la politica di Netanyahu “apartheid”, e la situazione palestinese “bantustan”, con ovvio riferimento al Sudafrica razzista pre-Mandela. La penso allo stesso modo (e sono a favore della soluzione con due Stati nei confini pre-1967. Gerusalemme va internazionalizzata. In questo ho l’approvazione del mio giardiniere, che è il nuovo capo segreto di Hamas).
Trump, invece, la pensa come Netanyahu. Adesso sapete le forze in campo.
Rashid Khalidi (New York Times, 7 gen 09) ricordò agli smemorati alcune cosine su Gaza: “La maggioranza di chi vive a Gaza non è lì per scelta. Un milione e cinquecentomila persone stipate nelle 140 miglia quadrate della Striscia di Gaza fanno parte per lo più di famiglie provenienti dai paesi e dai villaggi attorno a Gaza come Ashkelon e Beersheba. Furono condotte a Gaza dall’esercito israeliano nel 1948. Gli abitanti di Gaza vivono sotto l’occupazione israeliana dall’epoca della Guerra dei sei giorni (1967). Israele è tuttora considerata una forza di occupazione, anche se ha tolto le sue truppe e i suoi coloni dalla striscia nel 2005. Israele controlla ancora l’accesso all’area, l’import e l’export, e i movimenti di persone in ingresso e in uscita. Israele controlla lo spazio aereo e le coste di Gaza, e i suoi militari entrano nell’area a piacere. Come forza di occupazione, Israele ha la responsabilità di garantire il benessere della popolazione civile della Striscia di Gaza (Quarta Convenzione di Ginevra).”
Ma forse hanno ragione le destre: il muro israeliano non è apartheid. Stanno trasformando Gaza nell’Olgiata (È abbastanza irriverente, così?).
La fecondazione assistita è un diritto
Recentemente il Centro di Riproduzione Assistita di Granada ha pubblicato un interessante lavoro che concettualmente invita a non trascurare, durante il periodo Covid, altre patologie e i diritti dei pazienti, fra cui in particolare quello alla fecondazione assistita. L’articolo, intitolato Dopo il Coronavirus : c’è vita dopo la pandemia, tratta della possibilità di programmare e gestire questa pratica di procreazione anche durante la pandemia. Infatti non bisogna dimenticare che l’infertilità, sebbene non metta a rischio la sopravvivenza fisica delle coppie infertili, mette a repentaglio la loro futura qualità della vita e i tempi della riproduzione assistita non sono totalmente gestibili. Gli effetti dell’infertilità possono diventare irreversibili se non vengono prese le misure appropriate in tempo, grazie al fatto che la tecnologia consente di separare la fertilizzazione e la gravidanza nel tempo. Mentre le donne in gravidanza infette da coronavirus possono presentare un rischio maggiore di esiti neonatali avversi, i gameti non trasmettono il Covid-19, malgrado sia stata dimostrata la sua presenza nei testicoli. Pertanto eseguire senza indugio la stimolazione e la fecondazione ovarica, congelare gli embrioni risultanti e ritardare il trasferimento dell’embrione fino alla fine della pandemia sembra essere al momento la migliore strategia.
Peraltro è stato paradossalmente dimostrato che i tentativi di trasferimento di embrioni congelati (FET) sono più efficienti di quelli che usano embrioni freschi nei cicli di stimolazione ovarica. La FET differita è quindi una soluzione ideale per le donne che non possono rimandare la loro stimolazione ovarica senza correre il rischio di ridurre le possibilità di successo, come le donne con una riserva ovarica estremamente povera e / o di età avanzata, o quelle che necessitano di un intervento urgente per la conservazione della fertilità, come i pazienti programmati per la terapia antitumorale. Le pandemie vanno e vengono, e dopo c’è vita. Ci sarà anche la vita “dopo Corona” e dovremo fare del nostro meglio per dare il miglior futuro possibile alle persone che hanno urgente bisogno di aiuto, come le donne in cerca di maternità, alcune delle quali non hanno tempo da perdere. Non permettiamo a nessun virus di rovinare le loro aspettative di vita.
Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano
Guerini, lo statista che non ci meritiamo
È Aldo Moro? No, di più: è Lorenzo Guerini, lo statista di cui abbiamo bisogna, ma che non ci meritiamo. Ce lo racconta il Foglio in un intensissimo ritratto dell’ex renziano, oggi leader di Base riformista, la corrente lottiana del Pd.
Passione per la microbiologia? Macché, il ministro della Difesa è pezzo da 90 dello scacchiere politico nazionale, forse internazionale. Se è vero, come dice il compagno di partito e di corrente Andrea Romano, che “Guerini ha contribuito in maniera decisiva al posizionamento geopolitico dell’Italia, che oggi è saldamente tornato in campo euroatlantico, dopo le sbandate filo-russe imposte da Salvini”. Sarà.
Di certo il nostro ha un “profilo da leader”. Anche del Pd. Purché, come gli chiedono i suoi apostoli, la smetta di “giocare coi soldatini” e “intervenga anche nel dibattito politico”. È ora: “Guerini ha aumentato negli ultimi due anni il suo peso specifico” e adesso è pronto a sfidare Zingaretti.
Perché Lorenzo “è un politico di interlocuzione”, uno che “certe volte ha mediato anche con se stesso”.
Una definizione dolcissima per non dire volgarmente che è un democristiano.
Ponte sullo Stretto, le balle di Renzi
La domanda è legittima: perché Matteo Renzi ha tutta questa passione per il Ponte sullo Stretto di Messina e l’amico costruttore Pietro Salini? Nel 2012 l’allora rottamatore fulminò così il progetto: “Gli 8 miliardi del ponte li dessero alle scuole”. Negli anni ha cambiato idea e oggi parla come ci si aspetterebbe da un lobbista dell’opera: “Il ponte ai nostri figli costerà più non farlo che farlo – ha detto giovedì presentando il suo libro, in cui rilancia l’idea –. C’è una gara vinta con un ricorso di un’azienda che, se non potrà farlo, dovrebbe chiedere i soldi allo Stato”. Difficile inanellare tante balle.
La prima balla è che ci sia il rischio che qualcuno chieda i danni allo Stato: è già successo. La causa l’ha fatta nel 2013 il consorzio Eurolink, guidato dalla Salini Impregilo, che nel 2005 vinse la gara con un ribasso d’asta del 17%, mostruoso per un progetto di cui non si conosceva neanche la fattibilità. Salini ha chiesto 800 milioni di euro di danni alla concessionaria statale Stretto di Messina (Sdm) e a Palazzo Chigi perché nel novembre del 2012 il governo Monti congelò il progetto con un decreto ad hoc riducendo la penale al 10% del valore delle opere realizzate. Vale la pena ricordare che il contratto siglato tra Sdm ed Eurolink nel marzo 2006 (secondo governo Berlusconi) prevedeva un corrispettivo di 3,8 miliardi, salito nel 2011 a 5,2 miliardi. Il ponte, insomma, costa meno non farlo che farlo (seconda balla).
Poi c’è la terza balla di Renzi. La causa Salini l’ha persa a fine 2018, quando il Tribunale civile di Roma ha dato ragione alla Sdm in liquidazione, guidata da Vincenzo Fortunato, e torto al costruttore, disponendo che a Eurolink gli è dovuto il 10% delle spese progettuali realizzate – come previsto dal decreto Monti del 2012 – circa 8 milioni. Salini ha fatto ricorso. Nel frattempo la Consulta, a cui è ricorso il project manager, Parson, ha detto che il decreto non è incostituzionale. Il ponte sullo Stretto non si farà, ma da anni Renzi cerca di sostenere le ragioni dell’amico Pietro Salini per ottenere le penali. Lo fa dai tempi in cui era a Palazzo Chigi, e la Presidenza del Consiglio, da lui presieduta, era citata in tribunale dal costruttore. Quando Salini nel 2012 conquistò la Impregilo fondendola con l’azienda di famiglia era noto a tutti che puntava al risarcimento, già calcolato da anni in 800 milioni, e non a completare l’opera. Il perché è ormai storia. Il progetto del ponte fu congelato a settembre 2006 dal governo Prodi. Nel 2009, tornato a Palazzo Chigi, Berlusconi compì il miracolo. Il presidente di Stretto di Messina Giuseppe Zamberletti e l’ad Pietro Ciucci firmarono ad aprile con Eurolink un “atto aggiuntivo” che, al contrario del contratto originario, faceva scattare le penali – il 10% del valore delle opere non realizzate, secondo il codice degli appalti – anche se il progetto non fosse stato approvato dal Comitato per la programmazione economica (Cipe). Anzi, le faceva scattare proprio in forza della mancata approvazione. Un’aberrazione giuridica rimasta segreta per anni.
Il tribunale ha dato ragione al team legale guidato da Fortunato evitando la beffa. Oggi Salini Impregilo è diventata Webuild, con l’ingresso della Cassa Depositi e Prestiti, dando vita a uno scenario surreale: lo Stato, tramite una sua controllata, è in causa con lo Stato. Non meno surreale di un ex premier che si comporta da lobbista di un progetto ormai sepolto, che serve solo al suo costruttore.
Ilva, 2 miliardi dallo Stato per Mittal e 5mila esuberi
Migliaia di licenziamenti e soprattutto un fiume di soldi dallo Stato. Sono le richieste avanzate da Arcelor Mittal nel piano industriale inviato ieri al governo per continuare a gestire gli stabilimenti dell’ex Ilva. Ammonta complessivamente a 2 miliardi di euro la richiesta di liquidità che la società avrebbe quantificato: 600 milioni di prestito garantiti da Sace, 200 milioni di euro dal fondo Covid, 1 miliardo di euro come quota di ricapitalizzazione che lo Stato dovrebbe versare per entrare in Am Investco, la cordata di cui Arcelor fa parte e, infine, 2.000 milioni in più rispetto a quelli già previsti dal cosiddetto “patrimonio destinato” cioè il tesoro sequestro alla famiglia Riva. Una montagna di denaro, insomma, accanto alla quale Arcelor ha anche aggiunto un pesante conto occupazionale. L’azienda prevede infatti di arrivare al 2025 con 7.500 dipendenti diretti, vale a dire 3.200 in meno dell’attuale forza lavoro. A questi, però, vanno aggiunti anche i 1.800 lavoratori già in cassa integrazione e che attualmente sono stati assorbiti da Ilva in amministrazione straordinaria. In sostanza, il conto degli esuberi arriva a 5mila unità. Il danno maggiore, evidentemente, riguarderebbe lo stabilimento di Taranto dove sono impiegati.
Nelle fase produttiva, Arcelor prevede di produrre a regime nel 2002 circa 6 milioni di tonnellate d’acciaio: un obiettivo a cui arrivare partendo dalle 3,2 milioni di tonnellate previste per il 2020 e i 5,3 milioni per il 2021. Passi da compiere prevedendo di “marciare” fino al 2025 utilizzo gli Altiforni 1,2 e 4. E anche se nel 2023 si dovrebbe chiudere il ciclo di vita di Afo2, il rifacimento di Afo5 sarebbe previsto solo dopo il 2025. Ed è qui che, secondo fonti commissariali, il piano rivelerebbe tutta la sua incoerenza: “Tra la fine del ciclo di Afo2 e il ripristino di Afo5 passeranno anni, come farebbe Arcelor a produrre quelle milioni di tonnellate con soli due altiforni?”.
Le notizie trapelate nel tardo pomeriggio di ieri hanno immediatamente acceso la rivolta dei sindacati. “In queste ore – ha commentato Rocco Palombella, segretario generale Uilm – si stanno vivendo momenti di alta tensione in tutti gli stabilimenti. ArcelorMittal ha dichiarato di aver presentato un piano industriale che, secondo fonti giornalistiche, sarebbe di 500 pagine e prevederebbe 4 mila esuberi, ritardi negli investimenti ambientali, nell’ammodernamento e manutenzione degli impianti. Se venisse confermato sarebbe numeri inaccettabili e drammatici. Da parte del governo non vi sono ancora dichiarazioni ma solo silenzio”. Per il sindacalista “il contenuto di questo piano è inaccettabile, perché migliaia di lavoratori e intere comunità rimangono appesi a notizie di stampa non confermate ufficialmente o nuovamente a piani industriali secretati. Patuanelli – ha concluso Palombella – convochi subito un incontro al Mise”. Per Marco Bentivogli l’accordo del marzo scorso “non fu mai concordato con il sindacato” e prevedeva al 2025 una produzione di 8 milioni di tonnellate da realizzarsi con un forno elettrico, e non solo altoforno. Per questo, Bentivogli chiarisce che “non sono accettabili gli esuberi dichiarati di 3.300 unità e una produzione che si assesterebbe intorno ai 6 milioni di tonnellate annue”.
E intanto nella fabbrica di Taranto dopo l’annuncio della prosecuzione della cassa integrazione per 8.157 dipendenti, ieri un nuovo incidente ha contribuito ad accrescere la paura in fabbrica: da un carroponte si è staccata una parte meccanica che fortunatamente non ha colpito i lavoratori. “Ormai – ha commentato Franco Rizzo dell’Usb – è sotto gli occhi di tutti il disinteresse della multinazionale che annuncia quello che non riesce a garantire”. Non solo. Ieri mattina la società Ferplast, che opera nell’indotto dello stabilimento tarantino, ha ritirato i suoi dipendenti dalla fabbrica per il mancato pagamento delle fatture: Arcelor aveva promesso il pagamento di un acconto che nei fatti non è mai arrivato. “I lavoratori a termine della Ferplast – ha spiegato Vincenzo Castronuovo della Fim – man mano che scadevano i contratti, non sono stati più rinnovati e sono rimasti a casa, mentre gli altri sono finiti in cassa integrazione”.
“Valentina vittima, non omicida”. Il pm le restituisce 9 anni di vita
Giovedì 4 giugno è accaduto qualcosa che quasi tutti i giornali, quasi tutti i siti, tutte le tv a eccezione di un paio di reti televisive sarde, hanno invece ignorato.
Per Valentina Pitzalis, vittima di tentato femminicidio nove anni fa, sfigurata dalle fiamme, perseguitata dalla madre del suo ex, stritolata dal folle cortocircuito di una giustizia che doveva proteggerla e invece l’ha massacrata, è finalmente arrivata la richiesta di archiviazione. Era accusata di omicidio volontario e incendio doloso, in una vicenda surreale in cui una vittima – una donna che il marito tentò di ammazzare – è diventata carnefice nel disinteresse di tutti. E lo dico da cronista che segue la vicenda anni, ma anche da donna. Valentina Pitzalis è sempre stata una vittima di serie B, forse perché di una di quelle regioni della Sardegna, Carbonia, tra i luoghi più poveri d’Italia. Forse perché un po’ dark, forse perché dall’altra parte c’era una mamma che piangeva la morte del figlio: e in questo bizzarro Paese una mamma è sempre una mamma, pure se suo figlio ha tentato di ammazzare la moglie. Forse perché alla fine, tutti quelli che dal 2011 hanno provato a farla passare per assassina, un po’ ci sono riusciti. Anche con la stampa, spesso ostile, superficiale, alla ricerca di uno scoop che non c’era e che ha alimentato odio ulteriore.
Valentina Pitzalis, nel 2011, sposò giovanissima Manuel Piredda. Lui, ossessivo, geloso, dipendente da psicofarmaci e con un lavoro precario, quando andavano a dormire disseminava la loro camera da letto di buste di plastica, per sentire i passi di lei, se avesse provato a uscire. A 18 anni fu denunciato da una ex fidanzatina minorenne perché lei lo aveva lasciato e lui, tra minacce varie, aveva distribuito in giro per Iglesias una sua foto in topless (revenge porn ante litteram). Una fidanzatina che aveva osato lasciarlo, come fece anni dopo sua moglie Valentina. Seguiranno arresti, perizie psichiatriche (“disturbo di personalità con tratti immaturi e paranoidei”), risse con nuovi ricoveri e una deriva nelle dipendenze che costringerà Valentina, nel 2010, a lasciarlo. Lei si rifà una vita. Prende il diploma, lavora come barista, ha un fidanzato. Lui nel 2011 è allo sbando. Il 16 aprile, alle otto di sera invia un sms a Valentina: “Quando smonti mi dovresti portare il foglio dove chiedi il cambio di residenza”. Lei risponde che glielo darà la mattina dopo, ma lui insiste. Lei allora gli risponde male: “Se avevi questa urgenza potevi muovere il culo”. Alla fine la convince: le apre la porta, le getta la benzina addosso, le dà fuoco. Poi tenta di dare fuoco alla casa, ma respira i fumi dell’incendio, va in asfissia, cade, muore. Lei si salverà per miracolo, ma rimarrà sfigurata.
Basterebbero quegli sms agli atti, i pregressi di Manuel, i racconti di Valentina sempre coerenti, per ritenere questa ragazza vittima di tentato omicidio. Senza ombre. E invece la madre del ragazzo, per anni, ha tentato di riscrivere la storia: ha fondato gruppi fb in cui ha cercato di insinuare che Valentina avesse tentato di uccidere Manuel (fomentando un odio che le è costato una condanna e un processo per diffamazione ancora in corso). A colpi di esposti e perfino denunce al pm Paolo De Angelis che aveva archiviato, questa madre è riuscita, nel 2017, a ottenere che la Pitzalis fosse indagata per omicidio volontario. Un caso di vittimizzazione secondaria senza precedenti al mondo.
La Pitzalis, quasi morta, disabile, traumatizzata, si era ricostruita una vita parlando della sua esperienza nelle scuole. Tutto finito. Su di lei ormai aleggia quel sospetto. E ogni volta che qualcuno la invita, puntuale, arriva il messaggio della madre del suo ex: “Se la invitate subirete anche voi conseguenze legali”. Nei gruppi fb contro di lei scrivono: “Dovevi finire di bruciare”, “Strega”, “Puttana”. Tre anni di incidente probatorio in cui è stato riesumato un cadavere, in cui Valentina è stata spogliata per indagare sulle sue ustioni, in cui l’accusa ha tentato di percorrere strade surreali, accusando Valentina di aver sparato a Manuel quella notte per poi cercare di coinvolgere nell’omicidio perfino sua sorella che quando Valentina bruciava, le inviava sms disperati: “Sei rientrata? Mi stai facendo venire l’ansia. Per favore rispondi!”. Un iter surreale, con una procura che ha riesumato una vicenda conclusa e archiviata ben due volte per indagare ancora su piste fantasiose, suggerite in massima parte da Elisabetta Sionis, laurea in Pedagogia, che nella sua consulenza ai confini con l’esoterismo ritiene che chi indaga debba valutare l’ipotesi che Valentina agisca ispirata dal numero 17 e dalla figura di Freddy Kruger. Tutto vero.
Nel frattempo, 9 anni della vita di questa ragazza sono stati calpestati, stritolati, risucchiati. Ora, finalmente, la richiesta di archiviazione. Speriamo che per la parola fine non le facciano aspettare un’altra vita. Perché la prima, di vita, gliel’hanno rubata abbastanza.
Il faccendiere tra ’ndrine, logge e fascisti
Dalla massoneria al controllo del centro di Milano, dalla politica romana agli affari nel Mediterraneo fino alla Banda della Magliana. L’indagine sulla ’ndrangheta a Verona decolla negli atti allegati all’ordinanza eseguita due giorni fa dalla polizia e coordinata dalla Procura di Venezia. Il nuovo quadro fa luce su ambiti dove la collusione tra istituzioni e mafia viene favorita dai mille volti di personaggi apparentemente anonimi.
L’istantanea sta in una intercettazione che, annotano gli investigatori, “costituisce la stele di Rosetta per la decrittazione dei comportamenti di questi mafiosi trapiantati in un territorio diverso da quello di origine”. Il colloquio è tra il veneto Nicola Toffanin e il calabrese Francesco Vallone titolare del centro studi “Enrico Fermi” di Verona. Arrestati nel blitz di giovedì, entrambi, secondo il giudice, sono organici alla locale di ’ndrangheta della città scaligera. Toffanin, alias l’avvocato, è ritenuto l’uomo dei rapporti con la politica e le imprese. Vallone, per sua ammissione, è vicino alla cosca Mancuso. L’intercettazione, si legge negli atti, “merita certamente approfondimenti investigativi”. Nel colloquio emerge la figura di Paolo P., non indagato a Venezia, ma definito dal giudice “faccendiere” e “loro uomo di riferimento inserito in ambienti romani”. Questo mister X risulta collegato alla “Camera EuroMediterranea per l’industria e l’impresa”. Si tratta di un “organismo istituzionale e diplomatico autorizzato dal governo tunisino e incaricato dalle Nazioni Unite per svolgere un ruolo di mediazione fra gli Stati aderenti”. Insomma una camera di compensazione dove poter mettere insieme realtà imprenditoriali, italiane e straniere.
Il faccendiere P., come spiegato dagli investigatori, ne risulta membro operativo. Tanto che per tutelare il ruolo di collegamento tra la “Camera EuroMediterranea” e le imprese chiede a Toffanin di picchiare un noto imprenditore milanese reo di aver eluso la sua mediazione facendo affari in prima persona. Dice P.: “Riesci a fargli pelo e contropelo! Questo è andato a Tunisi per conto suo, si voleva fottere il contratto”. In realtà il pestaggio non avverrà. Ma Toffanin è chiaro: “Se ti serve, siamo operativi”. Mister X è poi tema del colloquio con Vallone sui “fondi europei”. Dice Toffanin: “È sempre la stessa persona che mi dà gli appalti (…) che è al ministero (…) e mangiano il giusto (…). Non hanno mai mangiato troppo!”. Il presunto boss aggiunge che una parente di P. “è nella segreteria della Lega (…). Tutto quello che decidono in Lega lei lo sa!”. Toffanin spiega che grazie alla mediazione di P. dovrà incontrare un ex terrorista nero dei Nar già braccio destro del capo della Banda della Magliana Enrico de Pedis “per pianificare nuovi affari illeciti”. I protagonisti, intercettati, affermano di essere iscritti alla massoneria. Lo è il “faccendiere”. Toffanin: “Paolo è massone! Io sono iscritto alla Rosa Croce (…). Per fare soldi, sai come si dice”. Vallone: “La massoneria tutta deviata è!”. Poi conferma che i Mancuso sono iscritti alle “logge” e che “hanno il controllo di tutta la parte destra di Milano (…). A Milano qualsiasi cosa tra corso Buenos Aires, piazza Piola, via Doria, stazione Centrale, muove tutto zio Luigi”. Frasi finite sul tavolo dell’antimafia milanese.
Rientrati in cella 50 boss: erano quelli più pericolosi
Sono oltre 50 i boss tornati in carcere, in centri clinici penitenziari o in strutture equiparate, a tre settimane dal decreto “anti scarcerazioni” voluto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Un provvedimento varato dopo che 253 detenuti dell’alta sicurezza e tre del 41-bis (356, non 376 complessivi come ha scritto la stampa) sono stati posti ai domiciliari per alto rischio Covid-19, perché soffrono di altre patologie.
Appena giovedì scorso, sono stati revocati i domiciliari a Vincenzino Iannazzo, boss al 41-bis. Lo ha deciso la Corte d’Appello di Catanzaro alla luce del decreto che ha chiesto ai giudici competenti di riesaminare le scarcerazioni, dato che siamo nella fase 3 della pandemia. Iannazzo, ritenuto il capo dell’omonima cosca di ‘ndrangheta di Lamezia Terme, è stato condannato in appello a 14 anni e mezzo di carcere. Ora è detenuto nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Belcolle di Viterbo.
Per una revisione dei domiciliari si era mosso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che, dopo le dimissioni di Francesco Basentini, ha come direttore Bernardo Petralia. Il vice è Roberto Tartaglia, che ha la delega ai detenuti 41-bis e alta sicurezza. Proprio il decreto del 9 maggio ha attribuito al Dap il potere di indicare ai giudici competenti soluzioni sanitarie adeguate, alternative ai domiciliari, che concilino il diritto alla salute dei detenuti con il dritto alla sicurezza dei cittadini, come, appunto, i reparti di medicina protetta dell’ospedale di Viterbo o il Pertini di Roma o i nuovi padiglioni di Parma, Trani, Lecce.
Iannazzo era ai primi posti dell’elenco di 40 detenuti compilato da Tartaglia subito dopo il decreto. Si tratta di una lista “prioritaria” in base alla pericolosità sociale dei 256 detenuti finiti ai domiciliari. E si vedono già dei risultati. Prima che a Iannazzo sono stati revocati i domiciliari ad altri boss. Come Francesco Bonura, al 41-bis, legato a Bernardo Provenzano. Il provvedimento del giudice di Sorveglianza di Milano, del 19 maggio, ha recepito l’indicazione del Dap (Percolle o Pertini). Il 20 maggio è la Corte d’Appello di Palermo a revocare i domiciliari a Cataldo Franco, all’ergastolo per concorso nel rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, sequestrato per 25 mesi, strangolato e sciolto nell’acido nel 1996. Sempre della “lista prioritaria” di Tartaglia, fanno parte altri detenuti a cui sono stati revocati i domiciliari in queste settimane: Antonio Sacco, boss di Brancaccio, a Palermo, Pietro Pollichino, boss corleonese; Antonino Sudato, altro boss siciliano; Carmine Alvaro, capo della omonima ‘ndrina di Sinopoli; Antonio Mandaglio, “capo società” di ’ndrangheta nel Lecchese; Vincenzo Lucio, camorrista del clan Birra di Ercolano; Vincenzo Guida, accusato a Milano di aver creato una sorta di “banca della camorra”; Francesco Barivelo, del clan Perelli di Taranto, condannato all’ergastolo per l’omicidio, nel 1994, dell’agente della polizia penitenziaria Carmelo Magli: “Dal primo giorno – ha dichiarato Petralia – siamo impegnati a dare seguito al ruolo che il nuovo decreto assegna al Dap, ma in un certo senso questa vicenda era in cima alla lista. Lo dovevamo al corpo che mi onoro di guidare”.
Dei tre detenuti al 41-bis scarcerati tra marzo e aprile, resta ai domiciliari soltanto Pasquale Zagaria, il camorrista del clan dei Casalesi finito a casa della moglie, nel Bresciano, in piena zona rossa Covid, su decisione del Tribunale di Sorveglianza di Sassari, complice una malagestione del caso da parte del Dap a guida Basentini. Sulla revoca o meno dei domiciliari non c’è ancora una decisione del Tribunale di Sorveglianza perché ha prima dovuto rinviare di una settimana l’udienza, per un difetto di notifica alla difesa e poi, giovedì si è riservato sia sulla revoca o meno del provvedimento sia sulla richiesta degli avvocati di rivolgersi alla Corte costituzionale, come ha fatto il Tribunale di Spoleto, perché il decreto Bonafede violerebbe il diritto di difesa. Nel frattempo, Zagaria è in un ospedale lombardo per le complicazioni di un esame.
Depistaggio Borsellino, archiviati gli ex pm
Chiesta l’archiviazione dal procuratore di Messina, Maurizio De Lucia, per i due colleghi Carmelo Petralia, procuratore aggiunto a Catania, e Anna Maria Palma, avvocato generale a Palermo, indagati per calunnia nel troncone messinese del depistaggio di via D’Amelio a carico di due dei magistrati che condussero l’inchiesta farlocca sulla strage. L’ultima parola tocca ora al gip, ma la richiesta di archiviare, della quale non si conoscono ancora le motivazioni, lascia pensare che, a giudizio della Procura di Messina, nelle 19 microcassette, mai esaminate negli anni, su cui sono impresse le conversazioni tra il pentito Scarantino e alcuni dei magistrati non vi siano elementi sufficienti per processare i due pm. Spedito da Caltanissetta, il dossier con quegli audio da trascrivere non è stato trasmesso alla procura di Catania (competente a indagare sui colleghi nisseni) perché lì era procuratore aggiunto Carmelo Petralia, ed è approdato a Messina. La facoltà di opporsi all’archiviazione adesso è estesa alle parti offese Gaetano Murana, Giuseppe La Mattina, Cosimo Vernengo, originari del quartiere Guadagna di Palermo, ingiustamente accusati e condannati sulla base delle bugie di Scarantino. Per il depistaggio di via D’Amelio sono inoltre accusati tre uomini della Polizia di Stato, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, tuttora sotto processo a Caltanissetta. A gestire fin dall’inizio la prima indagine centrata sulle menzogne di Scarantino furono a Caltanissetta il procuratore Gianni Tinebra (deceduto), l’aggiunto Francesco Paolo Giordano, i pm Carmelo Petralia, e Roberto Sajeva, poi gli applicati Ilda Boccassini e Fausto Cardella, e infine i sostituti subentrati nella seconda fase dell’indagine Anna Palma e Nino Di Matteo. “Sia io, sia Tinebra che Petralia, nessuno di noi aveva esperienza riguardo alle organizzazioni criminali di Palermo e Caltanissetta”, ha detto Giordano alla Commissione Antimafia siciliana presieduta da Claudio Fava.